Riflessioni Sistemiche n° 24


Educazione e Formazione:
livelli, problemi e prospettive

Apprendere nell’era della complessità


di Salvatore Colazzo

Professore ordinario di Pedagogia Sperimentale
Università del Salento

Foto di Michaela da Pixabay

Sommario
L’articolo tenta di delineare una teoria dell’agire educativo, proponendo la Pedagogia come disciplina in grado di far sintesi delle concezioni e delle prassi emergenti in diversi campi delle scienze umane e sociali, che indicano nei percorsi educativi possibili vie per produrre trasformazione.


Parole chiave
collasso ecosistemico, complessità, apprendimento, agire educativo, feedback.


Summary
The article attempts to outline a theory of educational action, proposing Pedagogy as a discipline capable of synthesizing the conceptions and practices emerging in different fields of human and social sciences, which indicate possible ways to produce transformation in educational paths.


Keywords
ecosystem collapse, complexity, learning, educational action, feedback.

  

 

1.  In Italia negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso si accese un dibattito attivato da Aldo Visalberghi e il suo testo Pedagogia e scienze dell’educazione (1978), dove si riconosceva l’importanza delle ricerche sull’educativo condotte da una pluralità di discipline (ivi compresa la didattica), in grado di fornire alla Pedagogia gli elementi per una sintesi critica, al fine di fornire principi utili alla progettazione dei processi e degli interventi educativi da parte di qualsivoglia disciplina interessata a cambiare la realtà, facendo leva sull’interazione finalizzata allo sviluppo degli attori in situazione. Probabilmente quel dibattito oggi torna di attualità se pensiamo che sempre più discipline riconoscono l’importanza dell’educazione e lo fanno dall’interno del loro specifico. In realtà sarebbe utile definire un framework che, definiti i caratteri principali dell’agire educativo a carattere trasformativo, possa funzionare insieme da sintesi delle ricerche (teoriche e pratiche) variamente condotte sul tema e da quadro di riferimento da tenere presente quando ci si muova su quel terreno.


2.  C’è un’ampia e diffusa consapevolezza della necessità di impegnarsi per cambiare il segno dei processi sociali in atto, poiché vi è indiscutibile evidenza che siamo entrati in un’epoca - l’Antropocene (Moore J.W., 2017; McNeil J.R., Engelke P., 2018) – nella quale i modi di funzionamento della nostra economia portano al degrado del pianeta, con il pericolo di un collasso ecosistemico che mette in questione la nostra stessa sopravvivenza. Da qui deriva il télos dell’agire educativo, che va collocato nella trasformazione degli elementi culturali, degli atteggiamenti personali, delle rappresentazioni collettive, che, ove rimanessero quel che sono, concorrerebbero a produrre la catastrofe. In senso convergente dovrebbero muoversi i sistemi economico, politico, tecno-scientifico, mediatico. Anche a questi livelli può svolgersi un’azione educativa (comunicativa e persuasiva). In tal modo si avrebbe quel profondo e complessivo cambiamento di cui necessitiamo.

Su cosa far leva per ottenere le trasformazioni in campo educativo riconosciute come indispensabili? La centratura può avvenire su diversi perni: ci si potrà appellare al dialogo piuttosto che alla razionalità delle azioni (critica dell’ordine esistente e delle scelte politiche e culturali vigenti), alla tradizione e al suo modello di umanità piuttosto che alla presa in carico soggettiva dei problemi, con l’assunzione di comportamenti responsabili.

Ne consegue che le pratiche professionali vanno coerentemente ripensate: debbono essere sollecitate a sviluppare una capacità di cogliere dove risiedano i fattori di resistenza al cambiamento, sia al proprio interno (siamo veramente disponibili a cambiare il nostro modus operandi professionale, oppure ci lasciamo intrappolare dalla viscosità dell’esistente?), sia nei soggetti che esse prendono in carico, sia nella società nel suo complesso. Ciò allo scopo di individuare idonee strategie per il loro aggiramento. È del tutto evidente che un’idea dell’agire educativo in termini di linearità della relazione causa-effetto è insufficiente, necessitiamo di un’epistemologia che guardi alla complessità e al sistemico. Si tratta di prendere congedo da una logica del progetto come attività sinottico-razionale (Leone L., Prezza M., 2005) e concepire la razionalità secondo una prospettiva post-positivista, cogliendone non tanto la sua potenza quanto i suoi limiti, senza con questo cessare di esercitarla per orientare l’agire (Feyerabend P., 2002). Così come si tratta di abbandonare il mito del progresso e della crescita economica, avendo il coraggio di abbracciare ipotesi di crescita zero, se non addirittura di “decrescita” (Latouche S., 2014), attraverso una profonda riorganizzazione del funzionamento delle logiche produttive a livello planetario, sì da ridurre la nostra impronta ecologica (Wackernagel M, Beyers B., 2020) e garantire una vita degna d’essere vissuta alla totalità degli esseri umani.

 

3.  Nonostante da molte parti si avverta l’urgenza di un’inversione di rotta, questa tarda a venire e spesso si compiono azioni che aggravano la situazione o per colpevole indolenza o per abietto cinismo o semplicemente perché, avendo scarsa cognizione di come funzioni la complessità, si mettono in atto decisioni, gesti e comportamenti che, pur animati da buone intenzioni, riescono a conseguire risultati ben lontani da esse. Ereditiamo dal passato una sottostima degli effetti della pressione umana sull’ambiente accompagnata da una sovrastima della capacità di autoriparazione degli ecosistemi, messi in pericolo dalle attività produttive umane.

Di fronte a questa constatazione del permanere di comportamenti antiecologici a tutti i livelli, può sopravvenire un senso di impotenza, apparendoci le dinamiche in cui è inserita la nostra vita sociale e personale fuori dalla portata del nostro agire. Bisogna invece nutrire la fiducia che ad un certo punto possa intervenire un cambiamento profondo dell’immaginario, delle modalità attraverso cui produciamo, delle abitudini a cui ispiriamo la nostra quotidianità.

I professionisti che operano nei contesti sociali con lo scopo di influenzarli devono mettere in campo una progettualità che sia coerente con le esigenze del momento storico che stiamo vivendo, adottando una metodologia per la quale la complessità venga tenuta in adeguato conto. Come? Definendo un’intenzione di cambiamento di una situazione, si tratta di mettere in campo delle azioni che riteniamo in qualche modo coerenti con quell’intenzione, dopodiché considerare il nesso non certo, ma ipotetico, tra ipotesi progettuali e azioni messe in campo, in modo da monitorare i processi e porre tempestivamente in atto i correttivi necessari per non tradire l’intenzione iniziale, sviluppando altresì una teoria locale, che andrà via via definendosi, con lo scopo di comprendere meglio la situazione, orientare l’azione e consentire previsioni. La regola dunque è: agire avendo una grande disponibilità ad avvertire la risposta della realtà in relazione alle nostre sollecitazioni, in modo da modificare con idonei correttivi le nostre azioni, cercando di mantenere in carreggiata il sistema. Volendo racchiudere ciò in una formula, diremmo “ascolto e riflessione” per sviluppare attività regolatorie del sistema, entrando in profonda sintonia con la realtà.

Questo impone che i professionisti delle scienze umane e sociali applicate assumano modelli epistemologici e metodologico-operativi differenti da quelli del passato, che credano nella funzione trasformatrice del loro agire. Oggi ci troviamo infatti di fronte alla possibilità di scegliere se lavorare per essere oggettivi agenti di perpetuazione del presente con le sue storture o di impegnarci per agevolare il futuro. Il bivio è questo, e ognuno che lavora nel sociale, a fronte di ogni intervento che compie è chiamato a chiedersi “a che scopo?”, “per chi?”, “a favore di quali interessi?”. C’è quindi da sviluppare un’azione educativa all’interno delle comunità professionali di riferimento, per smuovere l’interpretazione routinaria del ruolo e incrementare il grado di autoconsapevolezza della funzione sociale dell’agire professionale. Parimenti le istituzioni in cui si sviluppano delle funzioni educative, come scuole, chiese, articolazioni della politica (ivi compresi i partiti) dovrebbero sviluppare maggiore riflessività sul proprio ruolo sociale e su come organizzarsi meglio in modo da rispondere alle istanze emergenti. Per far questo dovrebbero rendersi disponibili a realizzare Analisi istituzionale (Lapassade G., 2009), Con-ricerca (Armano E., 2020) in una logica di reale autonomia. Quando si mette in atto un tentativo di cambiamento, scattano resistenze e svariate forme di boicottaggio, vengono messi in discussione gli assunti di base del pensare e dell’agire e questo comporta destabilizzazione identitaria, con mobilitazione di emozioni quali il senso di incertezza e la paura (Carli R., Paniccia R.M., 2020).  Non è affatto facile, nei contesti di gruppo, comunitari e sociali far sì che gli attori accettino le ipotesi di cambiamento prospettate, si deve mettere in atto un dispositivo per il quale essi avvertano la necessità del cambiamento tanto da farsene parte attiva. La trasformazione in un contesto sociale non è banalmente agire su o agire per qualcuno, ma è necessariamente (affinché non si istituisca una relazione di dominio o di paternalistica condiscendenza) un agire con, educare è sempre un mettersi in gioco e aprirsi agli imprevisti dei processi.

Poiché ogni atto educativo si fonda sulla relazione fra esseri umani, che, in quanto tali, hanno una naturale propensione all’apprendimento, trasformare una situazione è attivare dei processi di ridefinizione dell’identità soggettiva. Trasformazione è leggere in modo nuovo i dati con cui fino a quel momento si è costruita la propria esperienza, aprirsi a considerare ciò che è rimasto fino a quel momento escluso dal campo visivo e d’azione del soggetto. Al compimento di un processo trasformativo, il soggetto si autorappresenterà in modo nuovo, valuterà differentemente il proprio passato e assumerà impegni per il futuro prima impensati, annetterà nuovi elementi nel proprio repertorio culturale di riferimento e acquisirà nuove possibilità d’agire, insomma egli avrà cambiato il proprio posizionamento nel mondo, avrà compiuto una conversione (Bateson G., 1984), avrà fatto - potremmo dire - un viaggio iniziatico (Umiliata D., 2020).

Ora, questi processi di ridefinizione identitaria riguardano tanto i soggetti destinatari dell’azione trasformatrice quanto i promotori, i quali per poter realmente essere utili al processo di cambiamento, devono proporsi di superare i limiti in cui sono invischiati (di tipo individuale, di tipo organizzativo, di natura sociale) per poter acquisire una più ampia capacità d’agire.

Quando un processo di cambiamento si attiva è abbastanza naturale che si sviluppino discrasie, contraddizioni e conflitti. I diversi attori coinvolti evidenziano prese di posizione che spesso sono diametrali e si danno come incompatibili. Che fare in queste circostanze? Attuare il cambiamento con chi lo ha abbracciato più entusiasticamente o invece evitare la disarticolazione del sistema? Da un punto di vista epistemologico ed operativo vale la pena far prevalere la dimensione dialogica su quella dialettica e quindi immaginare le polarità che si creano come estremi di un campo di fluttuazioni, che si rivelano particolarmente utili per tentare di controllore e orientare il processo, leve su cui volta a volta ricorrere per consentire la navigazione verso il cambiamento.

In campo strettamente educativo, quest’approccio porta ad assegnare un ruolo decisivo alla conoscenza dei soggetti in formazione e del contesto operativo, affinché si sia consapevoli dei loro repertori culturali di riferimento e si possa avere cognizione dei vincoli e delle risorse materiali e immateriali a cui far affidamento; privilegiare il Learning by doing (Nigris E. et altri, 2007), affinché gli apprendimenti possano essere incorporati, secondo la prospettiva dell’Embodied Cognition (Gomez Paloma F., 2013). Il tutto sorretto dalla convinzione che un cambiamento più complessivo della società, delle relazioni umane, dei comportamenti generalizzati, può essere innescato dal cambiamento che si attua in bolle relazionali di entità piccola o piccolissima, poiché la logica della complessità dice che noi non possiamo in alcun modo prevedere la portata sistemica di una causa, che pur apparendo di piccola significatività, può avere effetti di tutt’altra portata, soprattutto se si è in presenza (come è la fase attuale) di profondi mutamenti di scenario, che possono indurre un “effetto palla di neve” con conseguenze generalizzate.

 

4.  Nella complessità si realizzano meccanismi regolatori a doppio bilanciamento, sicché l’equilibrio è sempre dinamico, è sufficiente che vi sia uno sbilanciamento di una delle forze che mantengono in equilibrio il sistema e l’intero sistema si attiva o per recuperare l’equilibrio precedente o per ritrovarne uno nuovo. Trasferito il ragionamento in campo educativo, significa che la relazione educativa è intrinsecamente paradossale ed è resa possibile proprio gestendo due opposte leve, ad esempio della dipendenza e dell’autonomia; del mandato sociale e dell’autonomia dell’agire professionale; del controllo esterno delle azioni e del loro controllo autocritico.

Nei processi educativi volti al cambiamento, si hanno diverse strategie relazionali (che non necessariamente si escludono a vicenda, nel senso che possono convivere in forme più o meno paradossali, vedere il prevalere dell’una in una fase della relazione e il prevalere di un’altra in un’altra fase): a) il polo attivo della relazione (il docente) punta a ridurre la differenza che l’altro polo (il discente) rappresenta (assimilazione); b) il polo attivo comprende le istanze identitarie dell’altro e cerca di instaurare qualche forma di negoziazione di significati, nel tentativo di portare a sé l’altro; c) prende atto della differenza che l’altro rappresenta e decide di rispettarla; d) constatata la differenza, cerca una relazione con l’altro che consenta di pervenire a soluzioni creative, che non lasciano intatto nessuno dei due poli della relazione. Nel primo caso, il soggetto che si manifesti renitente all’assimilazione viene escluso, nel secondo caso vi è una sorta di tolleranza venata di sufficienza; nel terzo caso la relazione o non avviene o, se avviene, accade su un piano di strumentalità; nell’ultimo caso i due soggetti si impegnano in un compito non immediato, che non presenta alcuna garanzia di successo (ci si apre all’esperienza trasformativa).

Il professionista esplica la propria azione facendo ricorso a tre fondamentali modelli dell’agire, i quali influenzano le strategie relazionali che selezionerà nella relazione: a) modello tecnicale: il professionista ha una teoria e degli strumenti per agire, egli è competente, l’altro no, sa cosa e come farlo e l’altro è chiamato ad adeguarvisi; b) modello cooperativo: cerca la collaborazione dell’altro al fine di stabilire un’alleanza; c) modello evolutivo: il professionista individua gli ostacoli, i limiti, gli impedimenti che si frappongono a mettere in movimento la situazione, e trova il modo di superarli, introducendo un punto di vista alternativo nella lettura della situazione. Ognuno di questi tre modelli dell’agire reca dei rischi: il primo può portare all’applicazione rigida di protocolli che scavalcano l’altro, il secondo a pratiche di tipo collusivo, il terzo a introdurre ab externo l’elemento dinamizzante.

L’azione professionale si muove avendo a riferimento un quadro culturale più ampio, che definisce il suo senso sociale. Ci sarà chi riterrà che il mandato fondamentale del professionista sia assicurare la trasmissione culturale, chi promuovere la realizzazione personale, chi il cambiamento individuale e sociale, chi riterrà che l’azione professionale debba svolgersi precipuamente nei contesti formali, chi in quelli informali e non formali. All’interno di queste categorie si avranno ulteriori possibilità interpretative. Prendiamo a titolo di esempio il professionista che si riconosce nella promozione del cambiamento (potremmo chiamare questa opzione “emancipazionista”). Vi sarà chi penserà che il cambiamento individuale e sociale potrà essere realizzato perseguendo la verità, ossia svolgendo una funzione critica, per la quale eserciterà la logica del sospetto smascherando l’ideologia, denunciando la superstizione, smontando le trappole del senso comune - mi viene da pensare ai rappresentanti della Scuola di Francoforte (Bernhard 2006) -; vi sarà chi interpreterà la missione del cambiamento come disponibilità all’interpretazione creativa della realtà, ricorrendo all’ironia e alla metafora - qui il riferimento può essere la prospettiva di Rorty, in Italia sviluppata da Cambi (2002) -; vi sarà ancora chi riterrà l’azione educativa come una leva per realizzare la rivoluzione sociale (in questo caso gli autori di riferimento possono essere Freire (2018), Illich (2020), Lapassade (1980); vi sarà infine chi riterrà l’azione educativa come un’attività mediatrice per rendere la lettura del presente più ricca grazie al riferimento al passato, e, in tal modo, attivare l’immaginario per orientarlo al futuro - qui vien da citare gli autori che si ispirano all’ermeneutica, in Italia Margiotta (2015).

 

5.  La logica della complessità suggerisce che la sostanza dell’agire professionale consista nel concepire la relazione secondo una prospettiva sistemica, sicché l’azione fondamentale è quella di riflessione e di correzione continua, cogliendo i feedback che vengono rilasciati dal sistema. Bisogna porsi l’obiettivo di produrre un cambiamento e poi lavorare per stabilizzarlo producendo gli altri cambiamenti nel sistema utili allo scopo. Un soggetto ha scarsa fiducia nell’altro, questo è un comportamento disfunzionale, come lo possiamo modificare? Creando situazioni in cui egli impara a fidarsi e smontare le sue difese, questo non perché egli debba in ogni circostanza assumere un atteggiamento di incondizionata fiducia, ma perché egli possa assumere lo schema dell’“amico ignoto” (Carli R., Paniccia R.M., 1999; Ghezzi V., 2012) per il quale vale la pena supporre l’altro come potenzialmente amico fino a prova contraria, modulando il proprio comportamento su una lettura non pregiudiziale dei comportamenti altrui. Ciò significa che l’assunto di base è sospeso, ma non abolito e può essere recuperato quando egli - a seguito d’una esperienza negativa - lo reputi opportuno. In linea generale possiamo dire che in ambito educativo le trasformazioni sono il risultato dell’esposizione del soggetto a modalità d’essere, pensare, agire, differenti rispetto a quelle di norma praticate, mettendolo in contatto con la complessità culturale del mondo. Quando un cambiamento si attua, il sottolinearlo con qualcosa che assomigli a un rito di passaggio a una qualche forma di iniziazione porta il soggetto ad assumere una più evidente consapevolezza del percorso fatto, della dinamizzazione di quelle che in precedenza erano invarianti della sua azione.

Gli approcci tradizionali al cambiamento lo concepiscono in termini dialettici (aut/aut), laddove invece il cambiamento è evoluzione del sistema che rifunzionalizza il pregresso, rendendolo concepibile come elemento utile alla nuova situazione. La complessità è dialogica, non dialettica, ama la complementarità, ritiene che il cambiamento sia da concepirsi in termini evolutivi. Rimanda a un modo di intendere il conflitto come forza di dinamizzazione di una situazione, che mette in tensione il sistema senza innescare scissioni, come - se si vuole - tensione verso l’egemonia.

È apertura alla condizione di incertezza (se non di ambiguità) che caratterizza la realtà. Ciò operativamente significa che, formulata un’ipotesi (con la quale si entra in situazione), agendo si acquisiscono conoscenze situazionali, si colgono gli elementi di resistenza al cambiamento, quindi si riconcettualizza il punto di partenza, in modo che si possano introdurre i correttivi ritenuti necessari dalla teoria locale sviluppata. La regola epistemologica è “agire per conoscere e conoscendo agire”, del tutto differente rispetto a quella positivista così formulabile: “conoscere per prevedere e agire avendo previsto”. Correlata a quella regola è la concezione dell’esistenza di un interesse antropologico al cambiamento, istanza ineliminabile a modificare i propri schemi cognitivi a operare trasformativamente sulla realtà e su di sé.

 

6.  La relazione educativa è capace di rispondere a quest’istanza, sostenerla ed orientarla. Essa infatti sorregge la motivazione al cambiamento, sviluppa impegno e cura, mettendo i soggetti nelle condizioni di sviluppare delle tecniche per modificare il proprio sé e autocostruirsi. Per essere efficace deve essere attenta al vissuto, ai bisogni dei soggetti, deve lavorare affinché essi maturino un’altra prospettiva su di sé e sul contesto, su di sé agenti nel contesto, deve sostenerli nel processo trasformativo. Va tenuto presente che la relazione educativa è realmente trasformativa quando realizza uno scambio produttivo, che non lascia immodificato né l’uno né l’altro polo della relazione. Lo scambio produttivo realizza una comunità di esperienza in un quadro definito da una deontologia. Comunità di esperienza significa consentire al soggetto di compiere un’esperienza che da solo probabilmente non avrebbe realizzato, metterlo nelle condizioni di entrare in contatto con stimoli simbolici che, ove raccolti e sviluppati, consentono di accedere a una nuova configurazione del sé. La comunità non va assunta come data nell’atto in cui si instaura la relazione educativa, ma cambia di senso man mano che questa si approfondisce.

Un rischio da tener presente è l’accanimento educativo, ossia il professionista deve mettere in conto la possibilità che l’altro manifesti rifiuto e non accetti la proposta di sviluppo, e quindi consentire questo sottrarsi alla relazione. Ogni atto educativo deve poter essere anche un atto autoeducativo e l’accanimento educativo annulla questa verità dell’atto educativo. Il professionista in questo senso tollera le frustrazioni connesse alla sua azione, sa porre traguardi di prospettiva e valorizzare tutto ciò che può essere risorsa per nutrire la relazione educativa, ma capisce bene quando valga la pena arrestarsi e semplicemente guardare.

  

 

Bibliografia