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Materiale di Studio
Conversazioni
Conversazioni si propone come uno spazio on-line di confronto attivo e generativo tra studiosi operanti secondo un approccio epistemologico di tipo sistemico e costruttivista. L’AIEMS modererà tale contesto stabilendo regole di partecipazione il cui obiettivo sarà quello di favorire l’emergere creativo di idee e prospettive interessanti ed inedite. Ogni singola Conversazione, da intendersi quindi come dialogo a più voci, verterà sul tema a cui è stato dedicato l’ultimo numero della rivista Riflessioni Sistemiche, e resterà attiva fino all’uscita del numero successivo. In sostanza lo scopo è quello di approfondire e rielaborare, di volta in volta, quanto affermato nei saggi pubblicati con la rivista. Infine, ogni singolo intervento inserito nello spazio Conversazioni non dovrà superare le 600 parole.
Ottava Conversazione
"Scienza , società e pensiero critico"
Data: 1 gennaio 2016
Inviato da: La Redazione di Riflessioni Sistemiche
A distanza di circa una settimana dalla pubblicazione del N° 13 della rivista Riflessioni Sistemiche invitiamo sia gli autori che i lettori ad inviare un loro commento riguardante i lavori contenuti nel numero in oggetto. Ricordiamo che gli scritti non dovranno superare le 600 parole, e che dovranno essere spediti all'indirizzo di posta elettronica dell'AIEMS (info@aiems.eu), indicando come oggetto della mail "contributo a Conversazioni".
Data: 2 gennaio 2016
Inviato da: Raffaele Roberto Pepe (Medico, C.R.I.)
Commento al saggio di Pietro Greco dal titolo "Scienza, mercato, democrazia"
Premessa: le mie osservazioni non sono né esaustive né complete, ma proprio come un nano su di un gigante (parafrasando il titolo del saggio di Merton) vorrebbero essere un tentativo di salire sempre più in alto per poter avere un più vasto spazio di osservazione o per approdare alla collinetta della complessità (come la definisce Luciano Lodoli sulla pagina dell' AIEMS in FB) col fine non di pormi dall'alto verso il basso ma riuscire a espormi maggiormente ai raggi del sole e potermi così meglio orientare , con l' ombra da essi formata, sul suolo della conoscenza.
Devo fare una introduzione autobiografica (scusandomi con i lettori). Nel leggere l' inizio del saggio di Pietro Greco, il suo riferimento alla Royal Society mi ha riportato ai miei studi al VIII Master in Scienze Strategiche (Scuola di Applicazione Esercito - Torino - 2004/2005) e, nel dettaglio, agli insegnamenti nel secondo modulo sulla "Comunicazione" del prof. Conoscenti che ci ha fatto studiare su "Intercultural Communication" di Scollon&Scollon; in questa lettura Conoscenti ci invitò ad osservare come il primo esempio di "Comunicazione strategica" (ove per strategica si intende la capacità di focalizzare e centrare un obiettivo) fosse quello della Royal Society, con lo scopo - appunto - di divulgare il "sapere" a tutti in maniera chiara, breve, sincera. Questo elemento autobiografico mi ha stimolato ed incuriosito ulteriormente nel proseguire la lettura dello scritto in esame.
La metafora del pane/conoscenza mi sembra "trasportarci" verso le pratiche del Crowd (un buon esempio di "Approccio non-direttivi ai sistemi sociali"). Qui lo scrittore Pietro Greco mi porta a rileggere un saggio dal titolo "La saggezza della folla" (ed. Fusi Orari 2007) in cui il rubrichista economico del "New Yorker" James Surowiecki descrive degli esempi di "Crowd";
l' argomento "Approccio non-direttivi ai sistemi sociali" fa parte delle tre linee/aree di sviluppo nelle future attività dell' AIEMS.
L' autore (dopo un interessante confronto fra l' acronimo CUDOS di Merton e quello PLACE di Ziman) ci invita a cogliere l' importanza nell' ingresso - fra rapporto scienza/mercato - della ricerca privata nell' ultimo quarto del secolo XX fino ad arrivare ad oggi in cui per ogni dollaro pubblico, se ne investo almeno due privati. E qui mi sorge una domanda: perché non considerare anche la ricerca militare? Essa è un attore importante senza il quale si rischia di non avere un quadro il più completo possibile su Scienza, mercato, democrazia. Ad esempio nella ricerca militare (e non solo negli USA ma anche in Italia) il rapporto pubblico/privato è fondamentale. Inoltre molte delle ricerche in contesti militari hanno poi avuto uno sviluppo in ambito "civile" (goretex, web, bussola, ecc.).
Quando a pag. 70 Greco ci porta ad osservare "l' equilibrio fra shareholders ovvero le istituzioni della democrazia delegata, che possono dialogare e compartecipare con gli stakeholders (coloro che hanno una posta in gioco), ciascuna con le sue prerogative, alle decisioni", mi chiedo: come poter mantenere questo equilibrio se su uno dei due piatti della bilancia poniamo attori "altri"* le cui royalty/brevetti e segretezza/sicurezza, col loro peso ne determinerebbero uno sbilanciamento?
Concludendo, "l' abbattere il muro della segretezza scientifica per risolvere la disuguaglianza" (pag. 71 ibidem) mi riporta ad un autore a me caro, Alexander Langer con la sua "utopia concreta" e il testo di Marco Boato "Alexander Langer. Costruttore di ponti" Ed. La Scuola 2015, di cui ne suggerisco la lettura.
*Per attori altri mi riferisco alle major farmaceutiche e alla ricerca militare.
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Settima Conversazione
"Luci ed ombre dell'approccio sistemico"
Data: 8 gennaio 2015
Inviato da: La Redazione di Riflessioni Sistemiche
A distanza di circa una settimana dalla pubblicazione del N° 11 della rivista Riflessioni Sistemiche invitiamo sia gli autori che i lettori ad inviare un loro commento riguardante i lavori contenuti nel numero in oggetto. Ricordiamo che gli scritti non dovranno superare le 600 parole, e che dovranno essere spediti all'indirizzo di posta elettronica dell'AIEMS (info@aiems.eu), indicando come oggetto della mail "contributo a Conversazioni".
Data: 29 gennaio 2015
Inviato da: Umberta Telfener (Psicoterapeuta sistemica)
Interessante e utile l'articolo di Max Giuliani, puntuale e ben argomentato. Vorrei ancora di più estremizzare la sua posizione su almeno un punto, quello per me fondamentale. Giuliani sostiene che è giusto e inevitabile affrancarsi dall'approccio strategico della prima terapia sistemica di tradizione milanese, ed ha ragione ad affermare che quando l'operatore è entrato a pieno titolo nel sistema le astuzie e le sfide si sono di fatto perdute "naturalmente". Attualmente parliamo di partecipazione e consideriamo il cliente il nostro miglior collaboratore. Ugualmente affrontiamo situazioni in cui l'evoluzione del sistema non è ovvia e sempre dobbiamo pensare a cosa stiamo facendo, a quale strada intraprendere, a scegliere parole, argomenti e azioni. Non si tratta più di una strategia strumentale e tecnica calata dall'esterno, propria del primo modello di Milano. Si tratta di scegliere un posizionamento strettamente connesso alla nostra responsabilità: "Gli interventi - cito Giuliani - non sono più una trovata strategica ma un intervento di secondo ordine coerente con la teoria dell'osservatore. E' un intervento che il terapeuta compie su di sé e sulle proprie premesse (pp.165)."
Abbiamo la responsabilità sociale e clinica di far tornare un sistema ad evolvere e lo facciamo, come dice Giuliani, trovando nuovi significati, coerenti a nuove sensibilità narrative. Il professionista mette in atto due operazioni necessarie e non sufficienti al fine di cambiare le premesse (anche le proprie): 1. assume almeno una doppia posizione (dentro e fuori contemporaneamente, attenzione a diversi aspetti della realtà terapeutica, abilità relazionale e strategica (come le chiama Fruggeri) e 2. riflette su quello che sta accadendo per costruire una realtà terapeutica perturbativa. Non agisce direttamente sulla narrazione della realtà, piuttosto sulla relazione tra sé e quello che gli altri gli portano. Mette in atto operazioni di secondo ordine, non si occupa quindi del cambiamento ma di cambiare le usuali modalità di cambiamento, non della diagnosi ma delle categorie che sono state utilizzate per fare la diagnosi, non della narrazione ma della relazione tra le narrazioni portate e quelle che emergeranno nel dialogo terapeutico. Non può pertanto non essere strategico, anche se "essere strategico" non significa sapere dove si vuol condurre un sistema o conoscere il punto di arrivo ideale di una situazione - opzioni peraltro impossibili. In termini sistemico-costruzionisti essere "strategici" significa valutare il rapporto tra informazioni offerte e feedback ricevuti; significa ballare insieme a tutti gli altri che condividono il problema presentato (cliente, la sua famiglia, altri operatori coinvolti) per offrire esperienze correttive; significa infine proporsi in maniera perturbativa e irriverente, al fine di costruire una realtà terapeutica differente, evolutiva e processuale. Non si può non essere anche "strategici", che vuole dire contemporaneamente agire e riflettere sulle azioni intraprese, senza accontentarsi di un unico livello di comprensione/azione. Personalmente diffido da quei clinici che sostengono di non riflettere su ciò che accade in seduta, perché rischiano di pensarsi ad un unico livello di comprensione e di venir schiacciati dai contenuti. Così diffido da quei clinici che pensano che il loro lavoro si riduca ad una conversazione paritaria. Credo invece che non possiamo non tener conto dei plurimi livelli a cui siamo coinvolti: epistemologico, a livello dei modelli dell'umano, a quello della teoria della tecnica e della tecnica. Ancora una volta più livelli cui prestare attenzione e rispetto ai quali intervenire.
C'è una differenza enorme tra le chiacchiere da salotto e la psicoterapia ed è appunto data dalla posizione consapevole e riflessiva, a più livelli, che il terapeuta assume rispetto all'atteggiamento spontaneo dell'amico.
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Sesta Conversazione
"Sistemi viventi"
Data: 4 gennaio 2014
Inviato da: La Redazione di Riflessioni Sistemiche
A distanza di circa una settimana dalla pubblicazione del N° 9 della rivista Riflessioni Sistemiche invitiamo sia gli autori che i lettori ad inviare un loro commento riguardante i lavori contenuti nel numero in oggetto. Ricordiamo che gli scritti non dovranno superare le 600 parole, e che dovranno essere spediti all'indirizzo di posta elettronica dell'AIEMS (info@aiems.eu), indicando come oggetto della mail "contributo a Conversazioni".
Data: 22 gennaio 2014
Inviato da: Rosanna Pizzo (Counselor sistemico)
"Riflessioni Sistemiche" propone saggi, nella prospettiva complessa della sua epistemologia, a un vero " lector in fabula", al quale chiede implicitamente di cooperare "in modo da trarre dal testo quel che il testo non dice (ma presuppone, promette, implica ed implicita), a riempire spazi vuoti, a connettere quello che vi è in quel testo con il tessuto dell'intertestualità da cui quel testo si origina e in cui andrà a confluire"(U.Eco)
Il saggio di Rossella Mascolo, "Un curriculum"complesso"attraverso l'epistemologia di Humberto Maturana", autentica lezione di complessità, si attaglia, a mio avviso, a questo lettore modello, non per indottrinarlo, edu-carlo, come suggerisce l'ordine logico e semantico, "della sua collocazione pedagogica," significante quest'ultimo, che andrebbe ri-semantizzato, poiché, l'etimo greco, da (paidos=bambino) e (ago=guidare, condurre, accompagnare) connota nella lingua d'uso, un' educazione istruttiva, la cui postura lineare stabilisce chi insegna a chi: manca l' inestricabile circuito di andata e ritorno .. l'ineludibile embricazione tra il ruolo dell'educatore e quello dell'educando. U.Eco ricorda, citando Peirce, che "Di fatto gli uomini e le parole si educano reciprocamente:ogni accrescimento di informazione in un uomo comporta ed è comportato da un corrispondente accrescimento di informazione di una parola."
La parola o segno che l'uomo usa è l'uomo stesso". Mi chiedo e chiedo, se la parola é segno gesto e rinvia all'azione, come possiamo "reinventare la cultura dell'educazione", se continuiamo a denominarla e a connotarla ...Pedagogia? Wittgenstein diceva:"devi provare a prendere sul serio che in una lingua possa davvero esserci una parola che designa il comportamento del dolore e non il dolore" In questo caso,"Pedagogia" designa il comportamento pedagogico alla luce di questa epistemologia ? Non credo.....
Ritornando al saggio, esso propone un diverso modo di abitare il mondo, attraverso l'epistemologia della conoscenza di H. Maturana diretta a " creare un curriculum in cui, secondo una prospettiva laica, l'individuo ne diventa protagonista, nella sua polidimensionalita? di essere umano, sistema autopoietico in interrelazione continua con gli altri nel "languaging". Che significa? Fisserò solo alcuni aspetti fondamentali della dialettica argomentativa del saggio, considerata la brevità dello spazio concessomi, nonostante la complessità e la fascinazione che esso propone al suo lector in fabula.,.. appassionato , co-operativo .. coinvolto a ri-pensare l'insegnamento.
Ma come? Innanzitutto, superando la visione rappresentazionale del mondo, che la Cultura Occidentale considera essente e oggettivabile .."là fuori". Specularmente, gli assetti scolastici inverano, in tutta la cultura dell'educazione, questa epistemologia della scissione, congruentemente alla "prospettiva oggettivista con cui noi siamo separati dal nostro mondo", quindi, il docente "là fuori", altro dal discente . Allora? E' necessario non trattare gli studenti come "degli automi , cui si possono sottoporre delle domande "illegittime" o "banali", come in una macchina banale secondo von Foerster, caratterizzata da relazioni fisse di input e di outpout , come in un sistema educativo che vuole formare cittadini prevedibili".
Ivan Illich, nel saggio ( 1971) "Descolarizzare la società", preconizzando la debacle di una scuola alla deriva, aveva già proposto, questa tematica, evidenziando la disfunzionalità di un sistema di apprendimento manipolatorio e non conviviale, quest'ultimo, necessario ,viceversa, ad una postura diretta al servizio delle istanze interiori dei giovani. Allora come uscire, -mi si perdoni - , dal delirio della "prospettiva oggettivista"? Attraverso una "pedagogia generativa complessa", ripensando il curriculum come apprendimento attraverso "un'epistemologia emergentista"- il cui scopo non e? piu? quello di facilitare l'acquisizione di conoscenza sulla "realta?", perche? il contenuto non e? pre-dato, ma emerge dalla situazione educativa stessa. Il "curriculo" diventa uno strumento per far emergere nuovi mondi piuttosto che uno strumento di stabilizzazione e replicazione" ….e come dice Maturana in un contesto fondato sull'ergon in cui "e? sempre fondamentale la presenza del corpo, che non e? meramente presenza corporea, e? corpo, anima e tempo".
Data: 3 febbraio 2014
Inviato da: Antonella Rizzo (Ricercatrice indipendente in scienze umane)
Sono particolarmente felice di poter condividere qui, a commento dell'articolo dell'amica Rossella (Mascolo), la definizione che H. Maturana ha proposto del concetto di educazione: "Education is 'flowing' in a process of co-existence" (Maturana, 2008).
Lo faccio a testimonianza del valore generativo dello scritto di Rossella.
Si tratta di una affermazione fatta da Maturana durante uno scambio e-pistolare (1).
Inutile dire che quella sollecitazione ha prodotto in me riflessioni, ripensamenti e ancora oggi, a distanza di alcuni anni, alimenta dubbi, nuovi pensieri e ragionamenti.
Il termine educazione, non è irrilevante precisarlo, a seconda dei contesti culturali e linguistici in cui viene tradotto richiama significati molteplici che vanno a circoscrivere altrettanti universi di pratiche, applicazioni, stili relazionali che spesso rendono necessaria una rilettura, una revisione e a volte un cambio dei presupposti teorici con i quali li si interpreta.
Non potendo esplorare le sue varie declinazioni in una breve nota, qui mi limito a dire che non ignoro la complessità definitoria che rimane celata quando si fanno delle analogie tra modelli teorici e tra concetti.
Lo scritto convincente di Rossella (Mascolo) affronta la questione del curricolo in educazione, tema ostico che per lungo tempo ha tenuto gli studiosi specialisti impegnati in un lavoro delicato di definizione, progettazione, canonizzazione dei modelli curricolari.
Accostare la teoria auto poietica, i suoi presupposti epistemologici alla teoria del curricolo è certamente un'operazione analogica utile che richiede, a mio parere, un vero cambio di paradigma e non è detto sia possibile; mentre, infatti, il discorso educativo assume il finalismo (anche moderato) dell'azione perturbativa per la trasformazione, nell'impianto autopoietico non c'è spazio per una temporalità progettuale, per un finalismo performativo, ma soltanto per fenomeni storici (Maturana, Varela, 1999, p.68), poiché è possibile fluire, es-per-ire la propria esistenza soltanto attraversandone le modificazioni (Ibidem). Invece, chi si occupa a vario titolo di educazione ritiene che il proprium della sua azione sia di produrre trasformazioni migliorative e che, come tecnologia (intenzionale) del fluire biocognitivo, l'educazione rimanga il confine processuale di identificazione del regno umano, come afferma anche E. Fraunfelder (2001).
Tali assunti implicano che l'azione educativa sia intenzionalmente orientata e finalisticamente progettata, almeno in termini di auspicio, perché si verifichino trasformazioni migliorative. L'educazione, infatti, non è semplicisticamente accostabile ad un meccanismo adattivo in senso autopoietico, non nasce come facilitazione relazionale, come balsamo per l'accoppiamento strutturale tra sistemi, tutt'altro: essa è classicamente concepita come azione intenzionale e impari; anche i modelli educativi più orizzontali prevedono un finalismo e al momento (tranne alcuni esperimenti di didattica enattiva e costruttivista) non sono accostabili neanche analogamente alla dinamica "autopoietica", filologicamente intesa.
Un quasi paradosso: Il vivente probabilmente esisterebbe senza il fluire educativo (intenzionale). Ma il contrario sarebbe possibile?
Quando una teoria del cambiamento esclude il finalismo dell'azione educativa, come fa l'epistemologia auto poietica riferendosi al processo di coesistenza, allora il problema non è tanto legato e circoscritto alla "tecnologia della progettazione, alla forma da dare ai processi apprenditivi, ai tempi, alle fasi, ecc", ma è radicale, è paradigmatico, riguarda la natura stessa della coesistenza dei viventi, e prima ancora di poterli osservare in interazione è necessario ripensarli nel loro funzionamento.
Dunque quale progettualità è possibile nel fluire autopoietico?
La visione classica curricolare è sicuramente viziata da una temporalità lineare degli interventi sui sistemi umani, come Mascolo ricorda bene nel suo articolo, quindi nell'ottica biosistemica andrebbe ricalibrata sulla logica di una circolarità situazionale delle relazioni che di momento in momento l'unità stabilisce con il proprio medium (ambiente prossimo), la cui azione non è, evidentemente, così immediatamente incisiva sulla condotta ontogenetica dell'unità, come si pensava in passato.
Adattivo, dunque, non è necessariamente educativo.
(1) Il riferimento è ad una e-mail del 24 marzo 2008. Per un periodo il Professor H. Maturana ha accolto alcune mie personali domande e disorientamenti di ricerca, indicando delle strade di esplorazione sulla questione dell'educazione in un'ottica non dicotomica, ma biologico-culturale, organica e autopoietica.
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Quinta Conversazione
"Cambiamenti"
Data: 30 giugno 2012
Inviato da: La Redazione di Riflessioni Sistemiche
A distanza di circa una settimana dalla pubblicazione del N° 6 della rivista Riflessioni Sistemiche invitiamo sia gli autori che i lettori ad inviare un loro commento riguardante i lavori contenuti nel numero in oggetto. Ricordiamo che gli scritti non dovranno superare le 600 parole, e che dovranno essere spediti all'indirizzo di posta elettronica dell'AIEMS (info@aiems.eu), indicando come oggetto della mail "contributo a Conversazioni".
Data: 6 ottobre 2012
Inviato da: Rosanna Pizzo (Counselor sistemico)
Cos'é il cambiamento, se non l'incessante fluire della vita, quel panta rei eracliteo, che costituisce la nostra insanabile "coscienza infelice"? Il cambiamento é l'ethos tematico del bel saggio di Laura Formenti "Conoscenza di sé e cambiamento: paradossi e sfide della scrittura autobiografica", il cui incipit avverte, che c'è da attraversare la selva dello scrivere, processo iniziatico simile alla selva oscura del poema dantesco, per portare "un ordine provvisorio dentro l'apparente caos" con qualche sprazzo di luce. Ma il caos emozionale, non può essere raccontato dalla ragione discorsiva, bensì dai sillogismi in erba del pensiero abduttivo, simili a pennellate, brani di vita, emergenti dalla parola retrospettiva dell'analista: "Quando la smettera di parlare come un libro e mi raccontera quello che sente davvero?" e della protagonista: "La teoria che spiega e che vincola, un nuovo paradosso nella teoria del racconto autobiografico. Un susseguirsi di metafore, analogie, per dire che "la vita rimane un territorio inesplorato", in cui mi sembra, aleggi l'ammonimento batesoniano a non avventurarsi su quel terreno dove gli angeli esitano a metter piede.
L'autobiografia, quindi, impegna la memoria retrospettiva tra storie vissute e storie raccontate, tra ragione discorsiva e quell'intermittenza del cuore di proustiana memoria, volta ad illuminare opacità del passato, alla ricerca di nuove costituzioni di senso.
Raccontava Francois Mauriac di non essere riuscito a scrivere più di un capitolo sulle sue memorie, perché riteneva che solo il romanzo esprimesse l'essenziale di noi stessi. La finzione non mente, socchiude nella vita di un uomo una porta segreta, attraverso cui scivola fuori da ogni controllo, la sua anima sconosciuta. In questo caso, la partecipazione straniata sulla scena della memoria retrospettiva, per illuminare verità che il racconto autobiografico non potrà mai soddisfare. Mi chiedo, senza scomodare questioni onomasiologiche, se il genere autobiografico, nel contesto della cura di sé, riguardante il dominio psicologico, potrebbe meglio denominarsi romanzo autobiografico?
Una saga della memoria, quindi alla ricerca di un tempo perduto,inattingibile come quell'identità della giovinezza verso cui è impossibile remigare, che "sembra un invito desiderio volto a riappropriarsi dei sensi (olfatto, gusto, udito) "affinando i sensi, la memoria e il pensiero critico" per ascoltare il fluire del tempo e il declinarsi degli eventi, verso una "spinta a scrivere legata alla mancanza di qualcosa che si vorrebbe conoscere e possedere, qualcosa che ci sfugge" (I.Calvino). Qualcosa che rinvia all'altro, "la relazione viene per prima, precede" (Bateson).
Laura Formenti dice infatti: "tracciare le coordinate di un'identita? sistemica e assai impegnativo [...] richiede una certa dose di presunzione [...] dovrei fare riferimento a me stessa, alla mia unicita [...] Come posso distinguere cioche mi riguarda come singolo dalle caratteristiche dei rapporti in cui sono immersa?". E inoltre: "Se tra me e la mia percezione organica del mondo non puo non frapporsi sempre l'epistemologia, come non puo non frapporsi sempre tra me e la comprensione di me stesso, se la mia epistemologia e il principio che organizza tutta la mia comprensione, allora non sono in grado di capire mai niente" (Bateson).
Ecco il paradosso dell'auto/biografia. Come uscire dal "finalismo cosciente indesiderabile" e dai doppi vincoli? Credo, attraverso una esperienza misterica, misterico, da mistòs, muto, silente, allude a un attraversamento simbolico, eccedente e indicibile, infatti Laura Formenti, significativamente, preferisce al termine cambiamento la parola trasformazione più adatta ad esprimere il genere autobiografico. Trasformazione, infatti, come nell'individuazione junghiana, é significante linguistico che parlando per immagini apre l'accesso alle categorie estetiche del senso: "ci può essere più verità nel mito, nel sogno, che nel racconto di vita. La poesia svela ciò che la prosa occulta" cioè "una partecipazione stupita a questo gioco con regole ignote", che é la vita.
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Quarta Conversazione
"I processi nell'approccio sistemico"
Data: 23 novembre 2011
Inviato da: La Redazione di Riflessioni Sistemiche
A distanza di una settimana dalla pubblicazione del N° 5 della rivista Riflessioni Sistemiche invitiamo sia gli autori che i lettori ad inviare un loro commento riguardante i lavori contenuti nel numero in oggetto. Ricordiamo che gli scritti non dovranno superare le 600 parole, e che dovranno essere spediti all'indirizzo di posta elettronica dell'AIEMS (info@aiems.eu), indicando come oggetto della mail "contributo a Conversazioni".
Data: 23 novembre 2011
Inviato da: Marpa Simone Crisciani (Psicologo - psicoterapeuta sistemico)
Ho trovato tutto il ragionamento esposto nell'articolo di Marco Bianciardi molto interessante e suggestivo. Marco ribalta come un calzino la percezione comune di alcuni concetti che sovente vengono assunti con punteggiatura differente. Mi riferisco, principalmente, alla definizione di soggettività come attività relazionale e della personalità - percepita a livello immediato come qualcosa di immanente - come un processo evolutivo (pp. 14-15). Le conclusioni dell'articolo mi hanno fatto sorgere alcune riflessioni su cui mi piacerebbe confrontarmi. Comincerò dall'affermazione per la quale "la soggettività, al fine di porsi, deve contrap-porsi" (p. 21). Indubbio e condivisibile è il fatto che l'identità si definisca per differenza all'interno dei contesti relazionali, ma ho avuto l'impressione che Marco legasse il concetto di "differenziazione" a filo doppio con i concetti di "strappo violento" e di Altro visto come "nemico". La base della mia riflessione si muove prendendo spunto dalla frase "uno strappo che a volte si rivela violento". Cosa determina quell' "a volte"? Perché per alcuni individui questo strappo dovrebbe risultare violento e per altri no? Credo che possa venirci in aiuto il concetto di Polarità Semantiche Familiari sviluppato da Valeria Ugazio (Ugazio, 1998). Non starò a dilungarmi troppo, mi limiterò a dire che, secondo la teoria in oggetto, in ogni famiglia diventano salienti solo alcune conversazioni basate su determinate polarità semantiche - diverse per ogni contesto familiare. Questo potrebbe spiegare perché solo "a volte" lo strappo diventerebbe violento, solo quelle volte in cui l'identità all'interno della conversazione familiare determinerebbe questa necessità. Da questo punto di vista, forse, allora Marco legge quello "strappo" dalla sua particolare prospettiva personale (quella per la quale lo strappo sarebbe violento e l'Altro un nemico). Il presupposto che sembra emergere dalla conclusione dell'articolo descrive un mondo che si divide tra "chi accetta l'alterità e chi non la accetta"; un presupposto comune, ma non universale. Come se, come l'autore stesso afferma (p. 19), stesse operando delle distinzioni congruenti alle proprie modalità cognitive, delle quali - però - non può sapere nulla. Non è certo una critica all'autore, questa mia, ma solo un'osservazione che vuole esplorare quanto esposto da Marco. Credo che si tratti di qualcosa di inevitabile, questa aderenza dell'attività soggettiva ai presupposti conversazionali sui quali si fonda, in quanto, proprio come afferma l'autore poco più avanti, "per 'vedere', l'organismo deve essere cieco a quanto permette e vincola il vedere" (p. 19).
Data: 3 gennaio 2012
Inviato da: Rosanna Pizzo (Counselor sistemico)
La mia attenzione, in particolare, va al bel saggio di Sergio Manghi, "Il processo di desacralizzazione. Una lettura di René Girard ". Il saggio, nell'incipit, introduce il contesto argomentativo, cioè la nozione di processo nel pensiero sistemico e l'embricarsi del medesimo negli studi girardiani, con una precisazione: la nozione di sistema va riferita unicamente ai fenomeni viventi in generale e umani in particolare, considerato che esso, tra le sue tanti parti interagenti, ne ha una più peculiare, rappresentata dall'uomo, che non può essere definito attraverso formule. Il processo rappresenta il farsi ininterrotto del sistema, l'evolversi del soggetto umano verso un'infinita circolarità mimetica, che come dice Girard, crea un legame fenomenologicamente indissolubile tra gli esseri umani. Quest'ultimi, non più figli del Cogito ergo sum cartesiano, ma soggetti emozionali ,sono diretti a cercare il senso della loro vita negli altri, in quanto una sorta di peccato originale, senza Dio, li condanna a nascere "desideranti e imitativi". Il saggio, ripercorrendo le colte intuizioni di Renè Girard vede nella imitazione reciproca ininterrotta, un ineludibile, ansiogeno, circolare con-esserci con l'altro, desiderante ed imitativo, complice un modello mediatore, testimonial compulsivamente seduttivo, evocatore di una mimesi desiderante. Ma "Due desideri che convergono sullo stesso oggetto si fanno scambievolmente ostacolo. Qualsiasi mimesis che verta sul desiderio va automaticamente a sfociare nel conflitto." Infatti, l'infinita circolarità mimetica foriera di un intollerabile instabilità relazionale, compromettendo la stessa sopravvivenza umana, impone quel criterio selettivo di batesoniana memoria, in grado di sviluppare una relativa stabilità dei processi interattivi. Come? Secondo Girard, attraverso il sacro, le cui liturgie si consumano con l'uccisione rituale e condivisa di un capro espiatorio, rimedio ad una Noità invasiva e seclusiva, verso un ubi consistam, che fornisca una certa stabilità ai processi interattivi quotidiani. Infatti, l'uccisione del capro espiatorio salva dall'indifferenziato, dalla crisi, che abolisce gerarchie e differenze, come il grande Shakespeare aveva intuito, per sancire l'ordine delle differenze, stabilendo chi è l'escluso,depositario del male e chi invece può salvarsi. Il conflitto scatenato dal desiderio mimetico, come ci suggerisce Sergio Manghi, si ricollega alla nozione di doppio vincolo di batesoniana memoria e ai temi sacrificali ad esso connessi, che hanno sia il volto drammaticamente sofferente dello schizofrenico, salvifico capro espiatorio della sua famiglia, sia il volto creativo della poesia del sogno, del mito, descritto dall'epistemologia sistemica. Sarà l'antropologia nata dai Vangeli, cui la sistemica è debitrice, a disvelare l'innocenza della vittima e a stabilire i limiti e le responsabilità di ciascuno, in modo da "vedere/concepire in tutta la loro complessità i nostri doppi vincoli".Questa consapevolezza, impone una revisione della nozione di sacro, come suggerisce Manghi - Girard, aprendo la via alla desacralizzazione, come processo infinito, asintoticamente diretto ad una nuova nozione di sacro, genialmente intuita dall'incompreso Nietzsche con la "sua" morte di Dio, ben lontana , da un inno all'ateismo , lui, che insieme a Kafka, è stato il più disperato dei cercatori di Dio. Cosa suggerisce uno scenario siffatto? Suggerisce, che le intuizioni mimetiche di Girard, come già ha osservato Vittorio Gallese, potrebbero rappresentare premessa per un approccio multidisciplinare allo studio dell'intersoggettività umana. Inoltre, che sarebbe auspicabile, come dice Sergio Manghi, l'epifania salvifica di una nuova idea di sacro, evocata da una metanoia, che facendo a meno di capri espiatori, fondi una cultura del terzo incluso e non del terzo escluso, ricordando con Bateson che "siamo parte danzante di una danza di parti interagenti". Però "la crisi nella crisi " quella de "L'epoca delle passioni tristi" non rinvia forse a una nube di nebbia che ci illude sulla prossimità di una meta? In atto, però " la nube si dilegua e la meta non si vede ancora".(L.Wittgenstein) .
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Terza Conversazione
"Approcci sistemici alle dimensioni del conflitto"
Data: 12 giugno 2011
Inviato da: La Redazione di Riflessioni Sistemiche
A distanza di circa due settimane dalla pubblicazione del N° 4 della rivista Riflessioni Sistemiche invitiamo sia gli autori che i lettori ad inviare un loro commento riguardante i lavori contenuti nel numero in oggetto. Ricordiamo che gli scritti non dovranno superare le 600 parole, e che dovranno essere spediti all'indirizzo di posta elettronica dell'AIEMS (info@aiems.eu), indicando come oggetto della mail "contributo a Conversazioni".
Data: 14 giugno 2011
Inviato da: Rosanna Pizzo (Counselor sistemico)
Umberto Eco distingue i testi che vogliono andare incontro ai desideri prevedibili del lettore, i quali presuppongono un analisi accorta di mercato , da quelli che viceversa sono diretti a produrre un lettore nuovo, diverso, i quali, vogliono innescare appunto una sorta di circolo ermeneutico ( Lui direbbe semiosico) diretto a "rivelare al proprio pubblico ciò che esso dovrebbe volere, anche se non lo sa…rivelare, in altri termini il lettore a se stesso" perché diventi co-produttore di senso.
La rivista persegue il secondo intento: non fornisce infatti risposte preconfezionate, ma spunti di riflessione diretti a scompaginare le ortodossie del pensiero comune, fondate su una logica che, come diceva Nietzsche, affonda le sue radici nella volontà di potenza, quindi sorta per controllare e dominare tutto ciò che è in-determinato, in-definito.
L' approccio fenomenologico ci consente, invece, ritornando "alle cose stesse", l'uscita dalla logica lineare-disgiuntiva, diretta ad eliminare contraddizioni e paradossi, in nome di un improponibile ordine universale fondato sul principio di identità e di non contraddizione.
Il mondo, dice Seraphita, il personaggio nell'omonimo romanzo di Balzac non procede per linee rette, come nella metafisica, ma per linee curve. Le linee curve attraversano tutti gli articoli della rivista, cambiano solo le cornici disciplinari, in cui è comune l'idea che l'unita di sopravvivenza sia costituita dalla relazione ontologica tra interno ed esterno, tra individuo e ambiente, entrambi definibili una unità a stretta interdipendenza sistemica…"l'interno e l'esterno si compenetrano e si fondono e non possono essere separati, come l'acqua e la farina di un impasto ben riuscito".((Luca Casadio.)
Di questa unità ci parla, appunto, Luca Casadio ne "Il luogo del conflitto:doppi legami, conflitti e rappresentazioni in ottica sistemica". L'esergo, introdotto dalle parole chiave paradosso, doppio legame, contesto, cambiamento, rappresentazione, dischiude già l'orizzonte alla complessità, verso un approccio duale …e non dualistico, quello batesoniano dell'e-e e non dell' o- o,… " siamo parte danzante di una danza di parti interagenti […] la relazione viene per prima, precede".
La relazione, in questo caso, attraversata dall'epifania distruttiva del doppio vincolo, icastica espressione batesoniana diretta a connotare relazioni ad alta valenza emozionale, come quella madre -figlio, in cui la coesistenza paradossale di messaggi di ordine logico diverso, di tipo verbale e non verbale, rende impraticabile la comunicazione, portando all'implosione di ogni possibile e coerente narrazione del Sé, da parte della cosiddetta vittima, così denominata solo per comodità di discorso. D'altro canto, viviamo in un mondo narrato, in cui fra noi e il mondo ci sono le parole e in cui prevale l'ermeneutica della relazione e quindi le attribuzioni di senso di cui investiamo la realtà.
Ma il doppio legame, è nozione complessa, non riducibile alla patologia psicotica; la definerei una categoria dello Spirito, non semeiotizzabile con gli strumenti della ragione discorsiva che non può spiegare (erklaren) la sua possibile evoluzione in varie forme creative, come l'arte, l'umorismo, il sacro, i riti antropologici ecc.. L'inserimento della voce doppio legame nei Dizionari della Lingua italiana, potrebbe, forse, far si che esso entri a far parte delle narrazioni non sistematiche del senso comune, fuori da contesti specialistici, considerata l'ineludibilità della sua presenza nel mondo vissuto?
Concludo, ricordando che l'uomo, come aveva detto Vincenzo Padiglione nel 1987, tra i primi in Italia a leggere G.Bateson, non può conoscere se stesso se non mediante l'estroflessione del sé, la relazione vitale e personificata con il mondo che abita. L'estroflessione è la premessa affinché l'uomo possa, nel confronto fra sé e il mondo, riattivare relazioni abduttive, la capacità di costruire metafore, sentirsi duplicato negli altri, legato a un destino che lo accomuna agli elementi vivi dell'universo. (G.Bateson, 1979)
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Seconda Conversazione
"Viaggio attraverso ed oltre i confini disciplinari"
Data: 15 novembre 2010
Inviato da: La Redazione di Riflessioni Sistemiche
A distanza di circa due settimane dalla pubblicazione del N° 3 della rivista Riflessioni Sistemiche invitiamo sia gli autori che i lettori ad inviare un loro commento riguardante i lavori contenuti nel numero in oggetto. Ricordiamo che gli scritti non dovranno superare le 600 parole, e che dovranno essere spediti all'indirizzo di posta elettronica dell'AIEMS (info@aiems.eu), indicando come oggetto della mail "contributo a Conversazioni".
Data: 10 dicembre 2010
inviato da: Rosanna Pizzo (Counselor sistemico)
La rivista Riflessioni Sistemiche rimanda, già attraverso la sua nominalizzazione linguistica, alla natura sistemica del suo riflettere, vediamo perché.
Il sostantivo "Riflessioni", dal verbo ri-flettere, etimologicamente vuol dire: ribattere, ripercuotere, rimandare, ritornare indietro: si dice dei raggi ribattuti da corpo pulito e terso, ritornano o sono rimandati indietro. Una bella metafora evocativa, che rinvia ad un pensiero, che nel riflettere su sé stesso illumina l'altro, in un gioco di azione e retroazione, di andata e ritorno, di continui rimandi di senso, attraverso la luce che rifrange e si infrange verso l'altro e con l'altro. Un invito all'autoriflessività che specularmente ci pone di fronte a qualcosa che ci appartiene, e quindi che non sta di fronte a noi e nulla più, ma parla di noi che "siamo parte danzante di una danza di parti interagenti" (G. Bateson).
Il mondo, e questo è il contrassegno del modo Sistemico di tali Riflessioni, è un sistema integrato di parti, che danno luogo ad un insieme diverso dalla somma delle medesime, concetto questo, che riferito al n° 3 della rivista "Viaggio attraverso ed oltre i confini disciplinari", vuol dire diversa dai singoli quadri disciplinari e da un idea di signoria e di dominanza delle scienze esatte sulle scienze umane o dello spirito. Infine, l'immagine sul frontespizio della rivista in questione, non sembra forse la rappresentazione estetico - metaforica del dialogo virtuale ma anche difficile, tra queste due epistemologie; quella del Pensiero logico-razionale delle scienze della natura, fondate sull'ordine della spiegazione (erklaren) e quella analogico - intuitivo - reticolare delle scienze storiche o dello spirito, fondate sull'ordine della comprensione (verstehen)?
Vorrei , sempre riferendomi al medesimo n° 3 della rivista , evidenziare, in ordine al tema del dialogo tra discipline, alcune parti del bell'articolo di Ugo Morelli e Carla Weber "Conflitto della conoscenza: vincoli e possibilità dell'interdisciplinarietà" in quanto autoriflessivamente diretto, come del resto gli altri, al lettore che riesca o voglia riconoscervisi.
L'articolo nell'incipit, pone come fondamentale l'idea di una ricostruzione successiva ad un decostruzione (Jacques Derridà), in grado di analizzare con acribia il senso della crisi, perché "la decostruzione senza ricostruzione è irresponsabilità"(Hilary Putnam). La ricostruzione riguarda il tema della conoscenza, a cui si ancorano le teorie caratterizzanti le varie discipline chiuse all'interno dei rispettivi apparati logico - concettuali, tracciati dai rispettivi saperi, a loro volta rassicuranti certezze fideistiche per la mente relazionale dell'uomo, che teme il cambiamento, metafora mobile e minacciosa, evocatrice di fantasmi di perdita dell'identità storica e quindi di quei segnali che ancorano ad una qualche forma di linguaggio condiviso. Ma una ricostruzione porta con sé l'ineliminabile conflitto della conoscenza, come bisogno di conoscere e insieme di negare. Ostacoli epistemologici ed angosce epistemofiliche (il desiderio di conoscere e il timore angoscioso di perdita dei vecchi codici di senso per acquisirne di nuovi ) impediscono l'approdo a quello che gli autori definiscono Un terzo grado della conoscenza, per accedere all'inter e trans-disciplinarietà.
Questa traversata richiede il superamento, con un ritorno squisitamente fenomenologico "alle cose stesse", di un triplo dualismo: mente - corpo, mente - relazioni, mente - natura. Infatti l'indagine scientifica ha rilevato "che la mente umana è relazionale e che nelle relazioni emerge e si evolve , essendo contemporaneamente incorporata, situata e estesa. D'altro canto il dialogo tra discipline è già in atto, in particolare la scoperta dei neuroni specchio ci ricorda che siamo programmati per connetterci e che la scienza rappresenta un aspetto di descrizione complementare ma ineludibile "per capire in ce cosa si sostanzia la condizione umana "(pag. 44). Però, dice Vittorio Gallese, "le intuizioni artistiche spesso ci fanno comprendere molto della natura umana, o molto di più rispetto all'orientamento oggettivante tipico dell'approccio scientifico"(pag.44)
Data: 21 dicembre 2010
inviato da: Marcello Cini (fisico)
"Cos'è una disciplina? Si può affermare con certezza che le discipline...indicano un certa dimensione del reale, oppure non sono altro che un modo di stabilire e percepire confini del tutto soggettivi, seppure in un contesto di consensualità? E quali sono i processi, prima di tutto socio-culturali, che spingono molte discipline simultaneamente ad occuparsi di particolari temi emergenti, che fanno quindi da attrattori di senso, in un particolare momento storico?.. Si può eventualmente fare a meno delle discipline? E' più "realistico" puntare verso un approccio interdisciplinare e transdisciplinare, o ancora meglio metadisciplinare?"
Sono queste alcune domande dalle quali sono partiti i curatori di questa rivista nel pianificare la raccolta di saggi pubblicati sul n.3, rivolte al tempo stesso come stimolo ai loro autori. A mia volta mi chiedo è possibile per chi, a pubblicazione avvenuta, li abbia letti, formulare in poche righe qualche possibile risposta?
Cercherò di farlo cominciando con l'associarmi a quella che Ignazio Licata formula all'inizio del suo saggio osservando che "uno degli elementi essenziali per comprendere lo sviluppo della scienza contemporanea è la pratica sempre più diffusa di attività di crossing disciplinare." E spiega che "quando una disciplina scientifica amplia il suo tessuto teorico, è inevitabile che le direzioni della ricerca ed i problemi dei range osservativi si sovrappongano a quelli di altre scienze, innescando un processo esponenziale di aumento di conoscenze, e forme di interazione metodologica assai raffinate."
Sulla stessa linea, che condivido, si sviluppa il saggio di Telmo Pievani che, dopo aver acutamente criticato una visione della "complessità" come "impegno totalizzante che non è solo una filosofia, non è solo una scienza, ma è piuttosto un'appartenenza globale, una visione del mondo, una pratica di vita, di relazioni e di convivialità,", mette invece in luce una forma di "interdisciplinarità che ha assunto un ruolo centrale nella ricerca scientifica. Non come ambizione vaga né come sincretismo posticcio, ma come concreta esigenza di scoperta."
"Oggi esistono - prosegue Pievani - molteplici programmi di ricerca internazionali (ad esempio l'evoluzione biologica che oggi non può essere compresa se non attraverso le lenti coordinate di ecologia, biologia dello sviluppo e biologia molecolare) che nascono già da sé in una dimensione interdisciplinare e non potrebbero raggiungere i loro risultati se linguaggi, punti di vista plurali, metodi di indagine diversi non cooperassero per spiegare un certo insieme di fenomeni.
Alle parole di Stephen Gould che scriveva della "necessità di concepire per il futuro un "darwinismo esteso" che facesse affidamento su una pluralità di fattori di cambiamento, funzionali, strutturali e storici", si ricollega l'intervento di Narducci. "Spesso nei saggi di Gould - leggiamo - le osservazioni, i dettagli delle storie raccontate sembrano interpretabili superficialmente come risultato di un atteggiamento induttivo, di un accumulo selettivo di dati ed esperienze... ma invece la tecnica di costruzione logica del pensiero e della scrittura appare vicina all'abduzione: una serie di "indizi" e fatti, apparentemente lontani, spesso derivanti da aree disciplinari lontane e da campi culturali non facilmente collegabili, portano il lettore e lo studioso a nuove idee e teorie."
A questo punto vorrei accennare - se mi è consentito concludere con un breve riferimento alla mia stessa attività di "fisico irrequieto" - alla linea di ricerca degli ultimi venti anni che mi ha portato a collegare il piano strettamente disciplinare, attraverso una riformulzione della meccanica quantistica in una forma alternativa a quella storicamente affermata come fondativa della disciplina, con il piano epistemologico, attraverso la dimostrazione della possibilità di rappresentare i "fatti" partendo da postulati di partenza di natura fisica in alternativa all'assunzione a priori di enti di natura matematica. In sostanza mi ha portato alla convinzione che Galileo aveva torto quando scriveva che l'Universo "è scritto in lingua matematica".
In particolare diventa in questo modo possibile eliminare dalla teoria gli enti matematici privi di significato fisico diretto (funzioni d'onda) che hanno costituito l'oggetto di innumerevoli e sterili interpretazioni, dal famoso gatto di Schrödinger (1935) fino agli infiniti universi paralleli che dalle riviste scientifiche si riversano sulla fantascienza dei rotocalchi. Si riesce a capire così che la cosiddetta "dualità onda/particella" - il fenomeno accertato e indiscutibile secondo il quale un corpuscolo a livello quantico si propaga come un'onda e si rivela come particella localizzata - non è una stranezza inspiegabile, ma una manifestazione di due aspetti (continuità/discontinuità) di un ente fisico non locale (il campo quantistico) che oggettivamente esiste nello spazio-tempo ordinario della nostra esperienza.
Come rapida conclusione risponderei dunque alle domande iniziali che non si può fare a meno delle discipline e che è "irrealistico", se non dannoso, "puntare piuttosto verso un approccio interdisciplinare e transdisciplinare, o ancora meglio metadisciplinare". Esse non sono "un modo di stabilire e percepire confini del tutto soggettivi" ma devono tendere invece "ad occuparsi di particolari temi emergenti, facendo quindi da attrattori di senso, in un particolare momento storico".
PS. Ho verificato attentamente le bibliografie di tutti i contributi, ma non ho trovato mai citato il nome di Gregory Bateson. Mi domando perché.
Data: 22 dicembre 2010
Inviato da: Silvano Tagliagambe (Filosofo)
Mi fa piacere che sia intervenuto nel dibattito sul numero 3 della rivista Marcello Cini, di cui ho sempre apprezzato l'impegno e il rigore. Stavolta però non sono d'accordo con le sue osservazioni, che ritengo condizionate dalla sottovalutazione di una distinzione fondamentale, quella tra "condizioni necessarie" e "condizioni sufficienti".
Questa distinzione è alla base, ad esempio, di due differenti approcci alla causalità: quella, presente nel Circolo di Vienna, secondo cui le cause sono condizioni sufficienti per l'effetto, che lo spiegano o lo rendono prevedibile con alta probabilità: e la teoria controfattuale della causa, sviluppatasi in seguito al successo della semantica a mondi possibili, la cui idea - chiave è quella di identificare le cause con le conditiones sine qua non o condizioni necessarie. La cosiddetta "formula della condicio" viene così descritta da G. Fiandaca:" per stabilire quali sono le cause la formula chiede di eseguire un esperimento mentale, cercando di immaginare che cosa sarebbe successo se la presunta causa non si fosse verificata: se in tal caso non si sarebbe verificato l'effetto, allora riteniamo stabilito il nesso causale".
Ora nessun sostenitore serio di un approccio interdisciplinare e transdisciplinare, o ancora meglio metadisciplinare" si spingerebbe sino ad affermare che le discipline non sono "condizioni necessarie" sia per l'acquisizione di nuove conoscenze (e dunque per la ricerca), sia per la trasmissione di quella disponibile (e quindi per l'insegnamento e la didattica). Il punto in discussione è se esse siano anche condizioni sufficienti nell'uno e nell'altro caso. Quello che lo stesso Cini scrive, affermando di condividere le riflessioni di Ignazio Licata, secondo il quale "quando una disciplina scientifica amplia il suo tessuto teorico, è inevitabile che le direzioni della ricerca ed i problemi dei range osservativi si sovrappongano a quelli di altre scienze, innescando un processo esponenziale di aumento di conoscenze, e forme di interazione metodologica assai raffinate" basta e avanza per fornire una risposta negativa a questa domanda cruciale, che è l'autentico nocciolo della questione. Se allora è vero, come ammette ancora Cini sempre sulla scia del saggio di Licata, che "uno degli elementi essenziali per comprendere lo sviluppo della scienza contemporanea è la pratica sempre più diffusa di attività di crossing disciplinare" non si capisce come si possa poi, a partire da queste premesse, concludere, che "è irrealistico, se non dannoso, puntare verso un approccio interdisciplinare". Motivare questa risposta con la convinzione che non si può fare a meno delle discipline costituisce, se ha senso la distinzione proposta tra condizioni necessarie e condizioni sufficienti, un "non sequitur" logico.
C'è poi da commentare la convinzione di Cini che sia fruttuoso "eliminare dalla teoria quantistica gli enti matematici privi di significato fisico diretto (funzioni d'onda) che hanno costituito l'oggetto di innumerevoli e sterili interpretazioni". Questa affermazione è in contrapposizione con quanto sottolineato da Dirac, il quale nella prefazione alla prima edizione (del 1930) della sua opera I princìpi della meccanica quantistica osserva che "la tradizione classica era di considerare l'universo come un'associazione di enti osservabili (particelle, fluidi, campi, ecc.) in moto secondo definite leggi di forze, in modo da poterci formare, dell'intero schema, un modello mentale nello spazio e nel tempo. Ciò portò a una fisica il cui scopo era quello di fare delle ipotesi sul meccanismo e sulle forze che connettevano questi enti osservabili, in modo da rendere ragione del loro comportamento nella maniera più semplice possibile. Negli ultimi tempi, però, è divenuto sempre più evidente che la natura si comporta in maniera diversa. Le sue leggi fondamentali non governano in un modo molto diretto l'universo quale appare nel nostro modello mentale, ma controllano invece un substrato di cui non possiamo formarci un modello mentale senza introdurre inesattezze [ irrilevancies, che può forse essere meglio reso con "qualcosa di non pertinente"] * .
Il fatto rilevante è però che l'impostazione di Cini cozza contro i risultati di un teorema, quello di Craig, che mostra come sia in effetti possibile sostituire un sistema linguistico formale contenente espressioni teoriche con un altro che non abbia termini teorici, e che pure abbia lo stesso contenuto empirico del sistema iniziale. Il prezzo da pagare per questa eliminazione è pero altissimo: come ebbe a rilevare lo stesso Craig, infatti, il suo metodo mostra in quale modo possano venir specificati gli assiomi del sistema linguistico, frutto di questa sostituzione, ma non garantisce che tali assiomi saranno in numero finito; in secondo luogo non garantisce neppure che gli assiomi siano specificati in modo da rendere possibile il loro uso efficiente per scopi deduttivi. Ciò significa che un tale insieme di assiomi non fornisce una formulazione semplificata del contenuto empirico del sistema linguistico di partenza e in realtà si limita a riformularlo, per cui gli assiomi non offrono alcun vantaggio rispetto a un semplice elenco di tutti gli enunciati osservativi veri. La funzione degli enti privi di significato fisico diretto che compaiono nella teoria è proprio quella di garantire questo vantaggio.
* P.A.M. Dirac, I princìpi della meccanica quantistica, Boringhieri, Torino, 1959, p. XI
Data: 26 dicembre 2010
Inviato da: Ugo Morelli (Psicologia del lavoro e dell'organizzazione)
Il ruolo di Riflessioni Sistemiche, fin dal principio, è stato quello di cercare di rimettere sulle gambe la fragile prospettiva dell'orientamento epistemologico della complessità che, dopo un'emergenza proficua e necessaria, aveva assunto e, purtroppo tuttora sconta, una deriva del tipo "tutto vero-tutto falso", con cadute "religiose", che rischiavano e rischiano di svilire una vera e propria necessità evolutiva della conoscenza e della ricerca. Giustamente Marcello Cini ricorda uno degli iniziatori, decisivi per noi, del riconoscimento della crisi del modo "classico" di intendere e fare la scienza, come Gregory Bateson.
Come dice con la solita, tagliente, precisione linguistica Samuel Beckett in Desiecta, 19, "Il pericolo è nella nettezza delle identificazioni".
Di fronte al perdurante rischio di new age da un lato e di scientismo dall'altro, è sempre più necessario esigere, allo stesso tempo, il rigore del metodo della ricerca e il riconoscimento della fallibilità e della falsificabilità di ogni punto di vista. E la disciplina è "un" punto di vista, una condizione necessaria ma non sufficiente, se capisco bene il contributo di Silvano Tagliagambe, che condivido.
Perché? Perché esistono le condizioni emergenti, richiamando Varela; esistono le inedite ipotesi che nascono dai break-down disciplinari. Quei break down sono costitutivamente conflittuali e per ciò stesso generativi.
Ogni disciplina, in questo senso, vive alla temperatura della rottura dei propri confini e sperimenta l'impossibilità di conoscere senza esporsi alla perdita della propria autonomia. Se ci sono un paio di evoluzioni di punti di vista di cui ci sentiamo parte (penso alla maestria per me di Aldo Giorgio Gargani), queste sono che:
- la scienza si occupa non di come è fatta la natura, ma di ciò che possiamo dire sulla natura e con la natura;
- il soggetto e l'oggetto della ricerca sono distinti e però connessi circolarmente.
Le discipline, allora, non sembrano indicare alcuna dimensione del reale, in quanto la crisi di corrispondenza tra linguaggio e mondo da tempo ci segnala la convenzione provvisoria come tratto della costruzione di conoscenza. L'autonomia di ogni disciplina si configura perciò come linguaggio di codice con una sua autonomia, il cui valore sta nella dipendenza dalle altre discipline. Il conflitto che le prospettive transdisciplinari sperimentano, ai margini dei cosmos disciplinari, può generare, per ibridazione di codici, l'intuizione di ipotesi generative e di conoscenza inedita. Né sembra bastare una posizione politically correct, come quella che propone l'interdisciplinarità. A ben vedere quanto emerge a quel livello è frutto delle emergenze ipotetiche e conoscitive inedite che attraversano le discipline. A conferma dell'indicazione di Stephen Spender: "bisogna cercare sempre e non bisogna crederci mai".
Data: 27 dicembre 2010
Inviato da: Lorenzo Polli (Psicologo e psicoterapeuta)
Pietro Barbetta (PB) propone un argomento importante: il rapporto tra Bateson e la psicoanalisi. Alla ricchezza delle idee contenute, il saggio non fa seguire un'elaborazione adeguata; a volte compaiono giudizi poco argomentati, con altri mi trovo francamente in disaccordo.
Nei limiti forniti dallo spazio a disposizione procederò per punti (ove sono riportati in corsivo le affermazioni di PB) e sottopunti (ove sono riportate le mie considerazioni in proposito).
1. .. l'intento di Bateson è chiaramente psicodinamico ..
1.1. La relazione tra Bateson e psicoanalisi è un argomento di grande interesse, ma non penso che possa esser sintetizzata, sia pure parzialmente in questo modo. Il pensiero psicoanalitico contemporaneo a Bateson è in buona parte immerso in una epistemologia pleromatica, mentre il pensiero di Bateson si inscrive in una epistemologia creaturale.
1.2. All'energia della psicodinamica egli contrappone l'informazione: questa distinzione è il frutto più prezioso che egli portò via dalle Macy Confernces (Polli 2004, Gregory Bateson e le Macy Conferences dedicate alla cibernetica, Rivista di Psicoterapia Relazionale, 19). Uno dei criteri delle mente (concetto quasi assente nel saggio di PB) specifica che essa reagisce all'informazione e non all'energia. Quando a fatica cerca uno psicoanalista che lo possa ispirare in questa direzione deve ricorrere a Lawrence Kubie (1947, Fallacius Uses of Quantitative Concepts in Dymanics Psychology, Psychoanalitic Quarterly, 16). Certamente non un caposcuola; poco ortodossi saranno molti degli psicoanalisti ai quali volgerà il suo interesse (F. Fromm-Reichmann, H.S. Sullivan, E. Erickson, J. Rosen, per citare solo alcuni nomi).
2. .. la sua matrice si può inserire chiaramente nel pensiero psicodinamico che parallelamente hanno sviluppato Winnicott, Bion, Gisela Pankow e il gruppo di Milano.
2.1. Dire che questi autori si siano mossi parallelamente mi sembra una forzatura, soprattutto per il gruppo di Milano.
2.2. Semmai, volendo restare nell'ambito psicodinamico, una certa affinità potrebbe ritrovarsi con il pensiero di Gustav Jung. I concetti Pleroma e Creatura, che ho precedentemente richiamato, sono mutuati dalla cultura gnostica, ma attraverso l'uso che ne fa lo psichiatra svizzero. In proposito è da considerare che la psicoterapeuta di Bateson, Elisabeth Hellersberg, aveva una formazione junghiana. La sua (di Bateson) concezione dell'inconscio, oggi ritenuta molto interessante, è assai distante da Freud, mentre ha caratteristiche junghiane.
2.3. L'approccio batesoniano alla schizofrenia è innovativo per l'epoca proprio in quanto anti-psicodinamico. Si riteneva allora, come ricorda Weakland (1981, One Thing Leads to Another, in Wilder-Mott e Weakland J. A cura di (1981), Rigor and imagination. Essays from the legacy of Gregory Bateson, Praeger) ) che questo disturbo fosse un fatto puramente intrapersonale.
3. Tra i maggiori ammiratori di Bateson troviamo Gilles Deleuze ..
3.1. La proposta di un'affinità tra la cultura psicoanalitica francese e Bateson, per quanto sicuramente interessante, non può esser risolta con alcune citazioni contenute nei saggi di Pankow, Lacan, Deleuze e Guattari. Occorre prendere in esami le epistemologie che muovono gli autori in esame. Se bastassero le citazioni sporadiche potremmo dire che secondo Guattari Bateson è .. l'autore di una teoria neocomportamentista .. detta teoria del doppio legame che consiste nel ridurre l'eziologia della schizofrenia a un sistema di labirinti logici …(Guattari 1972, Laing diviso, p. 316 in Forti L. L'altra pazzia, Feltrinelli).
Per concludere: nel saggio prevale un pensiero semplificatore, non bastano, se si vuole far cultura scientifica, delle semplici affermazioni. Occorre contestualizzare i concetti, esporli ad uno sguardo diacronico, porre attenzione alle incoerenze, alle divergenze. In sintesi quella di Barbetta mi sembra una saggio con troppa immaginazione e troppo poco rigore; concetti che pure cita, ma solo nelle ultime due righe; forse, se l'avesse fatto prima ...
Data: 28 dicembre 2010
Inviato da: Pietro Barbetta (Psicologo e psicoterapeuta)
Ringrazio Polli per i suoi rilievi. Il saggio aveva limiti di pagine, ho voluto fare star dentro troppe cose. Le mie considerazioni si trovano sviluppate in: Lo schizofrenico della famiglia (Meltemi), Figure della relazione (ETS) e I linguaggi dell'isteria (Mondadori).
Rispondo telegrafico perché il primo tentativo superava le 1000 parole:
Punto 1.1.
D'accordo con quest'affermazione. Ma "in buona parte" non significa in toto. Ritengo che ci sia una parte del pensiero psicoanalitico che fa i conti con tale questione, grazie alle critiche e alle rotture epistemologiche della seconda metà del Novecento, tra queste, le più importanti: Gregory Bateson, Michel Foucault e Gilles Deleuze. Non si tratta solo di ermeneutica (non energetica) in psicoanalisi (Paul Ricoeur), ma di una critica del '54 di Foucault a una psicoanalisi che intende estrarre il sintomo dal racconto onirico senza dare spazio all'immaginario (Intr. a Sogno ed esistenza di Binswanger). Da più fonti (ne ho citate solo due) emerge questa critica.
1.2.
Da quando faccio lo psicoterapeuta (23 anni) critico la teoria energetica. L'opera di Bateson fu per me illuminante, ma il mio Bateson, quando parla d'informazione, non la intende come Shannon. Non pensa di usare la legge "energetica" della termodinamica e trasporla in comunicazione. Se così fosse la sua (di Bateson) informazione sarebbe composta da unità indipendenti dal significato, pacchetti quantitativi, una "ridondanza" quantitativa. L'informazione per il mio Bateson (come in Don Juan) è connessa all'osservatore che coglie: il frammento inf. ha una propria qualità differenziale, sta tra rumore e suono, suono e senso, senso e significato; nei minuti particolari (rimando al secondo capitolo del testo Barbetta Pievani Capararo, "Sotto il velo della normalità", Meltemi)
2. e 2.1.
Del gruppo di Milano faccio parte da 25 anni: come allievo, come assistente e da 20 come didatta. "Parallelamente" vuol dire tante cose per il gruppo di Milano. Penso che i colleghi del gruppo siano d'accordo su ciò: essere rigorosi nelle pratiche terapeutiche, nei minuti particolari, essere immaginativi nell'esplorazione di mondi possibili. C'è chi indaga la musica, l'arte, la letteratura, l'epistemologia, la scienza, ecc. Segnalo però che Gisela Pankow e Mara Selvini si conoscevano e si citano reciprocamente, che la fondazione del gruppo di Milano è fatta da quattro psicoanalisti.
2.2.
La mia seconda analisi è stata pure junghiana, se non l'avessi svolta non avrei colto la critica di Foucault che ho citato sopra, sarei rimasto prigioniero di un supposto rigore da post-dottorato, un nodo che non riuscivo a sciogliere. Se non ho menzionato la questione è perché ancora ci sto lavorando. Prima impressione: lo junghismo ha avuto diversi sviluppi, quello italiano lo trovo interessante.
2.3.
Per me è Anti-Ego-Psychology, Polli, mi pare, tenda a identificare la psicoanalisi con la Ego-Psychology, se si legge il seminario di Pankow sul doppio legame ci si accorge che lei trova Bateson illuminante per superare i limiti del concetto di Weak Ego Functioning, che ha limitato la psicoanalisi.
3.
Sul fatto che Deleuze ammirasse Bateson non ci sono dubbi, solo una per tutte: il testo Mille plateaux di Deleuze e Guattari contiene nel titolo il termine plateau mutuato precisamente da una frase di Bateson: "Some sort of continuing plateau of intensity is substituted for climax". Particolare poco considerato qui perché la traduzione sostituisce due termini fondamentali (plateau e climax) con le parole livello e apice. Che portano il lettore in altre direzioni.
Per approfondimenti: barbetta@mediacom.it - www.bidieffe.net
Data: 29 dicembre 2010
Inviato da: Luca Mori (Filosofo)
Con riferimento al pensiero sistemico e all’orizzonte epistemologico della complessità a cui fa riferimento Ugo Morelli, credo che l’approccio interdisciplinare sia una condizione necessaria perché molte questioni rilevanti impegnano l’osservatore proprio al punto di “crossing” tra i codici, i linguaggi e le posture osservative disciplinari. Mi limito a due esempi che mi sembrano cruciali. A) Anzitutto la questione dell’emergenza. Se ci interroghiamo sull’emergenza dei sistemi viventi dalla materia non vivente, oppure sull’origine dei sistemi viventi e pensanti nel panorama dei sistemi viventi in senso lato “non pensanti” (ovvero sulla continuità e discontinuità di Homo e delle sue possibilità di comunicazione nel panorama del mondo animale), ci troviamo immediatamente alla soglia di discipline come la fisica, la chimica, la biologia, la scienza della mente e così via. La formulazione delle domande sui fenomeni emergenti conduce a toccare tali soglie, lungo le quali un naturalismo non riduzionista è possibile solo evitando la pretesa della reductio ad unum dei vocabolari e degli atteggiamenti d’osservazione coinvolti, ma anche la pretesa di separatezza autosufficiente delle singole discipline. Diventa piuttosto cruciale trovare relazioni senza riduzioni, vedere nessi e passaggi intermedi. C’è poi, tra le altre, B) la questione degli isomorfismi formali rintracciabili tra sistemi e modelli organizzativi appartenenti a differenti livelli di realtà oppure osservabili a differenti scale sullo stesso livello. L’ipotesi di una teoria generale dei sistemi, fin da Ludwig von Bertalanffy, gli studi di Bateson sulla comunicazione e il tentativo più recente di sviluppare una scienza delle reti – ma anche, in un altro ambito, le ricerche per una “scienza dei conflitti” impostate da Luigi Pagliarani – sfidano all’attraversamento dei confini disciplinari, poiché per quel genere di problemi tale attraversamento è condizione necessaria a sviluppare metafore e ad elaborare ipotesi di lavoro e nozioni euristicamente ricche. Ciò non sminuisce l’importanza del lavoro condotto con rigore all’interno delle tradizioni metodologiche e dei lessici delle singole discipline, ma impedisce di ritenere che le singole discipline possano essere autosufficienti nel porre, isolate, tutte le domande sensate e rilevanti.
Data: 30 dicembre 2010
Inviato da: Sergio Manghi (Sociologo)
Intervengo, molto di getto, ma confessando un po' d'imbarazzo, un po' perché la mia l'ho già detta da autore, un po', ma vorrei dire soprattutto, perché da parecchio tempo avverto un disagio più generale a intervenire nei "dibattiti intellettuali". Sento che il mondo in cui siamo immersi è talmente cambiato, e sta continuando a cambiare vorticosamente, inafferrabilmente, rispetto a quando "si facevano i dibattiti intellettuali", inclusi quelli sulla complessità, che mi sfugge di continuo il filo del senso che ha "dibattere". Non voglio parlare a nome di nessuno, dicendo questo, beninteso, ma solo di me stesso. E proprio su questo vorrei intervenire.
Provo a dirla così: a "quel tempo" (perdonate la genericità, ma credo che ci capiamo) si aveva la sensazione "ovvia" che tra il nostro dibattere (per esempio sulle discipline, l'interdisciplinarità, la complessità, ecc.) e l'effervescenza sociale in cui eravamo immersi ci fosse qualche andirivieni più o meno sensato, più o meno efficace, magari da valutare in tempi lunghi, o lunghissimi, ma in qualche modo comunque sensato. Oggi non è più così. Avverto sempre più, qui voglio dirlo nel modo più "soggettivo" possibile (anche se credo che sia un gioco una cesura epocale, uno scompaginamento molto radicale, "apocalittico", delle coordinate che hanno retto i nostri modi di pensare/sentire in questi ultimi secoli), l'autoreferenzialità del nostro dibattere.
Avverto in modo acuto l'esigenza, richiamata nel suo intervento da Rosanna Pizzo, di "ritornare alle cose stesse". Di confrontarmi con la "grezza" insensatezza del mondo, e in particolare, per essere ancor più preciso, con la violenza e la barbarie dilaganti, con la rapida degradazione di quel che si era creduto a lungo (o si era finto di credere, perché ci guadagnavamo qualcosa?) un tessuto "civile" di relazioni, con il frenetico diffondersi di soggettività desideranti tecno-nichiliste (sto citando Mauro Magatti, Libertà immaginaria, Feltrinelli più volte ripreso nel mio blog) - processi ai quali tutti stiamo concorrendo variamente, anche con il nostro autoreferenziale chiuderci nelle discipline, nelle interdiscipline, si chiamassero anche "psicoanalisi", "sociologia", "filosofia", e forse anche negli stessi dibattiti "transdisciplinari".
Nel mio articolo insistevo sul tema della "meta-disciplinarità", anche per queste ragioni, che qui cerco di esprimere in modo più "indisciplinato". Nulla contro le discipline, l'interdisciplina, la transdisciplina, prese "in sé". E' la relazione con i contesti nei quali facciamo disciplina, interdisciplina eccetera, e in cui ne discutiamo, autoriflessivamente, a far (farmi) problema.
Marcello Cini, opportunamente, ci richiama a Bateson (a proposito di "contesti"). Ebbene, da sempre per me Bateson è stato importante perché in ogni suo pensiero ci ho sentito il "rumore" di un desiderio "grezzo" e incoercibile di "risonanza" con la follia del mondo (senza magari quell'elogio "anticonformista", un po' euforico, della follìa che accade di sentire in Deleuze…), con quelle "verità" inafferrabili, oscure, del mondo che avvertiva interessare spesso più la religione che non la scienza, con il dolore del mondo, e insieme, ma vorrei dire anzitutto, con la meraviglia e l'amore per il mondo, che esprimeva in un certo suo modo di sorridere, e ogni tanto affidava anche esplicitamente, uscendo dal suo pudore "anglosassone", alle parole: "la matematica, la storia naturale, l'estetica e anche la gioia di vivere e di amare: tutte contribuiscono a dar forma a quel sogno" (quale sogno? vedere Dove gli angeli esitano, p. 272, che senz'altro ce l'avete sottomano, e che qui l'ho fatta già troppo lunga: è da lì, da quel "sogno", che sento l'esigenza di ripartire quasi daccapo, oggi).
Data: 13 gennaio 2011
Inviato da: Giovanni Villani (chimico)
Riguardo alla questione delle specifiche discipline e del loro fondamento, oggigiorno in ambito scientifico si verificano due fenomeni per certi versi opposti. Da un lato, lo specializzarsi sempre più del lavoro crea divisioni su divisioni portando alla nascita di sotto discipline scientifiche sempre meno ampie; dall'altro, alcuni campi di lavoro pretendono di essere nuove discipline, se non di sostituire del tutto le vecchie discipline. Esempi, noti anche al vasto pubblico, possono essere quelli di Scienza dei Materiali, Scienza Ambientale, ecc., campi in cui le vecchie discipline, quali fisica, chimica, biologia, ecc., entrano sicuramente in maniera determinante, ma mescolate in maniera tale che, secondo alcuni, sono praticamente fuse a creare qualcosa di nuovo.
Io credo che una disciplina scientifica non rappresenti solamente una divisione della scienza in funzione dell'argomento studiato, ma incorpori in sé un approccio, un modo tutto suo di studiare quell'argomento. È una prospettiva da cui guardare dei "pezzi di mondo" che sono di per sé sempre interdisciplinari. È questo approccio che differenzia le varie discipline, più che l'argomento di studio in sé. È infatti possibile trovare argomenti uguali studiati in modo diverso da varie discipline. Tale analisi sulle discipline consente da un lato di capire l'importanza della divisione della scienza, la sua "pluralità", dall'altro consente di sottolineare la non arbitrarietà di tale divisione, aspetto difficile da contestare se tale differenziazione fosse dovuta solo all'argomento studiato. Consente anche di respingere l'attacco odierno alle singole discipline scientifiche, considerate come dei reperti storici che, magari, hanno avuto una funzione in passato, ma che ora hanno esaurito il loro compito e sopravvivono solo come distinzioni in funzione di finanziamenti alla ricerca e posti di lavoro. Resta comunque aperto il problema se tutte le discipline (e le sotto discipline) attuali possano aspirare a tale diversificazione.
In un'ottica riduzionista, le discipline intese come differenti ambiti di interesse scientifico, hanno un significato molto ristretto. Se invece si accetta una visione del mondo fatta di differenti livelli di complessità [G. Villani, Complesso e Organizzato. Sistemi strutturati in fisica, chimica, biologia ed oltre (Franco Angeli, 2008)] allora anche la divisione della scienza "per argomento" acquista un valore diverso. Rivisitiamo un po' questa visione per capire meglio l'esistenza di molte discipline scientifiche autonome in questo senso. Partendo dal microscopico e procedendo verso il macroscopico, abbiamo che la realtà è divisibile nel livello dei quark e delle altre particelle elementari, delle particelle subatomiche (quali protoni, neutroni ecc.), degli atomi, delle molecole, degli oggetti o delle cellule, dei tessuti, degli organi, degli individui. Procedendo oltre, e considerando le categorie concettuali umane e sociologiche, differenti piani di complessità sono i gruppi sociali, le classi, i popoli, le nazioni. Proseguendo invece tra gli oggetti inanimati, ed entrando in ambito astronomico, enti sono i pianeti, le stelle, le galassie. In ogni livello di complessità, esistono degli enti la cui esistenza giustifica quel livello e le cui proprietà e trasformazioni, intese in senso lato, permettono di capire lo stato e il divenire in quello ed in altri livelli di complessità. Questo, storicamente, ha portato alla nascita di specifiche discipline scientifiche. Per esempio nel livello molecolare di complessità gli enti sono le molecole, e con le loro proprietà e trasformazioni (reazioni chimiche) la chimica spiega tanto gli eventi del mondo microscopico quanto di quello macroscopico. La disciplina scientifica che fa capo al livello di complessità molecolare è, quindi, la chimica.
La scienza che viene fuori da questa analisi non è un corpo monolitico, ma articolato in più discipline, unificato dall'essere ricerca razionale, impresa umana, sforzo di capire noi e quello che è fuori di noi. È, insomma, una scienza pluralistica e "più umana".
Data: 24 febbraio 2011
Inviato da: Luigi Catzola (ingegnere sistemico)
A mio avviso, il tema proposto in questa seconda conversazione pone varie questioni e interrogativi che sarebbe interessante affrontare coi canoni del pensiero complesso. Proverò, ad approcciare brevemente la seguente questione: "Se la conoscenza è un processo, come fare per costruirla e per viverla in modo sistemico? E come fare per rendere un tale processo patrimonio collettivo"?
Prendendo spunto da Marcello Sala e Marcello Cini, potremmo, forse, concordare col sintetizzare il concetto disciplina come "un principio di controllo della produzione del discorso, un modo di stabilire e percepire confini del tutto soggettivi, seppure in un contesto di consensualità". Significa anche dire che esistono osservatori diversi che concordano su alcune prospettive di osservazione di un complesso di conoscenze che hanno una loro delimitazione.
Ogni disciplina ha alla propria base una sua epistemologia e questo porta il mio pensiero a ricordare quel che intende Bateson per Epistemologia: "Definisco dunque l'Epistemologia come la scienza che studia il processo del conoscere, l'interazione tra la capacità di rispondere alle differenze da una parte e, dall'altra, il mondo materiale in cui queste differenze hanno origine." (Bateson - "Dove gli Angeli esitano" 1989 pag. 39, Adelphi).
La definizione di Bateson è una definizione sistemica. È sistemica perché vede l'epistemologia come un processo dinamico di interazione tra osservatore e ambiente. Inoltre, è sistemica anche perché tale interagire modifica entrambi i soggetti in un processo che non solo è dinamico ma è anche ciclico, autoreferenziale.
Alla pagina 40 egli introduce il concetto di epistemologia con la e minuscola: "Ogni individuo umano, anzi ogni organismo, costruisce le sue conoscenze secondo abitudini personali, e ogni sistema culturale o scientifico favorisce certe abitudini epistemologiche. Questi sistemi individuali o locali, sono qui indicati con la e minuscola".
Ecco che le singole discipline ci portano inevitabilmente verso una epistemologia locale, quella con la e minuscola. Cosa dobbiamo fare del nostro sapere per ampliarlo, non in 'quantità' ma in qualità, e renderlo sistemico per aprire le nostre diverse epistemologie locali e arrivare ad una epistemologia con la E maiuscola? Proverò ad accennare una brevissima risposta non avendo molto spazio disponibile.
Credo, che occorra innanzitutto acquisire la consapevolezza che le nostre conoscenze disciplinari hanno tutte le loro premesse epistemologiche locali, bisognerebbe conoscerle ed esserne padroni. Credo, poi, sia necessario tendere, da princìpi e premesse locali, verso princìpi primi universali: significa aprire sé stessi verso un modo nuovo di fare conoscenza che da un lato dia valore ad una conoscenza costruita dai legami sistemici e unificanti delle varie discipline e dall'altro ambisca a traguardare i livelli "meta" della conoscenza. Come dice Sala, seguendo il pensiero di Morin, "co-costruire conoscenza". Bisogna tornar bambini, o almeno mantenere in vita quel bambino che continua a stare in noi capace di liberarsi delle premesse locali per acquisire le diverse prospettive di visione che vengono dalle varie discipline. La conoscenza sistemica è una gestalt emergente da un lavoro di co-conoscenza. Ma, per arrivare a ciò è necessario almeno avere la capacità di capire le diverse prospettive di visione, di analisi e di comprensione delle varie epistemologie locali che competono alle varie discipline. Occorre acquisire le diverse capacità di contestualizzazione tipiche dei vari saperi e dei diversi modi di fare conoscenza. Occorre tornare a programmi di formazione che prediligano l'emergere del metodo invece che l'acquisizione della nozione. Tornare al "greco e al latino" invece che al tecnicismo dell'uso di una qualunque tecnologia. Deve 'emergere' il metodo, anzi i metodi, nella nostra conoscenza. Solo acquisendo la capacità di contestualizzare insieme le varie prospettive possibili (co-contestualizzare?) potremmo ambire a orientare la nostra conoscenza verso i princìpi primi e universali e sperare, così, anche di viverla rincorrendo una verità.
… uhm … Eterna?
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Prima Conversazione
"Stili e Pensieri Sistemici"
Data: 23 aprile 2010
Inviato da: La Redazione di Riflessioni Sistemiche
A distanza di qualche settimana dalla pubblicazione del N° 2 della rivista Riflessioni Sistemiche, ci sembra giunto il momento di avviare lo spazio Conversazioni nel sito internet della nostra Associazione. Invitiamo quindi lettori ed autori a farci pervenire un proprio commento circa le somiglianze e le differenze riscontrate fra i vari saggi, così come le riflessioni che sono emerse dalla loro lettura. Chi decidesse di aderire al nostro invito può spedire il proprio intervento (non più di 600 parole) utilizzando l'indirizzo di posta elettronica della nostra associazione (info@aiems.eu) e indicando come oggetto della mail “contributo a Conversazioni"
Data: 23 aprile 2010
Inviato da: Tommaso Castellani (fisico )
Sul riduzionismo come metodo. Il riduzionismo come metodo conoscitivo è non solo alla base della scienza moderna, ma è anche uno dei capisaldi del pensiero occidentale. Si può naturalmente rimettere in discussione l’intero pensiero occidentale, a partire dalle premesse: la mia attuale posizione – in senso letterale: seduto sul mio comodo divano in una casa accogliente davanti al mio personal computer, al riparo dal freddo umido di questa giornata – non credo però che mi consenta di farlo con leggerezza. Il pensiero occidentale, che si porta dietro una serie di brutture e aberrazioni, ha comunque prodotto un innegabile progresso. Ritengo urgente e necessario discutere di queste brutture e aberrazioni e di come riportare questo progresso su dei binari che l’umanità intera possa considerare più giusti, mentre non sono interessato a una rimessa in discussione tout court del pensiero occidentale. Il riduzionismo nasce con una delle grandi intuizioni di Galileo: separare un singolo fenomeno dall’insieme. Galileo, superando il linguaggio metaforico e allusivo che caratterizzava gli studiosi di epoca rinascimentale, si rende conto dell’importanza di definire dei limiti entro i quali operare. Osservazione cruciale: isolare un fenomeno non significa “spezzettare” la realtà. Isolare un fenomeno significa poterlo riconoscere identico in un contesto completamente differente. Quando Newton formula la legge di gravitazione universale e mostra che un aspetto dei fenomeni “palla” e “pianeta” può essere studiato con un’unica descrizione, compie un’unificazione. Quando con una sola legge (l’equazione delle onde) studiamo il mare, il suono, un terremoto o la luce, stiamo usando uno stesso modello per descrivere fenomeni che non hanno, in apparenza, nulla in comune. È proprio il riduzionismo metodologico che permette di connettere le diverse parti della realtà. Galileo si spinge però oltre, e arriva ad affermare che l’universo “è scritto in linguaggio matematico”. Ecco che il “riduzionismo metodologico” sta diventando “riduzionismo ontologico”. Come scrive Marcello Cini, il riduzionismo è un processo conoscitivo in cui la mente “proietta le sue categorie sulla realtà per ordinarla estraendone oggetti e relazioni”. Quello che ho chiamato “riduzionismo ontologico” è l’attribuire questa possibilità a una proprietà instrinseca della realtà e non della mente umana. Considero questo un errore, anche se ripercorrendo la storia dei grandi progressi scientifici dal XVII al XIX secolo ritengo sia un errore ben comprensibile. Sono in particolare i grandi successi della termodinamica e dell’elettromagnetismo che inducono gli scienziati a lasciarsi prendere la mano e a elaborare (o rielaborare) una serie di discutibili idee metafisiche sulla realtà: meccanicismo, determinismo, costruttivismo, ecc. Ma queste tre idee filosofiche non sono implicitamente contenute nel riduzionismo metodologico. Per fare alcuni esempi: nella moderna fisica dei sistemi complessi, ambito nel quale ho fatto ricerca per alcuni anni, si studiano i sistemi descritti da relazioni complesse tra le parti, per cui bisogna tenere in considerazione tutti i feedback che le parti del sistema si scambiano tra loro. Questi sistemi sono descritti in maniera del tutto meccanicista e sono studiabili con equazioni la maggior parte delle quali sono completamente deterministiche. L’approccio metodologico è assolutamente galileiano. L’equazione di Volterra citata in uno degli articoli dell’ultimo numero della rivista, che descrive la dinamica delle popolazioni, è dello stesso tipo. Stessa cosa vale per il citatissimo (talvolta a sproposito) “effetto farfalla”: non a caso si parla di caos deterministico. Non si confonda l’oggetto dello studio (un sistema complesso) con il metodo con cui lo si studia (isolare una caratteristica semplice del sistema). L’entusiasmo per i successi delle scienze “dure” ha nel secolo scorso indotto ad applicare con troppa leggerezza il metodo da esse utilizzato in ambiti nuovi: psicologia, medicina, antropologia e via dicendo. Mi pare giusto mettere in evidenza l’importanza di un approccio più cauto per affrontare oggetti di studio così complessi; senza dimenticare però che in molti campi, compresa a mio avviso gran parte della biologia, il riduzionismo metodologico continua a produrre i suoi frutti. Se negli ultimi decenni è venuto talvolta a mancare un lavoro successivo di sintesi, la causa va a mio parere ricercata nell’organizzazione “industriale” della comunità scientifica e non in un errato approccio metodologico.
Data: 30 aprile 2010
Inviato da: Nicolò Addario (Sociologo)
A proposito di riduzionismo. Chi segue o partecipa al dibattito internazionale multidisciplinare che da parecchi decenni si tiene su riduzionismo e emergentismo sa bene che non è in questione tanto il metodo che di fatto ha fondato le scienze moderne assicurando loro il successo che tutti conosciamo. E' in questione, piuttosto, l'interpretazione del metodo e, soprattutto, se questo sia valido (ed eventualmente fino a che punto) pur tutti i livelli di realtà, dalle particelle subatomiche fino alla vita, alla mente e alla società. Tra l'altro ultimamente il dibattito ha avuto un nuovo impulso proprio dalla teoria dei sistemi complessi. E' vero che in molti casi il metodo resta riduzionista (che spesso significa: determinista, almeno in chiave probabilista). E' tuttavia anche vero che si possono ipotizzare sistemi complessi che sono indeterministici nei risultati: non si sa quale sarà lo stato finale (temporaneamente stabile) del sistema a seguito di una piccola perturbazione iniziale. Questo pone interessanti problemi proprio perché il sistema sembra comunque in grado di "auto-organizzarsi" intorno ad un "attrattore" che ha autogenerato. Questo può offrire alcuni spunti a proposito dei diversi livelli di realtà che si sono formati a partire dall'auto-organizzazione della materia. La vita, per esempio, non è spiegabile in termini meramente fisici, pur presupponendo (evidentemente) la materia e le leggi fisiche. Una volta che da una particolare auto-organizzazione della materia si sono formati i primi circuiti biologici e questi hanno dato origine alle forme viventi, la vita non deve più ogni volta riscoprire le leggi e i processi che gli hanno dato forma. La vita si riproduce, semplicemente, dalla vita stessa e mediante evoluzione (che non è spiegata affatto dalla fisica, sebbene la presupponga e la sfrutti per i suoi fini). Dunque, una volta che a partire da certi presupposti un nuovo livello di realtà emerge, ciò significa che questo livello ha trovato in sé stesso, nei suoi processi e nella sua struttura, i modi per mantenersi e per evolvere una complessità propria. Questo non significa che esso produce tutte le sue cause, ma soltanto quelle che esso stesso determina come tali, mentre le altre, per così dire, se le procura all'esterno e le usa come presupposti degli elementi e dei processi che sono del suo stesso livello (si pensi al cibo). La biochimica della vita, insomma, si serve di materia-energia, ma questa di per sé non spiega l'organizzazione del vivente (che infatti potrebbe essere anche d'altro tipo), per esempio i modi della riproduzione che, fatti salvi i vincoli fisici (incorporati), va spiegata al livello del vivente (individui, popolazioni ecc.). A maggior ragione questo vale per la mente e per la società.
Data: 25 agosto 2010
Inviato da: Mario Gentili (Matematico)
Mi piace pensare al riduzionismo, utilizzando la metafora della mia vita, come un periodo scolastico di insegnamento, confronto, dibattito e crescita, senza il quale adesso non starei qui a scrivere queste riflessioni. L’età adolescenziale e la cultura scolastica relativa sono state le pietre miliari per acquisire la capacità di critica, di valutazione e quei stimoli di crescita evolutiva che oggi ci permettono di ragionare sui temi della complessità. Per cui non starei qui a disquisire se è l’approccio riduzionista oppure un altro tipo di approccio (non necessariamente complesso) quello da prendere a riferimento. Mi piace invece pensare al riduzionismo come il seme dal quale è nata la pianta della complessità. Questo perché anche in un processo di crescita ed evolutivo come quello sistemico, prevede i suoi bravi momenti di verifica e validazione, da una parte, e i suoi feedback, dall’altra, in cui strumenti e meccanismi del riduzionismo ancora hanno la loro valenza. D’altronde, lo sviluppo adattivo ed autopoietico dei sistemi complessi, che noi al momento non sappiamo catalogare o ricondurre a scenari noti, bene rappresenta la continua lotta tra il principio dell’emergenza di cui Kurt Lewin ha fatto il suo cavallo di battaglia e quello apparentemente repressivo dell’imposizione che però è alla base delle organizzazioni e delle società moderne, come sapientemente ha evidenziato Edgar Morin nella sua saga dei Metodi. A questo punto vorrei addirittura cimentarmi in un sofismo… e se cominciassimo a considerare il riduzionismo come una scienza la cui spiegazione si può raggiungere solo attraverso la meta-scienza della complessità? D’altronde Godel non aveva certo l’obiettivo di distruggere tutta la logica matematica al suo tempo nota, ma quello di costruirne una superiore. Per usare ancora una metafora, aveva l’esigenza di salire su un balcone dal quale era possibile vedere, e non distruggere!, quello che accadeva di sotto. Le dinamiche di una casbha o di un mercato rionale, non si possono descrivere fin quando si è al suo interno, bisogna avere il coraggio di salire sulla terrazza e l’intuizione di scegliere quella con la giusta “vista”. Per concludere, il riduzionismo fa parte della nostra storia e cultura e come tale va considerato: come una fase della vita dell’umanità che matura, evolve e si apre ad esperienze sempre più sfidanti anche in assenza, almeno apparente, dei forti vincoli religiosi e sociali con cui Cartesio, Newton e Galileo dovettero invece scontrarsi.