Riflessioni Sistemiche n° 24


Educazione e Formazione:
livelli, problemi e prospettive

È possibile insegnare matematica non “per deficienti”?


di Giordano Bruno

Università Mercatorum
ISIA Roma Design

Nota
Per le rappresentazioni matematiche graficamente corrette si rimanda alla versione in pdf

Sommario
Bruno de Finetti, da alfiere di un insegnamento della matematica che non consideri dei poveri ‘idioti’ gli studenti, ha individuato nel ‘fusionismo’ il metodo che, a mio parere, può far sì che costoro ‘abbiano una testa ben fatta piuttosto che una testa ben piena’ (riprendendo il famoso motto di Montaigne). Dal ‘fusionismo’ al pensiero ‘sistemico’ il passo non è così lungo e qui propongo come questo possa realizzarsi.

 

Parole chiave
Fusionismo, matematica, arte, scienza, filosofia, storia, letteratura, musica, sistemica

 

Summary
Bruno de Finetti, as a paladin of a teaching of mathematics that does not consider the students poor ‘idiots’, has identified in ‘fusionism’ the method that, in my opinion, can make them “have a well-made head rather than a well-filled head” (taking up the famous motto of Montaigne). From ‘fusionism’ to ‘systemic’ thinking the step is not so long and here I propose how this can be achieved.

 

Keywords
Fusionism, mathematics, art, science, philosophy, history, literature, music, systemics


 

Prologo
 

 “CONTRO LA ‘MATEMATICA PER DEFICIENTI’”

 

“Condanna delle tendenze a immiserire e svuotare la matematica e, peggio, l’insegnamento della matematica (a tutti i livelli), di quanto essa contiene di significativo, di intuitivo, di istruttivo, di intelligente, di affascinante, di stimolante, riducendola a ‘MATEMATICA PER DEFICIENTI’”

 

Bruno de Finetti, Periodico di Matematiche, (1974), 50, 1-2, pp. 95-123

 

 

 

Premessa 

Ho fatto riferimento ad un articolo del grande matematico italiano, eminente figura del pensiero ‘non lineare’ del novecento, rappresentante e interprete di un modo di pensare assolutamente personale, che è sottolineato nell’Introduzione (curata da Giulio Giorello e da me) del suo volume “L’invenzione della verità”, opera scritta nel 1936, ma pubblicata solo nel 2006, per la collana Scienza e Idee di Cortina editore, dove si afferma che:

 

… “non si coglierebbe appieno l’originalità della proposta definettiana se non si tenesse conto della matrice ‘pragmatistica’ e ‘relativistica’ evocata sin da “Probabilismo”…

(Saggio critico sulla teoria delle probabilità e sul valore della scienza, in Logos, Libreria editrice Perrella, Napoli, 1931).

 

I suoi riferimenti intellettuali furono Giovanni Papini, Mario Calderoni, Giovanni Vailati e Adriano Tilgher. Quest’ultimo, autore di un volumetto “Relativisti contemporanei”, pubblicato da G. Bardi, Roma, 1944, molto apprezzato da de Finetti. Riporto sempre dall’Introduzione, già citata, un periodo tratto dal volumetto che esprime il sentire di Tilgher, ma che ben si adatta anche a Bruno de Finetti:

 

il pensiero non è […] quale lo crede la coscienza volgare: uno specchio in cui si riflette immutata una realtà esterna a noi, che, se fosse veramente tale, non si vede in qual modo potrebbe comunicarcisi nella purezza della sua natura: è semplicemente una funzione biologica, un mezzo per orientarsi nella vita, per conservarla e arricchirla per rendere possibile e facile l’azione, per fare i conti con la realtà e dominarla.

 

Ho avuto la buona sorte di essere allievo di Bruno de Finetti, una delle tante fortune che mi sono capitate nella vita, ed ecco perché ho voluto citare quel suo articolo ‘provocatorio’ all’inizio del mio contributo. Insieme a lui ricordo con piacere, altri studiosi da me considerati anch’essi ‘maestri’ come Lucio Lombardo Radice, Emma Castelnuovo e, sebbene non noto come gli altri, anche Sebastiano Conte, che ho avuto l’onore di avere come collaboratore e amico.

 

Ho solo un grande rammarico che, nonostante lo sforzo di tutti costoro e di tanti altri che hanno trascorso la loro vita per far cogliere la matematica e il suo insegnamento come qualcosa di profondamente diverso da ciò che ancora oggi è e si manifesta (seppure con qualche miglioramento), il loro esempio e la loro voce non siano riusciti a scalfirne profondamente una visione retriva, retrograda, inadeguata al riconoscimento della ‘bellezza’ della matematica e del contributo che può dare alla  formazione di una mente intuitiva e creativa!

  

 

Il “teorema” in cui ‘credo’ 

“Teorema”: La matematica può (e deve) essere insegnata non ‘per deficienti’.

 

“Dimostrazione”:

 

quello che sto per esporre è un breve riassunto (non lineare, né nel tempo, né nello spazio) di quanto ho cercato di fare per rendere attuabile la tesi del suddetto “teorema”, da quando nel 1973 mi sono laureato in Matematica.

Tutta la “dimostrazione” sarebbe estremamente lunga e non entrerebbe in questo scritto, né mai potrebbe rappresentare l’esperienza fatta, che di per sé è sempre più ampia e complessa di una sua esposizione.

 

D’altra parte, per rimanere in questo ambito, è esemplare osservare che per dimostrare il così detto “Ultimo teorema di Fermat”, ci siano voluti secoli e lo sforzo di numerosissimi matematici e non, per arrivare alla dimostrazione che ha richiesto ad Andrew Wiles di applicarvisi per oltre sette anni.

L’enunciato del teorema è molto semplice: non esistono terne (x,y,z) che soddisfino l’equazione xn+yn = zn  per n intero maggiore di 2 (è ben noto che esistono soluzioni per n=2, e queste terne sono dette ‘pitagoriche’, a causa del famoso teorema di Pitagora). Pierre de Fermat, giurista e matematico del diciassettesimo secolo, attorno al 1637, nel margine di una pagina della traduzione latina della “Aritmetica” di Diofanto (che studia le soluzioni intere o razionali di alcune equazioni algebriche), annotò che era impossibile suddividere ciascuna delle potenze superiori alla seconda in due potenze dello stesso grado e che di questa proposizione aveva scoperto una demonstratio mirabilis. Purtroppo, il margine della pagina era troppo esiguo per poterla riportare.

Solo nel 1995 Wiles ci fornisce la risposta definitiva al mistero dell’ultimo teorema di Fermat. Ci sono voluti circa 350 anni e ancora, per superare gli ultimi ostacoli, circa 150 pagine che attingono alle più sofisticate tecniche sviluppate nel corso degli ultimi decenni in algebra, analisi e geometria.

 

Può essere questo un primo esempio di come in matematica ciò che ci appare semplice si accompagna spesso ad una straordinaria complessità.

 

Ritornando alla mia “dimostrazione”, l’aspetto fondamentale del mio assunto è che un insegnante deve pensare di avere davanti a sé (o meglio insieme a sé) un insieme di persone potenzialmente non solo in grado di apprendere quanto ‘snocciolato’ dal docente, ma soprattutto in grado di percorrere un loro cammino verso la conoscenza, fatto anche di inciampi, di errori, utilizzando la loro intuizione, intelligenza e creatività, tanto da comprendere dove si è giunti, se è il caso di fermarsi per un po’ o di procedere ancora un passo in avanti, con un processo di ‘autopoiesi’ ed ‘autoregolazione’.

  

 

Il ‘fusionismo’

 

Ho sempre indicato nel fusionismo il principale concetto di base per il miglioramento dell’insegnamento e della comprensione della matematica. Nel senso più specifico, in cui fu introdotto da Felix Klein, il fusionismo consiste nella fusione dello studio di geometria da una parte e di aritmetica, analisi ecc. dall’altra; più in generale si tratta di fondere in modo unitario tutto ciò che si studia (anche interdisciplinarmente, tra matematica ...), mentre le tendenze antiquate predicavano il ‘purismo’ di ogni ramo da coltivare isolato senza contaminazioni.”

In de Finetti B., Contro la «Matematica per deficienti», Periodico di Matematiche, vol. 50, n. 1-2 1974.

 

In queste poche parole è riassunto il fondamento del pensiero definettiano su come debba essere improntato ed esercitato l’insegnamento della matematica, e non solo.

Ciò che è realmente importante nell’insegnamento della matematica, non è il saper ripetere quanto studiato o solo l’impossessarsi di una tecnica di calcolo – e mi viene da dire che nella maggior parte dei casi è questo che si intende per studio e conoscenza della matematica, riducendola così ad una sorta di mero algoritmo esecutivo – ma nel saper vedere e riconoscere problemi, nel cercare di ragionare su di essi, attraverso il linguaggio e la cultura matematica. Occorre, però, per acquisire queste capacità, saper stabilire i collegamenti più vari esistenti fra diverse discipline, o all’interno di una stessa disciplina, in modo da ‘fondere’ quanto rilevato in una osservazione strutturale. E occorre soprattutto motivare quanto si tratta, facendolo scaturire da aspetti che si possono cogliere nella letteratura, nella filosofia, nella storia, nella musica, nell’arte, nel design …..Provocando, così nell’allievo, il sapore e la passione della scoperta.

In “Il saper vedere in matematica”, breve e meraviglioso volume pubblicato da Loescher nel 1967, a pagina 13 de Finetti si esprime così:

Le singole cose che uno apprende (a scuola o non importa come) sono dei pezzi utili per il montaggio di una efficiente macchina intellettuale ed utili se ed in quanto vengono utilizzati per tale montaggio. Cosa direste di chi acquistasse le parti occorrenti per mettere insieme un’automobile (o un apparecchio radio, o magari un giocattolo) e invece le conservasse inutilizzate, vuoi trascuratamente in disordine, vuoi esposte in bell’ordine in una vetrina? Perciò diciamo che capire significa collegare.”

 

Inoltre, riprendendo dallo scritto “Bruno de Finetti e l’insegnamento della matematica nella scuola secondaria” di Silvia Capuzzo e Erika Luciano in Conferenze e seminari 2011-2012 dell'Associazione Subalpina Mathesis a cura di F. Ferrara, L. Giacardi, M. Mosca, Editore  Kim Williams Books, 2012:

 

“Secondo de Finetti la matematica, lungi dall’essere una disciplina fine a se stessa, deve essere necessariamente orientata all’interpretazione dei fenomeni naturali e dei processi peculiari dell’attività mentale umana. Solo intrattenendo stretti legami con le altre scienze, verso le quali non deve manifestare alcun spirito di competizione o di esclusivismo, la matematica può infatti svolgere la sua autentica ‘funzione vivificatrice’ che

 

«… sgretola, scava, corrode con la sua critica, le certezze di oggi il cui crollo ci può atterrire, ma essa sta già sempre tessendo, spesso anche senza rendersi conto di tale destinazione, la tela di ragno della nuova provvisoria certezza.» (in de Finetti B., La funzione vivificatrice della matematica, 1949, pag. 34)

 

Il compito della matematica non è allora quello di “fare i calcoli”, bensì quello di

 

«abituare a vedere ogni cosa in prospettive più penetranti e suggestive, a “crearsi” modelli secondo le esigenze e vagliarne la funzionalità per sempre meglio adeguarli ad esse.»  (in de Finetti B., Obiettività e oggettività: critica a un miraggio, 1962, pag. 356)

 

È, questa, una visione ben lontana da quella comunemente accettata e de Finetti ne è conscio: alla maggior parte delle persone, infatti, nulla appare tanto arido, freddo e inutile quanto la matematica, considerata una materia ‘difficile’, preclusa a chi non è dotato di speciali attitudini. Tale preconcetto, rafforzato dalle infelici esperienze scolastiche vissute dai più, porta inevitabilmente a credere che, ad eccezione del saper far di conto, la matematica risulti del tutto priva di utilità nella vita quotidiana. Di fronte a questo quadro di dilagante analfabetismo scientifico, la diagnosi è secca:

 

«la colpa è nostra, dei matematici, perché non vogliamo o non cerchiamo o non sappiamo presentare la matematica in modo rispondente alle esigenze del profano.»  (in B. de Finetti, Programmi e criteri per l’insegnamento della matematica alla luce delle diverse esigenze, 1965, pag. 120)

 

E ancora le autrici continuano:

 

“A rendersi urgente è, di conseguenza, una riforma radicale e globale dell’insegnamento della matematica. Per giungervi, è essenziale partire, secondo de Finetti, da una critica attenta e da una denuncia senza reticenze delle ‘storture’ o ‘malattie’ che affliggono il sistema scolastico italiano, in modo da suggerire soluzioni mirate alle reali esigenze dei singoli contesti educativi.

Il primo difetto individuato è la chiusura di pensiero che caratterizza, nella tradizionale impostazione didattica, la trasmissione e l’acquisizione della conoscenza, ovvero la deleteria tendenza a veicolare la scienza sotto le mentite spoglie di un sapere a-storico e fossilizzato, i cui risultati sono assunti come verità eterne e indiscutibili.” (Capuzzo S., Luciano E., 2012, pag.165)

Per di più:

 

«le “verità di oggi” …, ma presentandole come “le verità di oggi”, cioè come una tappa raggiunta dopo e grazie a tante altre» (in B. de Finetti, Scatenare l’intelligenza, non soffocarla, 1960. pag. 14)

 

“In questa nuova forma di presentazione dei contenuti scientifici non devono essere omessi neppure gli ‘errori’, alla cui analisi de Finetti attribuisce – à la Enriques – un ruolo fondamentale nel processo cognitivo e di apprendimento. Il loro esame, infatti, da un lato consente all’allievo di cogliere con maggiore consapevolezza la genesi dei concetti astratti e, dall’altro, permette al docente di stabilire se siano state effettivamente interiorizzate – e non solo memorizzate e ripetute pappagallescamente – le varie definizioni e proprietà. L’orizzonte è dunque, per de Finetti, quello di superare una volta per tutte quei metodi di insegnamento ancora largamente diffusi in Italia nel secondo dopo guerra”. (Capuzzo S., Luciano E., 2012, pag. 166)

 

«secondo i quali uno non dovrebbe neppure toccare l’acqua del mare prima di aver imparato a nuotare ... sui libri che spiegano tutti i movimenti necessari!» (in B. de Finetti, Paradossi in tema d’insegnamento, 1957, pag. 70)

 

“Un secondo neo che caratterizza la metodologia didattica è ravvisato nell’abitudine a introdurre sempre ‘nuovi’ concetti, da sostituire a quelli che l’allievo già possiede, anziché sfruttare questi ultimi per avviare e sostenere in modo continuo il meccanismo di acquisizione e di scoperta dei contenuti matematici. A questo proposito, de Finetti esorta quindi a riscoprire gli appelli di Vailati a non considerare gli allievi alla stregua di anatre da fois gras, da “stomacare rimpinzando”, e a sforzarsi per contro di

 

«suscitare l’appetito con aperitivi ed assaggi, non imbrigliare l’intelligenza per ridurla ad adattarsi a certi schemi obbligati ma accenderla con poche scintille perché possa esplodere e scatenarsi.» (in B. de Finetti, Scatenare l’intelligenza, non soffocarla, 1960, pag. 15)

 

“L’obiettivo prioritario dell’educazione diventa così quello di sviluppare nei giovani l’intelligenza, ovvero la capacità di affrontare e risolvere problemi, attraverso un processo educativo che attribuisca alla razionalità il ruolo di “complemento” delle facoltà intuitive, atto a perfezionarle e ad ampliarle, ma non a rimpiazzarle. È lo stesso de Finetti, nel volume “Il saper vedere in matematica”, a esemplificare questi assunti teorici fornendo tre esempi di problemi, affrontati in epoche storiche diverse, in cui è risultata essenziale la ‘scintilla dell’intuizione’.” (Capuzzo S., Luciano E., 2012, pag. 166)

 

Qui ne riporto uno, il primo, per me particolarmente significativo.

In un celebre passo del dialogo platonico Menone (IV secolo a. C.), Socrate invita uno schiavo a risolvere il problema di duplicare un quadrato, ovvero di costruire un quadrato di area doppia rispetto a quello dato. Dopo aver ricevuto una prima risposta affrettata, secondo cui basterebbe raddoppiare il lato del quadrato, Socrate conduce lo schiavo passo per passo ad accorgersi che, se il lato raddoppia, l’area non risulta doppia, bensì quadrupla (Figura 1a). A questo punto, incoraggiato da Socrate a visualizzare geometricamente la situazione mediante un disegno, e guidato a ricercare un quadrato avente per area la metà di quello quadruplo, il servo intuisce che la soluzione corretta del problema consiste nel prendere come lato la diagonale del quadrato assegnato (Figura 1b)”. (Capuzzo S., Luciano E., 2012, pag. 167)

E osserva de Finetti:

 

A conclusioni matematiche si può giungere, dunque, senza aver fatto specifici studi, solo pensando e osservando. Questo rileva Platone, sia pur cercando, come a quei tempi si usava, spiegazioni metafisiche (‘idee innate’ o reminiscenze di altre vite precedenti).” (de Finetti, 1967)

 

Questo esempio mi è molto caro perché annoda filosofia e matematica, aspetto a cui sono sempre stato interessato. È il caso qui di citare, ad esempio, i famosi paradossi di Zenone – filosofo eleatico – che ho trattato nel mio scritto “Frammenti di un discorso amoroso tra filosofia e matematica”, in ArteScienza, Anno IV, N. 7 giugno 2017:

 

Ecco che, allora, i risultati ottenuti dalla matematica attraverso la definizione e l’illustrazione di questi concetti ci portano a dare risposta al primo dei problemi affrontati nel Filebo: il rapporto tra l’uno e il molteplice. È ben nota la posizione che il filosofo eleate Zenone aveva nei confronti del movimento e dell’infinita divisibilità dello spazio e del tempo, espressa nei suoi famosi paradossi. In particolare in quello noto come il paradosso di Achille e la tartaruga. Un corridore, Achille, doveva cercare di raggiungere una tartaruga posta ad una distanza x da lui ma, osservava Zenone, per fare ciò avrebbe dovuto percorrere prima la metà della distanza data e prima ancora la metà della metà della distanza data e così via. Ma poiché questo procedimento di divisione per la metà non poteva avere fine, Achille non avrebbe potuto raggiungere la tartaruga in un tempo finito. Osserviamo allora il paradosso dal punto di vista matematico. In sostanza, se ci si riporta ad una distanza unitaria, si tratta di sommare le seguenti quantità 1/2, 1/4, 1/8,..., 1/2n,... . In realtà però noi sappiamo sommare solo un numero finito di termini (ovvero solo in tal caso è definita nel campo dei numeri reali l’operazione di addizione), quindi come fare per effettuare quella somma? Bene, i concetti di successione e di limite ci vengono incontro. Consideriamo la successione numerica (1/2n) e costruiamo una nuova successione (Sn) al modo seguente:

S1 = 1/2 , S2 = 1/2 + 1/4 , S3 = 1/2 + 1/4 + 1/8 , ... , Sn = 1/2 + 1/4 + 1/8+ ... + 1/2n , ... .

Inoltre, consideriamo la successione (Pn) costituita da {1, 1/2, 1/4, 1/8, ..., 1/2n,...}, i cui termini sono in progressione geometrica di ragione 1/2, e di cui si può ricavare la somma dei primi n ponendo,  .

Se studiamo il limite della successione di termine generale Pn, per quanto esposto prima, ci accorgiamo che tale limite vale 2.

Pertanto la nostra successione (Sn) che è uguale alla successione (Pn -1) avrà come limite 1.  Ma, in definitiva, quale significato avrà il passaggio al limite della successione (Sn), se non quello di considerare la somma degli infiniti termini 1/2, 1/4, 1/8,..., 1/2n,... ? Alla luce di tali osservazioni possiamo concludere che è possibile porre 1 = 1/2 + 1/4 + 1/8+ ... + 1/2n + ... . E analogamente qualunque sia a(≠0) numero reale otteniamo a = 1/2a + 1/4a + 1/8a+ ... + 1/2n a+ ... .

 

Ovvero qualunque numero reale, purché diverso da zero, è scomponibile nella somma di infiniti di numeri reali. Ma gli sviluppi della matematica, attraverso la teoria delle serie (cioè delle successioni delle somme dei termini di successioni date, come ad esempio quelle viste in precedenza), ci portano ad un altro risultato notevolissimo. Un segnale periodico, ovvero una funzione periodica del tempo, sotto opportune ipotesi, può essere sviluppata in serie di funzioni trigonometriche (teorema di Fourier).

 

Ovvero un ‘suono vocale’, uno ‘musicale’ (regolari, cioè periodici) possono essere rappresentati attraverso combinazioni lineari (infinite) di suoni ‘semplici’, ossia di funzioni della forma asenbx, dove a rappresenta l’ampiezza e b la frequenza del suono.

I suoni ‘semplici’ sono detti ‘armonici’ del suono. E fra i singoli componenti del suono complesso, quello che ha la frequenza più bassa è chiamato primo componente o tono ‘fondamentale’, quello immediatamente successivo secondo componente e la sua frequenza, per il teorema di Fourier, è doppia di quella fondamentale; e così di seguito. Per cui l’ennesimo componente ha frequenza n volte maggiore di quella fondamentale. Per la caratterizzazione dei suoni nelle tre proprietà fondamentali: altezza, intensità e timbro, rimando alla piacevolissima lettura del capitolo Il seno del sol maggiore, del libro “La matematica nella cultura occidentale di Morris Kline”.

 

Tornando a noi, ancora una volta l’uno può essere scomposto nel molteplice e viceversa dal molteplice può nascere l’uno! ”. (Bruno G., 2017)

Un’altra grande insegnante di matematica si è resa interprete di questi principi, Emma Castelnuovo, figlia del grande matematico Guido Castelnuovo.

Riporto qui, per farne comprendere la sua figura e la sua opera, alcuni stralci di quanto illustrato da Carla Degli Esposti e Nicoletta Lanciano in Dizionario Biografico degli Italiani (2018) della Treccani:

Nel 1963, l'anno della riforma della scuola media, dopo aver pubblicato numerosi articoli su riviste italiane e internazionali scrisse Didattica della Matematica (pubblicato a Firenze appunto da La Nuova Italia), che divenne in breve tempo uno dei più importanti testi di riferimento in Italia e all’estero per l’insegnamento della matematica. Il saggio ottenne un riconoscimento ufficiale nel 1964, quando l’Accademia dei Lincei conferì all’autrice il premio del Ministero della Pubblica istruzione con la seguente motivazione: «La tesi dell’Autrice sul piano didattico è l’opportunità dell’acquisizione diretta dei concetti matematici da parte dell’allievo attraverso una sua esperienza attiva aiutata da opportuno materiale didattico non statico, né rigido, con il quale egli possa concretamente operare. In tale metodo si può ravvisare la più spontanea e quindi più opportuna preparazione alla comprensione degli schemi astratti della matematica» (Una casa editrice tra società cultura e scuola La Nuova Italia 1926-1986, a cura di A. Piccioni, Scandicci 1986, p. 120). Il libro, tradotto in moltissime lingue, anche in russo, divenne un classico su come insegnare una matematica che deve essere per tutti (fu ripubblicato a cura di Ferdinando Arzarello e Maria Giuseppina Bartolini Bussi, grazie a UMI-CIIM nel 2017 a Torino da UTET).

Punti di forza del metodo sono: la continuità del movimento, ottenuta con spaghi, elastici e bacchette articolabili; l’uso dei controesempi e dei casi duali; l’esplicitazione dei casi limite in ragionamenti in cui entrano in gioco l’infinito, lo zero, l’uno e gli infinitesimi.

Nel 1995 pubblicò per La Nuova Italia il volumetto di divulgazione matematica “Pentole, ombre, formiche”, dedicato a Sergio Piccioni, al quale aveva promesso un libro che facesse comprendere a tutti l’importanza e la bellezza della matematica, soprattutto a chi ha avuto un impatto difficile con la disciplina, a chi ha rinunciato a capirla, mostrando quante problematiche urgenti della società si possano affrontare con occhi e strumenti matematici. 

Nel 2007 aprì con la sua Lectio magistralis il 1° Festival della Matematica. La sala Sinopoli dell’Auditorium di Roma ascoltò incantata questa donna che raccontava la storia del Novecento italiano attraverso la matematica e attraverso la sua vita.”

Ho riportato questi elementi per soffermarmi su alcuni aspetti che considero rilevanti e

comuni nell’opera di tanti matematici e intellettuali, tra cui in primis de Finetti e la Castelnuovo, che si sono sforzati di contribuire ad una vera ‘rivoluzione’ non solo dell’insegnamento della matematica nella scuola, ma nella diffusione del modo di pensare matematico, collegato a tutti gli aspetti della realtà, anche attraverso l’uso della storia, e delle altre discipline.

 

  

Dal fusionismo al pensiero sistemico 

Nella visione fusionista propugnata da Bruno de Finetti è indubbio che siano presenti le caratteristiche del pensiero sistemico. Peraltro, a proposito della sua concezione ‘soggettiva’ della probabilità, si può consultare il mio scritto “The systemic thinking of Bruno de Finetti”, in G. & L. E. R., Vol. X, No. X, 20XX.

L’apprendimento è una proprietà ‘emergente’ in un qualunque sistema che si costituisca tra elementi realmente interagenti costituiti da docenti, studenti e strutture disponibili, ma anche per esempio tra genitori e figli e tra nonni e nipoti! E, direi, in tutti quei casi in cui c’è qualcuno disposto ad insegnare, apprendendo, e apprendere insegnando e qualcun altro che accetta di fare il viceversa!

Il problema è come favorire un’interazione stimolante e continua tra le parti in campo, in modo che tutte ne traggano beneficio.

Mediamente, però, l’insegnamento della matematica è di tipo formalistico, formulistico e astratto, senza riferimento non solo ai fatti reali (lo studio delle scienze), ma a tutte le altre discipline che hanno e continuano ad avere con la matematica uno scambio reciprocamente costruttivo.

Cercherò ora di proseguire la mia “dimostrazione”, mettendo in evidenza alcuni aspetti trattati nei miei scritti di carattere didattico e/o divulgativo e in alcune esperienze dirette di insegnamento.

Premetto che da circa quaranta anni insegno matematica presso l’ISIA Roma Design, primo Istituto universitario pubblico di design, oggi facente parte dell’AFAM-MUR - concepito nel 1973 principalmente da Giulio Carlo Argan - dove ho interamente e personalmente costruito tre insegnamenti, affinandoli con il tempo e l’esperienza, sempre allo scopo di adeguarli alle esigenze delle conoscenze  degli studenti: Logica per il design al primo anno, Strutture e Modelli matematici per il design al secondo anno e Sistemica al terzo.

Questa esperienza di insegnamento mi ha permesso di venire in contatto con svariate discipline e svariate personalità di docenti e di studenti e devo confessare che è stata la linfa vitale che mi ha permesso di provare la gioia e la soddisfazione che possono dare la didattica, la ricerca e lo scambio culturale, di passioni, di problemi condivisi con colleghi e studenti. Non così, devo riconoscere, è stato con l’Università dove ho insegnato e fatto ricerca per trentacinque anni.

Il prodotto della fantasia, come quello della creatività e della invenzione, nasce da relazioni che il pensiero fa con ciò che conosce. Il problema basilare quindi, per lo sviluppo della fantasia, è l’aumento della conoscenza, per permettere un maggior numero di relazioni possibili tra un maggior numero di dati.” (Munari B., 1977)

 

Nello spirito di Munari riporto qui un paio di ricerche metaprogettuali, effettuate in collaborazione tra due insegnamenti presenti nel Corso triennale in Design presso l’ISIA di Roma: quello di Teoria della forma, il cui docente Massimo Ciafrei è stato uno dei miei studenti più bravi, e quello di Strutture e modelli matematici per il design, da me tenuto.

Questi lavori sono stati esposti in una mostra tenutasi a Venezia nel 2014, durante uno dei Convegni di “Matematica e cultura”, organizzati da Michele Emmer (uno tra i matematici da sempre più impegnati nel cogliere e far cogliere i legami tra matematica, scienze, arte, cinema, letteratura, design, …). Abbiamo intitolato l’esposizione così: “Le forme della matematica”.

 

Si è trattato di una raccolta d’immagini dei progetti che gli studenti del secondo anno del Corso Triennale dell’ISIA di Roma e delle sedi decentrate di Pescara e Pordenone hanno realizzato per il Laboratorio congiunto fra il Corso di Matematica per il Design e il Corso di Teoria della Forma.

Il Laboratorio è risultato un luogo dal carattere sperimentale, dove gli studenti sono stati invitati a indagare i diversi aspetti del rapporto tra la matematica e il design, in particolare, ma anche con altre discipline.

Gli artefatti sono stati prodotti da un’interazione con la progettualità industriale, in particolare con le idee e con le sperimentazioni sui linguaggi che, in campo scientifico e artistico, tecnico e speculativo, la cultura di giovani studenti di design elabora ed esprime con razionalità, intuizione e immaginazione.

Non mi soffermo, in questo testo, se non brevemente, sull’insegnamento della logica dell’incerto fin dalla scuola di primo grado (in bibliografia riporto gli articoli che ho pubblicato in merito) e se non per sottolineare quanto sia importante questo passaggio che apre la strada ad una visione sistemica, che deve necessariamente misurarsi con una realtà per definizione incerta.

Peraltro, ho già pubblicato proprio sul numero 1 di “Riflessioni sistemiche”, nel 2009, uno scritto dal titolo “Apprendere dall’incertezza”. Desidero solo far notare che è possibile - anzi necessario - introdurre ragionamenti sull’incertezza sin dalle prime classi della scuola primaria. L’ho sperimentato con due laureande in Scienze della formazione primaria di Roma Tre, in cui ho insegnato per sei anni Matematica e didattica della matematica, che sono riuscite nei loro tirocini didattici – esperienze poi riportate nelle rispettive tesi – a far assimilare i concetti di probabile, più o meno probabile in seconda elementare e quello di probabilità condizionata in quarta elementare (aspetto che tutti considerano impossibile introdurre a quell’età, perché troppo difficile da apprendere). Infatti, le bambine e i bambini di quella classe al termine della lezione, ad esempio, andavano dalla laureanda che svolgeva in classe il tirocinio, a dirle “Maestra allora se oggi noi ci comportiamo bene in classe è più probabile che domani ci porti in giardino”! Non solo è stato dimostrato da neuro-scienziati e psicopedagogisti che i bambini appena nati cominciano a fare in maniera spontanea e intuitiva valutazioni qualitative di probabilità, ma ne seguono anche le condizioni logiche di coerenza (si veda in particolare il mio lavoro “Logica dell’incerto e didattica”, Periodico di Matematiche, n. 3, vol. 6, serie VIII, 2006).

 

Considero, quindi, questo contributo, che costituisce la “dimostrazione” del “teorema” che ho enunciato all’inizio, come un ‘nodo’ di una rete che costituisce un sistema aperto in cui emergono continuamente nuove riflessioni su come poter conferire alla matematica il ruolo che le spetta: quello di portare alla luce ciò che è in relazione tra diverse discipline e armonizzarlo!

 

Proseguo, riportando nuovamente qualche spunto di didattica della matematica e delle scienze, che ai tempi del mio insegnamento a “Scienze della formazione primaria” abbiamo sviluppato con la mia collega, docente di Ecologia, Caterina Lorenzi, tratto da “Matematica ed ecologia: tra forma e funzione. Un’esperienza di didattica fusionista nell’ambito della formazione primaria, Notiziario dell’Unione matematica italiana, Anno XXXIII, N. 11/b”.

 

Viene presentata un'esperienza di didattica fusionista, effettuata all'interno dei Laboratori di Matematica e Didattica della Matematica e di Ecologia, insegnamenti del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria di Roma Tre.

A partire dalla proiezione di immagini del mondo naturale vengono sviluppate svariate osservazioni insieme agli studenti.

Lo scopo è quello di far scoprire direttamente proprietà e aspetti che li abbiano interessati, incuriositi ad una riflessione, in modo da poter introdurre concetti sia matematici che ecologici, concernenti in particolare le relazioni tra forma e funzione, in maniera stimolante e non artificiosa.

Così, ad esempio, si riflette sul perché un soffione ha una forma sferica, o sul perché le foglie del caprifoglio presentano una struttura ad elica.

E’ da rilevare come tutto lo spirito degli incontri sia stato di natura sistemica, nel senso che si è cercato il più possibile di guardare alle proprietà presentate dai vari organismi esaminati, in chiave di proprietà emergenti, cioè aventi la caratteristica di essere tali solo per l’intero organismo e non per i suoi componenti. Tale approccio nella comunicazione del sapere, sostenuto da vari autori quali Edgar Morin, presenta il grande vantaggio di indurre in colui che apprende l’atteggiamento dell’osservatore spinto a formulare un modello nuovo.

Questo procedere ci appare tanto più significativo, in quanto rivolto a futuri maestri, che potranno in tal modo influire positivamente nello sviluppo della costruzione di una forma mentale nei bambini, riguardo alle conoscenze scientifiche.

In particolare, per quanto riguarda la matematica, la visione sistemica permette di concentrarsi su processi cognitivi basati sull’induzione del pensare matematicamente, sull’indurre il riconoscimento e la costruzione di matematica e quindi non solo sull’opportunità di pensare matematicamente, ma sulla continuità cognitiva esistente tra la rilevazione e il pensare matematicamente. In sostanza sulla distanza tra l’erogare, riprodurre il pensare matematicamente e l’indurlo, tema cruciale per la didattica della matematica, in grado di rendere evidente la distanza tra rigidità e rigorosità.

 

 

Dalla presentazione fatta al “XXV Convegno Nazionale UMI-CIIM sull’insegnamento della matematica: “Valutare in matematica”, tenutosi a Siena il 27-29 ottobre del 2005”, traggo due riflessioni significative.

 

 

“Dice Bontempelli (Colloqui, Tempo, n.198, Marzo 1943, pag. 31):

 

Tutti coloro che si credono più o meno artisti, si fan vanto di avere avuto zero in matematica fin dalle prime classi. Al quale proposito ho avuto modo di osservare che in questa incomprensione verso la matematica la gente è spesso sincera, ma mi sono anche convinto che la colpa è solamente del modo in cui la matematica è insegnata.

Capíta, diventerebbe per ogni scolaro la più appassionante delle discipline, e soffusa di mistero.

 

“E commenta de Finetti, in Matematica Logico-Intuitiva, Cremonese, 1959

 

Profondissima e quasi miracolosa intuizione d'artista questa del comprendere, in contrasto con l'arida mentalità scolastica, che capire significa non eliminare il mistero, ma inoltrarsi nel mistero (il mistero, che è la sola realtà, come ebbe a dire nella commemorazione di Pirandello).”

 

  

E ne riporto degli esempi:

Moltissimi possono essere gli aspetti di tipo sistemico da riscontrare in queste esemplificazioni: indagine qualitativa, associativa, uso dell’intuizione, dare significato e riscontro a concetti matematici astratti, interdisciplinarietà, capacità di individuare modelli più generali, …. Lascio al lettore il piacere di scoprirli da solo, ed eventualmente individuarne anche altri.

 

  

Conclusioni 

Per terminare, desidero ritornare all’intuizione di due grandi uomini che ci hanno preceduto nei secoli e che solo attraverso il pensiero e l’intuizione ci hanno indicato una strada per comprendere la manifestazione della vita (come riportato nel mio contributo “Caos: il linguaggio della natura”, Lettera Internazionale, 73/74, 3/4, 2002).

 

 

Il mio amato Lucrezio nel “De rerum natura”, così riporta il pensiero di Epicuro:

 

Illud in his quoque te rebus cognoscere avemus

Corpora cumdeorsum rectum per inane feruntur

Ponderibus propriis, incerto tempore ferme

Incertisque locis spatio depellere paulum,

Tantum quod nomenmutatum dicere possis.

quod nisi declinare solerent, omnia deorsum,

imbris uti guttae, caderent per inane profundum,

nec foret offensus natus nec plaga creata

principiis: ita nil unquam natura creasset.

 

         Lucrezio, “De Rerum natura”, II, 216-224.

 

(A questo riguardo desidero poi che tu sappia

che gli atomi, al basso portati dal peso

dritti nel vuoto, a un incerto momento e in un punto

incerto si flettono un poco, quel tanto

che possa far dire che il moto si sia modificato:

giacché se non declinassero, cadrebbero tutti in basso

come gocce di pioggia nel vuoto profondo,

né urto né collisione mai ci sarebbero

e nulla mai la natura avrebbe creato.)

 

Filosofia e poesia esprimono, attraverso il clinamen, concetti fisico-matematici che anticipano di quasi due millenni quelli di incertezza e quindi di probabilità: a un incerto momento e in punto incerto, e quello di limite nel senso dell’analisi infinitesimale: un poco, quel tanto (il nostro famoso e>0 qualsiasi della definizione). Non solo ma gli ultimi quattro versi offrono una ‘dimostrazione per assurdo’ della ‘declinazione’ degli atomi, metodo molto spesso usato in matematica.

 

Se saremo capaci di far comprendere la ‘bellezza’ che accompagna tutto ciò, sono pronto a scommettere che le nostre ragazze e i nostri ragazzi trasformeranno la matematica dalla più odiata alla più amata!

 

  

 Bibliografia 

 

 

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