Riflessioni Sistemiche n° 24


Educazione e Formazione:
livelli, problemi e prospettive

Faussone, il coffee break e la deterritorializzazione dei saperi


di Ignazio Licata

ISEM, Institute for Scientific Methodology, Via Ugo La Malfa, 153, Palermo
Institute for Applicable Mathematics and Information Sciences, B.M. Birla Science Centre,
Adarshnagar, Hyderabad 500063, India
ignazio.licata3@gmail.com

Sommario
La pressione pandemica ha riproposto la questione della deterritorializzazione dei saperi in un contesto di alta virtualizzazione. Questo ci offre l’occasione per riflettere sulle pratiche dei saperi, vero nocciolo duro e banco di prova per ogni tentativo di “universalizzazione”. Infatti i saperi hanno un palcoscenico e un backstage difficili da formalizzare o raccontare, ed è difficile trametterli senza consapevolezza di questi livelli interni.  Alla fine riconsideriamo le articolazioni del binomio conoscenza-potere.

 

Parole chiave
Deterritorializzazione, conoscenza, potere, Pratiche dei saperi, letteratura industriale.

 

Summary
The pandemic pressure has revived the question of the deterritorialization of knowledge in a context of high virtualization.  This offers us an opportunity to reflect on the practices of knowledge, a real hard core and bench test for any attempt at "universalization". Knowledge practices have indeed a stage, a proscenium and a behind the scenes, and are impossible to convey without awareness of these intertwined levels and on the articulations of the knowledge-power combination.

 

Keywords
Deterritorialization, knowledge, power, knowledge practices, industrial literature.

 


1.     Un virus e l’imbuto di Norimberga 

 L’emergenza pandemica agisce come un catalizzatore su molti aspetti della nostra vita, amplificando esponenzialmente le criticità e moltiplicando le possibilità di scenari alternativi.  Alcuni di questi problemi sono noti da tempo, altri sembrano presentarsi in scena per la prima volta, ma in entrambi i casi è il contesto che è cambiato, e con esso la scala, l’allarme, il tono del dibattito, e non le questioni in sé. Sotto questo punto di vista il virus ha agito come il ragazzino de “I vestiti nuovi dell’imperatore”: mettendo in atto la sua natura ha svelato, incolpevole, l’artificiosità del mondo, i piani non saldati, gli errori di progettazione.

Particolarmente rilevante è la dimensione educativa. Esiste in questo caso una narrazione mitologica che vede gli ingegnosi sforzi ipertecnologici del prometeo digitale volti ad assicurare il passaggio della conoscenza attraverso le generazioni contro l’attacco massivo e darwiniano del virus. Dietro questa narrazione c’è in realtà ben poco di concreto, e quel poco è legato alla (ri)scoperta delle potenzialità dell’insegnamento a distanza, ai suoi problemi di gestione quotidiana (tra i quali il più rilevante, diremmo fondativo, è parlare di connessione e cultura digitale dove questa è ancora poco più che una promessa, sicuramente non “l’autostrada del futuro”), e dunque le tecnologie per la DAD e la DDI. In pratica è come se il distanziamento sociale avesse trovato nella telematica il proprio alleato naturale. Siamo certi che in queste pratiche c’è tanto di necessario, buono e giusto, storie di piattaforme ma anche di comunità scolastiche che trovano nuove e vitali forme di dialogo. O che le ritrovano dopo averle smarrite. Ricordiamo, ad esempio, che le competenze traversali fissate dai rapporti dell’l’UNESCO, l’OECD ed il WEF per favorire i processi di cambiamento continuo sono ben note da tempi assai precedenti alla pandemia in atto. Si tratta del Collaborative problem solving, del learning to learn, della digital mindset, dell’indipendent thinking e della resilience (Amicucci, 2021). Discutere ogni singola voce, le relazioni tra loro e soprattutto gli scenari a cui vengono applicate queste prescrizioni richiederebbe un saggio a parte. Ci limitiamo qui a prendere atto che in un mondo fortemente interconnesso identità, procedure ed attività trovano nel digitale una ridefinizione naturale che dovrebbe favorire un passaggio dal massivo al molecolare, un’attenzione maggiore all’individuo ed alla promozione della persona oltre che ai sistemi di riferimento e di appartenenza (scuola, università, fabbrica, azienda, territorio). La questione che ci si deve porre è se questo “rinascimento digitale” è una semplice proiezione dello stato delle cose in cui la connessione si appiattisce sulle coordinate della  velocità come l’economia sull’high-frequency trading, i.e. l’esistente con il prefisso e-. oppure se possono emergere nuove costellazioni concettuali, strategie sociali e pratiche collettive che di questa iperconnessione potrebbero essere il nuovo cuore, e non soltanto il braccio armato. Nel caso specifico dell’educazione, ad esempio, è decisivo chiedersi se lo strumento telematico è un grande imbuto di Norimberga dove far passare in qualche modo i modelli di formazione attuali (con le loro gerarchie, schemi di valutazione, esiti) o se gli ambienti educativi possono acquisire nuove valenze a partire dallo strumento digitale. Complementare a questa richiesta è comprendere quali aspetti delle pratiche cognitive e lavorative non hanno la possibilità di attraversare l’imbuto senza riportare una sostanziale falsificazione. È chiaro che la questione che emerge non riguarda il digitale vs l’analogico, ma quanto e come i processi di deterritorializzazione del sapere, espressione della globalizzazione, sono sostenibili, e quando si rivelano tossici.

 

 

2.     Conoscenza, saperi, trasmissioni 

     Nel pensiero di Michel Foucault il rapporto simbiotico tra conoscenza e potere è il nucleo generativo centrale, la chiave di volta di ogni possibile “archeologia dei saperi” (Deleuze, 2018). La conoscenza è dunque un’emergenza altamente ideologica che nasce dai vincoli sociali ed economici che forniscono un’architettura relazionale ai saperi, definendone piani di incrocio e linee di sviluppo. Basti pensare alle “due culture” di Snow: nel pamphlet originale l’accento era posto sul “peso” economico soverchiante della scienza e della tecnologia, e soltanto successivamente l’ipostatizzazione del problema si è trasformata nella visione odierna della scienza come “pubblica virtù”, democratica e filosofica, e le arti e la letteratura come “vizi privati” della soggettività. Da qui si diparte il problema artificiale (ed artificioso) di “conciliare” scienza e humanities, quando invece sarebbe molto più utile decostruire i confini immaginari tra sfere di attività che non hanno mai sofferto di reali divisioni e sono sempre state animate da “mutua attrazione”, per usare una felice espressione di Primo Levi. Ancora un caso di vestiti nuovi dell’imperatore! E naturalmente anche i concetti di pubblico/privato/soggettivo a cui affidiamo il nostro giudizio (su di noi, sugli altri, sul mondo) hanno meno a che fare con il nostro esserci-nel-tempo che con l’essere in questo tempo, dunque produzioni ideologiche. Questo isomorfismo tra potere e conoscenza è fisiologico alla natura del potere, e ci si potrebbe chiedere anche se, privata della sua impalcatura naturale, la conoscenza potrebbe svilupparsi in quanto tale, come un insieme di saperi strutturato in livelli di pesi ed impliciti giudizi valoriali. È più facile immaginare che i saperi, intesi come pratiche storiche e locali, tendono a svilupparsi in tutte le direzioni che solo a posteriori diciamo interne ed esterne, tecniche e filosofiche, centrali e periferiche (quanta ricchezza in ogni serie B), utili ed inutili. Queste considerazioni non tolgono legittimità a quel corpus più o meno esplicito che evochiamo con la parola “conoscenza”, e neppure che “potere” sia da intendersi soltanto in senso “negativo” (altra costruzione ideologica). Potere e conoscenza co-creano mutuamente i loro piani di sviluppo, fissano direzioni nell’immanenza: “Il piano di immanenza è come un taglio del caos, e agisce come un setaccio. […] Operando un taglio del caos il piano di immanenza fa appello a una creazione di concetti” (Deleuze & Guattari, 1996; Verdesca, 2005). L’aspetto rilevante consiste non nel “tagliare” il nodo immaginario tra potere (comunque si dispieghi ed organizzi) e conoscenza (comunque si articoli), ma di evitare le “calcificazioni mentali” che ci portano a credere necessarie ed immutabili queste strutture (Deleuze & Guattari, 2017). Immaginare diversamente il potere è pensare ad una conoscenza altra, e viceversa.

I saperi specifici hanno un nucleo duro di pratiche che li diversificano all’interno di una costruzione globale della conoscenza. Anche loro ne sono permeati ed influenzati, in un processo simile all’adsorbimento; pensiamo soltanto al concetto di “legge fisica” che passa dalla metafisica della giurisprudenza greca a quella materialista del positivismo, fino alla contemporaneità che fa appello pragmaticamente alle simmetrie (nel seguito mi sarà più comodo fare riferimento ai saperi della fisica). In generale queste pratiche sono sedimentate storicamente e situate all’intersezione tra elaborazioni teoriche ed eventi localizzati (un dato sperimentale, un documento, un testo, una situazione, etc.). La stessa natura di pratica, e la variabilità della zona di intersezione (esempio: in questo periodo la fisica teorica vive una fase di eccedenza teorica, e forse di calcificazione, rispetto ai fatti sperimentali), pone la delicata questione della trasmissione dei saperi.

 

I saperi hanno tradizionalmente un forte radicamento nel qui ed ora. Sono praticati da agenti in un contesto. Un recente libro dell’economista indiana Bina Agarwal, Diseguaglianze di genere nelle economie in via di sviluppo (Agawal, 2021) mostra in modo ammirevole che il radicamento è non soltanto il luogo dove si trovano le risposte ma anche quello dove i problemi emergono. In questo caso si tratta della storia dell’agricoltura indiana, della gestione delle terre e delle attività agricole, del rapporto tra i campi e le comunità e di come la questione universalmente nota dell’ecofemminismo acquista in India una fisionomia del tutto peculiare per via dei marcati squilibri nella divisione dei compiti e delle responsabilità tra lavoro femminile e maschile.

Tornando alla fisica, quando ero studente il radicamento era ancora molto forte e le tradizioni “di scuola” orientavano le scelte: la cosmologia teorica era appannaggio degli inglesi -linea culminata con S. Hawking-, uno dei miei professori aveva superato l’esame di “minimo teorico” con Landau e la fisica (ancora sovietica) aveva dei campioni come J.B. Zeldovich e A. S. Davydov; Il Nobel a Carlo Rubbia era il segno lungo della vitalità della scuola italiana in fisica delle interazioni deboli iniziata con il gruppo di Fermi a via Panisperna (via Marcello Conversi). A Palermo, nel bel mezzo di una guerra di mafia, mi trovai a costruire un percorso da fisico teorico facendo lo slalom tra le specialità della casa: fisica cosmica (Bruno Rossi, il satellite cosB), biofisica (M. U. Palma) e quella che oggi chiamiamo materia condensata (F. Persico). Per lavorare sui fondamenti della fisica quantistica (“perché perde tempo ad occuparsi di queste cose?”) dovetti rivolgere la mia attenzione a Parigi (J. P. Vigier) e Londra (D. Bohm). Mi scuso con il lettore per questa digressione personale, è utile però per far comprendere che non troppo tempo fa esisteva una connessione profonda tra saperi, storia e territorio che oggi appare lontanissima più del rapporto tra località e specialità gastronomiche. A meno che non si tratti di una tecnologia nuova disponibile in pochi centri avanzati, si è diffusa l’idea che il sapere è qualcosa di astrattamente universale e come tale la sua sostanza può scorrere immutata attraverso vie digitali da un numero imprecisato di erogatori praticamente equivalenti ed arrivare a chiunque. Più volte è stato fatto notare che questa pressione a favore di un’universalità basata sull’omologazione ha vantaggi e svantaggi ugualmente ovvi. Da una parte l’idea di un sapere “invariante” è “ben formata”; un sapere è “effective” se può essere ritenuto valido ed applicabile ovunque. Possono esserci nelle humanities più “sapori” locali, ma in linea di principio devono poter essere disponibili a chiunque, pensiamo ad esempio alle questioni legate alla filologia ed alla linguistica. Inoltre l’idea di un sapere delocalizzato è attraente e liberatoria perché chi lo riceve ha l’opportunità di emanciparsi dalle contingenze legate ad un ambiente culturalmente svantaggiato. Superare i gap inevitabili nel portare il messaggio verso ogni destinazione implica un processo di omologazione che per principio non sarebbe intento di semplificazione ma (piccolo) prezzo da pagare per rendere più ampia l’usabilità. Si sarebbe tentati di associare questi procedimenti alla traduzione, che rende possibile leggere Tolstoj anche a Pinerolo o Georgetown. Ma sarebbe un grave errore.



3.     Traduzioni e Coffee break 

In un suo famoso saggio sulla traduzione Walter Benjamin   si chiede:

“Che cosa, in una traduzione non è a sua volta traducibile? si tolga in una traduzione tutto ciò che in essa è comunicazione, e lo si traduca e resterà tuttavia intatto e intangibile ciò a cui mirava il lavoro del vero traduttore […] Esso consiste nel trovare quell’atteggiamento verso la lingua in cui si traduce che possa ridestare in essa l’eco dell’originale.” (Benjamin, 2014)

 Le IA riescono da molto tempo ad estrarre da una pagina di narrativa i fatti essenziali, trasmutare tutto in messaggio e tradurlo, almeno per scopi essenziali di comunicazione. L’osservazione di Benjamin vale per la letteratura e la poesia, e può essere estesa facilmente alla dimensione interpretativa in musica. C’è qualcosa che “fa resistenza” e che non può essere ridotta ad una procedura di passaggio da una lingua all’altra senza un ulteriore sforzo, quello dell’assunzione di responsabilità interpretativa. Non sintassi, per quanto in senso allargato, ma dimensioni semantiche da cui derivano le scelte dei livelli subordinati. Come chiosa Daniele Del Giudice: La traduzione non è un servizio, né un trasferimento da una lingua ad un’altra. È un atto dello scrivere. La traduzione è una forma propria della scrittura (Del Giudice, 2013). Questo vale per ogni sapere, perché la loro trasmissione è anch’essa un “atto del sapere”, qualcosa che attinge al modo in cui quel sapere si articola, a come è stato ottenuto, alle vie che apre. I saperi hanno voci, storie, sono ricchi di idiosincrasie e pregiudizi, cose non sempre da intendere come “negative” ma come scelte a monte su come affrontare le cose. Hanno una ribalta, un proscenio ed un backstage. Tolte queste caratteristiche ciò che resta è un sapere liofilizzato, poco utile anche per fornire l’abc delle nozioni propedeutiche. In sé questa non è un’opposizione all’educazione digitale, ma all’idea che possa esistere un’unica sorgente buona per tutti (lo standard, il format). Piuttosto sarebbe utile una visione inclusiva che permetta alla pluralità di posizioni ed esperienze che ruotano attorno ad un sapere di formare una mappa aperta di punti di vista, interpretazioni, rimandi e dissonanze, interferenze costruttive e distruttive, un arcipelago in cui nessuna isola può inglobarne un’altra, ma tutte si influenzano reciprocamente, sismicamente, mutando in forma, contenuti, linee di fuga. Cade la differenza tra sorgente e ricevitore perché tutti i nodi fanno parte dell’elaborazione di quel sapere in forme di apprendimento collettivo circolare simile a quelle che si sperimentano sui “territori”, all’interno di una tradizione di “scuola” e di comunità. Oltre che essere una sfida di contenuti, quella che aspetta la virtualizzazione dei saperi non è mera trascrizione digitale ma sfida di stile. Su questa pluralità torneremo ancora, adesso vorrei raccontarla facendo ancora riferimento al mio mestiere, in modo che ciascuno possa estendere ciò che dico ai parametri del suo. Ed a maggior ragione, visto che il vantaggio di utilizzare una disciplina su basi sperimentali e con teorie altamente formalizzate dovrebbe essere quello di ottenere una rappresentazione assai vicina al “monolitico universale”, in cui l’atto di staccare un tassello ed analizzarlo dovrebbe essere un’operazione naturale e chiara, con ben definiti contorni. 

Credo di non essere l’unico scienziato a poter affermare, un po' paradossalmente ma non senza un concreto fondo di verità, che nei convegni ho imparato più durante i coffee break che dalle relazioni “ufficiali”. In queste ultime infatti esperimenti e teorie, ipotesi e scenari vengono espresse nella forma migliore che la retorica scientifica permette, sono “tirate a lucido”, ed anche le crepe ed i dubbi che si sceglie di mostrare vanno in direzione di una strategia comunicativa concordata per dare maggiore forza alle tesi forti di fondo. La sezione dedicata alle domande è spesso della stessa natura. Se attacchi una torre lo fai con l’armatura, è tutto molto formale, ci si concentra sui dettagli sottili evocando scontri epici tra modelli. Ma è durante le pause che si comincia davvero a parlare tra produttori e testimoni di sapere, artigiani le cui esperienze e conoscenze vanno ben al di là dei limiti di quell’evento. Ed è allora che si esprimono i dubbi meno formalizzati ma più ragionevoli (o irragionevoli, a testimoniare che non c’è produzione di sapere senza una scelta di stile a volte simile all’ostinazione), o perplessità più ampie sulla sostenibilità di quello che si è sentito, che non è in genere una valutazione negativa ma stime d’ azzardo sullo sviluppo futuro di quelle idee, sulla loro capacità di diventare davvero tasselli stabili di un puzzle, magari in base ad una visione asintotica e vaga sul disegno complessivo che la disciplina offre in quel momento. Si scommette su strumenti alternativi che non si sono ancora usati, si fanno variazioni su tema ad orecchio. E si torna al punto di partenza con una consapevolezza più grande ma difficile da trasmettere. È qualcosa che emerge da un confronto collettivo che non ha un obiettivo immediato e soprattutto non ha una fine. Si riapre al prossimo convegno, registrando nuove idee, dubbi, prospettive. L’occhio di chi fa un mestiere queste cose può vederle anche in un articolo pubblicato, tra le righe. Altrimenti, senza queste esperienze, resterà solo il “messaggio” dell’articolo, la forma stilizzata ed unidimensionale delle idee.

  

 

4.     La testimonianza di Tino Faussone 

   La mente è inconcepibile “in un vaso”, senza embodiement. Anzi, questa frase già denuncia l’esistenza di una cesura tra corpo e mente che oggi sappiamo fittizia, ma che si replica nelle abitudini culturali. In modo analogo un sapere è sempre e prima di tutto un saper fare ed è radicato nelle relazioni tra chi lo pratica. Ancora Del Giudice:

“Sapere, sapere tutto, anche più di tutto, sapere e trasformare quel sapere in gesti naturali, da mettere in atto nel minimo tempo e in modo istintivo, ma non troppo istintivo; sapere, finché questo sapere diventi movimenti della mano, sensibilità delle dita agli strumenti, sensibilità del corpo alle posizioni nello spazio, cinestesia. Sapere tutto, ma non troppo, né essere sicuri di saperlo, poiché l’errore non aspetta altro che la tua sicurezza, ed è lì che morde. L’errore è la specialità del pilota, la sua disciplina, la sua materia. Se c’è una competenza del pilota, è la competenza dell’errore. Lei di cosa si occupa? Per tutta la vita mi sono occupato di errori, mi disse un giorno un vecchio pilota in pensione.” (Del Giudice, 2013)

Credendo nella favola di un sapere astratto dai contesti in cui si forma e si pratica, o nell’astrattezza di certi saperi rispetto ad altri, ci siamo ritrovati con i loro surrogati, ed abbiamo ceduto all’illusione che tradurli nello spazio digitale potesse almeno preservare la memoria dei loro contesti materiali, della discussione infinita, e spesso indefinita, che li genera continuamente attraverso trucchi che non stanno scritti in nessun manuale, ma sono possibili solo quando se ne conoscono molti.

Si tende a dimenticare troppo spesso la testimonianza di Tino (da Libertino) Faussone, che non è un uomo ma un personaggio, una moltitudine che abita La chiave a stella di Primo Levi (1978, Premio Strega 1979; Levi, 2014). Qualche anno prima, Levi aveva fatto dei viaggi a Togliattigrad, sul basso Volga, per conto della SIVA di cui era direttore tecnico, e lì aveva incontrato maestranze italiane impegnate in vari progetti. Spinto dalla curiosità discute con loro, si informa, chiede e da qui nasce il suo personaggio. Sarebbe quasi inutile oggi dire che il libro continua, rinnova (e forse chiude) un’epoca di letteratura industriale che ha testimoniato il passaggio dell’Italia da paese agricolo a città delle fabbriche, perché anche l’idea di fabbrica nel frattempo è diventata nell’ immaginario non un luogo concreto ma qualcosa di lontano e indistinto, una sorta di algoritmo abitato vagamente da entità chiamate operai. E forse è ugualmente poco utile ricordare la straordinaria operazione che fa Levi donando a Tino un linguaggio che è un felice ibrido tra il parlato italiano di tutti i giorni e il dialetto piemontese intriso di termini tecnici, a volte chiamato “fiat-ese” (entrambi sono di Torino). Eppure sono aspetti importanti e l’ombra dell’oblio su queste cose non è associata al superamento dei problemi del lavoro industriale (anzi), ma al fatto che il linguaggio è sempre meno segnato dal fare; si generano con estrema velocità gerghi e termini di moda per scomparire rapidamente con la prossima stagione, ma un linguaggio è altro. È l’orizzonte più ampio della nostra esperienza, lo strumento in cui si sedimenta e si trasforma la conoscenza delle cose.

Faussone è un operaio specializzato, un montatore di tralicci, ponti e gru che gira il mondo (Russia, Alaska, India, Africa). È globalizzato ante-litteram - infatti la critica di sinistra dell’epoca si interrogava sullo status sindacale del personaggio, sulla sua “resa ai padroni” -, e conviene con il suo interlocutore (un alter-ego di Levi) che:

“Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.”

Per gli anni ’70 il libro è troppo “ottimista”, in netta controtendenza con gli umori politici del tempo, e sfugge una sottodominante epistemica rilevante. Nei racconti di Tino, accanto ai successi di imprese “impossibili” ci sono anche disfatte sottili, imprevedibili e catastrofiche. Apparentemente inspiegabili nonostante la cura nel controllo delle procedure. È quella dimensione dell’errore collocata nella zona di incertezza tra la chiarezza del progetto/modello/teoria e la sua implementazione concreta in un contesto di “condizioni al contorno”. In quelle direzioni i saperi si accrescono e si modificano, impercettibilmente sì, ma in maniera sufficiente da comprendere che un sapere non è tale se si presume infallibile senza eccezioni. Del resto il suo interlocutore non è forse lì per le stesse ragioni, una vernice “perfetta” che non funziona? Entrambi, a livelli diversi, hanno a che fare con l’attrito delle cose, fattori che deviano il piano teorico verso strategie più elaborate, “malizie” che si concretizzano in pratiche che regolano il nostro intervento sul mondo.  Che passino dalle mani o dalla mente non c’è poi molta differenza:

“ho cercato di chiarirgli che tutti e tre i nostri mestieri, i due miei e il suo, nei loro giorni buoni possono dare la pianezza. Il suo, e il mestiere chimico che gli somiglia, perché insegnano essere interi, a pensare con le mani e con tutto il corpo, a non arrendersi davanti alle giornate rovescie e dalle formule che non si capiscono, perché si capiscono poi per strada; ed insegnano infine a conoscere la materia ed a tenerle testa. Il mestiere di scrivere, perché concede (di rado, ma pure concede) qualche momento di creazione, come quando in un circuito spento ad un tratto passa corrente, ed allora una lampada si accende, o un indotto si muove” (Tiresia, La chiave a stella).

Più di una volta Levi, chimico prima che “scienziato”, e verniciaio ancor più che chimico, è tornato su questo aspetto della concretezza dei saperi, ad esempio nel racconto “La sfida della molecola”, dove una vernice “perde la cottura” senza ragione apparente, facendo così provare:

“l'irrisione delle cose senz'anima che ti dovrebbero obbedire e invece insorgono.” (Lilit e altri racconti, 1981, in Levi 2016, pag. 755)

Sappiamo dallo studio della complessità che le condizioni al contorno possono essere importanti quanto e più delle leggi che dovrebbero assicurarci l’obbedienza della natura, perché è lì che si nascondono l’errore, l’emergenza e la sorpresa (Licata, 2018). La lezione più importante è che non esistono saperi senza luoghi specifici dove vengono costruiti, testati, falsificati. Questo dovrebbe essere considerato sin dall’inizio in ogni tentativo di insegnamento e comunicazione, e soprattutto di diffusione virtuale.

  

 

5.   Conclusione atopica 

Osservata a grana grossa, da lontano, ogni disciplina appare ben definita e compatta; temi e nomenclatura sono chiaramente suddivisi e la geometria dei sottodomini ha ben tracciati confini. Man mano che la osserviamo sempre più da vicino, e infine quando la frequentiamo, la superficie liscia appare rugosa e frattale, le distinzioni non sono più nette, le distanze concettuali che sembravano date una volta per tutte si dilatano e all’interno dello stesso sapere cose che teoricamente dovrebbero essere vicine non lo sono più di fatto. Agli occhi del lettore di divulgazione le questioni di cosmologia o di fisica quantistica possono avere il gusto della profondità filosofica (la scolastica? In effetti possono vedersi molti punti di contatto tra la filosofia medioevale e le quaestiones dell’interpretazione della meccanica quantistica), ma si fa poco caso al valore di grandezze come c, la velocità della luce, o h, la costante di Planck. Da dove vengono? Quando e come sono state misurate? Con quali procedimenti? Come si fa a dire che il valore di una grandezza numerica è costante? Questo è il pianeta della metrologia, generalmente poco conosciuto e superficialmente catalogato come poco interessante. Non esistono libri divulgativi su questi temi. Eppure la fisica è fondata su quelle procedure. E non si tratta affatto di “aride questioni tecniche” (cit. dal dizionario dei luoghi comuni e delle frasi fatte), ma di un intreccio di sottili questioni teoriche che attraversano tutte le aree della fisica, di procedure raffinate che derivano dalla storia dei grandi esperimenti, quella che il Faussone di Levi direbbe  una continua sfida di strategie e malizie, cose che rendono normale l’avvertenza in titoli come recommended values of the fundamental physical constants (Mohr, Peter J. & Taylor, Barry N., Review of modern physics, 77, 2005, pp. 1-107).

Queste rugosità, questa resistenza di ogni disciplina ad essere completamente spianata, la difficoltà di metterla a fuoco fuori dalla pratica e dal collocarsi dentro come operatore, è un monito per chi vuole insegnare e per chi vuole (davvero) apprendere. Ma sarebbe un ben misero risultato se ci limitassimo a dire che dal liscio bisogna (il più possibile) passare al frattale, sarebbe una parafrasi dell’antico ars longa, vita brevis. Consapevoli di questa costituzione intima dei saperi, torniamo alle questioni della virtualizzazione.

La deterritorializzazione dei saperi è, semplicemente, qualcosa che doveva accadere. Il tratto che la collega alla globalizzazione (in parallelo con questa, imperfetta e intelligente: Stliglitz, 2002; Detti et al. 2009; Rodrik, 2014) è meno necessario di quanto possa sembrare; è nella natura stessa dei saperi quella di circolare più rapidamente delle merci, di cui sono la condizione primaria, e di essere diffusi, scambiati, confrontati, posti in relazione e soggetti al conflitto. In questo processo i saperi sono al momento come sospesi tra i territori fisici in cui sono nati e il cielo virtuale cui sembrano destinati dalla loro natura inflazionaria. Ci si chiede come conciliare la terra e il cielo, il radicamento originario e l’universalizzazione. Abbiamo avanzato qualche argomento in favore di una conciliazione: la virtualizzazione di un sapere è possibile a patto di proiettare sul piano virtuale anche i racconti e le memorie del suo territorio originario. Questo richiede una pluralità. Non siamo più dentro lo schema scolastico tradizionale, dove ad una serie di protocolli d’insegnamento corrispondono parametri di risposta. Ma quando lo siamo mai davvero, e totalmente? I saperi sono coestensivi alla vita, e l’unica rappresentazione della conoscenza che ha un senso per ognuno è quell’organum privato di saperi che si ridefiniscono continuamente con la storia di una persona, che permette di far corrispondere un arcipelago esterno ad uno interno (cosa che potrebbe suggerire una nuova definizione di soggetto). Questa visione implica necessariamente la pluralità, a partire dal nodo individuale. Ognuno di noi, in uno spettro ideale tra maestro ed apprendista, è in uno stato di sovrapposizione tra varie forme di competenza, superficialità, ignoranza, curiosità, indifferenza, partecipando ad una rete di saperi multipla come nodo attivo in più versi. La rete diventa così metafora e modello dei saperi e del loro gioco di sovrapposizioni ed interferenze. Sotto questo punto di vista va detto che i famigerati social offrono forse un (non)metodo meno rigido di ogni tentativo istituzionale. Fatta la tara sulle fluttuazioni di stupidità, lamentazioni ombelicali, narcisismo e complottismi- ma perché se ne parla tanto adesso? Cos’erano I protocolli dei savi di Sion se non una fake news che si elesse a sistema culturale? Ancora una volta il problema non è mai la “verità” astratta di una posizione/affermazione/teoria bensì la sua falsificabilità, o meglio l’identificazione degli obiettivi-, i social rappresentano bene quello che potrebbe/dovrebbe essere la collettività emergente dei nodi, la geografia cangiante dei saperi, il dibattito in tempo reale. Nonostante e grazie alle peculiarità del format, già oggi alcuni canali provvedono ad un’informazione puntuale e sistematica su molti temi. La questione del modo di fare cultura con le tecnologie digitali è ancora aperta e ricca di possibilità.

Immaginare nuove articolazioni dei saperi e della conoscenza significa riproporre il tema del potere. Quale potere corrisponde alle possibilità delineate? La ricchezza della rete è soltanto apparente, maschera multicolore di un capitalismo rampante ad alta virtualizzazione o  paradigma in cerca di un modello sociale ed organizzativo sostenibile?

Questa è propriamente la sfida politica in cui siamo immersi.

 

 

Bibliografia