Il silenzio di Petra.
Una singolare prospettiva nella diagnosi transculturale.
Una singolare prospettiva nella diagnosi transculturale.
Tarcisio Merati, senza titolo, serie “macchinetta trombetta"
Pietro Barbetta
Insegna Psychodynamic Theories presso il Corso in Clinical Psychology for Individuals, Families and Organizations dell’Università di Bergamo. Direttore dell'International School of Systemic Therapy. Il suo ultimo libro si intitola Linguaggi senza senso. Clinica transculturale, Meltemi, 2023. Sta scrivendo un libro su Antigone Borderline, in uscita il prossimo anno per l'editore Orthotes..
Sommario
Nel seguente saggio definirò l’approccio transculturale alle diagnosi. Il campo sistemico rifiuta la diagnosi come abusiva verso il “paziente designato”. Alcuni terapeuti familiari riscoprono la “diagnosi relazionale”. Dietro queste pratiche c’è l’idea di “struttura di personalità” o “struttura familiare”. È intenzione di questo lavoro introdurre una pratica diagnostica differente fondata sull’idea che dia-gnosis crea differenza che crea una differenza.
Parole chiave
diagnosi, TAT, serie cliniche, singolarità.
Summary
In the following essay I define a transcultural approach to diagnosis. The systemic field rejects diagnosis as an abusive way of labeling the “identified patient”. Some family therapists recovered diagnosis as “relational”. Nonetheless, behind this practice still there is the idea of “structure of personality” or “structure of family”. My proposal is to introduce a practice based on dia-gnosis as practice of difference.
Keywords
Diagnosis, TAT, Clinical Series, Singularity.
Epistemologia, il punto di vista dell’altro
Per anni l’approccio sistemico ha rifiutato la diagnosi, non a torto. La diagnosi era pensata come una pratica di stigma. Più recentemente molti terapeuti familiari sono caduti nell’ingenuità di proporre la “diagnosi relazionale”, una ripetizione, a livello delle relazioni, della conclusione strutturale diagnostica di un esperto supposto sapere. Dietro queste visioni della diagnosi c’è un modello strutturalista chiuso. Può essere un modello biologico, fenomenologico o familiare, ma è chiuso. Si passa dalla “struttura di personalità”, alla “struttura relazionale” o “familiare”. Si può concepire la questione diagnostica in termini di invischiamento nella struttura familiare, triangoli perversi, giochi psicotici, polarità semantiche o trame narrative prestabilite. In ognuna di queste concezioni cliniche permane l’epistemologia lineare dell’intervento esperto e riparativo di un quadro strutturato, diagnosticato da un soggetto supposto sapere, esterno alla relazione, neutrale. In questa prospettiva strutturalista, la teoria generale domina la pratica clinica e la rende autoritaria, oppressiva, si tratta di verificare l’ipotesi diagnostica a partire da premesse indiscutibili, incastrando il “paziente” nel modello teorico di riferimento.
Nell’approccio sistemico trans-culturale – e nella tradizione antropologica che proviene da Gregory Bateson (1979) – la diagnosi è unità necessaria, accoppiamento strutturale (Maturana, Varela, 1980), non è giudizio esperto di un perito in materia, piuttosto è l’idea che dia-gnosi significhi conoscenza attraverso, trans-azione da una posizione a all’altra. Foucault (1977), sostiene che conoscere significa prendere posizione; in questo caso, direi che dia-gnosticare significa attraversare, trasformare la realtà clinica del soggetto.
Nella visione costruttivista, potremmo ritenere la diagnosi un oggetto di transizione, qualcosa che permette l’uscita dalla simbiosi con il sintomo, fa crescere il novero delle scelte possibili (Foerster, 1987), dà impulso vitale alla terapia. La diagnosi, nel processo terapeutico, più che un giudizio, va pensata come una grazia; non è solo percorso conoscitivo, è pratica trasformativa. Nella tradizione che prevede una corretta traduzione dell’opera di Freud (1985), la diagnosi è percorso esistenziale: “Là dove si era, devo diventare” (“Wo es war, soll Ich werden”); un procedimento congiunto tra il terapeuta e la persona che frequenta le sedute di terapia.
Si tratta di comprendere quanto diagnosi e psicoterapia, in questo senso, si sovrappongano: non sono allora la stessa cosa? Penso che dipenda dalla domanda del soggetto che frequenta le sedute. Ci sono persone che si presentano in modo enigmatico, si domandano che cosa accada alla loro vita, oppure se quel che accade loro non dipenda da un quadro patologico specifico, da un elemento che non comprendono, o che appare difficile da cogliere attraverso la sola conversazione terapeutica.
In questi casi il percorso terapeutico può essere composto da un modulo diagnostico richiesto dal soggetto: “che cos’ho?”, “che cosa mi accade?”. Non si tratta di fare una diagnosi preliminare a un tipo di trattamento, si tratta piuttosto di introdurre, dentro la relazione terapeutica, una componente dia-gnostica, una transizione nel percorso. Potremmo ritenere la relazione diagnostica come una transizione dalla condizione sintomatica verso il desiderio che porta il soggetto a frequentare la terapia.
Nell’approccio qui proposto, orientato alla cibernetica di second’ordine (Maturana, Varela, 1980, Prigogine, Stengers, 1992), gli organismi – in chimica, biologia e nelle relazioni umane - sono strutturalmente aperti al cambiamento. La formulazione della dia-gnosi è quindi, come in ogni ipotesi genuinamente scientifica, da falsificare, non da verificare. La diagnosi produce proposte che, quando formulate, sono già fonti di cambiamento. Se gli organismi viventi sono strutturalmente aperti, significa che le loro strutture sono dissipative. Nel caso della condizione umana è necessario che la diagnosi attraversi il desiderio di cambiamento del soggetto; diagnosi relazionale non vuol dire diagnosi sulla relazione, ma diagnosi nella relazione; un’ipotesi che si gioca dentro la relazione con l’altro.
Ontologia, le realtà del sintomo
Oltre la riflessione epistemologica, c’è la questione ontologica. Ontologia, in filosofia, è la modalità in cui l’ente (ón) si presenta, la condizione di possibilità dell’ente, dell’esistenza. Se l’epistemologia, l’approccio con cui si osserva il mondo, è importante, il costruttivismo non ha mai negato la realtà del vivente. Il costruttivismo non è relativismo, ma prospettivismo. Il problema è la modalità con cui la realtà è osservata e quale parte della realtà si considera, per esempio, nella pratica clinica. Non si tratta solo di una acquisizione cognitiva, la consapevolezza non basta, si tratta di meta-noia, cambiamento esistenziale intenso; una svolta nella vita del soggetto.
La famiglia è un’area di relazione importante, ma la prospettiva clinica non si può ridurre all’ontologia del triangolo familiare mamma-papà-figlio. Le differenti forme della convivialità, le comunità di appartenenza, le abitudini consolidate, le esperienze storico-sociali attraversate dal soggetto, le religioni, le discriminazioni etniche, razziali, gli orientamenti sessuali, le disintegrazioni esistenziali, le disgregazioni dei tessuti sociali urbani e comunitari non possono essere trascurati dall’ontologia dei terapeuti, né le condizioni sintomatiche conseguenti a una guerra, uno stupro, o una condizione di maltrattamento e abuso sociale. Questi eventi non possono più essere considerati semplici “latenze” di condizioni familiari di base; i nuovi sintomi mostrano, in filigrana, le forme del potere: sopraffazione, dominio, egemonia.
I sintomi con cui andiamo a confrontarci, vanno ben oltre la famiglia, investono razze, continenti, religioni, politiche (Deleuze, Guattari, 1979). Per questa ragione, il lavoro sui diritti umani (Barbetta, Scaduto, 2020) e la riflessione etnoclinica (Barbetta, Finco, Rossi, 2018) non possono essere trascurati o evitati. Nei “minuti particolari” (Bateson, 1976, pag. 493), l’impegno del terapeuta assume valenza politica e sociale, non si tratta di neutralità. Come in sociologia non c’è una struttura economica di base che determina la sovrastruttura culturale, così in psicologia non c’è una struttura familiare di base che determina la sovrastruttura esistenziale e comunitaria.
Se non c’è un’ontologia della famiglia, non c’è neppure un’ontologia della cultura, né un’ontologia del soggetto. Al familismo - psicoanalitico e sistemico - si è sostituito, soprattutto nel mondo anglosassone, il culturalismo - sistemico o psicoanalitico. Si sostiene che le diversità siano rigidamente legate alle culture e alle comunità di appartenenza e che, per affrontare queste diversità, sono necessarie formazioni specialistiche, che possono acquisire solo terapeuti che appartengono alla cultura di riferimento. Io, per esempio, poiché sono italiano, sarei un buon terapeuta con pazienti italiani, che appartengono a comunità italiane all’estero. In questi casi, il termine diversità si oppone al termine differenza. Diversità si riferisce a categorie – di persone, di razze, di classi sociali, di genere, di patologie, ecc. – mentre differenza si riferisce ai minuti particolari (Bateson, Ivi). I dettagli emergenti nella relazione terapeutica, le piccole differenze, si manifestano nell’evento, non sono già presenti prima, emergono après coup, momento per momento. All’opposto, le diversità sono già definite a priori: i bianchi sono diversi dai neri, le donne dagli uomini, i cristiani dai musulmani, gli europei dagli extracomunitari, ecc. Siamo di fronte a due ontologie opposte: la prima vede il mondo come un essere pre-definito, la seconda come un divenire, sempre mutevole.
Oltre al familismo e al culturalismo, c’è una terza, forse più radicale, questione ontologica. La domanda da porre è se esista qualcosa come un soggetto (qualcosa che sta sempre sotto), fonte di espressione delle emozioni, oppure – capovolgendo la questione - se non sia l’espressione dei sentimenti che, in modo performativo (Butler, 2009), crea forme di identificazione mutevoli, sempre in trasformazione.
In clinica, abbiamo sempre pensato al soggetto come entità stabile, ora la domanda è: il soggetto - come vorrebbe il termine sub-jectum - è tale, oppure è l’affezione che soggettivizza? (Spinoza, 2014).
In questo secondo caso viene prima la relazione, il soggetto è il prodotto della relazione.
La visione costruttivista propone un’ontologia del divenire, che mette al primo posto l’espressione di un affetto: l’incontro con l’altro mi affeziona, l’espressione del mio affetto mi rende soggetto. All’Essere subentra il divenire (Cecchin, Barbetta, Toffanetti, 2006, Deleuze, Guattari, 2003). È l’espressione che crea soggettivazione, non il soggetto che si esprime. Dobbiamo dunque analizzare le espressioni. Ogni espressione può essere dominante oppure dissidente, l’espressione è sempre nella relazione con l’altro. Incontro l’altro e vengo affezionato; questa affezione può accrescere o ridurre, momento per momento, la mia esperienza esistenziale, la mia voglia di vivere, ciò che Humberto Maturana e Francisco Varela (1980) chiamano viability. Posso venire incoraggiato, oppure mortificato, ciò avrà conseguenze sulla mia esistenza futura, è dunque il potere dell’altro a creare la mia soggettivazione, come autonomia o come sottomissione.
Come organismo autopoietico, ogni essere vivente, possiede una chiusura organizzativa e un’apertura strutturale (Maturana, Varela, 1980). Il processo di patologizzazione potrebbe essere osservato come una sfida alla chiusura organizzativa, accade quando l’apertura strutturale del vivente viene irrigidita. Quando la struttura diventa rigida, l’organizzazione diventa fragile. Per illustrare questa questione chiave dobbiamo declinare la nostra riflessione in rapporto alla singolarità, analizzando le situazioni cliniche con maggiore dettaglio.
Un’appercezione sistemico/transculturale
In ambito diagnostico, possiamo usare alcuni strumenti clinici esistenti, come per esempio i test proiettivi, soprattutto quei proiettivi che lasciano ampi margini di lettura, come per esempio il Test di Appercezione Tematica (TAT, Murray, 1994). Tempo fa abbiamo iniziato una ricerca impegnata a individuare le matrici culturali della diagnosi (Barbetta, Gaspari, 1998, Barbetta, 2003, Barbetta, 2023). La ricerca era orientata anche all’uso transculturale del TAT. Questo reattivo è composto da una serie di immagini. Si chiede a chi le osserva di raccontare una storia per ognuna e, nel nostro approccio, le storie raccontate sono registrate o videoregistrate.
Il TAT è stato usato nella ricerca sulla Personalità autoritaria (Adorno, 1973) negli Stati Uniti da parte di un gruppo di psicoanalisti, psicologi sociali e sociologi, sotto la guida di Theodor Adorno. In quel caso, si trattava di proporre il TAT per osservare se l’orientamento xenofobo, antisemita e fascista diffuso tra gli uomini nel Nord America fosse influenzato dall’autoritarismo paterno in famiglia.
La ricerca di Adorno e colleghi non è esente da limiti storici e di contesto. Il primo limite di quella ricerca è la proposta di un modello rigidamente psicoanalitico-marxista, basato sugli studi sull’autorità e la famiglia di Max Horkheimer (1976). Tuttavia il TAT, se usato con curiosità, insieme al soggetto che frequenta le sedute, è uno strumento bellissimo, molte delle sue immagini sono opere artistiche e, il fatto che provengano da autori del Novecento, dà oggi, al reattivo, uno straordinario potere evocativo.
Se si abbandona l’idea ontologica di “struttura chiusa” e la concezione epistemologica di modello generale – cognitivista, psicoanalitico o sistemico - che spiega la psicopatologia – ancora largamente presente nella ricerca di Adorno e collaboratori - si colgono le caratteristiche di un profilo singolare che - come nelle premesse di Werner Karl Heisenberg - si trasforma quando attraversa lo strumento di osservazione. Siamo in un orizzonte analogico; per i fisici osservare un elettrone richiede un’energia luminosa che ne modifica la posizione, per i clinici osservare una sensazione affeziona la sensazione stessa, producendo un affetto che la modifica.
In questo senso, il termine “serie” (Deleuze, 2014), sostituisce il gergo clinico di “caso”. Il termine “caso” dà l’idea di una storia conchiusa, definita, come un orto nel chiostro, bello ma controllato sotto tutti gli aspetti. “Serie” – termine che fa coincidere singolare e plurale - dà invece l’immagine di un orizzonte aperto, come la vita, in-concludente, dunque flessibile e influenzabile; l’osservazione getta una luce sulla condizione clinica, questa luce introduce, nella condizione clinica, un elemento differenziale. Si tratta di un’approssimazione asintotica verso il punto di arrivo, senza mai raggiungerlo, come nel calcolo infinitesimale.
Il gruppo di ricerca (Barazzetti, Barbetta, Bella, 2015) ha attivato interventi clinici indirizzati a individuare - per esempio - le serie del sintomo omofobico in un giovane uomo terrorizzato all’idea di essere omosessuale, contro la propria volontà. In un’altra serie, il TAT ci ha aiutati a far riemergere, in età adulta, il trauma adolescenziale di una donna originaria della Repubblica Ceca, che, quarant’anni prima, aveva vissuto, con la sua gente, l’invasione della Cecoslovacchia (Barbetta, 2014).
La serie di Adolfo.
Il primo caso emerge dalla descrizione di un’immagine del TAT che raffigura uomini sdraiati in un campo, nell’apparente posizione di riposo. Il giovane descrive gli uomini come individui stranieri – marocchini o albanesi – che minacciano un ragazzo che si vede di spalle, che – nella descrizione dell’osservatore - sta passando di là in bicicletta, senza alcuna intenzione offensiva.
Durante il colloquio clinico che segue alla somministrazione del proiettivo, Adolfo, così lo abbiamo chiamato, descrive il proprio corpo come flaccido e poco mascolino, racconta di percepire lo scherno dei maschi coetanei, più muscolosi, che attraggono le ragazze; sostiene che le ragazze da cui è attratto lo snobbano, frequentando altri maschi, fisicamente più prestanti (Barazzetti, Barbetta, Bella, 2018). Emerge che il disturbo fobico per gay e stranieri non è altro che l’estraneazione del proprio corpo, che Adolfo disprezza. L’omofobia si trasforma in dismorfofobia: se ho il corpo flaccido, non mascolino, allora sono omosessuale, ma è proprio questo che mi terrorizza, ciò che mi rende fobico.
Le serie di Liuba.
La storia di Liuba invece nasce, o riemerge, quando, a cinquantaquattro anni, subisce mobbing nell’azienda per cui lavora. Liuba ha un accento straniero e, come ho scritto di recente (Barbetta, 2023), l’accento crea discriminazione, la lingua diventa schiava. Benché all’apparenza non accada nulla, la lingua schiava è oggetto di sguardi sprezzanti, di atteggiamenti di scherno, di ridicolizzazione. Il mobbing aziendale consiste in un demansionamento per indurla a licenziarsi, Liuba non sta simpatica agli italiani che lavorano con lei. Il trauma dimenticato - quando Liuba aveva quattordici anni - riemerge sotto forma di delirio somatico, somiglia a una psicosi catatonica. Liuba si blocca mentre si muove – per esempio mentre sciacqua i panni nel catino - diventando marmorea; né il compagno, né il figlio, riescono a sbloccarla.
La controversia diagnostica consiste nel discutere, tra psichiatri e psicologi, se i sintomi siano prodromi di schizofrenia, oppure conversione isterica. Secondo la teoria del vincolo psichico, il corpo mantiene una memoria di lunga data, implicita, del trauma, che può riemergere in condizioni di déjà-vu. La donna, che nel 1968 stava iniziando le scuole superiori, aveva visto i carri armati sovietici entrare nel paese di origine. Liuba rivive un doppio tradimento: quello del regime invasore, che le vieta di studiare arte – la sua passione - per punire il padre dissidente, ma anche il tradimento del padre che, se non fosse stato dissidente, non sarebbe stato punito e le avrebbe permesso di andare avanti a studiare, anziché venire costretta a lavorare. Dopo avere consultato i due pareri diagnostici descritti sopra – schizofrenia catatonica o isteria da conversione - Liuba chiede di scoprire che cos’ha: è schizofrenica, come ritengono alcuni psichiatri, oppure sta attraversando un episodio isterico, come ritengono altri esperti?
Il ricordo dei carri armati emerge a partire da un’immagine caotica del TAT; sembra raffigurare persone in lontananza, con bestiame, mentre attraversano un ponte, su un ciglio montuoso, sotto un cielo coperto. È un’immagine volutamente inquietante. Davanti a questa immagine, Liuba inizia a sentire l’odore dei carri armati. Lo stesso odore, lo ha sentito, dice, anche durante l’ultimo episodio sintomatico, mentre era andata a trovare la sorella in Repubblica Ceca. Ma che odore hanno i carri armati? Ho la stessa età di Liuba, ma non conosco l’odore dei carri armati, non ho questa esperienza. Liuba lo sa, li ha incontrati e hanno invaso le sue narici e quelle del suo popolo, durante quei giorni del 1968.
Dopo il percorso attraverso il TAT, la donna – che nel frattempo aveva avviato una causa di mobbing in Italia - inizia a frequentare una scuola d’arte e i deliri somatici si dissolvono, riesce a ottenere un indennizzo per il danno da mobbing e durante l’ultimo incontro mostra il disegno che propone di inserire nella tavola bianca del TAT*: un funambulo che cammina su una corda curva. È ancora fresca nella sua mente l’ultima scena del film Still Life di Jia Zhangke - in cui un uomo cammina in equilibrio su una corda - a cui Liuba si ispira nel fare quel disegno, quel film, Still Life, è ambientato tra le macerie di una città della Cina comunista.
La serie di Petra, l’incontro
Incontro Petra, giovane studentessa di Legge; chiede una consulenza su invio di una psichiatra infantile che l’aveva incontrata qualche anno prima. Mi chiama perché soffre d’ansia e la psichiatra, che la seguiva fino a due anni fa, la invia presso il mio studio a Milano, dove lavoro in equipe. Petra nasce vent’anni prima da madre algerina e padre italiano, una coppia mista. La madre, Fatima, viene da una famiglia islamica, il padre, Francesco, da una famiglia cattolica praticante della provincia lombarda. Il nonno paterno si chiama Battistino, come il protagonista dell’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, il nonno materno Mohamed.
I nomi, in questo caso, sono sintagmi significanti; appartengono a due diverse religioni e indicano rispettivamente il santo che ha battezzato Gesù Cristo e il profeta che ha fondato l’islam. Il genogramma ci dice qualcosa che va ben al di là dei classici giochi familiari a là milanese, indica l’unione tra due mondi divergenti, ma simili in intensità. Due mondi fondativi di religioni tra loro in conflitto, simili perché questo conflitto avviene tra due paradigmi radicati in credenze indiscutibili.
Petra nasce da questa unione. La giovane frequenta le sedute in silenzio, mi guarda e piange, non dice nulla. Da lei sappiamo che studia, lavora per mantenersi e condivide una casa a Milano con altre persone, sappiamo che non torna volentieri presso la casa di famiglia, in provincia, che preferisce stare nella grande città. In seduta, durante il primo incontro, racconta i suoi disturbi, le sue fatiche. Anche quando ci sono eventi per lei positivi, come un successo agli esami, o una nuova offerta di lavoro redditizia e piacevole, Petra si emoziona all’eccesso, aumenta le palpitazioni, le gira la testa, inizia a sudare. Si sente sempre “sopra le righe”, anche quando le cose vanno bene. Insomma, Petra – nel gergo della psicologia cognitivo-comportamentale – “funziona bene”, le sue performance sono ottime. Pure chiede di frequentare le sedute di psicoterapia.
Dopo le prime due sedute in cui descrive i sintomi, però, Petra viene agli incontri e resta in silenzio, solo piange. Sembra che vada tutto bene, che non ci sia nulla da raccontare, ma Petra insiste a venire settimanalmente, benché silenziosa e piangente, non manca un incontro. Per alcuni aspetti Petra ricorda l’esperienza raccontata da Betty Friedan (2010) in La mistica femminina; quando, negli Stati Uniti degli anni Sessanta, predomina un modello di famiglia funzionale, sull’immagine delle puntate di happy days, con un marito-padre bread-winner e una moglie madre home-maker, due figli, elettrodomestici, casa con giardino e automobile (Dizard; Gadlin, 1989).
In quegli anni Friedan (Ivi) incontra donne, mogli e madri, che passano il pomeriggio a piangere sedute sul divano del soggiorno, senza sapere perché piangono. Hanno una famiglia perfetta, eppure qualcosa nella loro vita non va, ma non sanno cosa. Perché queste donne sono tristi? Friedan - una delle pioniere del femminismo americano - descrive questa condizione nei termini di un disagio senza nome, una mistica. Così entra in crisi, negli anni Sessanta, la famiglia funzionale nord-americana, in relazione a un disagio misterioso delle donne, un disagio che dà vita al femminismo.
Petra è altrettanto piangente, altrettanto silenziosa. Sembra non avere nulla da raccontare, ma mostra, con l’espressione del volto e con il corpo, una tristezza senza voce. Petra però ha vent’anni, non è madre e moglie; dovrebbe essere spensierata, è alta, bella e sorridente, cambia volto e diventa triste quando è in seduta, quando sa che può permettersi di mostrare disagio. Petra non ha una relazione affettiva permanente, sul lavoro è efficiente, convive con una compagna di appartamento con cui si trova bene e, di tanto in tanto, torna alla casa di famiglia, ma sempre meno, sempre più di malavoglia. Durante gli incontri mi guarda e sembra chiedere: “che cos’ho? Perché piango?”. Così penso di proporle un percorso diagnostico con il TAT, per capire insieme che succede, per vedere se sia il caso di dare un nome a questa condizione mistica.
Il cubo di Necker
Immagine dopo immagine Petra racconta le storie che le vengono suggerite dalle tavole di appercezione tematica, senza mai prendere posizione, senza mai sbilanciarsi. Tra le prime immagini, ce n’è una che mostra una figura di giovane donna con i libri in mano: una studentessa, e, sullo sfondo, un panorama agreste, con una donna appoggiata a un albero e un uomo di spalle, un contadino che lavora e animali che muovono un aratro, presso un campo. La storia di Petra davanti a questa immagine è la seguente: “Questa ragazza guarda la vita tradizionale della sua famiglia, ma va in un altro mondo a studiare. Potrebbe andarci a malincuore, costretta, perché il suo desiderio è restare con la sua famiglia, oppure il suo desiderio è andarsene via a studiare, ma non può, deve restare con la famiglia e seguire le tradizioni”. “Quale delle due possibilità sceglie?” Chiedo, e Petra: “Non saprei, entrambe sono possibili”. Così, immagine dopo immagine, le strategie narrative di Petra creano due o più scenari alternativi equi-possibili, senza mai prendere posizione per l’uno o per l’altro. I suoi racconti somigliano al cubo di Necker: per un singolare effetto ottico, si può vedere la parte davanti e la parte dietro in maniera alternata.
Ogni percetto del cubo è tale da creare una sorta di salto percettivo. Se si guarda il quadrato più basso davanti, il cubo sale verso l’alto, se si guarda davanti il quadrato più alto, il cubo scende verso il basso. Il passaggio da un percetto all’altro è indecidibile e ci pone di fronte a una sorta di discontinuità ottica, non è possibile vedere entrambe le proiezioni nello stesso momento, un po’ come accade nelle storie di Petra, sono inconciliabili, ma equivalenti. È impossibile tenere le parti del racconto dentro uno sola trama narrativa. L’indecidibilità di Petra sembra un’anti-narrativa, l’occorrenza di due storie alternate tra loro incompatibili, inconciliabili, senza sintesi. Un’altra immagine che viene alla mente è quella della sfinge, oppure dell’oracolo di Apollo, che sta a Delfi: “non dice, non nasconde, solo indica.”
Al termine della somministrazione delle immagini, trascrivo ogni racconto e ripropongo le immagini con le stesse parole usate prima, per esempio: “guardando questa tavola…, ha detto…, lo conferma?”, poi formulo ulteriori domande; infine chiedo una valutazione di quanto raccontato e propongo una mia impressione tematica, che discuto con l’équipe dietro lo specchio, soprattutto quando troviamo temi ricorrenti. Nel caso di Adolfo, per esempio, un tema ripetuto è il fastidio per le figure maschili, nel caso di Liuba il tema del tradimento. Ma Petra? Per Petra la ricorrenza sembra legata alla neutralità, all’indecidibilità nell’andamento narrativo delle storie tratte dalle immagini. Insomma, qui l’impressione è che ricorra un enigma, come appunto nella sfinge.
Minacce e proiezioni
Le tematiche cliniche più salienti emergono quando proponiamo a Petra di mettere a confronto il suo genogramma con l’immagine del TAT già descritta. La domanda è “come mai ha creato due scenari – la giovane che desidera andarsene a studiare, la giovane che desidera restare nella tradizione e si sente costretta ad andare a studiare – senza decidere quale delle due storie scegliere?”.
Petra racconta un ricordo d’infanzia: ha ascoltato più volte una conversazione tra la nonna paterna, ultra-cattolica e la madre araba. Fatima, la madre di Petra, avrebbe voluto continuare a studiare, e di fronte al desiderio della madre, dopo la nascita di Petra, la nonna paterna glielo proibì, la minacciò di toglierle le bambine – lei e la sorella – e di allontanarla da casa.
Quando Petra rivela questo evento, di fronte alla mia reazione di interesse, la giovane mi guarda stranita, come se quella storia fosse poco rilevante in relazione al suo silenzio malinconico. Dice che, sì, le prime volte che l’ha sentita si è inquietata, ma poi, siccome la scena si è ripetuta tante volte, non ha dato più peso alla minaccia; è diventata una litania, ogni volta che le due discutevano, ogni volta che la madre rimarcava la grettezza e l’ignoranza della nonna, questa reagiva minacciandola in quel modo.
Petra aggiunge che il padre non aveva mai preso posizione e che la madre aveva rinunciato a studiare a malincuore. Adesso che sono grandi però, il pericolo è scampato, e la mamma ha semplicemente rinunciato agli studi. Durante gli incontri seguenti Petra racconta che la mamma avrebbe voluto tornare in Algeria, studiare letteratura araba, ma che non ha avuto il coraggio di andarsene, che la mamma le ha sempre detto di andare avanti a studiare per poter fare quello che lei stessa non ha potuto fare: laurearsi.
Lo spazio terapeutico si riempie di domande riflessive: se la madre di Petra fosse italiana, o di qualche paese dell’Europa occidentale, questa minaccia sarebbe stata possibile? La suocera avrebbe osato parlarle così? E se l’avesse fatto, una madre che, anziché chiamarsi Fatima, si fosse chiamata Inga o Ester, sarebbe rimasta là o se ne sarebbe andata via con le figlie? Ma Fatima, la madre di Petra, è araba, e questa minaccia avviene nel contesto di una persona che, per il solo fatto di essere extracomunitaria, potrebbe essere considerata incapace di crescere le figlie in modo adeguato, per il solo fatto di poterle educare a una religione diversa, potrebbe venire esclusa dalla “responsabilità genitoriale”. Inoltre: che cosa sarebbe accaduto se Fatima avesse deciso di studiare con due bambine, da donna araba in un paese europeo? O ancora, che cosa sarebbe accaduto se avesse deciso di rientrare in Algeria con le figlie?
Viene in mente il titolo di un romanzo di Buchi Emecheta (2007), Cittadina di seconda classe. Fatima è stata trattata dalla suocera come una cittadina di seconda classe, ha subito la condizione matrigna (Barbetta, 2023). Una Cenerentola che ha proiettato la propria esistenza su Petra come principessa. A Petra spetta di andare al ballo e trovare il principe. L’allegoria clinica vuole che il principe sia lo studio universitario nella grande città, quello che la madre di Petra - discriminata e sotto minaccia della suocera - non è si potuta permettere, che Petra ha raccolto in modo vicariante.
Il processo di emancipazione femminile emerge attraverso un passaggio transgenerazionale, una nemesi. Ma Petra si porta addosso il fardello della discriminazione subita da Fatima – sono come mia madre, ho le stesse origini – e quello dell’impegno a soddisfare il desiderio materno negato – porterò a termine il desiderio di mia madre: “dove si era, (mia madre) deve divenire”.
Invero in questa narrazione c’è qualcosa che non torna, l’anti-narrativa emerge nel silenzio mistico di Petra, nel suo pianto senza parola, nell’uscita dal senso di una storia di emancipazione che non le appartiene. Petra studia giurisprudenza, forse non per caso.
La creazione di scenari equi-possibili nei racconti che emergono dalle immagini, come un giudice delle indagini preliminari che ricostruisce la scena di un crimine, la riparazione di un torto subito dalla mamma, attraverso un atto di giustizia più elevato - una nemesi -, la propria promozione come gratitudine verso la madre, attraverso il successo nello studio e la posizione super partes, che la rende affettivamente immune di fronte al conflitto tra una nonna prepotente e minacciosa e una mamma che subisce, si umilia, ma resiste, proiettando il suo desideri sulla figlia.
Per me, che la neutralità la persi trent’anni fa, si tratta di aiutare Petra a perderla a sua volta. Ma tutto ciò, è giusto? Quale diritto terapeutico possiedo, a mia volta, per indurre, o suggestionare, Petra a prendere posizione?
Conclusione
Sorgono qui alcune questioni etiche. Il lavoro terapeutico deve produrre giustizia?
Vengono in mente le parole di Porzia, travestita da giudice, nel Mercante di Venezia di Shakespeare (2017).
Il giudice – Porzia - rende ragione a Shylock, che ha subito più di una ingiustizia da parte di Antonio. La nemesi vorrebbe che Shylock prelevi una libbra di carne dal corpo di Antonio, come stabilito nei patti sottoscritti. In quel momento però il giudice – Porzia – chiede a Shylock se vuole rendere grazia ad Antonio.
A quel punto Shylock chiede se la grazia sia dovuta, e Portia risponde:
La grazia non ha natura forte, / cade dal cielo come pioggia gentile / sulla terra sottostante; è due volte benedetta, / benedice chi la offre e chi la riceve […] la grazia sta sopra al dominio dello scettro […] la grazia tempera la giustizia.
Dai versi di Shakespeare si possono trarre due importanti considerazioni terapeutiche.
La prima riguarda il dire bene. Molti anni fa un amico mi segnalò un epitaffio sulla porta di un’abitazione di Ostuni: “Incauta verba fugere” (stare lontani dalle parole irresponsabili). Possiamo intendere la benedizione di cui parla Shakespeare nei termini della connotazione positiva, della responsabilità clinica: chi pratica la diagnosi, come chi deve avere rispetto verso la persona che la frequenta.
La seconda considerazione riguarda la grazia, che tempera la giustizia. La diagnosi somiglia alla grazia: è una scelta, non una forzatura. La diagnosi, come la psicoterapia, ma con una modalità differente e complementare, può essere una forma della soggettivazione, non è l’unica, ma, come la terapia, non può essere imposta da nessuno, a nessuno.
Rispettare significa non imporre, la grazia non ha natura forte.
Londra, 28 gennaio 2024
Bibliografia
Adorno T., (a cura di) 1973. La personalità autoritaria, Roma, Comunità.
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* Tra le tavole del TAT ve n’è una completamente bianca, senza alcuna immagine.