Riflessioni Sistemiche n° 24


Educazione e Formazione:
livelli, problemi e prospettive

SCHOLÉ

Tempo del dialogo, del confronto, della ricerca, della soluzione creativa dei conflitti.


di Gabriella Giornelli

Ex insegnante di scuola media, impegnata nella ricerca azione,
esperta di mediazione scolastica e di pedagogia/didattica inclusiva.

Foto di LTD EHU da Pixabay

Sommario
Il non detto a scuola e gli equivoci; l’idea di scuola degli insegnanti e dei genitori; il consiglio di classe come incontro dialogico; la scuola al centro della comunità educativa; l’apprendimento conversazionale; l’intelligenza collettiva; la classe come gruppo-apprendente-educante.

 

Parole chiave
insegnamento/apprendimento, relazione, prendersi cura di, autopoiesi e apprendimento, cooperazione, apprendere ad apprendere.

 

Summary
the unspoken, the misunderstandings in the educational environment; teachers’ and parents’ ideas about school; the class council of teachers as dialogical meeting; the school at the center of the educational community; conversational learning; collective intelligence; the class as educating-learning group

 

Keywords
teaching/learning, relationship, to take care of, autopoiesis and learning, cooperation, learning to learn.


Comunicazioni a scuola 

-          Ma cosa dici Stefano, non siamo “normali”?!

-          Sì Prof, non so come spiegarlo, voi, gli insegnanti intendo, non siete come tutti gli altri.


E con questo chiarisce che non vuole affermare un concetto negativo o uno positivo, ma proprio l’appartenenza degli insegnanti ad un mondo diverso, un mondo a parte.

Più avanti nel tempo, di fronte a modi d’agire incomprensibili di insegnanti o a conflittualità difficili da risolvere, si finiva spesso con la battuta “Che avesse ragione Stefano?” 

Di una cosa mi ero già accorta fin dal mio primo ingresso nella scuola: a differenza di altri ambienti di lavoro, la comunicazione era spesso difettosa. Intendo dire con questo che mentre nell’ufficio dove ero stata impiegata avevo appreso un modo di comunicare diretto, dove il significato dei termini volevano dire quello e nient’altro, a scuola spesso il significato complessivo di una frase poteva sfuggire proprio perché venivano svuotati i valori semantici dei vari termini, per come erano posti, e una frase poteva significare esattamente il contrario di quello che esprimeva. Ad esempio, la frase “lo studente ha raggiunto il massimo delle sue possibilità…” non sta ad indicare necessariamente un significato positivo, esattamente come la frase detta dai miei insegnanti a scuola “potrebbe fare molto di più...” mi faceva immaginare doti insperate, che magari non avevo.

Ancora, se un docente di matematica mi dice che uno studente è sprovvisto di logica, perché non ha mai risolto in autonomia un problema matematico, ma io so che sa rimontare i pezzi di una bicicletta in modo perfetto, significa che attribuiamo al termine “logica” e al termine “problema” significati diversi. Tutto ciò rende più scivolosa, complessa la comunicazione. Poco tempo fa, in un corso d’aggiornamento in un liceo, una insegnante si vantò del fatto che non aveva “nessuna relazione” con i suoi studenti, per poter essere più giusta valutandoli. Non credo che fosse l’unica a considerarlo un fatto positivo, ma quando si parla di relazione, quale idea pedagogica suscita questa parola negli insegnanti? Quale psicologica? Mi chiedo ancora perché non la si consideri legata all’insegnamento/apprendimento; sospetto che il termine relazione si colleghi ad un tipo di confidenza che non è adatto tra insegnante e studente, se non perdendo il proprio ruolo.

A questo poi aggiungo una forma del comunicare diverso da regione a regione, che ha comunque basi comuni nei risultati. Per esempio, nel Veneto, c’era un modo sottile e arguto di controbattere all’interno di un conflitto tra insegnanti, senza nominare mai l’oggetto reale del contendere, né affermare il giudizio in modo netto, ma facendolo capire per sottintesi. Come dire, si capiva dallo sguardo o dalle tonalità della frase quello che uno pensava. Era un modo discreto - ma pure deciso - d’esprimere i pareri discordi, dove il conflitto rimaneva sempre sospeso, non dichiarato apertamente e questo dava l’opportunità ai confliggenti di dichiararsi avversi, senza risolvere niente, rimanendo ognuno del proprio parere, aspettando l’opportunità di controbattere per riaffermare le proprie ragioni.

Trasferita in Romagna, rimasi completamente spiazzata quando, nel primo Collegio Docenti, un mio collega si alzò in piedi dicendo che aveva solo due problemi come insegnante: il primo era che non sapeva interessare i suoi studenti e il secondo che non sapeva tenere la disciplina. Nel Veneto sarebbe stato interpretato come un fallimento totale su tutti i piani, una Caporetto dell’insegnamento. Il mio stupore continuò quando constatai che l’intervento non aveva portato con sé una grande reazione.

In entrambi le regioni dunque, anche se con diverse modalità, le difficoltà venivano accantonate, rimosse o comunque non espresse per suscitare dibattito, discussione, intavolare ipotesi di soluzione, riducendosi invece a essere semplici sfoghi.

In altre assemblee plenarie, poi, le stesse difficoltà le ho sentite attribuire come colpa agli studenti o alle famiglie, con frasi del tipo: “gli studenti non sanno studiare”, “i giovani non sono più educati, non hanno rispetto per gli insegnanti”, oppure “le famiglie non insegnano più l’educazione ai figli”. Le frasi in sé e per sé rivelano anche condizioni reali, ma il come sono espresse si intendono riferirle a mondi esterni/estranei, direi ostili all’ambiente scolastico.

Aggiungo che più di una volta ho constatato che la professione dell’insegnante è una delle poche in cui, se non si ottengono dei risultati, le cause vanno ricercate in altri: ambiente, famiglie, studenti stessi, i tempi cambiati, la mancanza di risorse e altro ancora.

 

Alcune considerazioni rispetto a quanto detto:

- la prima è che le conflittualità, insite nell’azione stessa dell’insegnare, riguardanti sia i dubbi interni dei singoli insegnanti, sia la relazione d’insegnamento/apprendimento con gli studenti o le difficoltà nei rapporti con le famiglie, non sono mai affrontate con chiarezza e in profondità, ma lasciate nel vago anche come forma comunicativa.

 

Raramente si approfondiscono in Collegio Docenti domande del tipo “Cosa significa educare? Un insegnante è anche un educatore o si deve limitare solo a programmare lo sviluppo degli argomenti?” Sono temi che rimangono in un sommerso-non detto. Per questo ognuno fa riferimento alle sue premesse implicite, senza esplicitarle, contribuendo a creare occasioni conflittuali.

- La seconda riguarda il modo stesso in cui sono giudicate le stesse conflittualità, viste più come problemi, ostacoli che si oppongono al progetto educativo in atto che, senza questi impedimenti, si suppone avrebbe successo.

- Da ciò ne deriva che i conflitti rimangono non risolti molto spesso perché, riguardando la sostanza dell’insegnare e dell’apprendere, se questa realtà non viene analizzata in profondità, e il risultato dell’analisi non rimane un punto di partenza per le azioni successive di tutti gli insegnanti, le situazioni conflittuali si ripresenteranno di nuovo in modo acuto.

- A questo si aggiunge che il contesto in cui si insegna viene troppo spesso considerato altro rispetto all’azione dell’insegnamento/apprendimento, quando invece è parte integrante dell’azione stessa. Tutto ciò complica notevolmente comunicazioni e relazioni, ampliando il teatro conflittuale.

 

  

Il non detto e gli equivoci 

Molte incomprensioni, dunque, sono causate dal fatto che ogni insegnante alimenta un modo di intendere la scuola e l’educazione “diverso” da quello del collega, magari ognuno se lo costruisce per conto proprio, ma troppo spesso non è espresso. A lungo andare ciò non solo influisce sulle singole azioni, ma provoca anche forti tensioni tra i colleghi.

 

 

Prendiamo la parola inclusione 

Ad esempio, nessuno mette in discussione che la scuola debba essere inclusiva e in questo si sprecano sia le comunicazioni del ministero come quelle dei dirigenti delle singole scuole e così pure le programmazioni individuali di ogni insegnante. Nella pratica, però, nella quotidianità del procedere scolastico, quali azioni vengono messe in atto che favoriscono l’inclusione? Lasciamo stare le eccellenze, ogni scuola ha le sue, ma nella maggioranza delle scuole di mia conoscenza, ben poche azioni degli insegnanti sono rivolte ad una reale inclusione di tutti. Se posso semplificare, direi che le azioni degli insegnanti seguono questa successione temporale:

a) preparazione del “programma”, b) proposta delle attività programmate alla classe, c) proposta semplificata per studenti con difficoltà segnalate, d) verifica delle avvenute comprensioni, e) verifica separata degli studenti con difficoltà dichiarate e via di seguito.

In classe si procede in mondi separati e spesso s’intende l’inclusione come l’azione che consente ai ragazzi che presentano “difficoltà” di accedere ad un sapere comune, ma semplificato. Questo significa banalizzare la parola stessa inclusione.

La configurazione stessa delle aule, il modo in cui sono disposti i banchi, dove viene posta la lavagna - sia essa luminosa o tradizionale - tutto l’ambiente, insomma, racconta di come, nella maggioranza dei casi, si pensa, si progetta e si realizza l’azione didattica quotidiana: l’insegnante si pone davanti alla classe schierata, ossia con banchi disposti in fila, uno dietro l’altro e da questa postazione spiega, illustra, interroga, verifica.

È l’insegnante al centro dell’azione, è lei/lui che agendo decide con chi volta per volta relazionarsi.

 

Tra la cattedra e l’ultimo dei banchi ci può essere la distanza di 10 metri, così pure tra lo studente posto nell’ultimo banco e quello che sta davanti in prima fila e che gli mostra la schiena. Ogni studente ha davanti a sé una schiena e di fianco un banco separato da un vuoto che indica la separazione che deve esserci tra i due alunni e non solo ora che viviamo un momento di pandemia, ma sempre.

Dunque, quando parliamo di inclusione a che ci riferiamo, se anche tutta la scena in cui si svolge l’azione dell’insegnare e dell’apprendere è strutturata in modo che non avvenga nessuna inclusione e che la comunicazione passi attraverso dinamiche rigide che iniziano sempre dall’insegnante e lì di nuovo si esauriscono?

  

 

L’idea di scuola degli insegnanti 

Esiste una specie di resistenza, nella scuola, legata al come si deve agire e quali sono gli argomenti che devono essere approfonditi, a prescindere da ogni riforma, magari in perfetta dicotomia rispetto alla riforma stessa. Ecco alcuni esempi. Le riforme della scuola media, dalla fine degli anni ‘70 in avanti, avevano introdotto una serie di novità veramente interessanti, come l’idea dell’interdisciplinarità delle discipline, ossia di una cultura non più legata al rigido programma delle singole materie, ma ad un divenire del sapere che dagli argomenti disciplinari sapeva partire per proseguire verso un interesse più approfondito e dinamico.

A questo fine, le prove scritte in classe erano considerate non più prove “legali” da trasferire con tanto di fascetta in segreteria, ma esercitazioni da valutare come percorso d’apprendimento. L’esame finale orale, infine, era da intendere come colloquio basato sull’interdisciplinarità che avrebbe giudicato la maturità dell’allievo, la capacità di collegamento tra i vari apprendimenti e altro ancora. La nuova idea di scuola che avanzava vedeva veramente lo studente al centro dell’azione educativa/didattica. Bene, per tutto il periodo in cui sono rimasta a scuola, nessun Consiglio di classe, della scuola in cui insegnavo, ha adottato fino in fondo questo tipo d’esame (a parte quello dove agivo anch’io e già inserito in una ricerca collegata all’Università), gli insegnanti hanno continuato a riordinare i compiti in classe con le fascette e a fare lezioni frontali, non coordinandosi con le altre discipline.

Questo non significa che siano stati cattivi insegnanti, ma sta ad indicare che l’insegnante si era mantenuto comunque al centro dell’azione educativa/didattica, rendendo evanescenti le nuove idee innovative, conservando le abitudini già consolidate.

Così pure, quando si afferma che non è possibile svolgere un programma approfondito in lingua italiana, per la presenza di troppi studenti non italofoni, si espone un falso problema, esattamente come negli anni 70/80 era intesa problematica l’inclusione nelle classi di bambini che a casa parlavano dialetti meridionali, indicati come cause principali della riduzione del programma.

Quello è il mantra ripetuto: l’impossibilità a svolgere tutto il programma perché nelle classi sono presenti diversi studenti che parlano abitualmente un’altra lingua, o addirittura essere costretti ad abbassare i livelli dell’insegnamento, per adeguarsi alle diverse difficoltà degli studenti, mentre è

un reale problema solo se l’insegnante rimane irrigidito su forme frontali d’insegnamento.

 

 

 

L’idea di scuola dei genitori 

Pochi giorni fa, in fila ad una cassa di un supermercato, sento due mamme discutere sull’operato delle maestre delle loro figlie: “Guarda, devi assolutamente far cambiare classe a tua figlia” dice una “quell’insegnante fa molto di più come programma! È molto più brava ...” Che un docente sia più bravo di un altro perché affronta più argomenti è una leggenda che da molto tempo influenza famiglie, condiziona l’operato delle scuole e perfino s’insinua in profondità nel subconscio degli insegnanti. Tutto questo a scapito della qualità dell’insegnamento. Ma nessuno spiega questa differenza ai genitori che, in un paese dove si parla di scuola solo in occasione di riforme politiche, hanno un’idea di scuola che si rifà a racconti metropolitani e/o a esperienze dirette, o a confronti veloci su WhatsApp. Entrati nella scuola con la riforma dei decreti delegati del 1974, i genitori vi partecipano senza che questo fatto, negli ultimi decenni soprattutto, abbia comportato una crescita comune su cosa significa una scuola di qualità. Spesso seguono l’impulso del momento, le influenze di qualche psicologo seguito in Tv, l’onda dei loro ricordi e, soprattutto, le loro paure.

Per tutto questo a volte considerano gli insegnanti personaggi ostili con cui scendere a patti, più che collaborare, o addirittura da osteggiare perché impediscono ai figli di accedere a valutazioni più alte. In un liceo che conosco, molti liberi professionisti, genitori degli studenti che lo frequentano, stanno di guardia alle medie dei voti dei loro figli, perché escano dalle superiori con un punteggio che consenta di accedere poi a facoltà di prestigio, pronti sempre a battagliare con gli insegnanti, contestando votazioni ritenute basse. Il come i figli ottengono quei voti non ha importanza, perché più forte è la paura che possano perdere la possibilità di esercitare in seguito la professione desiderata dai genitori.

Ugualmente, se i genitori non sono acculturati e non si sentono in grado di guidare i figli nello studio, hanno paura che soffrano o che siano bocciati, per cui a volte preferiscono facilitarne la segnalazione (spesso come DSA) per limitarne le difficoltà.

  

 

Come affrontare in profondità i temi importanti 

Apparentemente di scuola si parla molto, ma solo apparentemente. In profondità non se ne parla mai, neanche a scuola. Voglio dire che “parlarne” per me significa approfondire temi che anticipano per importanza quelli più banali e scontati come “programmazione”, ad esempio, e su questi temi, appunto, confrontarsi con i colleghi.

Provo a fare alcuni tipi di confronto, basati sulla mia esperienza diretta, importanti per evitare contrapposizioni forti e adatti a favorire scambi creativi tra gli insegnanti, nonché un modo di collaborare a scuola aperto, rispettoso dei diversi punti di vista anche con i genitori.

 


Il confronto aperto tra i colleghi 

Non ero ancora laureata ma facevo già una supplenza di lettere. Il preside un giorno chiama noi, giovanissimi insegnanti, e in sala docenti mette sul tavolo diversi temi svolti di italiano, perché noi li giudicassimo. Non ricordo con chiarezza lo svolgimento della nostra singola correzione, quanto la discussione finale coordinata dal preside: nessuno di noi aveva dato lo stesso giudizio o fatta la stessa correzione, ma ognuno aveva seguito parametri e modi di giudicare individuali che giungevano a conclusioni diverse. “Cosa avremmo fatto poi di quegli errori individuati?” Ci chiese il preside, “Come ogni studente avrebbe appreso a non farli più?” Questo fu l’insegnamento e ogni tanto andrebbe rifatta questa prova, per scrollarci di dosso la sacralità di essere oggettivi e per ricordarci che gli errori dei ragazzi fanno parte del loro percorso d’apprendimento, che ogni prova per loro ha senso se fa aumentare la loro competenza.

 

Una Preside della scuola in cui insegnavo (negli anni ’80) si era accorta della distanza che c’era tra i vari docenti, per idee di base sul senso della valutazione: infatti più di una volta aveva assistito a dibattiti accesi tra insegnanti che desideravano una scuola selettiva (pur non nominandola mai) e spingevano per giudicare con valutazioni negative studenti

con basse prestazioni, a differenza di altri docenti che, invece, consideravano le valutazioni all’interno di un percorso di educazione/formazione, dunque strumenti del percorso.

Prendendo atto della distanza di queste idee, la preside invitò tutti i docenti ad affrontare il tema della valutazione per un intero anno scolastico come fulcro delle attività del collegio docenti. In piccoli gruppi, formati da insegnanti di diverse discipline, il tema venne sviscerato, approfondito attraverso letture, riportato poi in un Collegio finale aperto al dibattito. Si era giunta ad una unità di pensiero? Certamente no, ma i vari incontri avevano fatto cadere le barriere della comunicazione, mostrando i pensieri di riferimento di ognuno, liberando di pregiudizi l’ascolto tra colleghi che non avevano più bisogno di diventare aggressivi per far valere le proprie idee. Tutto ciò favorì il nascere di un rispetto comune, pur mantenendo distanti alcune convinzioni, e questo agevolò il clima di ogni consiglio di classe, migliorandolo notevolmente. A distanza di tempo mi viene da pensare che essere insegnanti con idee pedagogiche diverse non è il male maggiore anche se si collabora nello stesso consiglio di classe, soprattutto se c’è la possibilità di chiarire il proprio pensiero in modo onesto, aperto e di trovare accordi sulle idee di fondo comuni, nel rispetto della costituzione e delle premesse ai programmi ministeriali.

 

 

Consiglio di Classe: incontro dialogico 

Forte di queste esperienze di condivisione e soprattutto più preparata dal punto di vista della soluzione creativa dei conflitti, ho avuto modo di sperimentare consigli di classe efficienti, valorizzando il mio ruolo di coordinatrice e ottimizzando la funzione di ogni insegnante.

All’interno dei vari consigli di classe ci si muove spesso su piani di pregiudizi, ma se questi vengono allontanati, incominciando dai propri e sostituiti con strategie di lavoro, cambia del tutto la relazione tra i vari membri. Preparando il consiglio di classe con questi obiettivi, la prima mossa che ho fatto è stata quella di chiedere ai miei colleghi quali difficoltà incontravano nel consiglio stesso, cosa non funzionava, cosa poteva essere migliorato. È stata una rivelazione: finalmente l’attenzione si spostava dall’oggetto del Consiglio (l’analisi della classe) a come ci si muoveva nel consiglio stesso, a come fare perché ciascuno insegnante si trovasse a proprio agio e potesse esprimere in piena tranquillità il proprio pensiero. È emerso che certi insegnanti si sentivano esclusi perché avevano poco spazio di parola, e che altri non potevano conoscere a fondo tutti gli studenti per il numero elevato di classi e il poco tempo a disposizione.

 

Da una parte quindi si sono regolamentati gli interventi, dall’altra si sono fissati molto in anticipo gli argomenti di discussione, riassumendo schematicamente, per chi non aveva avuto tempo di esserci, i punti centrali o focalizzando l’attenzione solo su quegli argomenti oggetto di preoccupazione.

Ricordo, ad esempio, che se ci impensierivano i risultati scolastici di uno studente, tutti erano tenuti a “fare osservazioni” sullo studente, magari solo su quello, se non avevano tempo per altri. E per osservazioni si intendeva riportare in una scheda esemplificativa i comportamenti dello studente, non quello che l’insegnante pensava che fossero le cause di certi comportamenti, perché è molto differente l’espressione “Aldo non ha voglia di studiare”, da “Aldo non è preparato”. 

Direi che sì, ho inteso il coordinatore come il mediatore del consiglio di classe, perché solo in questo modo potevo far emergere gli interessi comuni e tutti si sentivano considerati.

 

 

La scuola al centro della comunità educativa 

Comunità è una parola bellissima e sta incominciando a diventare di moda in riferimento alla scuola, il che da una parte mi piace e dall’altra mi preoccupa, perché come tutte le mode rischia di essere momentanea, oppure vanificata nella sostanza.

Nella seconda metà degli anni settanta, la legislazione regolarizzò la collaborazione tra scuola e famiglia, già considerando la scuola come teatro di questa collaborazione educativa, in quanto proprio attinente a quella cura verso il minore che le due realtà, familiare e scolastica, erano tenute a prendere in considerazione insieme.  Nel tempo ho visto però sfilacciarsi i termini di questo patto educativo, con la scuola più arroccata a difendere il proprio territorio, e i genitori autori di attacchi nei confronti di una scuola considerata avversa, presi dal desiderio di proteggere i propri figli contro nemici invisibili individuati a turno in insegnanti di cui non comprendono l’azione.

Si sono perse nel tragitto le due parole fondamentali, educazione e cura, le uniche che danno senso a questa collaborazione. Non mi inoltrerò ad esaminare qui il significato di “educazione”, perché mi perderei in teorie su cui tutti concordiamo. Trovo molto più interessante approfondire la parola cura, termine connesso strettamente all’azione quotidiana di chi si occupa di bambini e di giovani. Come dire, spesso possono sfuggirci le finalità educative a lungo termine, ma quello che quotidianamente si nota è come gli adulti si “prendono cura” dei minori.

Il prendersi cura di nell’ambito familiare e scolastico non è quasi mai considerato, mentre si rivela proprio nell’azione quotidiana dell’adulto che, relazionandosi col minore, agisce di conseguenza. Se, come insegnante, correggo lo scritto di un bambino favorendo la sua comprensione di come orientare la scrittura futura, io mi prendo cura di lui, se, viceversa, lo correggo solo mostrandogli gli errori e valutandoli come fini a sé stessi, io mi comporto come se “mi prendessi cura dello scritto”, non del bambino che deve apprendere a scrivere. Non è semplice da spiegare, ma il prendersi cura di, come insegnante, richiede un’attenzione diversa negli atti quotidiani legati alle singole relazioni con tutti gli studenti, un esercizio della mente indirizzata al rispetto di ognuno nel riconoscimento specifico del suo valore come persona, prima ancora che come studente. Ugualmente, se come genitore mi preoccupo che mio figlio abbia tutto il materiale occorrente nello zaino e glielo metto io, mi prendo cura dello zaino, non del bambino, ma se aiuto mio figlio a ricordarsi dell’occorrente che deve mettere nello zaino, mi prendo cura di mio figlio.

In base alla mia esperienza personale, genitori e insegnanti collaborano magnificamente sul piano della cura di, perché in questo campo hanno davvero molti modi d’agire su cui concordare, senza interferire nell’ambito specifico di ognuno. Ad esempio io raccontavo

ai genitori dei miei studenti del perché facessi ritrascrivere sempre una composizione

(azione che richiede molta pazienza) e dell’importanza che attribuivo alla correzione, alla rilettura, alla rivisitazione di un testo. L’importanza del fare bene le cose non poteva solo essere riferita alla trascrizione di uno scritto, doveva allargarsi necessariamente ai comportamenti su tanti piani e i genitori erano i primi a notarne l’importanza in diversi ambiti quotidiani.

Trasportando questo ragionamento nello scenario dei conflitti, direi che quando si rendono esplicite le diverse ragioni del prendersi cura di, cadono le motivazioni che danno origine ai conflitti, si rendono visibili gli interessi comuni e avviene uno scambio che rafforza come educatori sia i genitori che gli insegnanti.

 

 

 

L’apprendimento dialogico come possibilità di mostrare molti punti di vista 

Come dicevo poco sopra, se un insegnante imposta quotidianamente la lezione con modalità frontale, come conseguenza avrà una relazione molto debole e complessivamente squilibrata con la classe: saranno dimenticati gli studenti che non intervengono e, viceversa, verranno considerati gli studenti che interagiscono e fanno domande per comprendere. Ma la conseguenza più grave di un insegnamento di questo tipo è che l’apprendimento si imposta su un filone predefinito: è l’insegnante che guida i ragionamenti, indica i procedimenti, giudica sbagliati o corretti certi modi di fare.

Per riassumere brevemente sono molti gli errori pedagogici gravi cui va incontro un insegnamento solo frontale, ma quelli qui elencati sono i peggiori:

 

a) vengono rafforzate quelle intelligenze e quei modi di procedere che si riconoscono nell’insegnamento del docente e nel modo in cui lui/lei insegna.

Da tempo psicologia e pedagogia hanno individuato la complessità della mente e il suo essere costituita da più talenti, la cui unione e sviluppo danno origine a intelligenze, stili nel ragionamento e nello studio completamente diversificati. Il rischio dunque è che proprio a scuola alcune intelligenze vengano mortificate, svantaggiate a scapito di altre, come non siano considerati o rafforzati modi di procedere diversificati. Ad esempio, quando mio figlio frequentava la secondaria di secondo grado, aveva come insegnante di Matematica una docente severa ma molto paziente, che era disposta a “rispiegare” molte volte se gli studenti non avevano capito, pochi però facevano domande. Interpellato del perché mio figlio rispose “non glielo chiediamo mai perché lei lo spiega nello stesso modo!” Per comprendere a fondo un teorema, preferivano approfondirlo sul libro o chiederselo a vicenda, solo così la comprensione sarebbe stata stabile. Durante la collaborazione in compresenza con la mia collega di Matematica, registrammo osservazioni veramente molto interessanti rispetto al modo di procedere degli studenti: accanto a quelli che procedevano con lentezza e in modo sequenziale, c’erano altri che facevano sintesi mirabili, arrivando alla soluzione attraverso una visione globale. Entrambe le procedure stilistiche avevano però delle pecche, perché i primi magari non coglievano nell’insieme gli indizi che portavano alla soluzione di un problema e i secondi

si bloccavano proprio perché incapaci di ricontrollare attraverso i passaggi sia il ragionamento che la procedura per risolvere il problema. Solo quando gli studenti si confrontavano, lavorando insieme, emergevano gli sbagli legati alle procedure e comprendevano da soli dove sbagliavano.

 

b) Ogni studente tende a considerare valido il suo modo di procedere, non impara a rivedersi, ad apprendere dai propri errori. La mia esperienza di ricerca nella secondaria di secondo grado mi ha confermato come fosse radicata questa convinzione negli studenti che presentavano difficoltà d’apprendimento. Alcuni studenti collezionavano numerose insufficienze nelle interrogazioni orali, ma come chiarimento dicevano che sì studiavano, ma che poi dimenticavano tutto il giorno dopo.

Solo con un lento confronto con gli amici che ottenevano buoni risultati si rendevano conto come lo studio dei compagni fosse organizzato in modo diverso e la memoria facilitata dalla procedura.

C’erano poi studenti che arrivavano a scuola con tutti gli esercizi sbagliati di matematica e alle mie domande rispondevano “che non erano capaci”. Si era talmente radicata in loro l’impossibilità a risolvere giustamente un problema matematico che non l’affrontavano neanche con serietà, un tentativo appena accennato e basta.

Quando l’insegnante spiegava, non era neanche visibile il minimo interesse (fatto che irritava non poco l’insegnante) convinti com’erano di non essere in grado di fare e che l’unico modo di procedere nel ragionamento fosse quello che avevano adottato.

Bastava un confronto con un amico, però, per capire dove avevano sbagliato.

Maturana e Varela spiegano bene come il nostro sistema autopoietico permetta un coordinamento con l’ambiente in cui apprende e con chi ci insegna solo se si sente riconosciuto nel suo dominio di esperienza. Solo così si sente in grado di cambiare e costruire un nuovo mondo, coordinandosi con chi sta insegnando. Lavorare insieme con un amico, non necessariamente “più competente”, fa cambiare completamente la visione della difficoltà, perché gli studenti amici sono già uniti in un coordinamento di vita.  Nessun ostacolo da quel momento è insormontabile, si collabora e ci si sostiene a vicenda. Un compito si trasforma in una sfida, una specie di gioco: non è scuola è scholé, una serie di ragionamenti che assecondano il piacere della mente di farli.

Come insegnanti impegnati nella ricerca-azione ci siamo accorti ben presto delle infinite possibilità che offriva una lezione “operativa”, che partiva dalla valorizzazione del sapere individuale, per confluire in un sapere comune di collaborazione.

Intanto la prima fra tutte è la restituzione della responsabilità del proprio apprendimento agli stessi studenti.  

Se uno studente lavora in classe attivamente, consolato dalla guida dell’insegnante e arricchito dal confronto con i compagni, “desidera” impegnarsi. Il problema centrale dell’insegnamento, ci ricorda Philippe Meirieu, è fare in modo che un bambino, uno studente desideri apprendere, perché se non vuole, nessuno può costringerlo, non apprende o l’apprendimento è effimero. Siamo esseri intelligenti, caratterizzati dalla curiosità di apprendere, ma se questa curiosità viene continuamente mortificata da umiliazioni e basse valutazioni si spegne anche il desiderio, o meglio la curiosità si orienta verso altri interessi. A uno a uno si interrompono gli interessi verso l’apprendimento scolastico e il risultato è presto sotto gli occhi degli insegnanti. Possiamo anche segnalarli tutti, mandarli a corsi di recupero, convocare parenti a scuola, ma con ben pochi risultati apprezzabili se non riusciamo ad attivare il desiderio di imparare.

Per un po’ gli studenti abbinano l’apprendimento a scuola “al desiderio di accontentare i genitori”. Alla mia domanda “perché ti impegni a scuola?”, molti studenti interpellati rispondevano “per accontentare i genitori” o “per non dare un dispiacere ai miei”. Ma la domanda era rivolta ad adolescenti! Non c’è da stupirsi, dunque, se il desiderio di accontentare i genitori, barattato come desiderio di apprendere fine a se stesso, finisce presto quando l’adolescente si allontana mentalmente dalla famiglia, per confluire nel gruppo dei pari.

  

 

Cambiare sguardo come insegnanti (cominciare a vedere quello che c’è, non solo quello che manca) 

Mentre agivamo nella scuola e contemporaneamente facevamo ricerca, abbiamo scoperto come insegnanti quello che adesso chiamo “l’uovo di colombo”: cominciando ad analizzare le competenze degli studenti, insieme a loro, abbiamo rivelato molte loro abilità nascoste.

Spesso, come stregati dalle fatiche che gli studenti dimostrano a scuola, gli insegnanti si preoccupano di quelle difficoltà come fossero ostacoli insormontabili.

E man mano che gli ostacoli vengono analizzati, prende una specie di sconforto che opprime il docente, ma che si trasmette anche al discente, ingigantendo di più le difficoltà stesse. Succede poi che ogni insegnante, quando si incontra con i colleghi in riunione, racconta la sua preoccupazione e questo scambio, impostato sulle negatività, distorce completamente la visione d’insieme di quello che uno studente veramente può fare. Pennac racconta bene questo fatto e lo racconta proprio dalla parte dello studente che va male a scuola: lo scrittore narra di come si sentisse sconfortato ed incapace, circondato da adulti che non credevano in lui, e di come viceversa “ce l’abbia fatta” proprio perché alcuni insegnanti gli hanno dimostrato la loro fiducia e l’hanno incoraggiato nella quotidianità della vita scolastica.

Mi viene da pensare spesso a come ho imparato a sciare. Avevo già provato a scendere con gli sci insieme ad amici esperti che però usavano gerghi complessi del tipo “Metti gli sci paralleli alla valle!” e mentre lo dicevano io cercavo disperatamente la valle e mi sentivo incapace, e invece loro scivolavano via sulla neve che era una bellezza. Poi mi iscrivo ad un corso di sci ed un maestro di lingua tedesca ci porta in quello che lui chiama un terreno facilitante: poche parole, ci mostra come si mettono gli sci e ci guida con semplicità, dicendo contemporaneamente che eravamo bravi.  Nel tempo di una settimana scendevamo piste molto scoscese. Penso sempre a questo fatto come metafora di cos’è l’insegnamento: a) cercare un terreno facilitante, b) mostrare operativamente come si fa, c) indicare allo studente quello che è capace di fare, d) poi indirizzarlo verso piste nere di difficoltà.

 

Quando cercavo di orientare gli studenti delle superiori verso esercizi che migliorassero il loro rendimento, ho sempre iniziato facendomi raccontare prima da loro quello che già sapevano fare nella materia oggetto del recupero. A volte dovevano riflettere molto, così orientati com’erano a marcare quello che non avevano imparato.

Credo che essere un insegnante sistemico comporti questo tipo di duplice visione: da una parte considerare la difficoltà di uno studente, dall’altra contemplare la sua competenza. E se non la vediamo vuol dire che guardiamo dalla parte sbagliata, per cui cerchiamo una situazione facilitante che ce la mostri, a noi e a lui. Ricordando che situazione facilitante non vuol dire mai situazione banale, ossia ripetitiva e meccanica. Perché gli studenti sono maledettamente intelligenti e quindi devono essere coinvolti prima emotivamente per applicarsi con passione, imparando dopo a controllare tutto razionalmente.

 

  

Autoriflessione dello studente: aiuto e collaborazione 

Cosa vuol dire studiare? Cosa vuol dire apprendere? Vedo spesso scritto dagli insegnanti della scuola di base “non ha un metodo di studio” riferito a qualche studente. Non è facile avere un metodo di studio. Tutti noi ne abbiamo imparato uno a nostre spese, tentando e ritentando e solo dal risultato scolastico abbiamo appreso se il metodo andava bene. Poi lo abbiamo migliorato con gli studi successivi. Chi nelle medie non sapeva studiare abbandonava gli studi. Ma tra la scuola media che ho frequentato io e la secondaria di primo grado attuale sono passati diversi decenni, eppure mi sembra che spesso le conseguenze siano le stesse. Sono troppi gli studenti che abbandonano la scuola, sono troppe le esclusioni che si continuano a fare.

 

Da una parte, dunque, è necessario far apprendere un metodo di studio ai propri studenti, dall’altra però è altrettanto vero che un metodo non si insegna, ma si apprende in autonomia, anche se con il sostegno del docente. E siamo ancora lì, nel nodo centrale: per apprenderlo bisogna che lo studente desideri farlo.

Aiutati dall’Università, abbiamo impostato tutto lo studio dei nostri allievi, per i tre anni delle medie, considerando il come” studiavano importante tanto come l’oggetto dell’apprendere. L’autoriflessione regolare sulle proprie abitudini scolastiche ricordava loro, continuamente, che apprendere non è mai un’azione meccanica, che l’intelligenza è una grande risorsa, ma che prendersene cura richiede disciplina individuale.

Il “non sono capace” gradualmente è stato sostituito dal “non sono ancora capace”, perché il confronto con i comportamenti rigorosi di chi otteneva ottimi risultati rammentava a chi ancora non li raggiungeva, come fosse a portata di mano il risultato solo se avesse cambiato strategia.

Sì, perché per tre anni se le sono raccontate a vicenda le modalità del loro studio, ma anche di come prendere appunti, di come organizzarsi, e altro ancora. Lentamente, settimana per settimana, in uno scambio culturale che, mettendo in luce le singole individualità, sapeva anche cogliere gli agganci, le somiglianze, le opportunità d’apprendimento e la gioia della conquista.

In quei momenti essere a scuola non significava solo essere valutato, sì, anche questo, ma soprattutto contemplare il prodotto delle varie fatiche con lo sguardo responsabile di chi sta crescendo e ne è consapevole. Accanto alla richiesta d’aiuto (non ho ancora capito…) avanzava la proposta di collaborazione (te lo posso insegnare io…).

Questo aiutarsi fa la differenza, non solo perché gli studenti apprendono a collaborare tra loro, ma anche perché ogni collaborazione è uno scambio reciproco, un rivelarsi a vicenda nei campi dei vari domini d’azione, uno scoprirsi rispetto a forme di ragionamento completamente diverse.

È fare parte contemporaneamente di molti mondi.

Questa è la scholé o più semplicemente è la scuola che aiuta a crescere.

 

  

La collaborazione tra studenti: osservare più punti di vista 

Se il momento che si vive a scuola viene valorizzato dagli insegnanti come tempo prezioso rispetto all’apprendimento critico, allora è possibile che l’insegnante stesso entri in questo gioco delle menti, estremamente intenso, con il desiderio d’agire come complice e autore del gioco stesso.

È con questo spirito che l’insegnante di matematica chiedeva a coppie di lavoro di risolvere problemi non risolvibili, ed era un piacere controllare lo sforzo, l’impegno, la richiesta reciproca di chiarezza, per poi scoprire che il ragionamento si era protratto per percorsi non veri, che per risolvere un problema bisognava riconoscere prima di tutto alcune caratteristiche che lì non c’erano. E se qualcuno prima degli altri diceva “non è possibile, non si può risolvere!”, ecco che il rimanente della classe, pur deluso, riconosceva il valore della scoperta, pronto a mettersi in gioco nella sfida successiva.

Quando la riflessione di alcuni solleva la discussione di tutti, ecco che avviene un fenomeno tanto semplice quanto sorprendente: le menti si agganciano, i ragionamenti si potenziano a vicenda e l’insegnante assiste al fenomeno dell’intelligenza collettiva.

Allora, come insegnanti, bisogna essere abili per sapere ripiegare in un ruolo minore, di sfondo, incentivando il ragionamento, alimentando in un certo modo la riflessione senza prenderne parte diretta, ascoltando con attenzione per fare poi da eco perché tutti ascoltino e comprendano gli interventi dei compagni.

È stato così che una classe ha ragionato per tre anni, in modo ricorsivo ma con tenacia, attorno al tema della “civiltà”. E mentre ognuno apportava il proprio contributo, mai fine a se stesso, magari completamente divergente da quello dei compagni, comprendeva che rilanciava e arricchiva il ragionamento di tutti, proprio con la sua voce discorde.

Quando poi l’insegnante moltiplica quei momenti, impegnandosi a trascrivere le conversazioni per conservarle, per riprenderle e valorizzarle, esattamente con le parole che ognuno ha usato, lo scambio intellettivo e fortemente emozionale trasforma la classe in un gruppo-apprendente-educante, mai uniforme, capace di far vibrare le diverse voci come le diverse intelligenze del pensiero che si va formando.

 

Credo che questo sia il tessuto su cui si innesta un’educazione sistemica:

-saper ascoltare e dialogare con pensieri completamente diversi dal proprio,

-arricchirsi dell’immaginazione dei compagni,

-comprendere dai propri errori e non dare nulla per scontato,

-saper chiedere aiuto agli altri e offrirlo

e poi osare ragionamenti profondi ad alta voce.

 


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