Riflessioni Sistemiche n° 24


Educazione e Formazione:
livelli, problemi e prospettive

Siamo quindi finiti nel cielo per “uscire” dallo spazio del libro e del quaderno: racconti di nodi emergenziali dall'esperienza di una docente e formatrice


di Nicoletta Lanciano

Docente di Didattica delle scienze, Università di Roma “La Sapienza”; Movimento di Cooperazione Educativa (MCE)

Sommario
Dopo tre semestri di Didattica a distanza, con l’uso di spazi virtuali, mostro alcune questioni problematiche e illustro alcune variabili per me imprescindibili, nella didattica universitaria. In una situazione improvvisa di forte limite ho imparato a trasformare l’agire didattico, attraverso riflessioni condivise. Mostro cenni ad azioni vissute e ad incontri di questi mesi, oltre all’analisi di nodi problematici che precedevano la pandemia.


Parole chiave
reagire in modo positivo, i sensi e il limite, fare incontri, osservare per accorgersi, pigrizia manuale, lo spazio elemento educatore


Summary
After three semesters in distance teaching, employing virtual spaces, I show some problematic issues and explain some variables not to be ignored in my opinion, in the university teaching. In a sudden strongly limited situation I have learned how to transform the teaching action, through shared considerations, I show signals of lived actions and meetings during these months, together with the analysis of problematic nodus existing before the pandemia.


Keywords
To react in a positive way, the senses and the limit, to meet, to observe in order to perceive, manual lazyness, the space as an educational element,

 

 

Qualche premessa 

Ad aprile 2020 scrivevo ad un gruppo di amici una lettera aperta sulla condizione, le difficoltà e le sofferenze di quel periodo di improvvisa didattica universitaria sulle piattaforme, in isolamento, sempre seduti: i pensieri di quelle prime settimane di pandemia si sono arricchiti e anche modificati nel corso di tre trimestri.

Soprattutto mi mancava all’inizio ragionare tutti insieme, che vuol dire stare anche in silenzio, per capire perché qualcuno si è bloccato, dove è l’inciampo. Mi mancava non poter usare con loro i materiali, non quelli cartacei, ma le corde, le sfere, E poi non poter usare il corpo insieme, facendo un cerchio e proponendo di fare tutto ciò che può aiutarli a tener deste le capacità percettive, stare anche in piedi, il guardare e vedere, il guardare e accorgersi, e sentire prima di nominare. Ho sempre lavorato uscendo dall’aula all’aperto, mostrando con l’esempio come la geometria sia nella luce del giardino e nel muoversi dei nostri corpi nello spazio e che con la matematica è possibile fare di nuovo amicizia e sostituire così la paura, la noia o l’antipatia che ha spesso radici molto antiche nelle storie scolastiche degli studenti di pedagogia. Ho sperimentato la fragilità delle lezioni a distanza rispetto a riuscire a provocare le reazioni a cui ero abituata e che leggo in frasi come questa “Nella prima lezione (in presenza) è iniziato a cambiare il mio approccio alla disciplina: ero divertita, desiderosa di fare, tutte emozioni che non pensavo di provare durante un corso di Misure in geometria”.

 

Ho quindi cercato in questo anno e mezzo la “creatività come capacità di immaginare qualcosa che ancora non esiste, di mettere insieme cose apparentemente lontane, di produrre innovazione” (CE n 4, 2020 pag.14), attraverso modi di reagire positivi, senza lasciarsi agire da idee conformiste, per dare corpo all’idea che la nostra scuola è il mondo, e deve poter essere motore di cambiamento in ogni circostanza. Ho quindi promosso attività di apprendimento, svolte in modo cooperativo, tese a promuovere valori di una convivenza democratica.

 

Alcuni fondamentali irrinunciabili sono per me legati, da un lato, al fare esperienza in prima persona e, d’altro lato, a promuovere il dialogo maieutico tra tutti i soggetti coinvolti nell’insegnamento-apprendimento per aiutare a pensare con la propria testa e a capire e imparare. Tutto ciò in una relazione di accoglienza reciproca, e in modo piacevole. Tra le modalità più apprezzate, in particolare in questo tempo di isolamento reciproco, sono i lavori in gruppi di 6-10 studenti provenienti da diversi corsi di studio, che imparano uno dall’altro nel rispetto delle identità e anche divertendosi, Per continuare a fare scelte coerenti senza abdicare a tali principi, ho quindi privilegiato alcune direzioni di lavoro tra cui fare insieme incontri significativi, sviluppare l’accorgersi e l’osservare, e il fare esperienza del “prestarsi i sensi” in una situazione di limite.

 

Ho incontrato in tempi recenti un aspetto della ricerca di colleghi francesi, in cui mi sono molto riconosciuta e che mi fa piacere citare. Da diversi anni, gran parte della ricerca in didattica della matematica è finalizzata allo studio delle condizioni che favoriscono o ostacolano la nascita di un nuovo paradigma all'interno della scuola, chiamato nella TAD (Teoria antropologica del didattico) “paradigma di interrogazione del mondo”, «questionnement du monde», che viene visto come una potenziale evoluzione dell'attuale paradigma di “visita delle opere”, cioè di monumentalizzazione dei saperi da visitare. Nel nuovo paradigma, ancora in gran parte in fase di costruzione, lo studio scolastico non è più finalizzato allo studio di opere della cultura, considerate importanti in sé, bensì è teso allo studio di domande problematiche, cioè domande per le quali non si ha una risposta immediata e già confezionata, che va invece costruita in un processo di studio.

Questo paradigma porta a recuperare e non nascondere, non lasciare implicite, le domande che hanno generato un certo strumento o un certo sapere e che di solito, nell’insegnamento, vengono taciute, come date ormai per “già poste da altri in altro luogo e in altro tempo”.

In questa linea i nostri libri di testo sono pieni di “risposte” a “domande” che non si sa più come fossero formulate, né perché sono state poste. Si arriva così, scrivono i colleghi francesi, a quello che possiamo designare come la “monumentalizzazione delle opere insegnate”. Ed è contro questo regime epistemologico-didattico, che porta ad un rapporto aberrante verso la conoscenza e l’ignoranza, che si è sviluppato il nuovo paradigma in cui è previsto l’inatteso, in cui non è dato il primo posto, a scuola, a ciò che è già noto e disponibile, per dare invece spazio a ciò che è pertinente e ci serve per affrontare le domande veramente in campo, ma anche per dare peso alla stima dell’incertezza di una affermazione e dare valore ai dati sensoriali, oltre a quelli legati al ragionamento, che a scuola è soprattutto di tipo deduttivo, a favore di un contatto empirico rinnovato con il mondo e con il contesto (Yves Chevallard).

 

  

Accorgersi e Osservare 

Una linea di lavoro è dunque legata a sviluppare l’accorgersi, con alleato il cielo, la luce del Sole e il mutare veloce della Luna. Accompagnare le lezioni online, e l’essere a lungo connessi in rete e con gli occhi sugli schermi, con l’accorgersi, e quindi l’osservazione, del mondo. Dice Wittgenstein, citato dall’amico Oreste Brondo: “Si osserva per accorgersi di ciò di cui non ci si è accorti quando non si osservava” (in Brondo, pag. 67 CE n 4, 2020). Ed è questo il caso dell’attesa, al tramonto, del crescente di Luna e poi al mattino della Luna calante. Penso che un regalo che la scuola a tutti i livelli può fare agli studenti di tutte le età è quello di offrire loro l’altra metà del mondo, nel senso del cielo. Portarli a guardare in alto e recuperare quella relazione antica, che molti hanno coltivato in qualche momento della vita, di cercare gli astri, fare amicizia con la Luna e arrivare a sentirne la compagnia: è successo spesso in questo periodo che qualcuno abbia coinvolto in modo allegro i propri conviventi in questa ricerca. Cerchiamo tutti, dalle nostre case, dalle nostre quarantene, la stessa Luna su cui si incontrano i nostri sguardi. Poi ce la raccontiamo, ci interroghiamo su dove e quando la vedremo domani, la disegniamo per scambiarci i nostri sguardi disegnati. Tutto ciò è gratuito, quindi abbatte molte differenze con chi ha uno strumento digitale più performativo: non serve la corrente e nemmeno l’acquisto di qualcosa, per accorgersi della Luna!

Penso peraltro che faccia bene accorgersi di come la nostra abitazione è disposta rispetto al cielo e scoprire in quale direzione guardare per vedere un tramonto. L’aspetto di attenzione alla salute mi è stato comunicato dal mio maestro André Giordan, e in questo periodo ho osservato con sofferenza i corpi bloccati davanti allo schermo, ho pensato agli occhi e alla mancanza del guardare lontano, alle finestre e all’aria che si respira: per questo, alla “pausa” nelle ore di lezione, ho guidato gli studenti nel fare qualche esercizio con gli occhi, il collo, i polsi.

 

Esplorare e accorgersi sono habitus mentali, oggi detti competenze, e sono competenze incorporate. Cercare la Luna e osservare l’illuminazione degli edifici sono, peraltro, esempi di quei compiti “autentici”, o compiti di realtà di cui molto si parla nelle Indicazioni Nazionali (che hanno sostituito i Programmi nella scuola Italiana) e di cui ha scritto Emma Castelnuovo nelle sue proposte di matematica nella realtà. Le parole sono importanti e “autentico” è una parola molto seria.

 

Peraltro, il maltrattamento dell’ambiente, il cui allarme era stato ben rilanciato nel mondo dai Friday for Future, la radicale e infruttuosa distanza della scuola dalla natura, sono questioni problematiche che precedono la pandemia e che certo mostrano il peso dell’irresponsabilità, di adulti e decisori, in questo frangente. Penso a quella natura rispetto a cui altre culture, cito i Quichua dell’Ecuador perché li ho incontrati direttamente di recente, ci accusano di non sentirci parte alla pari, come occidentali, scientisti e monoteisti. Anzi si chiedono quando è accaduto che l’umano occidentale si è considerato come un osservatore esterno alla natura? Un nodo che la pandemia ha evidenziato e che

qualcuno, dal basso, raccoglie con l’ideazione e la gestione di “aule verdi”, sempre che la burocrazia non impedisca di agirle. Una burocrazia, quella delle scuole e delle università, paurosa perché colpevole, che tenta di scoraggiare invece di promuovere grandi visioni, perché è rivolta al mantenimento di ciò che già esiste piuttosto che a un futuro da inventare.

  

 

Il senso del limite – Prestarsi i sensi 

In una situazione in cui ognuno ha sperimentato dei limiti anche fisici, che di solito non ha, e in cui viviamo nuove vulnerabilità e limitazioni (non poter andare a vedere, non poter toccare, non essere presenti…) ho incoraggiato il fare esperienza del “prestarsi i sensi”. Questo prendersi cura, dei limiti di ciascuno, porta a scambi molto significativi nel gruppo, proprio come ci facciamo dono dei nostri saperi: alcuni offrono i loro piedi e vanno in un luogo, qualcuno offre il suo sguardo e fa un filmato o un disegno, qualcuno descrive e ascolta le domande e le curiosità di chi è lontano, che a sua volta può cercare dei dati o elaborare un modello in base alle informazioni che riceve. Sperimentiamo il chiedere aiuto e farsi aiutare da chi quelle limitazioni, in quel momento, non le ha e questa esperienza di emergenza ci fa sperimentare tra pari, momenti inaspettati di inclusione sociale. Praticare l’aiuto reciproco avvantaggia tutti, chi offre aiuto e chi lo riceve e contribuisce a renderci capaci di considerare l’interesse collettivo. Una palestra e una metafora a cui riconosciamo dignità e a cui abbiamo dato un nome. Questa pratica è nata dal riconoscimento, in questo momento resa assai evidente, all’improvviso, e a turno per qualcuno di noi, della comune fragilità di esseri viventi e della necessità di quella solidarietà, anche nelle azioni educative, di cui spesso parla Philippe Meirieu. Il ripensare e vivere in modo inaspettato i legami sociali, ci ha portato ancora una volta ad evidenziare che non lavoriamo solo per un esame di fine Corso, ma condividiamo l’essere in una situazione di ricerca, e condividiamo resilienza. Le nostre richieste di aiuto sono vere, proprio come i nostri limiti.

 

  

Fare incontri significativi 

Ho reagito al fare scuola a distanza cercando di fare insieme quelle esperienze che i mezzi della tecnologia digitale consentono: ho organizzato incontri significativi con persone anche tanto lontane nello spazio che sarebbe comunque assai costoso raggiungere. Con questo scopo abbiamo ideato, con il Gruppo di ricerca sulla Pedagogia del cielo del MCE, un corso di formazione per gli insegnanti italiani e di paesi dell’America Latina “I cieli del mondo”, intorno al Solstizio di Giugno, replicato intorno all’Equinozio di Autunno, che ha coinvolto insegnati e educatori italiani e della Colombia, Argentina e Brasile: gli incontri online ci hanno permesso di vedere attraverso le immagini in diretta, la Luna che sorge in un paese latinoamericano quando in Italia è già alta nel cielo o i vestiti pesanti indossati in Patagonia mentre in Italia eravamo in piena estate. Incontrare chi abita altre latitudini ci porta in una stagione diversa dalla nostra, o in zone del pianeta in cui le stagioni non sono 4, mentre incontrare chi abita ad altre longitudini ci porta a dare corpo e voce ad orari diversi dal nostro, in una giornata che sta per finire o che è da poco cominciata. Durante l’anno scolastico alcune classi hanno proseguito gli incontri attraverso la tecnica della Corrispondenza scolastica.

 

Ho progettato in seguito, anche per gli studenti universitari, degli "incontri" molto preparati e attesi con curiosità, con alcune persone amiche, maschi e femmine, che in modi diversi si occupano di insegnamento e disponibili e capaci di incontrare giovani dell’età degli universitari. Se l’università, come la scuola tutta ha una vocazione di orientamento dei giovani, per aiutarli a capire ciò che gli interessa, gli piace e sanno fare, so per esperienza che è molto importante incontrare chi fa qualcosa a cui magari non avevamo mai pensato per noi, per aprirci a nuove possibilità.

Ho chiesto a ciascun ospite di mandarci uno o più testi da far leggere agli studenti perché potessero formulare delle domande, delle richieste di approfondimenti e poter organizzare per ciascuno di loro, in un piccolo gruppo, una vera intervista. “Abbiamo deciso che l'intervista sarà divisa in due macro-settori emersi anche dalla grande maggioranza delle domande proposte dai gruppi, e organizzata in forma dialogica. Il gruppo sarà composto da - due conduttori che interagiranno con l’ospite; - da un settore redazionale che raccorderà i conduttori e farà tesoro degli stimoli che giungono dal pubblico.”

In un altro caso si ha: “Abbiamo pensato di concludere con la lettura di un testo di S. Hawking. Avere delle domande di riserva per evitare di chiedere qualcosa a cui l’intervistato ha già dato una risposta, cercare anche in qualche modo di riallacciarsi a quello che dice per creare una certa continuità nelle fila del discorso.”

Ogni intervista è registrata dal gruppo responsabile della restituzione, che avviene in una lezione successiva con un montaggio di immagini, frasi, stralci del video.

Dalle riflessioni emerge un valore di orientamento per gli studenti svolto da parte dei nostri ospiti che narrano e incarnano modalità di lavoro e retroscena inaspettati per gli studenti, che scrivono: “vedere persone così appassionate del loro lavoro mi ha affascinato tantissimo. Per esempio, spesso si pensa che chi sceglie di fare l’insegnante stia sprecando il suo titolo di studio (laurea scientifica), che avrebbe potuto scegliere un’occupazione migliore. Condividere queste paure con chi ha deciso di essere un docente, secondo me ci ha aiutato molto. …  ha detto di essere soddisfatto della sua scelta e credo che per dei giovani ragazzi che stanno percorrendo quella stessa strada sia stata una testimonianza importante.” “Ho capito quanto si possa imparare anche dai bambini molto piccoli.

La riflessione successiva è sulle differenze tra i molteplici Seminari cui hanno assistito durante gli anni di corsi universitari e le Interviste, vissute. I verbi “assistere” e “vivere” usati nei due casi non sono casuali. Gli studenti parlano di passività in occasione dei Seminari, cioè dell’invitare una persona esperta a parlare di un certo tema: dicono di essersi trovati, in quei casi, in una situazione di tipo frontale in cui l’attenzione cala progressivamente. Spesso le domande sono relegate solo alla fine del Seminario.

Nelle Interviste gli studenti sono stati coinvolti fin dallo studio dei materiali ricevuti e preparare le domande genera una certa preparazione all’evento che poi facilita la forma del dialogo durante l’incontro. La lettura dei materiali e la preparazione delle interviste porta ad esercitare un notevole spirito critico. Sottolineano l’autonomia data loro nella preparazione e gestione dell’intervista (chi fa le domande, quanto tempo viene dato all’ospite per rispondere ad ogni domanda, quali domande fare e in che ordine), e la relativa responsabilità. Pertanto, al momento in cui si incontra l’ospite si hanno delle proprie domande da fare, si è in attesa davvero di risposte. Mostro alcune di queste domande:

 

·       Che cosa lo ha spinto a dedicarsi alla sfera didattica?

·       Che differenza c’è tra insegnare le scienze e fare divulgazione scientifica?

·       Relativamente all’influenza che le nozioni pregresse (giuste e sbagliate) esercitano sull’apprendimento dei concetti scientifici da parte degli studenti, qual è il ruolo dell’insegnante a tal proposito? Come si pone nei confronti di quelli che lei definisce “elementi di disturbo”?

·       Quanto è importante secondo lei imparare a riflettere e a confrontarsi con gli altri tramite la scrittura? Perché per gli studenti è difficile rielaborare le esperienze in forma scritta? Come si potrebbe affrontare questa difficoltà?

·       Durante le nostre lezioni, ci siamo soffermati su quanto sia difficile entrare nella testa dei ragazzi e su quanto sia importante che un insegnante riesca a trasmettere la propria passione. Quali sono secondo lei le “tecniche” che permettono di trasmettere la conoscenza (in questo caso scientifica) e la propria passione? Quale è il suo punto di forza per un giusto coinvolgimento della classe e per far scattare negli studenti quell’indispensabile sete di conoscenza?

·   In questo periodo emergenziale, come superare l’ostacolo di svolgere esperienze all’aria aperta, in laboratorio? È riuscito a trovare altre alternative, altre modalità per supportare questo aspetto indispensabile per l’insegnamento?

·       Secondo lei, possiamo sperare che, una volta terminata la situazione d’emergenza, le esperienze di didattica pratica e manipolativa nelle scuole saranno incrementate rispetto alla situazione pre-pandemica?

 

  

I Materiali -  La perdita dell’uso delle mani 

Molte sono state in questo periodo le riflessioni condivise sulle attività laboratoriali e sulla capacità di uso creativo e alternativo dei materiali e degli oggetti: segnalo ancora il numero 4 del 2020 della rivista Cooperazione Educativa (v. in particolare pag. 49).

Ma temo che a qualcuno “piaccia o giovi” farci pensare, e ritenere buono e opportuno, che i cambiamenti nella didattica attraverso l’uso delle piattaforme, e il loro immenso mercato e dispendio di energia elettrica, siano in qualche modo definitivi, ossia che sarà bene continuare ad utilizzare la tecnologia del virtuale, come siamo costretti a fare ora, al posto delle lezioni in presenza. L’attenzione e la spesa è concentrata sulle attrezzature informatiche, la connessione, il proiettore (spesso oscurando le finestre!) in ogni aula come se fosse l’oggetto indispensabile per fare scuola, anche in situazioni in cui mancano i libri e altri tipi di materiali necessari a compensare il virtuale.

 

Il virtuale porta spesso con sé una deriva sulla velocità, sul non considerare il tempo del pensiero degli allievi: penso sia una delle disattenzioni della didattica universitaria che siamo ancora in tempo a correggere o che, invece, può produrre un effetto, a mio avviso spaventoso, con questa modalità un po’ “autistica” di preparare e gestire le lezioni. I mezzi che stiamo adoperando non sono neutri! Ho ascoltato Paolo Crepet in un discorso sul “coraggio” avere il coraggio di fare ciò che la tecnologia non vuole e cambiare strada rispetto al percorso indicato dal TOMTOM, ad esempio per la curiosità di andare a vedere qualcosa, o denunciare e irritarsi se, insieme alla data di nascita di tuo figlio, in un modulo ti si chiede, necessariamente, la data del tuo matrimonio.

 

Sono ancora più allarmata, rispetto all’abbandono di una fragile didattica che coinvolge il corpo tutto e gli oggetti, gli artefatti e gli strumenti: colgo ora a distanza le difficoltà di arrangiarsi, di fare e costruire oggetti sensati e anche la “pigrizia manuale” degli studenti e la loro difficile gestione dello spazio. Temo che il mercato abbia devastato la capacità di utilizzare ciò che si ha in casa, di pensare di costruirsi un oggetto piuttosto che andare a comprarlo già confezionato. Nel contesto virtuale manca terribilmente il guardarsi a vicenda, imparare uno dall’altro in un sano apprendistato artigianale, copiandosi e giovandosi delle trovate altrui. Come rilevava anche Roberto Maragliano in un testo recente, la nostra scuola dà poca attenzione all’operatività: quando uno studente attacca un elastico in due punti su un foglio di quaderno e poi tira l’elastico e il foglio inesorabilmente si accartoccia, non pensa di dover cambiare supporto, non fa lo sforzo per capire con che cosa sostituirlo! Spesso peraltro, la funzionalità dei manufatti è legata ad un senso estetico che unisce le scienze alle arti e all’artigianato.

Questo, nella vita reale è assai grave, e non perché ci si può trovare in condizioni in cui utilizzare tali capacità sia essenziale e salvi la vita, ma perché non rendersi conto di queste cose denota una povertà sensoriale e percettiva, una mancanza di spirito autocritico, e favorisce una dipendenza dalla pubblicità che rende schiavi dell’acquisto di oggetti già pronti. Intanto, invece, la ricerca sugli sviluppi del pensiero riconosce da anni l’interrelazione tra fare e pensare, perché “il pensiero non avviene soltanto ‘nella testa’, ma è costituito da componenti materiali e ideative: è composto dal linguaggio, dalle forme oggettivate di immaginazione sensoriale, dai gesti, dalla tattilità, e dalle nostre azioni effettive con artefatti culturali.” (Radford, 2013).

 

  

Gli spazi e la Scuola

 

Nella migliore tradizione pedagogica italiana è stato definito “lo spazio come “terzo educatore”, insieme ad educatrici e genitori” (Malaguzzi)

 

La cura degli spazi è fondamento delle scuole dell’infanzia di Reggio Children ideate la Loris Malaguzzi con la loro predisposizione di ambienti educativi variati e flessibili, ma anche delle scuole Montessori e di molte altre, ma sempre troppo poche. Raramente è considerato l’uso dell’acqua o della terra, e un maggior coraggio nell’utilizzare ciò che abbiamo a disposizione, come la luce del Sole o il vento, trascurati, a volte temuti, a tutti i livelli della formazione. E soprattutto nella formazione degli insegnanti che, a loro volta, non conoscono il valore educativo di ciò che si apprende e si scopre divertendosi quando ci si sporca, anche, e talvolta quando ci si sbuccia un dito. Ma in una visione un po' perversa e un po' ipocrita, noncuranti dei “diritti dei bambini” genitori, dirigenti, e insegnanti, temono soprattutto che gli allievi, di tutte le età, si sporchino e si facciano male.

Il problema delle classi troppo numerose, è esploso con la pandemia ma quelle stanze erano già troppo piccole per fare esperienze, e gli spazi aperti, della scuola e intorno ad essa non sono marginali ma da considerare non solo per la ricreazione o per l’extra-scuola, ma per fare scuola!

 

Da tantissimi anni dico e scrivo che è un accidente della nostra civiltà occidentale che la scuola si faccia solo di mattina e nelle aule: cioè al chiuso, di giorno (salvo eccezioni), in strutture che ricordano un certo tipo di chiese o di teatri, con arredi fissi, in cui uno è in cattedra davanti a tutti gli altri, sopraelevato, e a cui tutti guardano mentre gli altri si danno spesso le spalle, e non hanno modo di guardarsi in faccia.

 

Abbiamo sperimentato per anni il valore dell’imparare ad andare in silenzio nei luoghi, nel silenzio montessoriano di concentrazione, che aiuta a dare spazio ai sensi, silenzio delle parole ma anche della produzione di rumori, un silenzio di rispetto verso gli altri che si trovano nello stesso luogo. Ci sono scuole in cui si è sperimentato quanto la presenza di una musica di sottofondo aiuti a pensare e porti a parlare sottovoce, proprio come invece il rumore lo impedisce.

 

Ho spesso scritto e detto che altrove e in altri tempi, la scuola, cioè le relazioni di insegnamento-apprendimento si sono svolte e si svolgono in altri luoghi, all’aperto, in luoghi dove si possa camminare, in luoghi “appositi” non lo stesso luogo per tutto lo scibile, ma luoghi diversi e adatti ad una certa arte o disciplina. Ora questo “accidente” è messo seriamente in discussione e penso che proprio quell’idea che abbiamo praticato negli anni 1980, con la nascente sensibilità ecologica,  dopo la catastrofe di Cernobyl, nelle scuole e in progetti promossi con la Casa-laboratorio di Cenci, possa essere un riferimento utile a immaginare una scuola successiva a questo periodo che, dopo essere stato chiamato della didattica a distanza o meglio dell’emergenza, ci porta a suggerire diverse modalità per lo spazio e il tempo della scuola, nel futuro prossimo. Abbiamo molteplici esperienze di scuola fuori dalle aule, in città e in natura, da non perdere, e a cui in questo momento è possibile fare riferimento. Penso al lavoro confluito nel testo del Comune di Roma “Il giardino di Archimede” coordinato a Roma negli anni ’90 da Alberto Alberti, alle azioni di cittadinanza e di salvaguardia dei diritti dei bambini dei progetti legati a Francesco Tonucci, (https://www.lacittadeibambini.org/alcuni-consigli-per-stare-meglio-a-casa/ e https://www.lacittadeibambini.org/continuiamo-a-dare-voce-ai-bambini/) alle esperienze di Geometria in città e di Astronomia in città che coordino da decine di anni, ai campi scuola, alle azioni di tante associazioni che hanno promosso una cultura scientifica in contesti cittadini; penso alle sezioni didattiche di tanti musei del paese. Possiamo evitare di prendere a prestito parole inglesi quali outdoor, perché non intendiamo solo luoghi all’aperto, per esprimere che non solo le aule dentro le scuole possono essere luoghi protetti e adatti all’educazione. Anzi, sappiamo che nella memoria degli allievi di tutte le età, spesso sono proprio queste attività fuori dalla scuola, in cui, anche i più “deboli” hanno potuto rivelarsi al gruppo e ai docenti e hanno potuto mettere in campo competenze che a scuola, non hanno spazio per emergere, perché nella fissità degli spazi si fissano anche i ruoli. Si tratta spesso di situazioni che ripresentano le discipline in modi diversi, che a scuola sono separate tra loro (paradigma di visione delle opere) e che fanno scoprire qualcosa di inatteso anche di sé stessi, per cui sono maggiormente ricordate a distanza e spesso hanno influito su scelte successive. Sono quindi situazioni che si rivelano fondamentali in un’ottica di orientamento della scuola per far emergere passioni, abilità o interessi nascosti. Sono situazioni di laboratorio in cui la curiosità, la sorpresa e il piacere spesso rendono più attenti e attivi, in un clima di parità tra docenti e allievi (paradigma dell’interrogazione del mondo).

La scuola è un luogo prezioso per una cultura, per un paese, che avrebbe bisogno delle migliori energie e investimenti, per farne il suo grande laboratorio di futuro. Penso non aiuti in questa direzione, ad esempio, la separazione netta delle età in ogni momento

che, nelle situazioni di apprendimento della vita quotidiana, invece, sono proficuamente mescolate. Ogni volta che abbiamo provato a farlo, anche in situazioni di formazione, abbiamo tratto grandi vantaggi per tutti. Quando negli anni 1980 presso la casa Laboratorio di Cenci, in Umbria, abbiamo inventato “Le settimane dai 7 ai 70 anni”, (quando 70 ci sembravano moltissimi!), dedicavamo dei momenti speciali a coppie di età assai diversa. Ad esempio, in un’azione di 6 ore, comprensiva di un pasto e di alcune consegne di lavoro, le coppie al ritorno raccontavano di apprendimenti assai ricchi ricevuti dal compagno, dalla diversa percezione del pericolo a quella della durata del tempo, alla conoscenza di fatti e parole: scoprire che tuo nonno oggi avrebbe 130 anni e il mio ne ha 68 è assai diverso dallo studiare in un libro i fatti del 1890! Questo è normale in molti altri tipi di gruppi, al di fuori della scuola, dal teatro e altre arti, ad alcuni sport; penso con particolare attenzione ai gruppi scout, in cui si condivide in gruppi tra i 7 e gli 11 anni (squadriglie) o tra gli 11 e i 15 anni (pattuglie) gran parte delle esperienze e si pratica una responsabilità crescente verso gli altri, mentre i più giovani hanno modelli da guardare molto vicini a sé. Nella scuola dell’Infanzia si ha da anni una disputa pedagogica tra classi ad età omogenee ed età miste: c’è chi, come Ludovica Muntoni, del gruppo romano Infanzia del MCE, ha sempre sostenuto che i bambini di 4 e 5 anni, che già conoscono la scuola, ad accogliere e introdurre alle “regole” del gruppo i più piccoli di 3 anni appena arrivati, in cui peraltro possono “rivedere sé stessi”. I piccoli si trovano così a seguire l’esempio degli altri bambini e non le parole di un adulto, e questo aiuta moltissimo anche l’insegnante!

In tante scuole si sperimentano momenti comuni a classi di varie età ad esempio per una festa, o quando c’è un ospite da fuori, in giornate tematiche o in momenti di laboratorio come praticato nel MCE e come sostenuto e promosso da Francesco De Bartolomeis fin dagli anni ’70. Queste attività avvicinano proficuamente la scuola al mondo vero, all’esperienza quotidiana, a permettere la diffusione del paradigma di interrogazione del mondo, e sono indicate da molte ricerche sul contrasto alla dispersione scolastica come assai efficaci, perché permettono di rimescolare i ruoli e far emergere in attività assai varie, - come la cucina, il fare gli spiritosi, il fare fotografie, gestire una fila nello spazio, e poi inchiodare, cucire - quegli allievi che “nelle materie” hanno meno soddisfazioni personali.

Ricordo con particolare tenerezza il racconto di un bambino di 8 anni al CEIS di Rimini, che mi racconta di quando dopo pranzo va, con i suoi compagni, ad addormentare i bimbi di 3 e 4 anni: “Sai bisogna cantare ma piano piano sennò non dormono; e poi bisogna continuare a cantare un poco, perché sembra che si sono addormentati ma …; e poi io non ce l’avevo un fratellino mio da addormentare, così invece…”. Quanto sapere, saper fare, saper essere e conoscenza di sé in queste parole!

 

  

Gli Spazi e la Salute - La Didattica all’Università 

Dagli esperti di neuroscienze e dai medici, sono arrivati in questo periodo messaggi allarmati in cui si chiede di considerare i tempi di attenzione degli allievi. Ma questo allarme è stato eccessivamente trascurato rispetto ai corsi universitari in tanti anni di “normalità”, come nell’organizzazione dei convegni, in cui gli occhi sono puntati sempre alla stessa distanza su uno schermo a parete, in una sala con luci artificiali, in cui i presenti sono seduti e si danno le spalle. Paradossalmente, alcuni studenti hanno osservato il piacere di vedere in faccia gli altri studenti del Corso durante le lezioni online!

In realtà viene suggerito ai docenti di non usare sempre filmati e diapositive, ma di fatto questi hanno largamente preso il posto di gesso e lavagna e del dialogo con l’appoggio delle azioni e degli oggetti materiali. Anche quando, come nella formazione dei futuri maestri, sappiamo che ciò che ha grande peso è il nostro esempio di docenti! Infatti, gli allievi di chi ha molto parlato “parlano”, gli allievi di chi ha costruito e usato gli oggetti “inventano e manipolano”, gli allievi di chi, come nel MCE, ha cantato e usato tutti i sensi, “sanno il potere forte della musica e le emozioni dell’imparare insieme”.  

 

Anche rispetto agli spazi dell’università ho dato la parola agli studenti che hanno scritto: Lavorare in un ambiente bello fa la differenza; Attenzione ai mancini, nei banchi; Ci

piace e riteniamo più sano stare in luoghi con la luce solare e non luce fredda al neon per lunghi periodi di tempo, anche per problemi agli occhi; Ci piace, ed è utile per le relazioni interpersonali, non essere seduti in modo da vedere solo le schiene dei colleghi, ma poter stare anche in cerchio o in altra disposizione a seconda del lavoro da svolgere; Avere tavoli da unire; Denunciamo la mancanza di spazi accoglienti con divanetti, denunciamo a volte colori sgradevoli dei soffitti, colori scuri; Manca un’attenzione alla godibilità degli spazi verdi e mancano zone di ristoro; E’ bella una zona tipo aia, cioè piana e rotonda o ovale, con un muretto perimetrale su cui ci si può sedere.

 

Il benessere di studenti e docenti è strettamente interconnesso con l'organizzazione dello spazio fisico e l'uso degli ambienti in cui vivono e lavorano. Oltre alla comodità e alla salubrità, l’idoneità sul piano pedagogico e delle relazioni delle sedi didattiche e di studio meritano infatti una specifica attenzione, di tipo architettonico e urbanistico, attenzione che questa fase ci insegna che devono poter rispondere anche alle esigenze particolari e impreviste, quindi essere modulabili in base a molteplici necessità. Si tratta di mettere a frutto e valorizzare tutte le possibilità per favorire la socializzazione e promuovere una didattica con metodi molteplici, interattiva, laboratoriale. Si tratta in qualche caso di ripensare luoghi, spazi e attrezzature esistenti.

Queste esigenze dovrebbero essere considerate come priorità imprescindibili in un corso di laurea come quello di Scienze della Formazione Primaria che ha come finalità quella di formare insegnanti che devono essere messi in condizione di sperimentare in prima persona le “buone pratiche”, per conoscerle e poterle attuare poi nella loro professione. Per questo è importante

allestire alcune aule con tavoli intorno a cui poter lavorare in gruppi, pratica di lavoro indispensabile come tutte le nostre ricerche didattiche indicano. In particolare, le sedie legate tra loro sono poco sicure e poco pratiche per modulare lo spazio dell'aula, ad esempio per mettersi in cerchio e guardarsi in faccia;

predisporre in alcune aule muri dipinti con vernice-lavagna, perché gli studenti possano discutere tra loro, in gruppi, in piedi, per promuovere il loro pensare durante le lezioni e il lavoro attivo rispetto all’unica modalità passiva e statica (sedentaria) di ascolto della lezione “frontale”;

attenzione al funzionamento delle finestre;

arredare spazi, anche all'aperto e in qualche caso con coperture “leggere”, per piccoli incontri: socializzare, studiare, leggere e discutere, stare al computer all’aperto oltre ad essere necessità attuale, determinata dalla pandemia, fa bene sempre;

-       Attrezzare spazi con lavandini e spazi per laboratori “sudici” (con animaletti, piante, muffe…).

  

 

La necessità e la mancanza della formazione degli insegnanti 

La situazione attuale ci porta a riaffermare la radicale necessità di formazione, che è soprattutto fare esperienza su di sé, sperimentare direttamente come adulti prima che come futuri insegnanti, come nei laboratori adulti in ambito MCE, e avere occasioni per riflettere e scambiarsi racconti, e non solo ascoltare “gli esperti”. Una formazione per essere capaci di una didattica degli “attesi imprevisti”.

Ma chi ci ha lavorato lo sa, la formazione ha tempi lunghi.

Attualmente in Italia, mentre per chi andrà ad insegnare al livello di scuola dell’infanzia

e primaria c’è un corso di laurea apposito di 5 anni di Scienze della Formazione Primaria, viviamo da anni un grave problema di mancanza di un percorso di formazione iniziale per gli insegnanti di scuola secondaria, inferiore e superiore.

Dopo un’esperienza, in molti casi eccellente, delle SSIS (Scuole di Specializzazione all'Insegnamento Secondario), (2000-2009) che proponeva, dopo la laurea disciplinare, una formazione di 2 anni in cui era dato molto peso ad esperienze di tirocinio, ai laboratori di didattica delle discipline e alla comunità educante perché i docenti di scuola distaccati (tutor di tirocinio), i docenti universitari, gli allievi dei 2 cicli presenti ogni anno, gli insegnanti accoglienti dei tirocinanti nelle loro classi avevano molti scambi. In 2 anni c’era il tempo di conoscersi, di far crescere e seguire tutti gli allievi, di usare il tempo dell’estate tra i due anni di corso per elaborare il proprio percorso.

A questo è seguito il TFA (Tirocinio Formativo Attivo AA 2012-13 e 2014-15), della durata di un solo anno, dove tutti questi elementi di confronto, di riflessione, di conoscenza reciproca, erano impoveriti. Le relazioni tra allievi e insegnanti accoglienti del tirocinio erano brevi e ridotte a incombenze burocratiche (firme di presenza) e anche gli esami erano momenti più poveri e meno formativi.

Attualmente manca una formazione organica e per accedere al concorso per l’insegnamento servono/bastano ai laureati magistrali, dal punto di vista burocratico, alcuni esami relativi alla classe di concorso a cui si vuole accedere e 24 CFU in alcuni settori disciplinari. Ciò è molto lontano da quel ripensamento sulle discipline indispensabile per la loro didattica! Inoltre, affidare la formazione solo agli universitari, la cui didattica agita è spesso assai in contrasto con quella di cui parlano, fa incontrare quella netta separazione tra discipline, con la conseguente parcellizzazione dei saperi che evita la complessità, che è propria dell’Accademia e che è oggi fortemente in discussione.

Ora una possibile proposta, non facile da realizzare con 2 ministeri che dialogano raramente e uno status quo difficile da smuovere, fa desiderare a molti ricercatori in didattica, che dopo i 3 anni di laurea triennale, ci sia una laurea magistrale biennale, con un indirizzo apposito per l’insegnamento nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, tipo la SSIS. Anni con molte docenze affidate a insegnanti esperti, anche in pensione, con molto tirocinio su cui riflettere, per mantenere la coerenza tra gli studi di carattere più teorico e la pratica in aula. Due anni è molto di più del doppio di uno. Come per i figli: 1 è un figlio unico, 2 è un gruppo che rende pari gli adulti e i bambini, è un insieme consistente. Così 2 anni sono un tempo abbastanza lungo per ripensamenti e costruzione di relazioni: un anno solo vuol dire, invece, una manciata di mesi.

 

  

La visione delle Scienze e delle comunità scientifiche 

Nella situazione della pandemia, la scienza delle comunità scientifiche si propone al grande pubblico con le sue conoscenze ma anche tanto, come l’amica Rossella Panarese, ideatrice di Radio3scienza recentemente scomparsa ribadiva in ogni trasmissione, con quello che non conosce. Viviamo una situazione pubblica di dibattito tra ciò che bisogna onestamente rimettere in dubbio di fronte a ciò che accade di inaspettato, di non previsto dai modelli, dai numeri che si raccolgono e dalle ipotesi fatte, di non ancora spiegato da una teoria o da un’unica teoria. Un’occasione per la scienza occidentale, di mostrare l’umiltà e l’onestà scientifica di riconoscere e dichiarare il non saputo, di dire di più dei “forse”, o “ad oggi si pensa che”, senza dimenticare che la logica del probabile è assai diversa dalla logica del certo e che bisogna saper scegliere quando utilizzare l’una o l’altra.

 

Un’occasione di presentare le scienze come sono in divenire, e quindi parzialmente provvisorie e incerte, con domande aperte e risposte contraddittorie, poste di fronte a interrogativi difficili. Tutto ciò apre sfide nuove da affrontare con paradigmi che devono essere ancora ideati, e che nasceranno forse dal dialogo tra discipline che sono state in passato distanti o ancora prive di legami. Si parla molto di polidisciplinarietà, codisciplinarietà, ponti tra i saperi, combinare le discipline: questa molteplicità di locuzioni esprime forse un disagio ma anche un auspicio, per la ricerca, la diffusione della cultura e per la didattica.

Viviamo una grande occasione per dire, per mostrare e insegnare che le scienze hanno conosciuto tante difficoltà, che le relazioni con la natura e la costruzione di conoscenze condivise si è spesso diversificata, ha conosciuto contrasti e roghi di streghe sapienti, che in un certo contesto rappresentavano modi forse minoritari rispetto a quelli delle accademie, forse troppo nuovi per un dato contesto o una certa epoca o anche più semplicemente diversi.

Nella cultura occidentale si è perduto a volte in modo drastico, e con conseguenze sull’ambiente e sul clima disastrose, il sentire di essere, in quanto umani, una parte di un grande cosmo, di un grande unico organismo in cui tutto è interconnesso. Una cultura in cui, da un lato alcuni esperti contraddicono e smentiscono pubblicamente altri esperti, e dall’altro sembra esserci il riconoscimento di una infallibilità degli “scienziati” a cui ci si affida o a cui si rimandano responsabilità per decisioni anche di carattere politico.

Edgar Morin, intervistato da Alice Scialoja mercoledì 15 aprile 2020, ha detto tra l’altro: “Ci sono gli ecologisti ma la scienza ecologica non è insegnata da nessuna parte. È una scienza polidisciplinare e in quanto tale non accolta nelle nostre università. La seconda lacuna è che, nonostante si sappia da Darwin in poi che siamo frutto di un’evoluzione biologica, tutta la nostra cultura continua a separare il biologico dall’umano. Abbiamo creato una frattura epistemologica. Le catastrofi, come Chernobyl, scuotono, poi vengono dimenticate, e così i nuovi uragani. Altre culture hanno un senso dell’inglobamento dell’umano nella natura ben superiore al nostro.”

Sono allarmata perché ancora una volta noi nordoccidentali, di un paese tecnologicamente avanzato, “dimentichiamo” quel Sud del mondo dove anche solo dire di lavarsi a lungo e spesso le mani è qualcosa di assai remoto dall’essere praticabile! E certo non è praticabile per tutti, come ci scrive Padre Vilson Groh dalle comunità periferiche di Florianopolis, in Brasile, dove i nativi, che sono i più fragili, come in gran parte dell’America Latina, a causa della politica sociale e ambientale che distrugge gli ecosistemi, stanno soffrendo in modo particolarmente drammatico per il virus! Sentiamo in questo momento, nei corpi e nelle preoccupazioni, quanto su questo pianeta, siamo davvero tutti interconnessi.

 

Vedo poi nella comunicazione dei dati circa la pandemia un’occasione perduta di avvicinare le persone ad alcuni elementi dei linguaggi della matematica e della statistica: è questo un aspetto non sempre considerato e qui vedo un dolo in molti settori della comunicazione. Mi riferisco all’uso di grafici, di percentuali e frazioni, che sono punti debolissimi della comprensione nella popolazione anche adulta in Italia, per non parlare dell’uso di frasi come “crescita esponenziale” che i più rinunciano a capire. Il confronto tra i numeri, tra i dati, attesi e ascoltati ogni giorno da più Agenzie di informazione, da diverse Regioni, da diversi ricercatori, possono in tal modo, restando poco comprensibili, essere piegati a tranquillizzare, illudere, o dare false speranze.

 

  

Contro le lamentele 

Chiudo con un invito contro le lamentele, quelle inutili che non sono ribellione e pensiero costruttivo.

L’attenzione educativa per me va oltre le aule e coinvolge il territorio. E’ la Radio che arriva nei territori e per questo ho pensato di rispondere in modo non previsto (laterale) alle lamentele sul dover festeggiare la mezzanotte di Natale del 2020 e poi di Capodanno 2021, entro le 22 di sera, che sembrava una sciagura mai vista, un affare per preti e decisori! Mi inquieta come educatrice il fatto che non si colgano occasioni offerte da ciò che ci troviamo a vivere, per provare a insegnare qualcosa a un vasto pubblico. Per questo ho offerto la mia riflessione sulla mezzanotte di Natale, un istante che si ripete 24 volte, agli amici di Radio3scienza che la hanno accolta e mandata in onda il 24 dicembre 2020.

Natale 2 ore prima: è un Natale in viaggio perché il Bambinello nasce prima in Giappone poi in India …

Per rispondere alle domande: quando è mezzanotte, e per chi e dove?  Ci serve uno sguardo su tutti i paesi del mondo! Per rispondere a una questione sul tempo, ci serve uno sguardo sullo spazio.

Su un mappamondo o un Atlante, guardiamo quali sono i paesi più ad oriente dell’Italia – la Grecia, la Turchia, l’India, e poi la Thailandia, il Giappone – fino ad arrivare a quella linea nell’Oceano Pacifico in cui avviene il cambiamento di data: è un abitante di quelle isole, in mezzo al Pacifico, che ogni settimana passa per primo da lunedi a martedi, e anche e dal 31 Dicembre al 1 Gennaio del nuovo anno ed è entrato per primo nel nuovo millennio.

Poi, un fuso orario per volta, dalla Cina all’Iran e poi la Grecia e l’Italia, entriamo nel nuovo giorno, nel nuovo mese, nel nuovo anno.

Nelle famiglie di una volta, anche secondo un’idea pedagogica montessoriana, c’era l’abitudine di mandare i bambini a letto presto, e la sera di Capodanno i genitori ci raccontavano che stavamo festeggiando l’anno nuovo insieme agli abitanti delle isole Mauritius e quando eravamo ancora più piccoli… facevamo le stelline di Capodanno 4 ore prima della mezzanotte, insieme ai Pakistani!

Così in un anno in cui alle 22 ognuno deve essere tornato a casa, quando in Italia sono le ore 20 del 24 dicembre, basterà immaginare di fare un viaggio con la fantasia, ed arrivare in India per essere alle ore 24 di quel paese! E quando in Italia saranno le 22, immaginiamo di essere in Madagascar e così per noi sarà mezzanotte!

Il mappamondo ci porta in giro nel tempo e nello spazio e se poi volessimo continuare a incontrare tutti i paesi del mondo, basta aspettare le 8 del giorno successivo e pensarci in Messico, questa volta ad occidente dell’Italia, oltre l’Atlantico, dove il nuovo giorno arriva più tardi e dove, ancora una volta, per qualcuno è la mezzanotte di Natale!

Forse quest’anno, per questo Natale così particolare, che ci ha messo difronte al dover inventare nuovi modi e trovare altre strategie, non ci farebbe male uscire “in modalità protetta” dai nostri rifugi, e viaggiare su un mappamondo, e occuparci di quello che accade lontano da noi nello spazio e nel tempo.

Magari, così, conosciamo e capiamo qualcosa in più di questa comunità di viventi di cui tutti, piante, animali e umani, facciamo parte.  E sarà 24 volte anche l’inizio del mese e anche la mezzanotte del giorno del nostro compleanno!

 

  

Indicazioni Bibliografiche