Riflessioni Sistemiche n° 24


Educazione e Formazione:
livelli, problemi e prospettive

Il corpo di un sapere teatrale nella natura.
Appunti di una formazione

di Sista Bramini

Regista, perfomer teatrale, direttrice della compagnia O Thiasos TeatroNatura

Sommario
Il linguaggio teatrale è una forma di conoscenza che sviluppa un corpo del sapere in azione e in relazione con l’ambiente abitato da esseri vivi, presenti; inoltre può contribuire a una cultura transdisciplinare che integri la cultura scritta, la tecnologia digitale con l’aspetto vivente dell’apprendere e del trasmettere. Il progetto TeatroNatura instaura una relazione empatica e creativa con i luoghi naturali riscoprendone la funzione educativa. Nell’articolo si raccontano alcuni passi decisivi della formazione di una formatrice teatrale.

 

Parole chiave
conoscenza incarnata (embodied knowledge), teatro e ecologia, differenza di genere, mito antico, corpo del sapere, conversione ecologica, TeatroNatura, autobiografia e complessità.

 

Summary
The theatrical language is a form of knowledge that develops a body of knowledge in action and in relation with the environment and living beings. It can contribute to a new transdisciplinary culture that integrates writing and digital technology with the living aspects of knowledge itself. The artistic project TeatroNatura assumes the empathic and creative relationship with natural places rediscovering their educational function for the community. In the article the A. also outlines some key steps in the training of a theater educator.

 

Keywords
embodied knowledge, theater and ecology, gender difference, ancient mith, knowledge body, ecological transition, TeatroNatura, autobiography, complexity.

 

 

Ci sono gli artisti, gli attori, i comici e le facce toste

Eduardo De Filippo

 

Ogni pratica mette in gioco sé stessa nel mondo e il mondo in sé stessa

Carlo Sini

 

Null’altro non può fare chi non governa il mondo se non cercare di formare,
oltre sé stesso, i futuri formatori

Antonio Attisani

 

 

La memoria riguarda racconti ed esperienze selezionate.

La storia finisce, la memoria inizia

Ester Safran Foer

 

La catastrofe pandemica che scuote il nostro mondo mettendolo radicalmente in discussione, non può che risuonare fortemente anche nelle idee e nelle pratiche formative reclamando la necessità di un loro ripensamento.

L’opportunità è preziosa e urgente, ma la nostra vita e i progetti che la animano, sono ancora sotto botta, storditi dagli eventi e in un difficile bilico tra vecchio e nuovo. Se la pandemia non ha fatto che accelerare processi già in atto, l’accresciuta consapevolezza di un necessario cambiamento, almeno in una parte della popolazione, è un fatto inedito e rilevante che spinge ad uno sguardo sul passato e sul futuro che parta proprio da questo presente. È uno sguardo arduo perché il mandato è cambiato. Le parole e i concetti per riflettervi sono gli stessi di prima ma hanno bisogno di essere rigenerati per potersi dirigere con precisione e competenza verso un’alleanza tra i viventi non più procrastinabile e un senso del vivere che non è ancora patrimonio comune. In questi giorni avverto una pressione speciale a riconsiderare il progetto teatrale di cui mi occupo da quasi trent’anni proprio dal punto di vista della sua vocazione educativa. L’occasione di questo scritto oltre che un’opportunità di riflessione mi viene incontro come un segno.

Mi occupo di teatro e da molti anni lavoro ad una ricerca che coincide col nome della compagnia che lo persegue: O Thiasos TeatroNatura.  O Thiasos è il nome che gli antichi greci davano al corteo dei danzatori devoti a Dioniso, dio del flusso metamorfico della vita e dunque anche del teatro, ed esprime il nostro desiderio di indagare in gruppo una modalità originaria del fare teatro in cui confluiscono insieme danza, canto e parola poetica. Il neologismo TeatroNatura poi, indica l’intenzione di realizzare un incontro tra arte drammatica e ambiente naturale per una sperimentazione trasformativa, percettiva e poetica, verso una conversione ecologica della nostra cultura. Come dicono gli antichi nomen omen, il nome è un presagio. Dato in gioventù, nel 1992, per intuizione ed entusiasmo senza comprenderne appieno il significato, questo misterioso nome, come accade in questi casi si è andato rivelando solo nella concretezza della pratica artistica, nel contatto con i paesaggi naturali, con le problematiche tecniche e con i contesti storico sociali che ha attraversato. La funzione culturale della nostra azione teatrale veniva da noi scoperta spesso con stupore passo dopo passo e proprio mentre affinava il suo linguaggio e di contro, per la sua anomalia, si esponeva al rischio continuo del fallimento. Fin dall’inizio la nostra ricerca ha avuto difficoltà ad essere riconosciuta all’interno del mondo teatrale per vari motivi, uno di questi - per lo meno in Italia - era la distanza culturale tra il mondo ecologico naturalista, e il mondo della cultura teatrale d’avanguardia. In sostanza, tranne pochissime eccezioni, chi amava il teatro e le sue cantine affumicate non frequentava la natura e chi amava le escursioni naturalistiche e il sapere scientifico, detestava il teatro. Anche a livello istituzionale in trent’anni non sono mai riuscita (e non solo per mia imperizia imprenditoriale) a realizzare un progetto che avesse il sostegno economico sia da un assessorato dedicato all’ambiente sia da quello culturale. O veniva rimbalzato da un ambito all’altro o chi lo sosteneva non voleva condividerlo con l’altro assessorato. A me è sempre stato chiaro che la cultura della nostra

epoca dovesse necessariamente integrare i due aspetti e mi è sempre sembrato assurdo che non si cercasse di realizzare questo programma con proposte concrete.  L’impatto traumatico con la cecità della politica culturale del nostro paese è un elemento non trascurabile nella formazione di un’artista, ma direi della gioventù in generale.  Un altro motivo della diffidenza del mondo teatrale verso il TeatroNatura è perché - oggi lo capisco sempre meglio - si tratta di una ricerca di trasformazione culturale che si riferisce ad un ambito più vasto di quello strettamente legato ai meccanismi della produzione teatrale. Questo, paradossalmente, ha relegato la nostra ricerca in una posizione marginale rispetto ai circuiti teatrali ufficiali.

Inoltre si trattava innanzitutto di cercare un linguaggio adeguato ad un’impresa per il quale riferimenti riconosciuti e maestri viventi erano molto scarsi.

 

Fatta questa premessa, nel rievocare la mia formazione, come immagino accada a tutti,  emerge lo sgomento di fronte all’ inestricabile intreccio tra la vita personale  e la pratica artistica  dove la logica del curriculum vitae –  cronologia lineare, causa e effetto, espunzione di esperienze intime cruciali, selezione di benemerenze socialmente rilevanti, enunciazione di maestri riconosciuti ecc.- come spiega benissimo la poesia “Scrivere il curriculum” di W. Szymborska, è assolutamente inadeguata. Anche la stessa netta separazione tra “formazione” e “trasmissione” vacilla davanti ai miei occhi. Formarsi al teatro è già da subito formarsi a trasmettere. Ma anche pensando alla mia attività di formatrice, trasmettere è stato abbastanza presto per me anche un modo per formarmi e per sperimentare un linguaggio educativo che ha sempre avuto bisogno di un gruppo per svilupparsi. Qualunque cercatrice o cercatore sa che a un certo punto, se vuole continuare ad imparare, deve cominciare a insegnare. Io però ho cominciato a guidare corsi e laboratori molto presto e perciò devo ammettere che a 25 anni ero animata più da uno spirito avventuriero e investigativo che “pedagogico”.

 

 “Noi pochi, felici pochi, noi banda di fratelli

William Shakespeare, Enrico V

 

Mi riferisco agli anni di ricerca (1983 /1989) nella casa laboratorio di Cenci, fondata con Franco Lorenzoni, dove, dopo il nostro folgorante incontro col regista polacco Jerzy Grotowski e del suo progetto di ricerca nella natura chiamato Teatro delle Sorgenti, ero l’unica teatrante in un gruppetto di giovani insegnanti dell’MCE (Movimento di Cooperazione Educativa). Quel movimento costituitosi già nel dopo guerra, perseguiva una pratica educativa permanente per gli insegnanti stessi aperta all’esperienza creativa. La casa laboratorio di Cenci, fondata da una frangia giovanile dell’MCE, intrecciava quella tradizione con le istanze creative di quegli anni tra cui quella appunto grotowskiana. In quell’epoca, che è stata molto importante per la mia formazione, eravamo totalmente impegnati in una pratica e uno spirito di ricerca tra pari che, immersi nella campagna umbra, aprivamo di tanto in tanto in proposte da noi strutturate, a ragazzi di ogni età nei nascenti “campi scuola”, a insegnanti nei corsi di aggiornamento, a partecipanti dai 7 ai 70 anni in villaggi educativi estivi. Gli aspetti decisivi di questa proposta interumana di esperienze nella natura era che si trattava di una ricerca che

praticavamo prima di tutto tra noi e che vedevamo indirizzata trasversalmente a tutti. L’attitudine a una pratica educativa come momento di condivisione/verifica di una sistematica ricerca personale e di gruppo non mi ha mai abbandonato. Raccontare in cosa consistessero queste attività è difficile sia perché svilupparono una grande creatività di

proposte diverse sia perché senza averle sperimentate possono sembrare a chi legge solo vaghe e ingenue. Mi arrischierò a fare qualche esempio. Il silenzio era uno strumento sempre molto presente. Franco si perdeva la notte nel bosco con i partecipanti e poi cercava in un’intesa silenziosa di gruppo di ritrovare la strada di casa, io avevo sviluppato un’azione chiamata “caccia al vento” in cui partivo con piccoli gruppi e in silenzio inseguivamo diversi modi di manifestarsi del vento, improvvisavamo delle danze accordandoci con i cespugli mossi dall’aria, delle sospensioni nell’immobilità che si trasformavano in movimenti lentissimi o improvvise corse giù per i pendii. Nicoletta Lanciano di notte seguiva il viaggio delle costellazioni nel cielo e di giorno le proiezioni delle ombre degli alberi e le rocce con esercizi di calcolo e di osservazione, con Marina Spadaro si creavano composizioni floreali studiando la teoria dei colori di Goethe. Poi tutti insieme danzavamo scatenati e silenziosi sotto le stelle, facevamo dei falò che vegliavamo a turno e intorno ai quali narravamo i miti antichi, e mille altre proposte.

Eravamo consapevoli dei rischi di “ciarlataneria” dovuti all’ardore della nostra gioventù, e cercavamo di tenerli sotto controllo, per quanto potevamo, con lo studio appassionato in ogni direzione, un costante e angoscioso esercizio di autocritica e messa a punto delle proposte, e con continui confronti con maestri e maestre di discipline e culture diverse (teatro, katakali indiano, matematica, capoeira, antropologia, ricerca religiosa) tutti di grande esperienza, che invitavamo a Cenci esponendo loro la nostra ricerca. Naturalmente non poteva durare in questo modo e lo sviluppo naturale è stato circoscrivere il nostro campo d’azione: quello dell’educazione scolastica e di formazione degli insegnanti per Franco e le altre, e quello del teatro per me.

 

Nel cercare un ordine per proseguire, mi vengono incontro differenti aspetti, tutti cruciali, della questione “formazione”:  quello tecnico legato alla competenza del mestiere teatrale e della sua trasmissione ; quello umano relativo alla mia evoluzione personale che in parte confluisce in una pratica teatrale vissuta anche come strumento di consapevolezza; quello culturale che si collega al rapporto col pubblico, all’ineludibile, spinosa domanda sulla funzione del teatro nel nostro tempo e in particolare, del TeatroNatura; quello maieutico nel rapporto con le attrici e gli attori durante le prove e con i partecipanti ai laboratori, quello strategico economico, necessario per riuscire a praticare un mestiere storicamente soppiantato da forme d’intrattenimento più in voga; e infine quello conoscitivo, in parte dimenticato, sul quale sto riflettendo maggiormente in questi tempi, che riguarda la riscoperta di una modalità di conoscenza non solo intellettuale, tecnologica o economica della realtà,  ma una sapienza incarnata e creativa, di relazione, che ingloba l’aspetto sensoriale, affettivo ed emotivo dello stesso conoscere. Sempre più mi vado convincendo che la pratica teatrale, ripensata a fondo come pratica educativa, può contribuire a rigenerare una conoscenza vissuta che dovrebbe coinvolgere, oltre quella dell’attore e dell’attrice, la formazione dei cittadini e delle cittadine.  Vedo nel Teatro, e in particolare nel TeatroNatura, un possibile fecondo contribuito alla fondazione di quella cultura transdisciplinare ed ecologica di cui oggi si ha un estremo bisogno, anche per poter esercitare una reale democrazia.

 

A causa dello spazio ristretto destinato a questo scritto non sarò in grado qui di approfondire tutti questi punti, ma comunque prima di tutto va ricordato che, per quanto molto sia cambiato, nella trasmissione tradizionale dell’arte performativa (musica, canto, danza e teatro), che è quella della bottega d’arte, “chi sa non parla, fa”. Lo studio filosofico, letterario e scientifico, è utile (attrici e attori rozzi e ignoranti non servono a niente e a nessuno) ma è sempre subordinato all’efficacia dell’azione scenica: non si impara a danzare dai libri, bisogna praticare. Puoi avere miglioramenti nella comprensione della tua arte solo quando migliori nell’agirla. In ogni caso, all’inizio è necessario osservare e rubare dai Maestri/e ma il talento (inteso sia come inclinazione sia come tenacia del desiderio nel lavoro) e il ritmo non si insegnano. Se niente di essenziale si insegna, nulla è più utile di un contesto operoso in cui si lavora con disciplina gli uni accanto agli altri. La realizzazione di questo ambiente rientra nella funzione cardine del Maestro e coinvolge la sua autorevolezza. Tutto il resto si impara imitando a proprio modo, scegliendo e selezionando in base al proprio istinto e nell’incontro rischioso col pubblico, procedendo sostanzialmente per tentativi ed errori, sconforti ed entusiasmi, dove gli errori, superata la prova della frustrazione, sono benedetti perché hanno offerto l’opportunità di approfondire aspetti ancora poco chiari e soprattutto di trovare soluzioni concrete ai problemi. Il diritto all’errore è un pilastro di questa modalità formativa dove le soluzioni tecniche spesso coincidono con quelle poetiche.

Nell’arte è sempre così, anche se non la pratichi da professionista ma vuoi apprendere gli strumenti performativi per diletto tuo e degli altri. Ritengo che sarebbe davvero utile che questa forma di apprendimento alla creatività possa essere nel bagaglio formativo di tutti, nell’allenamento alla vita. Ciò non di meno si capisce che, per questi stessi motivi, scriverne non è facile e per molti aspetti non è così utile. Inoltre, anche se oggi può essere difficile da comprendere, secondo una tradizione dimenticata quando l’arte è autentica, il miglioramento “tecnico” va insieme alla maturazione poetica e umana dell’artista.

 

  

Il teatro come parte della vita 

Gregory Bateson (1976) riteneva di grande importanza considerare attentamente quelli che chiamava “moduli arcaici” di comunicazione umana, specie quella artistico performativa, che si connettono per più di un aspetto alla nostra natura animale. Forse per questo la saggezza popolare chiama l’attrice e l’attore di talento “animali da palcoscenico”, riconoscendo in loro una dote che non affonda le sue radici vive nella cultura intellettuale scritta, ma in quella orale (Havelock E., 1973). Con questo termine mi riferisco non tanto (o non soltanto) alla “parola parlata”, contrapposta a quella scritta, ma a una dimensione più complessa (cognitiva ed epistemologica) che investe nella molteplicità delle sue forme il sapere incorporato (embodied knowledge) o, ancora meglio, il “sapere in azione”, perché i comportamenti performativi non sono semplicemente un sapere depositato nel corpo come qualsiasi nozione che venga ritenuta nella memoria, quanto piuttosto una memoria del “corpo in azione”, un sapere del corpo che agisce in relazione. (Deriu F., 2012)

 

La formazione al teatro, come in altre discipline specializzate, si attua attraverso scuole e accademie professionali, ma all’origine della nostra cultura come in altre civiltà, il teatro non riguardava solo le attrici o gli attori professionisti, bensì l’educazione della comunità, che fin dall’infanzia apprendeva a danzare, suonare, cantare e recitare e si riuniva per assistere alle rappresentazioni teatrali che non di rado avvenivano all’aperto, al cospetto delle forze naturali. Oggi invece oltre a privare la gioventù di questi importanti apprendimenti relegandoli in ambiti ricreativi sporadici e scolasticamente svalutati, si restringe la concezione formativa del teatro unicamente all’illustrazione di contenuti ideologici o letterari. L’arte teatrale invece veicola una specifica forma di conoscenza psicofisica, incarnata nella sapienza ritmica ed empatica di un agire di concerto. Questo avviene davanti a una comunità presente che attraverso l’atto performativo ricorda e rievoca empaticamente fatti, relazioni complesse e personaggi emblematici.  Un “esercizio”, come lo definisce lo studioso Antonio Attisani (Sini C., Attisani A., 2021), attuato per diventare applicazione fuori del teatro, nella vita vissuta del pubblico e del/della performer quando torna alla propria quotidianità. Attraverso questo prezioso evento partecipato il pubblico impara che mentre, con maggiore sensibilità e profondità di quanto non faccia nella vita ordinaria, osserva le relazioni interumane rappresentate nella loro complessità, il proprio stato vitale si alza. Se nella vita quotidiana ci schieriamo spesso, in modo strumentale e automatico, con l’una o l’altra parte in un conflitto, in teatro scopriamo la libertà di osservare tutto con più lungimiranza, più compassione e, con sguardo più vasto e profondo, possiamo empatizzare con la complessità della vita in atto. Questo fenomeno, favorito specie nel passato dall’immersione dell’evento teatrale e rituale nel paesaggio naturale, può accadere quando la qualità vivente dell’atto performativo è alta e la sua funzione è rifondare ogni volta l’appartenenza dell’individuo alla comunità.

La cultura orale, come abbiamo ricordato, non riguarda unicamente il “parlato” - che è inteso così solo da quando lo si è contrapposto allo scritto - ma tutto quello che ci va insieme: gesti, voce, respiri, silenzi, ritmo, espressioni (canto, danza, declamazione).  Le parole per millenni sono state soprattutto fenomeni udibili, un flusso sonoro di articolate qualità vibratorie che fuoriusciva dal corpo in un tutt’uno con movimenti, gesti, pause, ritmi, in una musicalità in costante relazione con le specifiche acustiche dell’ambiente circostante spesso composto di esseri viventi, umani e non. Solo la straordinaria invenzione della scrittura ha trasformato le parole in pezzetti di cose separate le une dalle altre, entità silenziose e statiche, da seguire con gli occhi su una riga e spesso in solitudine.  La cultura orale, che è stata esercitata per un tempo infinitamente maggiore della scrittura e, ovviamente, della neonata cultura digitale, non è stata smantellata da queste nuove forme di conoscenza e di comunicazione, ma solo trasformata. L’oralità permane e mantiene una sua importanza capitale perché radicata nella nostra natura vivente e nella nostra memoria biologica. Il non poterci incontrare durante le quarantene pandemiche ha gettato spesso nello sconforto, nell’angoscia, in profonda crisi gli adolescenti e così molti di noi adulti per non parlare degli anziani e della tragedia della solitudine delle loro morti.

Se le riunioni zoom si sono rivelate utilissime, certo non possono bastare ad esseri vivi e biologicamente interconnessi. In questi tempi in cui la tecnologia si svilupperà sempre più con i suoi irrinunciabili traguardi è necessario rigenerare e affinare un’arte della presenza dove il corpo del sapere teatrale può assumere una nuova, utile funzione.

I nostri corpi, modificati da ciò che facciamo nell’epoca in cui ci è dato vivere, dagli oggetti e dalle macchine che utilizziamo e con le quali incidiamo e trasformiamo il mondo mettendo schermi sempre più invalicabili al contatto con la realtà, non nascono come una tabula rasa, sono corpi storici frutto di un percorso millenario di trasformazioni dovute a modi di vita e forme di conoscenza del mondo diversi da quelle attuali. Per millenni il corpo con i suoi sensi, che possiamo ragionevolmente immaginare fossero nel passato molto più sviluppati dei nostri, si è depotenziato adattandosi via via agli strumenti sempre più efficienti che ne costituiscono il prolungamento. Ma prima degli utensili e delle macchine eso-somatiche, lo strumento umano per eccellenza, nel senso che fa l’umano tale, è il linguaggio stesso, veicolo essenziale di conoscenza e trasmissione del sapere.  Probabilmente proprio il teatro, con la parola come prima maschera, come ci ricorda il filosofo Carlo Sini (Sini C., Attisani A., 2021), è stata la prima forma di conoscenza di sé stessi e del mondo, il raddoppiamento necessario per poter osservare dal vivo e indagare la nostra realtà umana, trasmetterne i provvisori risultati e nello stesso tempo affinare quella capacità d’intesa che rinnova ogni comunità conoscente.

Le scienze biologiche più avanzate mettono, in modo inedito, proprio il corpo al centro della persona. L’epigenetica ci dice che anche l’ambiente fisico e sociale, le esperienze culturali e le abitudini psicofisiche trasformano, anche se in modo reversibile, la nostra stessa biologia. L’idea del corpo contrapposto alla mente o al massimo da questa colonizzato, scientificamente non ha più senso. Man mano che queste conoscenze si evolvono, la persona coincide sempre più col suo corpo biologico inteso non tanto come contenitore dell’individuo, ma come l’insieme delle emozioni, delle sensazioni e percezioni, dei pensieri nella loro capacità d’intessere molteplici e articolate relazioni “simbiotiche” con il mondo circostante e i suoi elementi. La nozione stessa di individuo viene messa in discussione come istanza culturale immaginaria e sostituita da quella di “coindividuo”. (Sini C., Redi C. A., 2018)

A mio avviso, questi nostri tempi malati ci chiedono, e disperatamente, di sviluppare non solo tecnologie, economie, concezioni intellettuali e soluzioni algoritmiche in vista della riconversione ecologica, ma uno specifico corpo del sapere ecologico, empatico, in ascolto della natura e capace di godere profondamente dell’empatia con gli altri esseri.

Decisivo può essere in questo il sapere della danza, del canto e del poetare ad alta voce negli spazi naturali che condividiamo con gli altri viventi e in ascolto di questi. Da queste esperienze collettive si formerebbero pratiche in grado di rigenerare una affinata conoscenza goduta e condivisa, da integrare alle conoscenze scientifiche e filosofiche per una nuova etica di alleanza tra viventi.

 

Questa lunga premessa vuole illustrare l’orizzonte di riflessioni in cui mi sto muovendo e nel quale però riconosco le intuizioni giovanili che fin dall’inizio, con una consapevolezza in parte diversa da quella di oggi, hanno guidato la mia formazione. Quella fame culturale, quel forte bisogno personale di colmare le mie lacune, quel desiderio di libertà, di avventura, di una società diversa che animava il fermento culturale di quegli anni, e l’incontro con maestri decisivi, mi hanno formato in modo anomalo,

rendendomi adatta ad un progetto di ricerca come quello del TeatroNatura che poi, attraverso incontri e collaborazioni diverse, si è andato incarnando e nel tempo ha preso forma. Queste riflessioni come quelle che seguono non rimangono perciò solo in una sfera concettuale ma emergono da una pratica concreta e da una formazione permanente. In particolare in questo momento sono frutto della profonda crisi impostami, nei mesi di clausura, dal Covid 19 dalla quale sono riuscita a riemergere solo cominciando un’opera di scavo nell’archivio dei nostri trent’anni di attività con l’intenzione di dissotterrarne gli elementi più vitali. Non c’è formazione efficace senza una visione.

Mai come adesso mi sembra necessario mettere a punto dei percorsi formativi con cui poter esercitare la potenzialità educativa raggiunta in anni di ricerca e a contatto con i luoghi naturali e gli esseri che li abitano.

Se dovessi riassumere il compito che ci aspetta, lo farei con una formula programmatica articolata in due passaggi fondamentali: nel primo si tratta di riconoscere nella contrapposizione tra cultura e natura, su cui si incardina la nostra civiltà e i suoi non disconoscibili risultati ma anche i suoi altrettanto non disconoscibili disastri, un errore di giudizio da emendare con un assunto più corretto che riconosce nell’essere umano un animale naturalmente destinato alla cultura. Nel secondo passo, che è il compito che ci aspetta se vogliamo sopravvivere come specie e che prevede necessariamente il riconoscimento del primo assunto, è necessaria una trasformazione della coscienza per realizzare un essere umano culturalmente destinato alla Natura. La Natura è origine e destinazione.

 

  

Autobiografia e formazione 

Qualunque cosa io possa raccontare sulla mia formazione parte, ed è parte, della mia autobiografia e cioè dell’ambiente in cui sono nata e cresciuta, dei tempi storici che ho vissuto e del mio modo di viverli, delle persone che ho incontrato, delle scelte che ho fatto o subito, e persino del mio modo di raccontarle. Non c’è nulla che possa essere detto o fatto, per me come per tutti, al fuori di questa condizione autobiografica. Può sembrare un’affermazione narcisistica e forse in parte lo è ma, ciò non di meno è, nella sua irriducibile parzialità, la realtà più completa e complessa a cui io possa accedere. Per non perdermi  nella miriade di irrinunciabili volumi sulla formazione, alla fine debbo comunque tenermi alla mia esperienza e al mio campo d’azione dove non tutto appare conseguenziale come nel curriculum vitae, ma emerge come frutto di misteriose  situazioni concomitanti, incontri folgoranti e casuali, incroci storico sociali, porte che si sono aperte d’improvviso invitandomi ad entrare o  mi si sono dolorosamente chiuse in faccia, e poi tanto allenamento e studio monomaniacale per arrivare a qualcosa che non ho mai saputo bene cosa fosse, ma ho sempre sentito come necessario.

 

 

Un procedere a tentoni e perciò forse con i sensi acuiti, per costruire o trovare, nell’oscurità, dei gradini, sondare punti d’appoggio per poter procedere.

Recenti studi confermano che la nostra formazione è in atto già prima della nostra nascita,

nelle predisposizioni indicate dal nostro codice genetico, nelle tracce in noi dei nostri più remoti antenati che, appena veniamo al mondo, interagiscono con la nostra esposizione all’ambiente culturale, emotivo, cognitivo, economico della nostra famiglia, determinando l’apprendimento “automatico” di tipo 1 di cui parla G. Bateson. Come apprendevano i nostri genitori? Come ci facevano vivere? Cosa ci inculcavano? Cosa ci tenevano nascosto?  Quali segreti familiari che, per “lealtà” verso di loro abbiamo accettato di non indagare, hanno inibito o istigato in noi il rischio della scoperta e della ricerca della “verità” come l’avremmo chiamata da bambine o dell’“autenticità “come diremmo, più accorte, oggi? Ancor prima dell’adolescenza in cui, particolarmente vicine al nostro destino, abbiamo deciso chi volevamo essere e di cui narrano i conturbanti romanzi di formazione, c’è l’infanzia, l’epoca in cui nasce il carattere, il modo personale di reagire alle ferite dell’orgoglio, alla delusione del sentirsi non visti, non amati come si vorrebbe, in cui abbiamo appreso a stare insieme, a dire io, tu, noi, voi e giocoforza a nostro modo abbiamo imparato a imparare.

 


Infanzia 

È una famiglia borghese benestante. I libri sono soprattutto romanzi classici, un paio di enciclopedie, una serie di gialli, molti dischi di musica classica, di cultura scientifica quasi nulla. Tua madre da quando hai 10 anni è gravemente depressa, ha un temperamento tormentato e teatrale, con sbotti di collera terribili, incline alla paranoia e con un’attrazione ricorrente per il suicidio. Molto presto tu impari a difenderti dalla tensione emotiva che circola in casa, chiudendo un po’ il cuore e sdrammatizzando. Con lei le tue incursioni umoristiche funzionano ma per poco tempo, allora le fai lunghi discorsi raziocinanti che mescolano il buon senso a “ragionamenti filosofici” per convincerla che non può essere vero che se esce di casa tutti piangono a vederla, che papà influenza le trasmissioni alla tv per farla impazzire, che il cancro la sta divorando e nessuno vuole ammetterlo.  Intanto questi accorati discorsi improvvisati ti svelano gli aspetti metaforici, i rischi e il potere del linguaggio verbale, dei toni di voce, dei doppi sensi, delle sfumature, degli ingorghi emotivi che generano, e se momentaneamente la calmano non hanno su di lei l’effetto definitivo che vorresti.  Alla fine tutto si risolve con quel suo penoso scuotere la testa: “Come sei intelligente! ma troppo buona, perciò non riesci a vedere come tutto sia solo una farsa. Tuo padre pensa agli affari e non vuole vedere come i genitori corrompono i figli”. No tuo padre non lo vede, lavora tutto il giorno perciò è compito tuo e i tuoi fratelli controllare vostra madre e organizzarvi nel chiamare l’ambulanza per la lavanda gastrica e tu impari a tradirla sedandola di nascosto con le medicine che non vuole prendere. Dovete restare responsabili anche quando vi fa paura nelle crisi psicotiche o troppa pena intontita dagli elettroshock, dovete comunque essere “per bene”, bravi a scuola. Papà non ci fa mai complimenti e non ci incoraggia mai, l’educazione che ha ricevuto e ripropone è autoritaria, esigente e affettivamente assente: non può essere messo in discussione perché “lo fa per la famiglia”. Educarci è dimostrarci che lui conosce il mondo, che tu e i tuoi fratelli non capite niente e se non farete come dice sarete dei falliti: è una strategia educativa o pensa davvero quello che dice? Tu senti che ha cessato molto presto di vederti, non si accorge più del tuo nome ma solo del tuo ruolo e del cognome che porti: insomma che sei sua figlia, questo è tutto. A te sembra troppo poco e quando un giorno, hai 9 anni circa, lo senti dire a tuo fratello con uno strano tono di voce ”non sparecchiare, sono cose da femmine”,  

d’improvviso ti svegli in una realtà distopica che fatichi a comprendere: il mondo è uno ma appare diverso se sei maschio o femmina, avverti che i giochi sono truccati ma nessuno sembra curarsene, allora ti conviene allenarti, come fosse normale, a una specie di identità indefinita che  va dall’essere donna , all’essere neutra come facente parte dell’umanità, al doverti identificare anche nella parola “uomo” quando al contrario i maschi si individuano differenziandosi e svalutando il femminile …questo sguardo incerto su di te,  ti insegna a dissimulare, a reprimere il senso d’ingiustizia di cui nessuno sembra accorgersi, a convivere con sorta di strabismo dell’anima. Ma non hai voglia di frustrazioni e rivendicazioni, hai bisogno che il mondo sia interessante, profondo, con un senso misterioso da incontrare.  Già da bambina la tua strategia è di fuga nella fantasia, nella lettura, nella mitologia poi nei romanzi e nella musica: è lì che ritrovi le tue inquietudini, i tuoi desideri di bellezza, un senso alle ambiguità che ti attraversano, una possibilità dell’amore che trasforma la desolazione in vitalità, e ne sei avida. Sono tempi in cui i ragazzini escono in gruppo in bici, e a Roma ci sono ovunque montagnole di verde, parchi che sconfinano nella campagna, marane un po’ sordide ma trafitte dalla bellezza dei tramonti in cui incontrarsi e condividere avventure. Zone di libertà che i bambini e le bambine attuali attaccati ai loro dispositivi elettronici non sembrano conoscere più. 

E poi sei la maggiore: in quell’infanzia difficile, senza esserne troppo cosciente, sei in prima linea, schermo, punto di riferimento di una sorella e un fratello più piccoli ma molto vicini a te di età e di un fratello venuto 10 anni dopo, la cui nascita ha coinciso con il peggioramento psichico di quella tua madre così singolare, ma anche, l’hai scoperto da più grande, ben inserita in un’ampia schiera di donne borghesi depresse che in quegli anni entravano e uscivano dalle cliniche per malattie nervose,  quelle di cui scriveva Peter Hanke, parlando di sua madre,  nell’angosciante e bellissimo libretto intitolato “Infelicità senza desideri”. Mamma avrebbe voluto fare il teatro e quando eravamo piccoli ci metteva seduti davanti a lei e ci recitava Baudelaire e Shakespeare in lingua originale. Non capivi nulla, ma il carisma e l’intensità della sua presenza erano per te spaventosi e affascinanti. Forse perché non hai voluto farti una famiglia tua sei restata sempre una “sorella maggiore”, e da questa postazione esistenziale hai prevalentemente guidato la tua compagnia teatrale e i gruppi nei tuoi laboratori di formazione. A volte lo senti come una lacuna nella tua capacità di assunzione di responsabilità, a volte ti sembra una forma di onestà.

 

Mi sono dilungata nel tratteggiare la mia infanzia perché sempre più scopro come già da allora si sia andato delineando il mio percorso formativo. L’infanzia ci condiziona tutti ma per l’artista quel periodo resta per sempre un punto d’attrazione, la fonte della creatività. Quelle inquietudini angosciose, quei sogni incantati, quelle risate a piena gola

sono tutto. Non perché si voglia restare lì, tutt’altro, ma perché il tempo non esiste e ogni opera creativa tenta di sanare quelle ferite personali trasformandole nello specchio di ferite sociali ed esistenziali che coinvolgono tutti. Di fronte al pubblico, nel contatto con

le attrici e gli attori durante le prove o con i partecipanti a un corso formativo sul TeatroNatura, saper richiamare in vita il corpo memoria dell’infanzia è sempre una chiave feconda verso l’autenticità del sentire e dell’esprimere.

 


Adolescenza 

L’aver frequentato la scuola in un istituto di suore fino al ginnasio ha inciso sulla mia formazione almeno per due ragioni. Stimavo e rispettavo le mie insegnanti religiose che erano colte e di mentalità piuttosto aperta e, tranne per lo sgomento all’idea della loro rinuncia alla sensualità, non provavo nessuna repulsione per quella loro vita comunitaria che già mi sembrava una possibile alternativa alla creazione di una famiglia di cui non avevo un esempio troppo rassicurante. Frequentavo i ragazzi nel tempo libero aprendomi all’erotismo, ma a scuola eravamo tutte ragazze e almeno nell’apprendimento mi sentivo libera di essere me stessa, senza confronti o sguardi maschili addosso e credo che ciò nei fatti abbia attenuato un po’ l’impatto della cultura misogina e patriarcale sullo sviluppo della mia personalità. Durante il ginnasio però ho cominciato a sentirmi stretta in quell’ambiente culturale dove l’orientamento religioso aveva troppe risposte già pronte.  Volevo poter indagare gli aspetti oscuri e luminosi della realtà seguendo un itinerario personale senza dogmi. Fu rivelatoria la lettura a 15 anni di Totem e Tabù di Freud che mise radicalmente in discussione il mondo confessionale che mi circondava. Non ho avuto pace finché non sono riuscita a frequentare un liceo pubblico dove poter avere un’istruzione laica, che immaginavo più contraddittoria e perciò più avvincente e complessa, più libera nella “ricerca della verità”.  Ma nel mio lavoro teatrale ho tratto vantaggio da quell’istruzione cattolica soprattutto per la familiarità, non solo intellettuale, con le storie che avevo amato del Vangelo, della Bibbia, dei santi, storie che ritrovavo nella pittura, nella scultura, che risuonano nella letteratura, insomma di quell’immaginario  collettivo che per secoli è stato una base culturale trasversale in classi sociali differenti e che, in parte rimosso, fa ancora parte della nostra psiche e il cui portato simbolico e mistico ha sempre continuato a suscitare il mio interesse. Ma ho mai potuto credere in una religione in cui le divinità sono solo maschili.

 

L’amicizia con alcuni compagni della nuova scuola è stata il cuore della mia formazione giovanile, ma l’avvenimento più importante del liceo è stato l’incontro con Franco Serpa che fu nostro professore di latino e greco per un anno soltanto prima di andare ad insegnare filologia classica all’Università di Trieste. Con lui, che era anche un fine musicologo, la cultura classica mi si è spalancata come un’esperienza non solo intellettuale ma emotiva, sentimentale e collegata in modo vivo a tutta la cultura occidentale, compresa quella contemporanea. Serpa, estremamente competente ed esigente nelle sue materie, era anche dotato di una notevole capacità pedagogica. Durante le sue lezioni, che ascoltavamo a bocca aperta, poteva passare da Orazio a Nietzsche, da Wagner a Levi Strauss, da Beckett a Grotowski. Intorno a lui si era formato un cenacolo ristretto di allievi tra i quali intuivo un’intesa implicita che apparteneva al loro essere maschi in cui il maestro si rifletteva negli allievi e viceversa. Puntando sulla mia simpatia

e il mio senso dell’umorismo, trovavo tutti i modi per intrufolarmi in quelle riunioni e per quanto fossero alla fine tutti gentili con me, continuavo a sentirmi esclusa, proprio in quanto donna, da quella complicità che affondava nelle radici patriarcali, anche se in quelle più nobili, della nostra cultura e che soffrivo quasi fosse un dato biologico irreversibile. Non è facile spiegarlo, si tratta di sguardi, modi di articolare la voce, di far circolare la conversazione, aspetti spesso inconsapevoli ma non per questo meno reali. Non posso qui dilungarmi né su questo aspetto né sul fortunato, cruciale incontro per la mia evoluzione con Franco Serpa che si è trasformato in una affettuosa amicizia che dura fino ad oggi, ma l’ho riportato anche come testimonianza di quella forma di solitudine, di “estraneità in casa propria” con cui una ragazza in formazione si trova prima o poi a dover fare i conti. Naturalmente la scoperta del movimento e del pensiero femminista mi fu, in quegli anni, di grande aiuto per comprendere come la mente patriarcale non sia immutabile.  In ogni caso, è grazie anche all’insegnamento vasto e per nulla scolastico di Franco Serpa se oggi racconto i miti antichi a teatro sentendomi, a mio modo, canale non tanto di una cultura classica specializzata a cui sarebbero interessati solo gli addetti ai lavori, ma dell’universalità archetipica di quei miti presenti nella pittura, nella scultura, nell’architettura, nella letteratura, nell’inconscio risvegliato dalla psicoanalisi, in quella “Grecia psichica”, come la chiama J. Hillman, che attinge a un patrimonio culturale a cui tutti possono trovare il loro accesso rigenerativo, i bambini come i professori universitari, chi non è mai stato a teatro così come il pubblico medio. I miti, quando credi di averli compresi si rivoltano nel loro contrario, nel loro linguaggio poetico ci parlano del passaggio traumatico dal mondo matrilineare a quello patriarcale offrendoci figure femminili di una potenza dimenticata e ci connettono a quel bisogno di nobiltà, sensualità, complessità poetica che la vita ordinaria e il retaggio cattolico opprime, quel mondo ai confini tra il desiderio e la morte che nella fretta di vivere dimentichiamo. Nella formazione artistica, ancor più del successo socialmente riconosciuto, è il contatto con un mondo originario di cui scoprirsi canale che legittima davvero l’incontro col pubblico. (Falcolini L., 2019)

 


Gioventù 

Durante gli anni dell’università gli incontri importanti sono stati molti. Accennerò a quelli più importanti e al fatto che il teatro in quella seconda metà del secolo, benché totalmente soppiantato dal cinema e dalla televisione, aveva ancora una importante rilevanza culturale. Il 900 è stato il secolo delle più ardite e profonde rivoluzioni teatrali, un luogo di libertà creativa, sperimentazione culturale, politica, e spirituale, oggi inimmaginabile, e in cui il teatro ripensando la società rifondava continuamente sé stesso.

Appena finita la scuola provai ad entrare all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico ma non venni presa. Mi dispiacque ma non troppo perché in quegli anni, era il 77, questa istituzione era poco vitale e distante da quanto accadeva nella società e dalle proposte teatrali più innovative.

Negli anni 80/90, il teatro Ateneo diretto da Ferruccio Marotti alla Sapienza a Roma (Bramini S. 2010) era un luogo culturale molto vivo, aperto, oltre che agli studenti, alla società civile che partecipava agli spettacoli, alle conferenze e ai laboratori dei Maestri di teatro che erano invitati. Qui ho conosciuto il Terzo Teatro fondato dall’Odin Teatret di Eugenio Barba, una rete internazionale di compagnie teatrali ribelli che non si esibiscono in teatri convenzionali ma sostenendosi a vicenda difendono la dignità dell’artigianato artistico teatrale opponendosi alla sua industrializzazione. Al Teatro Ateneo ho frequentato per due anni la scuola di drammaturgia di Eduardo de Filippo (1999), una vera fucina di scrittura in cui ho potuto provarmi e sperimentare liberamente ma soprattutto ho potuto incontrare assiduamente dal vivo un geniale interprete di quella tradizione teatrale italiana che affonda le radici nell’artigianato della commedia dell’arte e nel capocomicato, connesso con il teatro contemporaneo per molti aspetti. Sentire i suoi racconti di figlio d’arte, osservarlo e assistere alle sue prove con gli attori è stato un impagabile privilegio formativo.  Potrei ricordare molti episodi di quelle lezioni che per me sono stati illuminanti assunti, per la maggior parte, alla mia consapevolezza di teatrante anche molti anni dopo. L’altro incontro cruciale è stato, sempre nell’82, quello con il grande regista polacco Jerzy Grotowski che rifugiato in Italia durante il colpo di stato in Polonia fu professore a contratto a La Sapienza per tre mesi. Il suo corso intitolato “Le tecniche originarie dell’attore” non aveva nulla di accademico. Grotowski (2016) ci apriva alla condizione antropologica fondamentale iscritta nel corpo del performer connettendola alle pratiche di culture rituali, da lui incontrate in prima persona, in cui la sacralità veniva ancora veicolata attraverso gli strumenti performativi della danza, la musica, il canto, e lo faceva in un modo da spingermi a interrogarmi sulle ragioni profonde della mia “vocazione teatrale”. Al termine del corso in cui, davanti ad una platea di studenti, artisti, intellettuali che cresceva sempre più, raccontava dei suoi viaggi enucleando temi transculturali di estremo interesse e rispondeva a tutte le nostre domande, Grotowski offrì, a chi lo aveva seguito con costanza, alcuni giorni di esperienza pratica. Queste proposte avvennero nella casa laboratorio di Cenci ancora in costruzione, in uno scorrere del tempo completamente immerso nella pratica del silenzio e nella campagna umbra, ed erano legate al suo progetto parateatrale chiamato Teatro delle sorgenti che “indagava l’incontro del drammatico con l’ecologico attraverso azioni di contatto tra attori/ attuanti e paesaggio naturale, azioni che permettessero di  dilatare la presenza del vivente al di là della storia o la cultura delle singole persone” (Borelli M., 2015), sul quale feci la mia tesi di Laurea (1995)  e che condizionò irreversibilmente la mia scelta teatrale. Dopo aver frequentato la scuola teatrale di Alessandro Fersen, e aver fatto alcune esperienze come scritturata in compagnie di giro che mi convinsero che quella non era la mia strada, dopo un viaggio cruciale a Bali in cui feci esperienza della relatività culturale del mio modo di vedere le cose, nell’attraversare una profonda crisi esistenziale, decisi infine di dedicarmi a un mio teatro.  Frequentai una serie di laboratori intensivi sul movimento e la voce per capire come lavorare alle mie lacune teatrali, e formai una compagnia di giovani interessati a sviluppare un progetto nella natura che nel ‘92 chiamai O Thiasos TeatroNatura. La nuova avventura era cominciata e, anche se la tradizione del teatro di ensemble andava declinando, ho avuto per anni un gruppo con cui mi allenavo quotidianamente nella natura, nei parchi romani più “selvaggi” o in varie campagne d’Italia, sviluppando un linguaggio artistico che confluiva negli spettacoli o nei laboratori teatrali. Decisiva fu all’inizio l’esperienza decennale (‘88/’98) di partecipazione a La fiera delle Utopie Concrete, concepita da Alexander Langer insieme ad altri rilevanti intellettuali del pensiero ecologico europeo, in cui presentai ogni anno un mio nuovo lavoro ad un pubblico speciale. Un appuntamento che mi aiutò ad evolvere un progetto teatrale nella direzione che sentivo. Le pratiche del nostro TeatroNatura, approfondite e messe a punto negli anni, costituiscono la base dei percorsi formativi rivolti a bambini, insegnanti, attori, guide naturalistiche o archeologiche e cittadini in cerca di una trasformazione personale e culturale.

 

 

Conclusioni 

Attraverso la tecnologia digitale possiamo ormai ottenere ad una velocità vertiginosa una mole di nozioni e calcoli prima inimmaginabili. Ma la conoscenza non è la quantità di informazioni a disposizione. La sedimentazione filosofica della cultura con cui poter orientare le nostre scelte è uno dei problemi contemporanei principali. L’altro è la perdita di contatto vitale con sé stessi e gli altri, l’allontanamento da una conoscenza vissuta in grado di far evolvere la nostra umanità. La pratica teatrale come filosofia incarnata, specie quella nella natura, può contribuire ad una formazione verso la conversione ecologica, il pensiero del cuore, la giustizia sociale e l’arte di vivere.

 

 

Bibliografia