Riflessioni Sistemiche n° 24


Educazione e Formazione:
livelli, problemi e prospettive

Routine e Cambiamento

di Sergio Bellucci

Giornalista e saggista

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Sommario
Nella Storia umana le forme della convivenza sono sempre state caratterizzate da un intreccio tra percezione individuale e quella sociale. I tempi di trasformazione delle relazioni individuali e di quelle sociali, inoltre, sono sempre state condizionate dalla forza e dalla qualità delle forme delle “istituzioni” laiche o religiose. Feedback sociali e rotture hanno prodotto diverse modalità di trasmissione culturale e sociale.


Parole chiave
Tradizione, innovazione, transizione, democrazia, liberalismo, surrealtà, routine, rottura sistemica, intelligenza artificiale, sogno

 

Summary
In human history the forms of coexistence have always been characterized by an intertwining between individual and social perception. Furthermore, the times of transformation of individual and social relationships have always been conditioned by the strength and quality of the forms of secular or religious "institutions". Social feedback and ruptures have produced different modes of cultural and social transmission.

 

Keywords
Tradition, innovation, transition, democracy, liberalism, surreality, routine, systemic rupture, artificial intelligence, dream


La percezione individuale e quella sociale; il divenire della storia e quello della natura
 

Molti scienziati credono che esista una teoria unica che spiega tali leggi oltre le costanti fisiche di natura, come la massa dell’elettrone o la dimensionalità dello spaziotempo. Ma la cosmologia top-down implica che le leggi visibili di natura siano differenti per storie diverse.

 (Stephen Hawking, 2018)


Da secoli l’umanità combatte una grande battaglia, spesso senza accorgersene. È quella riguardante l’interpretazione del mondo, quella della decodifica obbligata per estrarre le istruzioni necessarie alla sopravvivenza, per costruire le “mappe” del conosciuto e per accumulare gli insegnamenti in grado di porre le basi della coscienza di sé individuale e della forma collettiva dell’esistenza. Vivere e costruire, cioè, il senso del divenire, oltre quella che Bonomi chiamò la “nuda vita” (Bonomi, 2008). Questo immane sforzo è caratterizzato dalla necessità di descrivere, sempre meglio, la realtà in cui l’umanità è immersa, un “inseguimento” verso un orizzonte mobile che spesso ha prodotto, almeno socialmente e implicitamente, l’illusione di possedere il senso vero della vita, la verità “ultima”, assoluta e immutabile sia della natura e delle sue fattezze, sia dell’uomo stesso, e ignorato, quindi, le dinamiche del loro divenire e le loro differenti e complesse forme.

 

L’illusione di possedere la “ricostruzione della forma del mondo” si posa sulle differenti dinamiche su cui poggia la sua evoluzione. Le diverse “velocità” dei processi di cambiamento dei quali l’umano fa esperienza nell’arco della sua vita, inoltre, producono distorsioni dell’idea stessa di “natura” e di “naturale”; deformazioni che hanno effetti diretti sulla forma dei processi culturali, sociali, politici ed economici. La stessa percezione del se risulta legata ad un insieme di idee (che spesso divengono dei pre-concetti) che condiziona il resto delle relazioni con il mondo: “la natura è fatta così”, “la società è fatta così”, “io sono fatto così”. Da queste affermazioni apodittiche - esplicitate e consapevoli, o meno, che siano - derivano una serie enorme di scelte, di condizionamenti, di giudizi, di capacità di vedere il mondo, di interpretarlo e abitarlo. Tutti, in un modo o nell’altro, facciamo i conti con questa necessità di “certezze” pur dichiarando costantemente il nostro desiderio di cambiamento.

 

Questa condizione caratterizza l’umanità da sempre. Sopravvivere in un ambiente significa “conoscerlo”. Conoscerlo significa poterlo “prevedere”. Prevederlo significa “pensarlo” in uno schema ripetuto e ripetibile. Pensarlo significa estrarne delle “leggi”. Estrarne delle leggi significa definire la forma e le modalità del suo “possesso”. Possederlo significa aumentare le possibilità di vivere e riprodursi. Garantire la trasmissione di tali informazioni, tra gli individui di una comunità e da una generazione all’altra, significava l’obbligo di vivere in comunità e di costruzione di forme per il trasferimento di tali “informazioni”. La garanzia delle trasmissioni di tali leggi poggiava sul rispetto “rigoroso e perenne” degli insegnamenti e la “codifica” di tali prassi presto si trasformò in veri e propri diktat sociali, in strutture “culturali” che era “pericoloso” rompere e non rispettare. Nasceva, sotto i piedi dell’umanità, la necessità e la potenza della “tradizione” e quella delle istituzioni che ne garantivano il pedissequo rispetto sociale e individuale.

 

Vivere in regioni ad alto rischio sismico, eruttivo, d’inondazioni o di altre “catastrofi” naturali – come l’uomo ha definito il “lento” evolvere del sistema mondo – è, ad esempio, un retaggio antico e non ancora estirpato nelle coscienze individuali o collettive. Fenomeni assolutamente “naturali” nell’evoluzione sistemica del pianeta, sono da sempre vissuti come “l’infrangersi” della naturalità stessa, come la rottura di un “patto” tra natura e uomo, di una relazione che, l’uomo stesso, vive come condizione “naturale” e a cui ha “semplicemente diritto” in virtù della sua stessa capacità di conoscerne le “leggi”. Molte di queste “illusioni di certezze” o di “distorsioni” negli accadimenti, dipendono solo dalla differente “scala temporale” dei fenomeni. La distanza tra le diverse forme del cambiamento, le loro differenti dinamiche temporali e la necessità di costruire “certezze” sul “mondo”, che possano essere prima interpretate, comprese e poi “abitate”, “utilizzate per la sopravvivenza”, hanno costituito, per millenni, un altalenante processo di ipostatizzazione e di rotture, di costruzioni di routine, individuali e sociali, e di cambiamenti. Possiamo dire che tutta l’era che abbiamo alle spalle è caratterizzata da tale necessità e da tali vincoli, forme di conoscenza del mondo, di istruzioni per l’uso della natura, del fare che serve alla sopravvivenza, individuale e collettiva, che dal processo di industrializzazione in poi iniziarono ad incrinarsi sempre più velocemente e in modo verticale.

 

Il mondo, l’universo, l’umano, infatti, non stanno “fermi” ma evolvono, sia negli “apparati” materiali, sia nella quantità e qualità di “informazione” accumulata e disponibile. Gli ultimi due secoli, da questo punto di vista, hanno prodotto tali e tanti salti di “conoscenza” e “consapevolezza” da non farci più riconoscere il mondo dei nostri nonni, non più solo quello degli antenati. La dinamica dei cambiamenti nella possibilità di “abitare” il mondo è segnata da aumenti vertiginosi che, per restare nell’ambito delle “scienze dure”, portano i nomi e i tempi di una progressione, quantitativa e qualitativa, impressionante come il “Metodo Scientifico”, l’“Evoluzionismo”, la “Relatività”, la “Meccanica Quantistica”, il “DNA”, i “Buchi Neri”, ecc... per non parlare delle soluzioni della tecno-scienza derivanti dalle tecnologie digitali. Se il mondo era, per sua stessa natura, “complesso”, le novità e la moltiplicazione del fare dell’umanità ha prodotto, anche da questo punto di vista, dei veri e propri salti in avanti.

 

Ovviamente, le trasformazioni dei sistemi evolutivi complessi hanno dinamiche differenti per ogni loro parte e ogni “catena evolutiva” interna si dipana con le proprie leggi e tempi, definendo una sorta di “dimensione relativistica” caratterizzata e caratterizzante il proprio spazio/tempo specifico. Il tutto in continua relazione sistemica con il resto. Sei milioni di anni fa il Sahara era una zona lussureggiante e 251,4 milioni di anni fa, nel Permiano-Triassico, la Siberia pullulava di vita animale e vegetale. E quelle condizioni durarono per un tempo, visto dalla dimensione umana, praticamente infinito. Stephen Hawking, addirittura, ci dice che le stesse “leggi di natura” differiscono da luogo a luogo dello spazio (Hawking, 2018, p. 134) un po’, come potremmo dire noi, le leggi sociali differiscono da territorio a territorio pur restando “fedeli” alla propria idea di “giusta umanità” che si differenzia dall’idea uniforme di “umanità giusta” che presupporrebbe una sola idea e dimensione di vita naturale.

 

Prendiamo, come esempio odierno, l’idea sociale che abbiamo del nostro clima. Ognuno di noi avrà commentato i suoi cambiamenti, chiaramente evidenti sotto i nostri occhi. La vera novità storica, a ben vedere, non è rappresentata, però, da un fenomeno o dall’altro. L’innalzamento dei mari o la modifica della composizione dei gas che formano l’atmosfera, la riduzione dei ghiacciai o l’aumento della temperatura, infatti, sono tutti fenomeni che, anche se con qualità leggermente diverse, hanno già accompagnato la “storia del pianeta Terra” fin dalla sua nascita. La vera novità, a quel che ne possiamo sapere dalle conoscenze odierne, è la “velocità” di questi mutamenti e, quindi, della potenza dell’impatto progressivo che questi produrranno sul temporaneo “(dis)equilibrio” che l’umanità ha generato negli ultimi due secoli di sua attività.

 

Routine e cambiamenti, quindi, si susseguono con ritmi differenti e qualità diverse. Per comprendere la storia dell’umano, probabilmente, dovremmo immaginare alcune macro-fasi di “con-appartenenza” della nostra specie alla vita terrestre. In una prima fase (probabilmente lunghissima e in larga misura inconoscibile) il “mondo” fu, per l’umano, un elemento ignoto e imperscrutabile. Un territorio difficile da abitare e pieno di elementi sconosciuti, spesso pericolosi o, addirittura, mortali. Un mondo in cui i fenomeni “naturali” non erano neanche “catalogabili o catalogati”, ma semplicemente “dati” e la vita stessa legata alla mera roulette quotidiana della sopravvivenza. La trasmissione di nozioni in grado di aumentare le possibilità di sopravvivere era affidata alla “selezione genetica” dei gusti, delle predisposizioni “istintive”, caratteristiche del patrimonio trasmissibile con la mera riproduzione.

In una seconda fase - attraverso un accumulo progressivo di “istruzioni necessarie per vivere”, basato sullo sviluppo di un linguaggio articolato e, quindi, sul possibile trasferimento di conoscenze da una generazione all’altra con un “di più informativo” di ciò che poteva essere trasmesso attraverso la codifica genetica - iniziò la possibilità/necessità di “raccontare il mondo” attraverso informazioni che divenivano “certezze” e che obbligavano a “regole di comportamento” necessarie a garantire una migliore e più certa sopravvivenza, in funzione di una realtà apparentemente sempre uguale a se stessa.

 

Pensare al mondo come ad una struttura data, “statica”, improntato a una “verità ancestrale” e immune al passaggio del tempo, si affermò, quindi, sia per la scarsa capacità conoscitiva delle “leggi” di natura, sia per la necessità/opportunità della costruzione di una dimensione sociale del vivere. La comunità iniziò a sviluppare “specializzazioni” necessarie al proprio mantenimento e funzionamento e questo processo necessitò di un progressivo aumento della capacità di “recuperare le risorse” necessarie al proprio sostentamento. Più risorse, più possibilità di specializzazioni, più specializzazioni, maggiore capacità di estrarre risorse e garantire la sopravvivenza.

 

Questo quadro si rafforzò attraverso sia una conoscenza accumulata e trasmissibile nel tempo alle generazioni future sia ai meccanismi del suo trasferimento. Il linguaggio orale e, in seguito, quello scritto rafforzavano la potenza, quantitativa e qualitativa, del suo trasferimento infra-generazionale.  Si cominciava ad osservare che gli accadimenti, naturali o meno che fossero, poggiavano su fatti precedenti che ne generavano il divenire. Platone, nel Timeo codificò tale consapevolezza “accumulata” dall’umano: «Tutti gli effetti devono avere una qualche causa che li porta a verificarsi, in quanto avere un effetto senza una causa è completamente impossibile» (Platone, IV sec. A.C.).

 Le stesse regole della cultura orale, quella della “società circolare” legate al mondo contadino (i ritmi annuali delle stagioni, meccanismi di accumulo delle conoscenze e del loro trasferimento intergenerazionale), poggiavano sulla potente (anche se errata) convinzione che il mondo e la natura fossero immutabili (e quindi conoscibili in maniera definitiva). La potenza del ruolo della “tradizione” poggiava esattamente su tale assunto. Discostarsi dal rispetto delle “regole” poteva minare le possibilità di sopravvivenza della comunità. Al pari tempo, lo schema della società tradizionale rendeva la società “bloccata”, incapace di evolvere, di aderire ai “processi naturali” e alle stesse dinamiche sociali che si poggiavano sull’accrescimento della conoscenza della natura stessa. Una contraddizione interna che, a ben vedere, ha segnato tutte le società umane conosciute. Dietro il mito della giovinezza, oltre che della capacità riproduttiva, poggia anche la voglia, il desiderio di rompere “gli schemi”, rottura necessaria per adeguare lo schema delle conoscenze a un mondo che, non solo non si conosceva fino in fondo, ma che evolveva esso stesso. Certo, le esperienze di una vita, spesso, si configuravano assolutamente come conferme di percezioni “immutabili”. La differenza di scala temporale dei fenomeni naturali, ad esempio, illudeva l’umano di poter contare su una “natura… naturale” (nel senso sociale del termine) e le stesse regole sociali del vivere collettivo delle comunità, erano fortemente condizionate dalla potenza di tali percezioni. I cambiamenti erano o percepiti come “disastri”, rotture della continuità e delle regole naturali, o, dal momento dello sviluppo della percezione spirituale, alla punizione di un dio non soddisfatto di una “rottura delle regole” che individualmente o socialmente erano state commesse.

 

Fu questa condizione di storia legata ai meccanismi di sopravvivenza, sviluppati nei millenni dell’evoluzione nei luoghi specifici, che emerse la potenza della “tradizione”, anzi, delle “tradizioni”. Essa rappresentava la codifica utile e necessaria a garantire – in quello specifico territorio e in quelle specifiche forme – la sopravvivenza di una comunità umana. Tradizione come garanzia di sopravvivenza e, in senso lato, come adesione dell’uomo al “processo naturale”. La tradizione esigeva, quindi, sia dei sistemi di trasmissione sociale (cultura e religioni svolsero egregiamente al ruolo) e quelli coercitivi e repressivi, meccanismi di “garanzia della sua applicazione” necessari a garantire la sopravvivenza (religioni, leggi e potere, esprimevano la potenza normatrice della vita materiale). Nascevano, a poco a poco, funzioni di controllo e di “guida” che costruivano forme di potere necessarie alla propria riaffermazione di generazione in generazione. I primi abbozzi di “istituzioni” prendevano forma e venivano a sovrapporsi alle norme sviluppate dalla società stessa. La tradizione, progressivamente, si trasformava in “regole obbligate” e, alla fine, in sistemi “normativi”. I sistemi normativi esigevano un’applicazione formale e socialmente sancita. Il potere “giudiziario” si sommava a quello necessario alla difesa della comunità o all’attacco per la conquista di spazi di “sopravvivenza” necessari o migliori.

 

L’impianto delle società tradizionali fu sempre accompagnato da “tensioni” interne. Tensioni proprio nel senso etimologico del termine: spinte opposte tra chi vedeva, da un lato, o opportunità nuove che necessitavano il cambiamento di regole o la crisi del sistema vigente (crisi che potevano essere interne, esterne, di adattamento nell’ambiente o di mera compatibilità sociale). Dall’altro lato, e spesso in maggioranza, c’era chi considerava la forma sociale del momento come immutabile e in crisi per la rottura di comportamenti “tradizionali” che non venivano più rispettati dalla comunità stessa. La società umana si può dire sia sempre stata attraversata da una mancanza: quella di divenire consapevolmente “dinamica”. Da un lato la rottura delle forme morali ed etiche (la fine dei valori…) veniva additata come elemento di crisi e di perdita di senso; dall’altro era il mancato riconoscimento, nella “norma” (sociale, culturale, legale, ecc..), del cambiamento già avvenuto nella reale prassi dinamica della vita, delle sue condizioni di sviluppo, di cambiamento delle opportunità che nascevano dall’accumulo delle conoscenze, a generare la crisi.

Quello che è difficile da estirpare nel “senso comune” delle comunità umane e nei suoi codici genetici, è proprio la percezione della forma relazionale della tradizione come accumulo di informazioni obbligate alla vita umana e alla sua riproduzione. Il paradosso, infatti, è che senza capacità adattativa non solo non c’è sopravvivenza, ma occorre negare lo stesso processo dell’evoluzione, individuale e collettivo, per riaffermare una staticità obbligata della natura e dell’uomo, come se fosse un animale privo di quella consapevole coscienza di sé che lo fa aspirare a conoscere il mondo e sé stesso. Forte è, a mio avviso, la contraddizione, proprio su questo punto, degli impianti di conoscenza cosiddetti tradizionali che, da un lato propugnano lo sviluppo interiore dell’uomo verso un livello più alto di consapevolezza (e quindi distante da una “naturalità naturale” che lo ricondurrebbe ai suoi primordi) e, nello stesso tempo lottano contro i processi evolutivi presenti nella società come “rotture di un ordine immutabile” e di una idea di “uomo” che non è mai esistito.

 

Il confronto su tale punto, tra tradizione e innovazione, tra routine e cambiamento, è antico come le comunità umane, e ne troviamo traccia ben prima della accelerazione dovuta all’accumulo di conoscenza e consapevolezza fatta dall’umanità negli ultimi due secoli. Basta richiamare le parole che Tacito mette in bocca all’imperatore Claudio, nel 48 d.C., mentre è alle prese con le contestazioni dei “tradizionalisti” che negavano il diritto ai Galli di poter essere eletti al senato. I tradizionalisti affermavano, sdegnati, come i nonni dei Galli avessero combattuto Cesare e che a Roma ci fossero già “abbastanza romani” per fare il Senato. Così Tacito riporta la replica, saggia, dell’imperatore al Senato Romano:

 

«I miei antenati, il più antico dei quali, Clauso, di origine sabina, fu accolto contemporaneamente tra i cittadini romani e nel patriziato, mi esortano ad agire con gli stessi criteri nel governo dello stato, trasferendo qui quanto di meglio vi sia altrove. Non ignoro, infatti, che i Giulii sono stati chiamati in Senato da Alba, i Coruncanii da Camerio, i Porcii da Tusculo e, se lasciamo da parte i tempi più antichi, dall'Etruria, dalla Lucania e da tutta l'Italia. L'Italia stessa ha da ultimo portato i suoi confini alle Alpi, in modo che, non solo i singoli individui, ma le regioni e i popoli si fondessero nel nostro nome. Abbiamo goduto di una solida pace all'interno, sviluppando tutta la nostra forza contro nemici esterni, proprio allora quando, accolti come cittadini i Transpadani, si poté risollevare l'impero stremato, assimilando le forze più valide delle province, dietro il pretesto di fondare colonie militari in tutto il mondo. C'è forse da pentirsi che siano venuti i Balbi dalla Spagna e uomini non meno insigni dalla Gallia Narbonense? Ci sono qui i loro discendenti, che non ci sono secondi nell'amore verso questa nostra patria. Cos'altro costituì la rovina di Spartani e Ateniesi, per quanto forti sul piano militare, se non il fatto che respingevano i vinti come stranieri? Romolo, il fondatore della nostra città, ha espresso la propria saggezza, quando ha considerato molti popoli, nello stesso giorno, prima nemici e poi concittadini. Stranieri hanno regnato su di noi: e affidare le magistrature a figli di liberti non è, come molti sbagliano a credere, un'improvvisa novità, bensì una pratica normale adottata dal popolo in antico. Ma, voi dite, abbiamo combattuto coi Senoni: come se Volsci e Equi non si fossero mai scontrati con noi in campo aperto. Siamo stati conquistati dai Galli: ma non abbiamo dato ostaggi anche agli Etruschi e subìto il giogo dei Sanniti? Eppure, se passiamo in rassegna tutte le guerre, nessuna s'è conclusa in un tempo più breve che quella contro i Galli: da allora la pace è stata continua e sicura. Ormai si sono assimilati a noi per costumi, cultura, parentele: ci portino anche il loro oro e le loro ricchezze, invece di tenerli per sé! O senatori, tutto ciò che crediamo vecchissimo è stato nuovo un tempo: i magistrati plebei dopo quelli patrizi, quelli latini dopo i plebei, degli altri popoli d'Italia dopo quelli latini. Anche questa decisione si radicherà e invecchierà, e ciò per cui oggi ricorriamo ad altri esempi verrà un giorno annoverato fra gli esempi» (Tacito, Ann. XI, 24).

 

La velocità dell’accumulo di conoscenza sulla forma della natura ci consegna un tempo in cui dobbiamo imparare dal nostro stesso agire, anzi. La velocità dei cambiamenti consegna all’umanità l’obbligo di dover prefigurare quale mondo vorremmo domani per poter decidere ciò che oggi è giusto e ciò che non lo è. Nessuna rottura potrebbe esser più radicale nella Storia dell’umano, affidandoci responsabilità inedite e strumentazioni innovative con le quali affrontare tale passaggio.

Ovviamente tale “rottura” nella forma riguarda ogni forma di “comprensione” sociale del reale e implica un ruolo inedito anche delle e nelle forme del potere.

 

 

 

Le routine evolutive: negazione, assoggettamento o indirizzamento

 

La gente (ignorante) prima nega una cosa; poi la minimizza; infine decide che la sapeva già da tempo.

(Alexander von Humboldt)

 

Nei momenti di svolta epocali le decisioni in mano alle leadership devono obbligatoriamente travalicare gli equilibri esistenti e pregressi. Quello che viene richiesto, in quelle situazioni di profondo cambiamento, è la potenza di una “visione”, la capacità di indicare un nuovo percorso, l’apertura di una nuova fase. Spesso, invece, il nuovo viene invocato con un retropensiero intriso già di sconfitta: trovare una soluzione “innovativa” per continuare a fare, o tornare a fare, quello che facevamo prima e che percepiamo che stiamo perdendo. Per comprendere il senso errato sarebbe sufficiente alludere allo smodato uso della parola “resilienza” in una fase in cui si comprende benissimo (e spesso lo si afferma pubblicamente) che nulla tornerà più come prima. Nulla di più sbagliato perché si è in quella crisi esattamente per le cose che si stavano facendo, per le scelte fatte, per le consuetudini assunte. Il nuovo, invece, è nuovo proprio perché non è mai stato fatto, è inedito, va oltre l’esistente e lo sperimentato. Nelle svolte della storia, ciò che serve è il nuovo, la rottura degli assetti esistenti. E nelle svolte le tendenze si possono interpretare solo con tre approcci, con tre filosofie: la negazione, l’assoggettamento o l’indirizzamento.

 

Le strutture decisionali delle comunità umane devono assolvere a due compiti fondamentali. Il primo è per così dire, storico e riguarda la “sopravvivenza”. Le regole sociali, quelle politiche, le forme decisionali devono essere in grado di essere percepite come in grado di assicurare che la comunità di riferimento sia garantita. Approvvigionamento del cibo e delle materie prime necessarie, disponibilità di rifugi sicuri per vivere, organizzazione delle funzioni sociali e dei meccanismi decisionali, costituivano insieme alle credenze, ai miti fondativi e alla struttura religiosa del posto, un intreccio che andava “difeso” per garantirsi la sopravvivenza e la riproduzione.

Il secondo compito, nato con la società moderna ed esploso con il capitalismo, la sua crescente produzione di merci da allocare e poi la necessità di una finanza da alimentare con gli interessi sui debiti, è quello della “crescita”. Senza “crescere” il sistema non funziona più; la crescita traslò da opportunità ad obbligo.

Per comprendere la necessità del fare occorre comprendere il momento storico che stiamo attraversando. Se non si inquadra correttamente la fase, le decisioni possono risultare drammaticamente inefficaci o addirittura controproducenti.

 

Durante l’avvento della rivoluzione borghese si affermarono in Europa due concetti che hanno innervato il ‘900. Da un lato quello della democrazia (il potere affidato alla maggioranza) e, dall’altro, quello della separazione dei poteri (liberalismo). Questi due pilastri vanno inquadrati “storicamente”. Furono due concetti “rivoluzionari”: da un lato sancivano la fine del potere assoluto (quello incarnato da una persona, al massimo da una ristrettissima élite) e la suddivisione del potere in tre ambiti separati per persone e funzioni, ognuna con la propria autonomia e sovranità; dall’altro lato, affidavano alla maggioranza (il popolo) la possibilità di scegliere l’indirizzo verso cui orientare la comunità. Rappresentarono due acquisizioni fondamentali per lo sviluppo sociale, la capacità di autogoverno, di sviluppo della consapevolezza e della percezione del sé, individuale e collettivo.

Quale era il “senso storico” di quelle “rotture rivoluzionarie”? E le acquisizioni di fondo di quelle rotture possono essere definite come una acquisizione “definitiva” per la storia umana o non siamo arrivati ad un tornante in cui lo sviluppo della società, quello delle capacità produttive, delle conoscenze acquisite e socialmente distribuite, non richiedono uno sforzo di “fantasia” politica che apra un nuovo orizzonte storico? La critica alle forme storicamente date del liberalismo democratico si può avanzare da due lati: il primo, per il tentativo di ripristinare logiche (più o meno aristocratiche) di “uomo solo al comando”; il secondo per la richiesta ancor più avanzata di rottura e liberazione dai vincoli derivanti dalle forme concrete del potere e che si sono rivelate capaci di costruire forme di gerarchie sempre più autonomizzate e impermeabili con interessi sempre più personalistici e senza possibilità di contro bilanciamento vero tra poteri.

 

Insomma, come sempre nella storia si può stare su tre fronti: il primo, residuale ma sempre presente, quello del tentativo del ripristino del vecchio potere sconfitto da quello attualmente in carica; il secondo in difesa del potere in carica; il terzo per la costruzione di una nuova forma di potere. I primi due sono caratterizzati da due approcci di conservatorismo, in lotta perenne tra loro, con basi sociali definite e ben inquadrate: la vecchia classe sociale al potere scalzata da quella che, attualmente, occupa il suo posto. Residui di un insediamento di potere (culturale, tradizionale, economico, relazionale) che ha perso in passato la propria egemonia, sembra potersi ricandidare alla restaurazione del proprio potere nel momento della crisi sistemica di chi lo scalzò. Ma la crisi del potere in atto si manifesta solo perché la storia sta facendo emergere il nuovo che avanza. I primi due poteri compongono il campo del conservatorismo. Il terzo rappresenta il campo del progressismo. La collocazione in uno dei tre campi è obbligata per tutti, volenti o nolenti, coscienti o meno. All’interno di questi campi, però, esistono collocazioni sociali differenti che caratterizzano le altre due categorie del politico: la destra e la sinistra. La prima rappresenta, dalla sua collocazione di nascita, gli interessi delle classi al comando (sia in carica che scalzate dalla storia). La seconda ha il compito di rappresentare gli interessi delle classi subalterne fino a quel momento storico, candidandole al governo della nuova fase che si sta aprendo. I periodi storici di Transizione, il periodo storico che stiamo vivendo, rendono più drastiche ed evidenti queste collocazioni, anche se esulano dalle categorie in uso quotidiano nei mass media e dalle operazioni di marketing politico che, gli apparati partitici o i singoli leader, mettono in campo.

Di fronte alle accelerazioni introdotte dalla potenza della tecno-scienza, dalla conoscenza della natura e della possibilità di estrarre, da queste conoscenze, una vita “maggiormente garantita”, i ruoli tradizionali si sfaldano e vengono ricomposti in permanenza, costituendo una società cangiante che necessita di nuove forme di auto-riconoscimento per poter garantire una propria “stabilità”. Fino a questo momento, il ruolo di nuova socializzazione in questo quadro dinamico è stato svolto dall’inclusione nel modello di consumo. Accedere al consumo (più spesso al suo sogno…) ha svolto una funzione di nuova alfabetizzazione sociale alle dinamiche necessarie a inseguire i processi di trasformazione in atto.

Di fronte a tali passaggi si possono avere tre tipologie di atteggiamenti. La prima riguarda la negazione stessa del processo. Di fronte ai cambiamenti, che spesso scuotono ruoli sociali, culture, assetti, sia nelle forme di chi comanda, sia in quelle che organizzano i soggetti deboli, la maggioranza delle persone “rifiuta di vedere” le novità che si consolidano sotto i loro piedi. Il retaggio delle routine, la forza della tradizione, il “vantaggio” accumulato – spesso più che percepito che reale ma che è tanto più potente tanto quanto si occupa una scala sociale bassa senza una consapevolezza collettiva del proprio ruolo – rappresentano dei forti incentivi a perpetrare le forme del dominio esistente. Anche quando lo si subisce. Nelle fasi di Transizione è difficile comprendere le faglie di rottura anche quando se ne incarna direttamente l’ispirazione, gli interessi diretti, la nuova “ideologia” del futuro.

La seconda attiene all’idea che il vecchio che sta tramontando, in realtà, sia sufficientemente forte da ricondurre a sé tutto il divenire. È un’illusione che poggia molto spesso su presupposti errati che confondono una “crisi” con una “transizione”. La crisi, anche se profonda, è un elemento che non prevede una “fuoriuscita” dalla forma del sistema di dominio esistente, mentre una transizione prevede un passaggio di modo di produzione (con tutte le trasformazioni che il passaggio comporta).

La terza modalità di affrontare una transizione attiene al suo indirizzamento. È una lotta che si configura, in un campo aperto, tra i soggetti che stanno producendo il nuovo e quelli che ne iniziano a subire la forma del nuovo potere, del nuovo assoggettamento. Qui si aprono spazi politici nuovi, iniziano a prodursi culture innovative che rompono gli assetti precedenti e generano processi sociali e relazionali di nuovo tipo. È quanto, a mio avviso, sta avvenendo in questa fase della storia umana e, il passaggio, è ancor più drastico che nel passato perché attiene, non solo alla mera struttura sociale e alle forme della produzione del valore, ma anche alla stessa natura della specie umana e alla struttura della evoluzione dei sistemi vitali del pianeta. La conoscenza umana, infatti, è giunta a quel bivio in cui può arrogarsi il diritto (in larga parte già dispiegato) di incidere sulle linee evolutive delle specie viventi, sui loro codici genetici, anche sui codici genetici della stessa specie umana. Per restare nel più “semplice”, inoltre, la stessa forma delle strutture cognitive (gli apparati umani con cui l’individuo esplora, conosce e usa il mondo) sono riconfigurate dalla modifica delle forme dello scambio comunicativo e dalla loro vera e propria esplosione quantitativa. Oggi sappiamo, infatti, che la forma della mente è fortemente determinata dalla sua plasticità e che questa dipende dalle forme dello scambio dell’apparato corporeo con la realtà e la forma del mondo di cui fa esperienza. Il salto dalla centralità dello scambio delle strutture comunicative “classiche” (oralità e scrittura) basate sulla logica testuale (linearità e uni-dimensionalità del testo) a quelle basate sull’ipertestualità delle logiche digitali ibridate dalle tecnologie multimediali che occupano più sensi contemporaneamente, annuncia, infatti, l’emersione di una vera e propria “discontinuità” che prescinde dalla potenza di calcolo e poggia semplicemente, sulla nuova razionalità logica della nuova forma di “scrittura”.

A questo si aggiunga l’impatto dell’aumento della potenza di calcolo.

 

 

Routine informatiche, evoluzione e cambiamento 

Il dibattito sull’avvento della cosiddetta “Intelligenza Artificiale” è, a mio avviso, travisato da una “illusione ottica” che molti commentatori e molti comunicatori, soprattutto aziendali, lasciano dispiegarsi. L’illusione poggia sull’idea che la macchina debba (e possa) riprodurre la natura e la forma dell’intelligenza umana. La natura dell’intelligenza, però, è cangiante e complessa. Fino a poco tempo fa si pensava che l’intelligenza fosse un costrutto quantificabile, determinabile addirittura con da valori numerici. A questo scopo fu istituito addirittura un indice, il QI (Quoziente di intelligenza). Gli studi di psicologi come Howard Gardner scardinarono le granitiche certezze dimostrando che esistevano forme di “intelligenze multiple”. Lo psicologo teorizzò l’esistenza di diverse forme di essa, ognuna indipendente dalle altre. L’Intelligenza logico-matematica, quella verbale-linguistica, la musicale, l’intelligenza corporeo-cinestetica, quella spaziale-visiva, l’intelligenza interpersonale, quella intrapersonale e, infine, quella naturalistica. Ogni individuo, secondo Gardner, possederebbe una sorta di “miscela” di tali intelligenze che lo rendono “unico” e non “misurabile” in maniera “quantitativa”. Inoltre, la forma di apprendimento delle routine informatiche (comprese quelle che si basano sul machine learning) non contengono il fattore cruciale nell’utilizzo delle varie forme di intelligenza: la consapevolezza di un fine “autonomo” auto-generato dal se.

Ma il tema dell’impossibilità dell’intelligenza artificiale di eguagliare quella umana non può essere derubricato come a-significante per l’impatto che essa avrà nella storia evolutiva del pianeta per almeno due motivi. Il primo riguarda alla trasformazione dell’umano sotto la spinta della razionalità logica del digitale amplificata dalla potenza delle esperienze che saranno esperite con l’arrivo massiccio di Intelligenza Artificiale e Robotica. Questo impatto, infatti, muterà la forma di relazione con le esperienze, fisiche, emotive e relazionali. Abbiamo accennato alla plasticità dell’apparato cognitivo umano di fronte alla trasformazione delle forme della comunicazione. L’arrivo di un salto di qualità (quantitativo e qualitativo) nell’impatto che la razionalità digitale produrrà obbligatoriamente sulla struttura cognitiva individuale, sulla percezione e idea del mondo che si produrrà individualmente e collettivamente, è enorme e incalcolabile. Il secondo aspetto riguarda la potenza della forma delle routine robotizzate e di intelligenza artificiale sul mondo. Quanto sarà più “efficiente” la produzione di un ambiente completamente matematizzato su cui poggiare la riproduzione del valore economico e sociale? Quello che in uno dei saggi pubblicati su Riflessioni Sistemiche chiamai la produzione della Surrealtà o, se volete, il processo di terraformattazione capitalistica del pianeta. Non bisogna andare molto oltre le forme attuali per giungere a tale processo. Le ipotesi di Industria 4.0, da un lato, e della domotica e delle smartcities, dall’altro, stanno già predisponendo le fondamenta portanti di tale processo.

Ma l’AI tenderà a formulare routine che si avvolgeranno intorno ad esperienze come spirali intorno al loro asse di rotazione? L’interazione uomo-macchina costituirà un sistema che si inseguirà progressivamente? L’uomo tenderà a uniformarsi alla “razionalità-logica” dell’algoritmo pensando di sfruttarne le potenzialità ripetitrici e i processi d’innovazione s’incentreranno più che sul cambiamento, sul dispiegamento della riconfigurazione dell’intero asse del “disponibile” intorno alla logica digitale? Per rispondere a questa domanda basta osservare attentamente i processi di costruzione del “senso” che gli artefici del cambiamento stanno producendo. Elon Musk, ad esempio, ha plasticamente evidenziato, in uno dei suoi “famosi” tweet, il senso di questo processo. Secondo l’imprenditore, infatti, “il problema della guida autonoma è che le strade sono progettate per gli esseri umani” (Musk, 2021). Un rovesciamento di prospettiva logico-filosofica che produce una sintesi estrema del progetto ideologico-politico delle forme di ibridazione del reale disponibile, necessario alla convivenza futura uomo-macchina. Una vera e propria inversione ideologica che tende a prefigurare la necessità del nuovo modo di produzione del valore, delle relazioni sociali e della dimensione della téchne

 

La velocità di questi processi ha assunto, in questa fase, una struttura esponenziale. Le accelerazioni introdotte nei processi produttivi dalle tecnologie informatiche, dalla diffusione massiccia della conoscenza, si sommano alla scarsità crescente di risorse e all’obbligo alla “crescita” dovuto al peso della finanza nell’economia. Il nuovo quadro del fare umano si schianta con la velocità dei cambiamenti climatici, con la rottura degli equilibri degli ecosistemi e che fanno parlare, ormai apertamente, dell’innesco della VI estinzione di massa della vita sul pianeta. Il quadro descrive l’obbligo dell’umanità a ripensare la forma della sua presenza sul pianeta.

Sappiamo perfettamente, ormai, che nessun sistema chiuso può espandersi in maniera indefinita e le dinamiche esponenziali contengono, al loro interno, i fattori del loro crollo. È nella forma di questo processo che è insita la struttura del suo collasso. La fuoriuscita, però, dipende dalle forme delle sue strutture di retroazione. La forma dei feedback, esistenti o costruibili, determinerà le modalità con le quali il sistema uscirà dalla sua fase esponenziale per entrare in una fase “transitoria” di assestamento o di crollo. Solo in quel momento, forse, potremmo cominciare a comprendere la quantità, la qualità e le forme delle rotture.

È in questo scenario che le scale temporali, dimensionali e culturali contribuiranno alla individuazione di soluzioni dopo aver determinato le forme delle rotture sistemiche. Ed è in questa dimensione che la forma delle strutture di trasmissione ed elaborazione della conoscenza assumono una centralità ancor più forte e decisiva. La loro dimensione “pubblica”, svincolata e non condizionata da interessi particolari, assume una necessità ancor più forte che nell’era industriale. La velocità performativa dei cambiamenti, infatti, ha trasformato quella che fu una “semplice” struttura di conoscenza del mondo, in una struttura “produttiva della natura” della cui consapevole coscienza della complessità dovremmo divenire sempre più corresponsabili.

Già nel secondo secolo dopo Cristo, però, Luciano di Samosata ci ammoniva sulle forme distorte con cui si raccontano i processi storici e, a maggior ragione, quelli politici. Nel suo Del modo di scrivere la storia, Luciano di Samosata, (165 d.C.) ci mette in guardia da chi scrive senza le conoscenze necessarie, producendo adulazioni o addirittura storie romanzate e mal congeniate. Sembra di assistere al lavoro d’intere strutture di comunicazione dei politici di oggi che costruiscono, interno al personaggio, aloni di “verosimile-irrealtà” che servono a produrre, più che conoscenza e consapevolezza, areole di percezione allusive intorno alle quali far costruire, dal singolo spettatore-elettore, la propria personale idea del politico che “aderisce perfettamente alle tue idee”. Il retore greco, però ci indicava anche le forme del giusto raccontare, che deve essere semplice, chiaro, onesto e ben ordinato. E, in primo luogo, ci ammoniva che era necessario “conoscere direttamente i luoghi degli avvenimenti di cui si parla e le genti che gli abitano, con i loro usi e costumi”. Le forme di quelle norme di sopravvivenza collettiva che allora prendevano il nome di “tradizione locale”. Le “istruzioni per vivere” erano (e sono) determinanti per comprendere cosa accade realmente all’interno della realtà che si vuole descrivere.

Luciano di Samosata è anche famoso perché nei suoi scritti narrò la nascita del sogno. Il filosofo siro ci racconta che era nato in una famiglia di classe medio-bassa nel villaggio lungo le rive dell’Eufrate da cui lo scrittore prese il suo nome. La dimensione onirica rappresenta un processo di riconfigurazione dell’esperienza di vita attraverso la messa a punto degli aspetti che stridono nella nostra percezione cosciente.  

Forse, non tanto un crinale di differenziazione tra uomo e macchina, ma modalità esperienziali non riproducibili tra i due mondi, possono determinarsi proprio sul confine della dimensione onirica e, se volete, in quella della percezione di sé che pre-annuncia le domande sul fine ultimo dell’esistenza e introducono alla dimensione spirituale (anche se non necessariamente religiosa). Se il sogno rappresenta un processo di riallineamento delle esperienze e di creazione di spazi esterni alle logiche funzionali delle routine (e quindi anche degli apparati codificati preposti al controllo individuale e sociale, come le strutture tradizionali e delle morali), l’umano potrebbe caratterizzarsi per aspetti non negoziabili attraverso i processi di matematizzazione. La sua stessa natura potrebbe farlo evadere dalla Surrealtà stessa che il suo fare, la sua téchne, produce.

Quanto descritto, ovvero le modalità esperienziali, le ambivalenze, la conoscenza dei fattori di collasso e di transizione al nuovo, traccia i contorni dello scenario più sfidante che ora ci attende. Riusciremo a non subire passivamente un futuro che sembra segnato solo se saremo capaci di incorporare stabilmente queste conoscenze all’interno dei nostri processi educativo-formativi.

Ma qui si apre un confine nuovo e inesplorato. Un confine oltre il quale solo l’immaginazione umana si è gettata. Anche l’AI, infatti, potrebbe avere necessità di riconfigurazioni delle proprie esperienze che stridono nelle logiche dei circuiti del suo “DNA digitale”, del suo “cervello positronico”. Uno degli scrittori di fantascienza più visionari del ‘900, Philip D. Dick, anticipò questa necessità “informatico-biologica”. Nel suo magistrale “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” esplorò le necessità del “senso del fine ultimo” che un’intelligenza artificiale avrebbe potuto raggiungere. Un’intelligenza che, anche se addestrata per il combattimento e capace di sconfiggere l’umano, un attimo prima di terminare il proprio tempo, si rende capace di andare “oltre” e salvare il senso stesso dell’umano che non aveva potuto condividere con gli umani viventi, per la loro negazione. Chissà se occhi umani saranno in grado di vedere ciò che Roy Batty, il protagonista replicante nel film tratto dal libro, dice di aver visto: «le navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione e i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser» (Blade Runner, 1982).


 

Bibliografia