Riflessioni Sistemiche n° 24


Educazione e Formazione:
livelli, problemi e prospettive

Scenari di conoscenza ibrida in pandemia


    di Elena Gagliasso, Sara Campanella**

*Docente Filosofia della scienza, Dipartimento di Filosofia, Sapienza Università di Roma
** Phd in Filosofia, insegna storia e filosofia nei licei in provincia di Padova

Foto di Pexels da Pixabay

Sommario
Una docente di filosofia della scienza dell’università e una di storia e filosofia di un liceo, insieme alle voci di studenti liceali, universitari e di dottorandi, si confrontano sulle loro esperienze di insegnamento a distanza a partire dal lockdown da pandemia Covid-19. Emergono diversi ordini di riflessioni: il prosciugarsi di mondi percettivi nell’isolamento forzato, la consapevolezza negli studenti di chances e esperienze esistenziali perdute, ma anche le inedite opportunità di costruzioni dei saperi in rete, l’incrementarsi di una conoscenza come processo collettivo e insieme connettivo e modi diversi di interazioni a distanza che rendono ricorsivi insegnare con imparare.

 

Parole chiave
pandemia, ecologia cognitiva, formazione, organizzazione, equilibrazione, conoscenza ibrida.

 

Summary
As a University professor and as a High School teacher, together with our students’ voices, we discuss our own distance learning experience satrating from the lockdown in Covid-19 pandemy. Different reasoning’s orders arise: the drying out perceptual worlds, the students’ acknowledge of their lost chances and existential experiences, but also the construction of a new network knowledge, as a collective and even connective process, where teaching and learning on line perform themselves in a cycle.

 

Keywords
pandemics, cognitive ecology, education, equilibration, hybrid knowledge.

 

 

 Le Printemps adorable a perdu son odeur!

Charles Baudelaire, 1861

 

Water is taught by the thirst

Emily Dickinson, 1859      

1. Un po’ di igiene mentale in pandemia 

Grazie a un dialogo mai interrotto che ha trasformato nel corso degli anni una dottoranda e la sua tutor in interlocutrici reciprocamente autorevoli, abbiamo provato a ragionare su cosa (ci) stava succedendo durante questi due anni pandemici. Su come cambiavano le nostre pratiche di insegnamento e ricerca, come cambiavano i nostri vissuti cognitivi e di sentimenti, i nostri rapporti con gli studenti, il loro studiare, “frequentare” università e scuola da confinati. In quel tempo, compresso spazialmente e dilatato nei giorni che è proprio delle pandemie e del confinamento anticontagio, ci si è confrontate a distanza. Anche se noto fin dal passato remoto dalla storia delle istituzioni sanitarie in tempi di pestilenze e segnato sul piano bioevolutivo della convivenza della specie coi suoi patogeni (si rinvia in merito a: resviva.it/resviva-covid-19/), per le nostre generazioni l’evento era dirompente. Così dal noto, che spesso non è conosciuto finché non lo si oltrepassa, ci siamo trovate in una esperienza d’insegnamento spaesante, e s’è avviato il nostro confrontarci a partire dai nostri diversi posizionamenti, insegnare filosofia della scienza all’Università La Sapienza e insegnare storia e filosofia in un liceo veneto, mettendo anche in conto la nostra differenza generazionale, venire al mondo nel dopoguerra o negli anni ’80 del XX secolo.

Lontane da pretese sociologiche o da previsioni futurologiche, inutili azzardi ad oggi, e mettendo temporaneamente in parentesi i giudizi politici sul presente, abbiamo provato a praticare un’auto-osservazione sul modificarsi del nostro pensiero mentre s’insegnava da remoto. Sia nella quarantena stretta del 2020 sia nelle forme miste (in presenza e distanza) della primavera del 2021. Questa auto-osservazione, affiancata da quella sul modificarsi delle relazioni con diverse generazioni di studenti, dai liceali agli universitari, ai dottorandi di ricerca, attraverso la raccolta delle loro percezioni e delle loro riflessioni, ha lasciato tracce che continuano a farci pensare, consapevoli che solo tra anni si potrà avere una conoscenza di ritorno dell’‘esperimento’ vissuto.

 

In lingua ebraica la distinzione tra verbo attivo e passivo parte spesso da una radice in comune. La radice lmd- (לדמ-) sta all’origine dei verbi “apprendere” e “insegnare’” (lilmod e lelamed). E in questi due anni, entrambe abbiamo toccato con mano la giuntura in comune tra insegnare e imparare: le due funzioni non solo non sono separate, ma nemmeno sono soltanto le due metà di un intero, piuttosto circolano, riverberano l’una sull’altra e si trasformano a vicenda. Quando si insegna filosofia, anche in presenza, si apprende sempre da chi sta in classe. S’impara dall’esercizio della funzione docente, dalla relazione con gli allievi, e insieme s’impara del nuovo su di sé come “artigiane del pensiero”. In questo caso la teoresi e la critica sono state messe al lavoro dalla sollecitazione di un evento catastrofico e divergente, osservando i modi in cui fare teoria e critica dell’esistente reagiscono su un meta-livello prospettico. Insomma, un bell’esercizio di quello che Gregory Bateson avrebbe accostato al deutero-apprendimento (Bateson, 1977), e in presa diretta con la responsabilità di un’arendtiana “filosofia attiva”.

Rovesciando le regole usuali della presenza viva e priva di mediazioni in una classe, per chi di noi per la prima volta e non per sua scelta ma per necessità cogente, insegnava in remoto, l’insegnare era letteralmente un imparare. Soprattutto nell’università mai come ora nell’interazione virtuale con la docente inesperta, lo studente e la studentessa insegnavano in modi impliciti e indiretti una serie di sfumature nuove d’accesso alla materia, con l’esempio, la partecipazione, e anche attraverso nuovi tipi di errori durante gli esami. Novità di interazioni veloci, domande di conoscenze aumentate, con richieste e proposte “affamate” di ulteriori testi e documenti postati autonomamente nelle classi virtuali. I due momenti dell’insegnare e dell’apprendere mai ci sono sembrati così co-costruiti come da quando, persa “la cattedra”, s’è passati di fronte (dentro) a uno schermo, e mai questa giunzione obbligata ha così imprevedibilmente modificato le nostre menti (i nostri cervelli?).

Accendere il computer, accogliere via via con un click chi entrava nella piattaforma digitale e condividere il desk con un mosaico di volti, ci ha messo poco a diventare consuetudine. Con differenze tra il primo e il secondo anno pandemico. Nel 2020 la meraviglia “grata” al digitale di non interrompere (e perdere) una generazione di giovani in un Paese schiacciato da un contagio planetario di cui ancora poco si sapeva -, ci ha nutrito della consapevolezza che stavamo tenendo aperti mondi, mentre intorno a tutti noi mondi si chiudevano. Compito storico e responsabilità nostra, come di tutti gli insegnanti di ogni ordine e grado. Ne beneficiavano nel frattempo la ricerca e la condivisione “facile” nel proliferare di incontri e convegni in webinar. Ne beneficiava l’aria delle città svuotate dai trasporti privati, la limpidezza di alcuni fiumi non più inquinati. Intanto si andavano creando, com’è stato presto noto, divari d’accesso tecnologico per molti ragazzi nel Paese: il digital divide palesava differenze di censo e quindi di possibilità future. In modo feroce.

Eppure, la primavera 2020 è stato un succedersi di esperienze titubanti e a modo loro appassionanti, nel buio mare della paura collettiva. Ombre destinate a ingigantirsi, dopo, quando abbiamo visto tornare l’eccezione. La condivisione della lezione con i nostri studenti ha creato in qualche caso uno spirito di squadra nel liceo, mai esplicitato invece nel maggiore riserbo proprio dell’università, ma in ogni caso sottilmente palpabile. Non si trattava di “usare” l’e-learning come semplice strumento, come altre istituzioni private fanno già da molti anni, non di “essere al passo” coi tempi come già dagli anni ’90 era astrattamente enfatizzato. Si trattava piuttosto di cavalcare nientemeno che una pandemia, mettendo in comune, nella gravità dell’emergenza, intelligenze, rigore sullo studio, improntitudine di docenti non native digitali, tolleranza solidale di chi era studente, nonché lancio su un futuro che proprio la sfida sembrava poter rendere meno accecato del presente. Si trattava, cioè, di aprirsi a qualcosa di “altro” (non certo sostitutivo) rispetto alla formazione che fino ad allora avevamo conosciuto e esperito. E con ciò per così dire di “proteggerci reciprocamente”, tutti e tutte, docenti e studenti. Proteggendo in qualche modo l’equilibrio del pensiero critico e dei sentimenti, messi entrambi a rischio dal prolungato confinamento nelle case.

Le invenzioni più creative, la trasformazione di metodi della didattica, ce lo siamo riconosciute, sono state soprattutto per alcuni docenti delle scuole. Lungo un gradiente, scuole tanto più creative, riteniamo, quanto più dall’università ci si spostava in direzione delle medie e delle elementari. Ovvero su quegli ordini scolastici, tra i più penalizzati dal digital divide e sfidati dalla cattura dell’attenzione dei più piccoli. Classi d’età peraltro più importanti di tutte le altre perché più incisive per le future conseguenze formative dei soggetti di domani. Per i quali, lo ricordiamo, occorreranno anni per sapere, nel bene e nel male, come questa esperienza virtuale e disincarnata avrà stratificato modi di leggere il reale e di stare al mondo. A volte ci siamo dette che era un peccato non avere nei nostri dialoghi la testimonianza di un maestro o di una maestra, ascoltare il loro di vissuto, i modi di lavorare in questi contesti più difficili su menti più plastiche e ben più esposte di quelle di un liceale o di un universitario.

In molti casi, giudizi sommari e prefigurazioni di autorevoli esperti sembrano ricalcare quanto già Umberto Eco aveva scorto quasi sessant’anni fa, nel 1964: la coesistenza conflittuale tra un rifiuto aristocratico dei nuovi media di allora o la loro accettazione ingenuamente ottimista. Allora (e in un mondo non pandemico!) non esisteva la rete, e i media, come il televisore, erano ancora mezzi di comunicazione di massa unidirezionali.

Qui la rete con le sue piattaforme-salvagente è stata l’unica chance, diventando poi un  ambiente con tutte le incognite del caso, ancora in gran parte da interrogare, da capire.

É stato subito importante per noi non confondere la funzione dell’insegnare in remoto con quella del comunicare in remoto o del produrre in remoto. Sul lavoro a distanza (impropriamente omologato allo smart working), con i suoi pregi velocizzanti, il suo “sorvolo” delle relazioni umane, il rischio di anomia e perdita di posti di lavoro, con la sua cancellazione del confine tra tempo di lavoro e tempo libero, la sua scarsa codificazione nei diritti dei lavoratori, tanti opinionisti e ricercatori si sono pronunciati (De Luca, 2021; Tett, 2021). Spesso drammaticamente “apocalittici” o ottimisticamente “integrati”. Ma comunicare o produrre sono cose diverse da insegnare: non hanno, né peraltro compete loro, la responsabilità della formazione culturale dei soggetti nuovi che matureranno nel mondo di domani. Qui si tratta piuttosto di una posta in gioco evolutiva che presuppone la capacità di vedersi oggi nell’iperconnettività come costantemente incompiuti e nello spazio dei possibili da costruire tra generazioni diverse. Possibilità di ibridare e allo stesso tempo mantenere stili di apprendimento diversi, come sempre si è fatto, ma con la variabile inedita dell’ecologia dei media.

 

Per questo ci è piaciuta come vera e propria metodologia, o forse, chissà, come “cura” in tempi difficili, quasi indagine fenomenologica, l’auto-osservazione reciproca che praticavamo, una semplice prima igiene del pensiero, senza pretese di cortocircuiti generalizzanti. Una testimonianza piuttosto, da offrire per una ricostruzione futura che potrà divenire credibile solo tra qualche anno, decantata. Ma proprio per il timbro cognitivo e collettivo dell’esperienza, a un certo punto, cominciando a scrivere queste riflessioni, ci è sembrato che noi, da sole, non bastavamo. Erano da chiamare in causa gli allievi, i nostri compagni di strada, con le loro percezioni e riflessioni attive su questa tranche delle loro vite. Tre classi d’età di allievi: liceali, universitari, a cui si è aggiunto poi lo sguardo dei dottorandi.

 

Nel mondo del liceo per un verso, con questo evento s’è stagliata ancora più netta la ben nota “distanza dalla didattica”, tema sempre a margine della società, accompagnato da una frustrazione che sgorga intima e urgente attraverso l’esperienza quotidiana di docenti e studenti liceali, e per un altro verso, è emersa la sperimentazione di uno “straniamento euristico”, liberatore di forme inedite di pensieri e azioni non standard. Azioni che hanno accolto la sciagura quasi come avventura per svecchiare pratiche fossili della scuola, come le concatenazioni sonnambule delle interrogazioni-verifica-programmi-e-ritorno, almeno in qualche caso.

È stata un’accelerazione benefica e, per certi versi, considerato il mondo chiuso del lockdown, paradossalmente liberatoria. Spinta dalla pandemia, la necessità obbligata di forme nuove di didattica ha costretto a fare i conti con una mancata aderenza della scuola al presente. Quasi una crisi cognitiva che consiste nella scissione tra l’avere a che fare con problemi multidimensionali, trans-nazionali, sistemici, e “le materie” (comprese quelle scientifiche) ferme nel tempo, isolate, quadrettate da conoscenze “disciplinate” e “disciplinanti”, sempre ancora divisive tra humanities e tecnoscienze: il virus, le nostre risposte, la lunga storia delle epidemie del passato e le risposte dei sistemi sanitari nei secoli, l’evoluzione intrecciata dei viventi e dei microorganismi, l’ecologia, l’epidemiologia, le dinamiche politico-finanziarie retrostanti ai brevetti vaccinali, su tutto questo, e molto altro ancora, la scuola – l’architrave della formazione – restava in affanno, sopravanzata dalla cacofonia dei talk-show tra “esperti” e dalle bolle di disinformazione oscurantista vaganti in rete. Ecco, questo variegato paesaggio poteva essere popolato da una didattica che si è fatta sempre più ricerca esplorativa, costruita in sinergie avventurose tra una prof e suoi studenti.

  

 

2. Languishing pandemico 

Dalle parole degli studenti liceali e universitari sono emerse esperienze contrastanti in ciascuno, e una  capacità nel riuscire a sostenerne i chiaroscuri.

  «La scuola in Dad ha smesso di essere un luogo d’incontro ed è stata spogliata del suo spirito vitale. É rimasta solo l’anima grigia, quella del dispositivo. Certo la Dad non ha frenato le occhiate sornione o i sorrisi soppressi, coperti dalla mano, scambiati attraverso il monitor del pc, ma questi hanno avuto un altro sapore perché spesso a scuola erano accompagnati da una gomitata con la compagna di banco o dalla battuta del tipo simpatico dell’ultimo banco che faceva ridere a catena tutta la classe e allentava la tensione del momento». Per la liceale di Lecce Alessandra Abruzzo è dura la perdita della compresenza viva e della sensorialità di qualsiasi genere, addirittura «mancano i rumori, perfino quelli assordanti delle macchine che passavano proprio sotto la finestra in strada durante le lezioni, che mi davano fastidio quando ero in classe perché mi facevano perdere il senso della spiegazione, manca il sorseggiare caffè alle macchinette, ma soprattutto mancano le voci dei compagni».

 

Stessa mortificazione della vitalità percettiva nei suoi colleghi veneti della 5C di Piazzola del Brenta: «La cosa che più ci manca della didattica in presenza è sicuramente avere un rapporto quotidiano con i nostri compagni di classe. Il fatto di non vedersi di persona ha limitato questo tipo di relazione, e molto spesso ci sentiamo più soli e isolati». Anche perché c’è già la consapevolezza che sul piano cognitivo e relazionale: «avere un rapporto con compagni aiuta ad aumentare la propria motivazione personale nello studio». «Non so cosa mi resterà di questo periodo. É ancora troppo presto per dare una valutazione distaccata. Certamente sono cambiata. Anche per aver dovuto fare a meno del mitico pranzo dei 100 giorni o di un viaggio di istruzione che non tornerà mai più» scrive ancora la maturanda Alessandra Abruzzo, restituendo, da Sud a Nord, la ritenzione di qualcosa che ancora non si sa e la perdita di ciò che si sapeva poteva essere.

 

Due le perdite più sentite: la perdita della propria sensorialità e la perdita complessiva del senso di vicinanza tra compagni, della gioia epidermica, del corpo a corpo dell’amicizia, della seduzione tra i banchi. Se il Covid-19 ha comportato come effetti collaterali nei malati la perdita di olfatto e gusto, dopo due anni s’è capito che a essere “contagiati” dalla perdita di multisensorialità carnale e di multimodalità comunicativa erano anche i sani e i giovani, e i più vitali tra loro tanto più.

A contrappunto, questa progressiva condizione di “impoverimento da schermi” svuotava l’entrare in relazione viva con qualsiasi altro senso che non fosse la vista. La mentalizzazione nelle scuole secondarie veniva imposta anche per materie come “discipline plastiche” di un liceo artistico. Anche lì tutto un flusso unidirezionale che mimava la vicinanza, sovraccaricando un solo canale, quello visivo e creando nuove inedite forme di stanchezza, come testimoniato dalle ragazze e dai ragazzi della 4G del liceo artistico “Amedeo Modigliani” di Padova.

 

     Spostandoci all’università, anche lì gli studenti, più grandi, sia pur in modi diversi e con diverse competenze di insight, colgono il tema del “mancante” in un corso accademico gestito in remoto. «Dopo un’iniziale e lampante spaesatezza, ciò che mi ha colpito di più è stato il senso di distanza che si è creato fra docente e discente, oltre che fra colleghi stessi. Sia in ambito didattico, sia per gli esami» scrive Francesco Lattanzio (studente di filosofia della Sapienza di Roma) salvando però in positivo il fenomeno dell’immediatezza accorpata a una tecnologia che ha ormai «impastato il sistema didattico anche per il futuro». Del ritorno in presenza, è atteso «soprattutto ritrovare quel senso di comunità e unione che l’università fa scoprire», continua Lattanzio.

Si è dentro un mondo che ha «annullato, uniformato, e reso facoltative delle attività umane - il lavoro, l’istruzione, il viaggio, le manifestazioni - da sempre implicanti lo spostamento, la circolazione, l’imprevisto, in sunto ciò che chiamerei il moto a luogo» scrive un altro universitario, Francesco De Luca, che sottolinea come proprio nello «spostamento entrano in gioco l’imprevisto, l’eventualità del quotidiano, ma nella situazione odierna, la possibilità del contagio» a cui la tecnologia «risponde organizzando e garantendo nei minimi dettagli la sicurezza e la comodità della popolazione». Ancora: con un’altra studente di filosofia, Anastasia Francaviglia, come lampi compaiono parole chiave contrastanti tra loro: «futurismo, sospensione del tempo, sedentarietà, libertà, effimero, attenzione».

La politica universitaria? Le assemblee stipate, la dialettica, le conflittualità? Questa invece sembra un’assenza talmente grande da essere innominabile.

Insomma, l’imprevisto, lo slancio nelle nuove conoscenze tra compagni e nelle relazioni, anche quelle tra docenti e allievi che animano normalmente ricerca, critica e contenuti, si è assottigliato fino a scomparire. La condivisione, quella spontanea, congelata. La bidimensionalità dei contenuti su schermo e il click di accesso dal setting ciascuno della propria camera al webinar accademico hanno reso via via nei mesi occlusi sempre meno coinvolgente l’approccio, e si sente la differenza tra 2020 e 2021 nell’usura delle energie compresse. L’espressione dello studente De Luca, “il moto a luogo” inibito, rende plasticamente quella tensione in prima persona nell’andare incontro al senso di ciò che si fa, che proprio davanti al monitor si scioglie nell’anonimia.

 

Ma ancor più dura è la percezione dei dottorandi che parlano amaramente di «opportunità perse» nella loro ricerca, della «mancanza di interazioni tra dottorandi e ricercatori e della limitazione della frequentazione dei luoghi di studio. L’impossibilità di spostarsi e soprattutto di trascorrere un periodo all’estero, importantissimo per la propria formazione; le scadenze per la tesi (avremmo diritto a una proroga ben più lunga di quella ottenuta). Il desiderio di fare quell’esperienza con la dovuta calma e serenità indispensabili per intessere nuove reti di relazione lavorative, portare avanti approfondimenti e avviare nuove ricerche. Un domani questo farà la differenza» scrive la dottoranda in filosofia della Sapienza Margherita Bianchi con la lucida percezione dei rischi che corre la sua generazione nelle professioni future.

Qui è in gioco un livello ancora più delicato: la ricerca. Se per i dottorandi delle facoltà scientifiche privati dei laboratori la situazione di perdita secca è ancora più grave – e poco considerata a livello ministeriale che ha risposto con una proroga di soli tre mesi alle richieste dell’“Associazione Dottorandi Italiani” –, per i dottorandi delle facoltà scientifiche privati dei laboratori, i nostri ricercatori di filosofia sentono depotenziata quella ricchezza impellente del dialogo al termine della lezione in funzione delle suggestioni ascoltate. Quell’ «apprendere e allenarsi al dialogo, al confronto, tipico del filosofo in formazione» come fotografa acutamente il dottorando Andrea Olmo Viola. Certo, riconosce, anche se è stato possibile «partecipare a lezioni, convegni e seminari che si tengono a migliaia di km di distanza, in certi casi che non si tengono in nessun luogo, ma solo nello spazio virtuale dove si aggregano persone provenienti da ogni dove della Terra, quest’unico aspetto positivo non compensa né è equiparabile a un’attività in presenza. Le deficienze interattive rimangono inaggirabili e costituiscono una mortificazione. Ma si può̀ pensare che, in futuro, l’utilizzo dei supporti virtuali alla didattica possa essere comunque utile per facilitare una pur misera partecipazione da parte di chi è distante e non può̀ recarsi sul luogo». Tuttavia, «la chiusura delle università̀, dei luoghi di studio come biblioteche e archivi, l’impossibilità di muoversi per recarsi a convegni, di fare ricerca sul campo, di iniziare un periodo di formazione presso un’altra università̀ non hanno permesso che si innescasse quel vortice di produttività̀ che si sarebbe atteso». Insomma, conclude Olmo Viola «Non si può fare altro che leggere. Ma molti testi sono rimasti per molto tempo inaccessibili, rinchiusi in biblioteche o archivi distanti centinaia di chilometri. E, soprattutto, una continua lettura, nell’isolamento della propria stanza (per chi è così fortunato da averne una propria), è diventata alienante e questo contesto impoverito ha condotto a una quasi inevitabile accidia». Come sottolinea la dottoranda Bianchi la mancanza di «qualcosa di insostituibile, non recuperabile per questi due anni, come gli aspetti informali degli incontri (a seguito di una lezione, di un seminario o di un convegno)» ha reso «tutti un po' impediti e trattenuti nel dire e nel fare con maggiore spontaneità». 

Drammaticamente sintonico con i suoi colleghi, Margherita e Olmo, è Leonardo Ursillo, altro dottorando di filosofia:      «Ci si sente rallentati, soli, forse anche angosciati; e persino il proprio lavoro acquista un peso difficile da trasportare nel corso delle giornate. Si perde tempo, si desidera altro, si comincia a sentirsi insoddisfatti, “dovresti metterti al lavoro” diciamo dialogando con noi stessi, ma l’altra parte del tuo io risponde “non ce la faccio, è inutile”. E allora iniziano a roteare vorticosamente i pensieri, “forse non è il lavoro adatto a me? Forse non sono capace di andare avanti nei momenti di difficoltà?”, oppure “dov’è il mio fuoco sacro? Dov’è la mia passione quando manca tutto il resto? ” Come ritrovare allora il capo di un filo che sembra essersi perduto? Pur tra i suoi mille danni, la pandemia, ci ha fatto riscoprire l’importanza di riflettere su questi pensieri, per conoscerli più da vicino, spingendoci a condividere con gli altri le nostre insicurezze più banali, senza vergogne, ritrovando un po’ di gioia anche in una telefonata ad un vecchio amico o amica, magari alla fine di una giornata fatta solo di silenzi. Francesco Piccolo ha scritto che “la pandemia ci ha riportato tutti dentro” (Piccolo, 2021), riferendosi alle case, allontanandoci dagli incontri, dai viaggi e dal contatto con gli altri; ma in realtà – conclude Leonardo Ursillo – ci ha riportato anche dentro di noi, aiutandoci magari ad essere un pochino più indulgenti verso noi stessi e verso le nostre debolezze».      

Osserviamolo: il tono del disagio è ascendente. Se il tempo pandemico ha intercettato tutti noi e tutti i nostri allievi, il modo e la fase dell’esistenza in cui tale investimento è avvenuto ha prodotto una intensificazione progressiva dell’ansia e del malessere dai liceali, agli universitari ai dottorandi. Cresce nel lavoro solitario del dottorando quel languishing da pandemia che ci avvolge un po’ tutti, anche se “sani”. L’ansia crescente è in proporzione all’investimento di chi, più maturo e con lo sguardo già al domani, si era saputo guadagnare una prestigiosa borsa di studio PhD e acutamente sente bruciare un’occasione che non ritornerà.

 

 

3. Straniamento euristico ‘covidario’ e ‘appercezione trascendentale’ digitalizzata. 

Eppure, nemmeno indietro, all’ante-Covid-19 si tornerà. Pur tra diversi contrasti, questa è una sensazione diffusa tra tutti, dai liceali, ai dottorandi, a noi docenti. Non solo non si può azzerare in futuro un’esperienza di tale portata, ma neanche sarebbe desiderabile, malgrado le mancanze dovute alla costrizione. Anzi la spia del rischio globale corso dovrebbe (potrebbe, forse, chissà) permettere una via di uscita dalla cecità di una società improvvida nel danneggiamento degli ecosistemi e nella mancanza di equità verso le generazioni future.

Nella primavera del 2021, nello scorcio del secondo anno pandemico, dopo i primi spiragli di flessione del contagio, c’è stato l’ulteriore cambiamento nella didattica. Divenuta mista, in presenza e a distanza. Con la stanchezza addosso di un anno di scuola e università “covidarie”, è sembrato quasi più faticoso del “tutto on-line” cui ci si era ormai abituati, e nelle aule delle scuole riempite al 50 o 70%, in quelle semivuote dell’università e nei loro corridoi deserti, si è misurata ancora di più la non-presenza materiale dei loro normali abitatori. Ma, appunto, in quella primavera si era in un regime ancora parzialmente costretto.

 

La domanda a questo punto è diventata: questo ambiente digitale che sta modificando educazione, istruzione e formazione del futuro, potrebbe invece assumere un ruolo diverso in un mondo liberato dalla morsa del virus? Forse l’intero cosiddetto “ecosistema digitale” potrebbe (potrà) permetterci un punto di vista ancora diverso, sia da quello attuale sia da quello che abbiamo perduto, qualora affiancato alla ricchezza vitale delle presenze nelle aule e non solo come loro obbligata sostituzione online. Una prospettiva questa non soltanto reattiva alla grave perturbazione occorsa, ma densa di nuove pratiche “maggioranti”, che metabolizzino la perturbazione (Piaget, 1975), e dalla portata di trasformazione antropologica che muterebbe il rapporto con le forme conoscenza, sia verticali che orizzontali (Scognamiglio, 2021).

 

  Da una parte, la tecnologia ci ha permesso di surrogare al meglio una continuità didattica altrimenti perduta, come alcune ricerche in merito già mostrano (Ramella, Rostan, 2020; Favole, in Aime, Favole, Remotti, 2021). All’università le iniziative, anche di ricerca, i convegni, i seminari di dottorato sono continuati, anzi spesso si sono moltiplicati «siamo riusciti a creare una rete di scambio virtuale di mail e di programmi di eventi telematici, portando in qualche modo avanti la ricerca, anche a grande distanza» riconosce la dottoranda Margherita Bianchi. La didattica a distanza «è stata, per quanto mi riguarda, l’unica opzione plausibile e possibile e qualora si fosse optato per una sospensione totale della didattica, ne sarebbe derivato anzitutto ritardo esami, laurea, immissione nel mondo del lavoro» scrive lo studente di filosofia Francesco De Luca. Osservazioni di ordine pratico, condivise dai liceali veneti: «s’è data la possibilità di seguire le lezioni e di continuare i nostri studi in un momento in cui l'andare a scuola in presenza non era possibile», e con sguardo retrospettivo, già storico: «se la pandemia fosse avvenuta nei decenni passati, dove le tecnologie non erano come quelle odierne, le lezioni non sarebbero potute proseguire».

     Dall’altra, cominciamo a fare i conti in modo meno improvvisato con lo “straniamento euristico” che abbiamo incontrato e ormai a lungo praticato. Lo sentiamo forse tanto più noi prof non native digitali ed è connesso a una sensazione duplice: quella di non essere adeguate per l’accelerazione tecnologica che ci sta attraversando (Anders, 1956) e, insieme, quella di esserne già state modificate più o meno consapevolmente, con una crescente disposizione a un sapere che è sempre più processo connettivo e collettivo.

 

  Il confronto, tra di noi e con gli allievi nell’ecosistema digitale, trascende le nostre individualità e genera un meta-livello di comprensione. Tra noi due chi insegna nel liceo è riuscita a far diventare questo disagio-straniamento un momento euristico, accettando un salto di livello che comporta anche un rischio più alto: entrandoci dentro e usandolo, si è lavorato per processi che hanno coinvolto gruppi e le loro crescenti interazioni, abbandonando così la valutazione individuale. Ciò ha comportato anche una “rivoluzione linguistica” nel mondo della scuola, per cui dalle interrogazioni, ad esempio, si è provato a passare alle “conversazioni” in sottostanze, con mappe predisposte da percorrere e su cui aprire fuoripista. L’intelligenza connettiva che è emersa dalle possibilità del lavoro in digitale tra i ragazzi attraverso le metodologie di cooperative learning (Kagan, 1994), ha infatti reso impraticabile una valutazione della prova individuale e, piuttosto, aperto scenari mediante cui orientarci tutti sulle questioni. In questo modo si è provato a disancorare la crescita della conoscenza dalla mera dimensione di controllo della sua trasmissione.

     All’università invece non si è trattato tanto di invenzioni di particolare creatività metodologica, didattica, né tantomeno pedagogica. Piuttosto, lo stesso nucleo portante del corso di filosofia della scienza, con il suo particolare focus sulle scienze del vivente, proprio per le sue tematiche intrinseche è stato centrato in pieno dalle sollecitazioni offerte dall’evento pandemico che è diventato, quasi in tempo reale, oggetto di ricerca condivisa con gli studenti. Nei due anni, dal 2 marzo del 2020 fino alla fine del secondo semestre 2021, infatti, si studiava la politica della scienza, la nascita della citizen science, il rapporto tra scienza, società e democrazia, accordandole con le loro trasformazioni in tempo reale in pandemia. Si leggevano e confrontavano la presa di parola dei movimenti ambientalisti presenti e passati con le riflessioni sul rapporto che via via emergeva tra pandemie, cambiamento climatico, devastazione degli ambienti naturali, e si osservavano nuove metafore, quali, ad esempio, la crisi dell’impatto antropico come “pandemia al rallentatore” (Wijnberg, 2020). Mentre sul versante stretto della filosofia della biologia la figura del virus era protagonista, esemplare case study per le spiegazioni della co-evoluzione dei “sistemi combinati” tra mondi batterici, virali e resto degli umani e altri animali, e infine sul piano filosofico, categoriale, proprio attraverso questo virus si riattraversavano gli slittamenti e gli ampliamenti delle definizioni usuali di “vita” (Duprè, O’Malley, 2017). Gli studenti seguivano, ma integravano con altre loro letture, e la classe virtuale, la classroom coi suoi codici d’accesso e la registrazione delle lezioni postate, si riempiva di testi decisamente extracurriculari.

 

L’ambiente digitale ha potenzialità più ampie del salvagente che è stato nell’attuale tempesta (Granata, 2014). Già dagli anni Settanta si parlava del «passaggio da un paradigma istruttivo a un paradigma perturbativo della comunicazione: nel primo caso si postula una condivisione preliminare del senso dei messaggi fra il mittente e il destinatario; nel secondo caso il senso stesso viene costruito autonomamente dal destinatario sulla base del suo dominio cognitivo […] non c’è alcun apprendimento senza costruzione attiva e autonoma del soggetto» (Bocchi, Ceruti, eds. 1985). Per lo sbilanciamento e l’enfatizzazione del processo di conoscenza sul destinatario, artefice di qualsiasi rete di senso quasi disancorata dall’attrito del reale, questa impostazione aveva finito per attrarre critiche e perplessità fin dagli anni Novanta. La sfida così oggi si reimposta sulla possibilità di pensare i processi stessi di conoscenza come reti emergenti, sorta di “intelligenza connettiva”, o meglio “collettiva” che tiene insieme i diversi soggetti e produce sia apprendimento che innovazione, con una serie di circolarità retroattive e migliorando le competenze del sistema stesso e la capacità critica di ciascuno (Tagliagambe, 2014). Mentre si può andare prefigurando di fronte alla sfida pandemica un ripensamento sia dell’istruzione che della ricerca (Borrelli, 2020).

Il modello dell’intelligenza artificiale in questa visione è uno Zeitgeist più che trasparente. E come tale va considerato, anzi calibrato con cautela. Può l’ambiente digitale di per sé costituire l’innesco di una nuova coscienza sistemica? Può l’ecologia della rete, di per sé, aprirci alla possibilità di costruire nuovi strumenti culturali, anziché estrarli dal bagaglio del noto?      

 Riteniamo che la cautela della de-soggettivazione in questo caso sia d’obbligo e vadano fatte delle precisazioni. Non si tratta certo di conoscere “tramite il web”, ma di riconoscere delle vie metodologiche alla disposizione reticolare della conoscenza e dei loro collegamenti. Infatti, proprio la conoscenza di rete, trasversale, non è frutto diretto dell’operato del singolo, ma piuttosto è una sorta di “emanazione” intersoggettiva che sul singolo poi, ritorna. Tale emanazione altro non è che la spinta a costruire collegamenti, annodare fili, organizzare a maglie larghe. La formazione attraverso le piattaforme digitali corre quindi costantemente un rischio: la perdita di profondità e complessità, e ciò anche se la rete stessa si proporrebbe come “effetto compensativo” rispetto alla frammentazione crescente dei contenuti.

Se una intelligenza connettiva diffusa sembra esibire profondità solo in virtù della sua capacità di organizzare contenuti frammentati, proprio una migliore comprensione del digitale come ecosistema diventa allora la sfida che può portare ad una inversione di questa tendenza disgregatrice. Così, se, da una parte, i contenuti, semplificandosi, si sono trasformati in “granulari” (Roncaglia, 2018), dall’altra, il cercare nella rete richiede di saper creare nodi mirati, percorsi autonomamente delineati proprio da chi la usa, studenti o ricercatori che siano .

Persa la sua natura lineare, concatenata causalmente e continua, la conoscenza diventa allora tessitura irregolare e distribuita, trama dove ci sono link, letture sotterranee, esplorazioni trasversali e focalizzazioni impreviste, ma in cui il senso, la rotta, sono dati dall’intelligenza delle domande.      

Ovviamente il rischio, soprattutto nella scuola, è che la semplificazione dei contenuti operi lo schiacciamento della conoscenza sequenziale classica, correndo il rischio di un’impreparazione diffusa. Anche se esiste un collante che abilita alla costruzione dei percorsi a partire da dati granulari: esso è la fiducia reciproca. Proprio la fiducia – come già osservato dal sociologo Giddens nel 1990 – fa da contraltare alla disaggregazione della modernità nella misura in cui ci vincola reciprocamente. Infatti già nel processo conoscitivo in generale sappiamo perfettamente che ci muoviamo nel mare di una cultura che non è ovviamente frutto della nostra sola e diretta esperienza e non per questo certo ignoriamo, anzi. Qualsiasi costruzione di un processo conoscitivo implica una relazione ricorsiva tra responsabilità e fiducia, poiché un vincolarsi reciproco delle conoscenze prodotte è sempre in atto tra coloro che producono sapere e chi ne fruisce, generando a sua volta ulteriori domande. “La conoscenza è un atto collettivo”, ha scritto Hutson nella MIT Review, analizzando la dipendenza epistemica nel “caso Ligo”, progetto internazionale di ricerca in campo astro-fisico (Hutton, 2021 in Internazionale 1406, pp. 64-68). Nella ricerca scientifica contemporanea è tra l’altro noto che in qualsiasi progetto i ricercatori non possono sapere in dettaglio tutto ciò che esso incarna, e questo sopravanzare è la ben nota forma di vincolamento conoscitivo tra esperti, basato sulla fiducia. Un processo sempre più esteso che sta addirittura cambiando ad esempio le modalità di attribuzione dei premi scientifici. «Il premio Nobel è un anacronismo di un’età passata, quando gli studi venivano fatti da un singolo individuo o da un piccolo numero di persone – sostiene Rainer Weiss, che nel 2017 ha ricevuto il Nobel per la fisica insieme a Kip Thorne e Barry Barish per un lavoro sulle onde gravitazionali – Mi sono sentito a disagio nel riceverlo e sono stato in grado di giustificarlo solo dicendo che rappresentavo anche gli altri» (Hutton, 2021, pag. 67).

 

Se, da una parte, questo trascendimento dell’individuale empirico nel processo conoscitivo ha sempre accompagnato, come un Ich denke di matrice kantiana, il disciplinarsi dei saperi, dall’altra, non si può negare che oggi, in virtù dell’“organizzazione dei saperi”, potenziata dall’apprendimento cooperativo in digitale, nei luoghi della formazione è presente una portata generativa di questa appercezione.  L’ecologia dei media, tra scuola e università, obbliga a fare i conti con i metodi e i processi, e non più solo con i contenuti e la loro restituzione individuale. Una pratica parallela, non sostitutiva delle innovazioni didattiche, può alimentare questa forma connettiva anche nell’organizzazione e ibridazione dei saperi disciplinari. É questa un’attitudine che innerva e rende viva una conoscenza altrimenti spezzettata nei suoi disciplinamenti settoriali, rivoluzionandone dei metodi. Proprio l’attenzione rinnovata ai metodi è stato forse ciò che ha cambiato i nostri cervelli, ci siamo dette. Trattenendo il positivo e senza entusiasmi effimeri ci siamo ritrovate immerse in un esperimento obbligato che ci richiedeva di essere all’altezza della sfida drammatica e globale in atto. Passaggio permesso dalla “complicità”, dallo stimolo, degli ambienti digitali. Infondo, categorizzare, schematizzare, ridurre, mescolare sono pur sempre azioni preliminari per buone ricette, la cui sfida è però quella di non limitarsi alla giustapposizione degli ingredienti per permettere che processi aperti lascino emergere nuovi scenari. Una scelta che ci ha accompagnate e su cui via via ci si confrontava, è stata quella di non ignorare o rimuovere la frustrazione che si prova nel sentirsi lievemente dissociate mentre spieghiamo e additiamo gli snodi del pensiero in modalità inedite a generazioni telematicamente ben più esperte di noi. Da questa esperienza a volte spiazzante, riteniamo, scaturiscono infatti pratiche inedite e potenzialità utili a ritarare sul presente scuola, università, nonché ricerca.

  

 

Conclusioni 

Nel tempo pandemico, per tante ragioni non solo intellettuali, il lavorio della mente di chi insegnava e di chi imparava è stato intenso. Faticoso, ma straordinario: un’occasione di attraversare in modi appunto extra-ordinari un evento storico (epocale?) d’eccezione. Più tardi se ne decanterà memoria nelle vite di chiunque l’ha vissuto con passione, titubanza e inventiva, in quelle degli studenti come delle docenti, dentro quelle classroom che, nella bolla chiusa del lockdown, continuavano aperture della mente e critica dal piccolo schermo del computer. Nel confronto che cresceva in quei lunghi mesi occlusi è diventata sempre più evidente la necessità di mantenere aperta una contraddizione: da una parte il fatto che il pensiero non può non accettare la sfida della iperconnettività mentre ne scopre, e in modi accelerati, la sua trasversalità co-costruttiva nei mondi della scuola come in quelli dell’università; dall’altra, il fatto che non possiamo mai abdicare alla responsabilità di esser protagoniste nel formare menti critiche, nel tracciare traiettorie e nel liberare gli studenti a tracciarle in autonomia. Una responsabilità individuale che si agisce e si trasmette concretamente e su cui non si delega certo alle reti. 

Se la conoscenza si conferma sempre più emergente dall’interazione, se la valutazione diventa un processo di monitoraggio in fieri, la diade ricorsiva e co-costruttiva dell’insegnare&imparare ne guadagna un’ulteriore corroborazione di senso. Resta ineliminabile il momento di acquisizione del passato, l’“istruire” lineare in ossequio a conoscenze collaudate, ma entra in gioco anche la lungimiranza di accompagnare una vera e propria trasformazione antropologica in corso per quelli che saranno gli intellettuali e i formatori di domani, per le future cittadinanze critiche, coinvolte nell’organizzazione, nella sperimentazione e nell’esplorazione di nuovi saperi.

 

   Ringraziamo per la partecipazione corale: la studente Alessandra Abruzzo (Liceo “Giuseppe Palmieri” di Lecce), le studentesse e gli studenti della 5C del liceo “Rolando da Piazzola”, Piazzola sul Brenta e della 4G del liceo “Modigliani” di Padova, gli studenti Francesco De Luca, Anastasia Francavilla, Francesco Lattanzio del Dipartimento di Filosofia della Sapienza-Università di Roma, e i dottorandi in filosofia Margherita Bianchi, Leonardo Ursillo e Andrea Olmo Viola (Dipartimento Filosofia,      Sapienza-Università di Roma).

Si ringrazia inoltre il Preside Gian Paolo Bustreo dell’IIS “Rolando da Piazzola” per lo scambio fecondo.

 

 

Riferimenti Bibliografici 

 

 

Articoli 


 

Sitografia