Riflessioni Sistemiche n° 24


Educazione e Formazione:
livelli, problemi e prospettive

La formazione alla psicoterapia in chiave di ecologia della mente


di Giovanni Madonna

Psicologo, psicoterapeuta didatta

Foto di Reinhardi da Pixabay

Sommario
L’autore sostiene che una psicoterapia e una formazione alla psicoterapia che si ispirino all’ecologia della mente debbano avere carattere connettivo e fondarsi sul metodo della descrizione doppia. Propone, inoltre, che una supervisione ispirata all’ecologia della mente coltivi la possibilità di sentirsi parte di un tutto più ampio e implichi una pronta disposizione all’umiltà, all’attenzione e alla sollecitudine.


Parole chiave
Ecologia della mente, psicoterapia, formazione, descrizione doppia, supervisione, umiltà, attenzione, sollecitudine


Summary 

The author argues that psychotherapy and psychotherapy training inspired by the ecology of mind should be connective in nature and grounded in the double description method. He further proposes that supervision inspired by the ecology of mind cultivates the possibility of feeling part of a larger whole and implies a ready disposition to humility, attentiveness, and care

 


Keywords
Ecology of mind, psychotherapy, training, double description, supervision, humility, attentiveness, care

 

 

1.1  Il metodo della descrizione doppia nei processi della psicoterapia e della formazione alla psicoterapia

L’ecologia della mente è un paradigma epistemologico connettivo, che Bateson propose come correttivo del paradigma epistemologico dominante, che è dicotomico e tende a separare: la mente dal corpo, gli esseri umani dal resto della natura, la natura dalla cultura, il pensiero dalle emozioni, il cambiamento dalla stabilità…

Una psicoterapia e una formazione alla psicoterapia – ma anche una formazione più in generale - che si ispirino all’ecologia della mente debbono pertanto avere carattere connettivo e tendere a riconnettere ciò che è separato nella percezione e nel pensiero dei più.

Quello volto a riconnettere ciò che è separato nella percezione e nel pensiero è lavoro riconnettivo: un lavoro che aiuta ad accedere utilmente alla propria personale sensibilità anche in ambito professionale, che aiuta, in altri termini, a coltivare la possibilità di adottare un approccio anche estetico – ovvero fondato sulla sensibilità - alla psicoterapia e alla formazione.

L’approccio estetico si fonda, nell’epistemologia batesoniana, su quello che lo scienziato inglese denominava pensiero vago. Gregory Bateson riteneva che la combinazione fra due diversi tipi di pensiero, il pensiero ‘vago’ e il pensiero ‘rigoroso’, fosse lo strumento più prezioso della scienza (Bateson G., 1972, pag. 110).

Per pensiero ‘vago’ bisogna intendere quello fondato sull’abduzione e sul sillogismo ‘in erba’: pensiero aleatorio e produttivo in quanto generatore di nuovi pensieri, nati attraverso ipotesi di somiglianza ulteriore proposte da somiglianze precedentemente rilevate. Per pensiero ‘rigoroso’ bisogna intendere invece quello fondato in particolare sulla deduzione e sul sillogismo ‘in Barbara’: pensiero selettivo e conservativo in quanto verificatore di compatibilità, in termini di coerenza e fondatezza, rispetto a pensieri precedenti. Riconoscere e valorizzare sia il pensiero vago che il pensiero rigoroso significa essere consapevoli della natura stocastica del pensiero ovvero del suo rappresentare la combinazione fra una componente aleatorio/produttiva e una componente selettivo/conservativa (Madonna G., 2010, pp. 210-23) Un buon formatore, consapevole della natura del pensiero, deve nutrire i suoi allievi in relazione a entrambe queste componenti. Il pensiero rigoroso può essere ‘esercitato’ (ovvero coltivato in maniera diretta). È un pensiero che distingue e classifica. Attiene all’isolamento e all’esame scrupoloso e ripetuto delle variabili nel tempo. Il pensiero vago può essere ‘coltivato’ (ovvero esercitato in maniera indiretta). Non si può, infatti, decidere in maniera diretta di farvi ricorso o di incrementarne l’uso; e non è possibile ‘insegnarlo’ in maniera diretta. Per quanto sia fuori dalla possibilità di insegnamento diretto, è tuttavia possibile allestire condizioni che possano favorire, rendere più agevole e/o più probabile, il suo manifestarsi.

Combinare questi due tipi di pensiero consente di accedere a una conoscenza più profonda: “La più ricca conoscenza dell’albero comprende sia il mito sia la botanica” (Bateson G., Bateson M.C., 1987, pag. 301). Questa affermazione rappresenta uno dei tanti inviti batesoniani impliciti o espliciti all’adozione del metodo della descrizione doppia o del confronto doppio o multiplo e della sua logica combinatoria. Questo metodo consiste nel combinare informazioni di genere diverso o provenienti da sorgenti diverse (…) [in maniera da ottenere] qualcosa di più che la loro addizione” (Bateson G., 1979, pp. 119).

Si consideri, come esempio paradigmatico di quest’ultima possibilità, il caso della visione binoculare, che del metodo della descrizione doppia può essere considerato un fondamento biologico. Nel caso della visione binoculare, le immagini che i nostri occhi inviano al cervello nel corso del processo di percezione visiva sono piatte, bidimensionali. Le due immagini, anche se leggermente, sono inoltre diverse fra loro, in quanto gli occhi si trovano a qualche centimetro di distanza l’uno dall’altro e hanno, dunque, due ‘punti di vista’ fra loro differenti. A livello cerebrale le due immagini bidimensionali vengono combinate fra loro e da questa combinazione deriva un sovrappiù di informazione: la possibilità di cogliere la profondità, ovvero la terza dimensione.

Per Bateson alla visione doppia e alla descrizione doppia è inestricabilmente connessa la stessa idea di relazione: “la relazione è sempre un prodotto della descrizione doppia. È corretto (ed è un grande progresso) cominciare a pensare le due parti dell’interazione come due occhi, che separatamente forniscono una visione monoculare di ciò che accade e, insieme, una visione binoculare in profondità. Questa visione doppia è la relazione” (Bateson G., 1979, pag. 179).

Adottare il metodo della descrizione doppia è di fondamentale importanza in una psicoterapia che si ispiri all’ecologia della mente perché aiuta a fare conoscenza e salute non solo del pensiero rigoroso - che ha forte e radicato diritto di cittadinanza nei percorsi formativi degli psicoterapeuti – ma anche del pensiero vago, che solitamente di tale diritto di cittadinanza non gode. È opinione diffusa, infatti, che coltivare il pensiero vago possa essere necessario o utile solo nel campo delle arti. È proprio il pensiero vago, tuttavia, che da un lato esprime e dall’altro coltiva capacità di connessione e di riconnessione; e che risulta pertanto fondamentale in una psicoterapia che si ispiri a un paradigma epistemologico connettivo – l’ecologia della mente – e che abbia dunque a sua volta carattere connettivo.

Della declinazione psicoterapeutica del metodo della doppia descrizione mi sono ampiamente occupato in quasi tutti i miei testi precedenti (Madonna G., 2003, pp. 87 e pp. 141; Madonna G., Nasti F., 2015, pag. 64; Madonna G. e coll., 2017, pag. 77). Per quel che concerne il coltivare capacità di connessione e di riconnessione, sarà utile qui ricordare che si tratta di un lavoro che non attiene all’interpretare né al ridefinire. Coltivare capacità di riconnessione adottando il metodo della doppia descrizione attiene infatti al proporre descrizioni ulteriori. Il sovrappiù di informazione che si ottiene nel proporre descrizioni ulteriori è in termini di sguardo e di pensiero sistemico. Proporre descrizioni ulteriori, infatti, aiuta a guadagnare circolarità e complessità e dunque a percepire e a pensare in chiave sistemica. Questo lavoro facilita la riconnessione e la reintegrazione di ciò che è stato separato: è processo di cura che si intreccia col processo di guarigione e può facilitarlo. Quando lo psicoterapeuta propone una descrizione ulteriore, mette quella descrizione accanto a un’altra descrizione, o ad altre descrizioni: giustappone descrizioni e allena il paziente a farlo. Questo lavoro allestisce condizioni che favoriscono l’integrazione.

Perché l’integrazione possa verificarsi è necessario che fra le descrizioni giustapposte vi sia una sufficiente coerenza. La coerenza attiene alla presenza di una certa compatibilità e di una certa somiglianza, che tuttavia non giunga all’uniformità: “Il problema della coerenza è il problema di come le cose si incastrino fra loro, e non se siano identiche […] Una certa coerenza è necessaria all’integrazione, ma l’uniformità è senz’altro una di quelle cose che sopra un certo livello divengono tossiche” (Bateson G., Bateson M.C., 1987, pag. 110). Le descrizioni e le idee che si integrano fra loro sono dunque caratterizzate da un certo grado di coerenza, compatibile con le esigenze di un sistema vivente che, per mantenersi vivo e in buona salute, da un lato deve, sì, mantenersi nel tempo somigliante a sé stesso, ma, dall’altro, deve assumere una forma aperta, per essere disponibile al cambiamento e all’evoluzione.

 

 

1.2  La finalità introversa nei processi della psicoterapia e della formazione alla psicoterapia

 

Parecchi anni fa proposi, nell’ambito di uno studio relativo alla psicoterapia, una classificazione dell’azione (Madonna G., 2003, pp. 46-57). In quella occasione distinsi due tipi di azione, elencandone le caratteristiche salienti. Descrissi l’azione del primo tipo come sottoposta al primato della coscienza, orientata al futuro, narrabile, valutabile in una prospettiva etica e discreta; in particolare per quest’ultima caratteristica, ritenni di poter definire questo tipo di azione formale. Rispetto a questo tipo di azione Bateson invitava a esitare per evitare danni al mondo fuori di noi, cui questo tipo di azione è rivolto. Descrissi l’azione del secondo tipo come non sottoposta al primato della coscienza, orientata al presente, autonarrante (autodescrivente), conoscibile in una prospettiva estetica e continua; in particolare per quest’ultima caratteristica, ritenni di poter definire questo tipo di azione processuale. Quando si è attraversati da questo tipo di azione, l’esitazione danneggia l’azione stessa, facendole perdere la sua caratteristica di vitalità e rendendola altro rispetto a quel che era. Per tenere viva l’azione processuale è dunque necessario non esitare e la non/esitazione risulta pertanto una caratteristica costitutiva e ineliminabile di essa. L’azione processuale è ‘coltivata’ con cura, esercizio, disciplina, talvolta anche molto a lungo protratti, ed è risultato dunque di un attento, impegnativo e prolungato lavoro fondato sul desiderio di cambiare sé stessi ovvero su una finalità di tipo ‘introverso’.

Bateson introdusse la distinzione fra finalità estroversa (che fino ad allora aveva sempre chiamato tout court finalità) e finalità introversa nell’ambito di un discorso relativo alla distinzione fra religione e magia o, detto in altri termini, relativo alla distinzione fra l’affermazione dell’integrazione in un tutto riconosciuto e le posizioni appetitive nei confronti del mondo: “In rituali come la danza della pioggia o le cerimonie totemiche concernenti le relazioni tra l’uomo e gli animali l’essere umano invoca o imita o cerca di comandare i fenomeni atmosferici o l’ecologia delle creature selvatiche. Ma io credo che nella loro forma primitiva questi siano veri e propri cerimoniali religiosi. Sono enunciazioni rituali di unità, che coinvolgono tutti i partecipanti in un’integrazione con il ciclo meteorologico o con l’ecologia dell’animale totemico. Questa è religione. Ma la strada che dalla religione scende alla magia è sempre allettante. Da un’enunciazione di integrazione in un tutto riconosciuto spesso confusamente, si devia verso una posizione appetitiva: il rito viene visto come un atto di magia finalizzato a far cadere la pioggia o a stimolare la fecondità dell’animale totemico o a conseguire qualche altro scopo. Il criterio che distingue la magia dalla religione è per l’appunto la finalità e in particolare una finalità estroversa. La finalità introversa, il desiderio di cambiare il sé, è tutt’altra faccenda” (Bateson G., Bateson M.C., 1987, pp. 91).

L’azione che nasce dal desiderio di cambiare il sé è l’azione fondata sulla finalità introversa. Il lavoro rivolto a sé stessi è necessario quando si vuole facilitare l’accesso alle possibilità imprevedibili del pensiero vago. Il ricorso alla finalità introversa può rappresentare un correttivo rispetto agli eccessi e agli accanimenti della finalità estroversa, che spesso blocca il nostro pensiero impedendone la fluidità e ci induce alla cecità sistemica e allo sviluppo di risentimenti e aggressività nei confronti del mondo fuori di noi. Il lavoro fondato sulla finalità introversa, rivolto a sé stessi per facilitare il proprio pensiero vago, ha a che fare col non-fare. Una delle cose più importanti fra quelle che si fanno con finalità introversa è infatti proprio quella di impedirsi di fare con finalità estroversa. Nella comunicazione inviata ai regents dell’università della California nell’agosto del 1978 e pubblicata come appendice in Mente e natura, Bateson fece riferimento al giocatore di scacchi, che è sempre tentato di fare una mossa astuta e ingannevole per ottenere una rapida vittoria. Egli considerò l’importanza per il giocatore di evitare scorciatoie e di adottare invece uno sguardo più ampio e lungimirante, anche se “la disciplina del cercare la mossa migliore per ogni posizione dei pezzi è dura da raggiungere e dura da mantenere” (Bateson G., 1979, pag. 294). Adottare questa disciplina significa per lo scacchista rinunciare al tentativo di cambiare rapidamente il mondo esterno (vincere la partita) e lavorare invece pazientemente su sé stesso, cercare, mossa dopo mossa, istante per istante, di essere il migliore scacchista possibile. Quando adotta questa disciplina, lo scacchista è soddisfatto per il fatto di aver giocato bene, per come è stato giocatore e non per una certa mossa ‘decisiva’ o per la partita eventualmente vinta.

Anche allestire, nei processi della psicoterapia e della formazione alla psicoterapia, le condizioni per facilitare l’azione processuale, è lavoro da rivolgere a sé stessi, con finalità introversa: un lavoro ripetutamente rivolto a sé stessi, che consente di automatizzare e far diventare quindi ‘spontaneo’ un comportamento appreso, per esempio una tecnica psicoterapeutica. Lo psicoterapeuta non deve dunque cercare di cambiare il suo paziente, ma deve adottare la disciplina del lavorare su sé stesso per essere il migliore psicoterapeuta possibile per il suo paziente; e il formatore, in maniera isomorfica, non deve dunque cercare di cambiare il suo allievo, ma deve adottare la disciplina del lavorare su sé stesso per essere il migliore formatore possibile per il suo allievo.

 

  

1.3  Istruzione, calibrazione e manutenzione/cura del sé

 

Gregory Bateson non aveva una preferenza per l’approccio estetico e/o per il pensiero vago. Semplicemente, sottolineava l’importanza di attribuire valore anche a un approccio e a una modalità di funzionamento del pensiero solitamente trascurati nei percorsi di formazione non ‘artistici’ in senso stretto. Mi considero dunque in sintonia con Bateson nel sottolineare - nell’ambito dei processi di formazione alla psicoterapia - sia l’importanza dell’adottare un approccio estetico e del coltivare il pensiero vago, sia l’importanza dell’adottare un approccio istruttivo e dell’esercitare il pensiero rigoroso.

L’istruzione è un aspetto necessario e rilevante dei processi di insegnamento/apprendimento della psicoterapia; essa attiene alla trasmissione/ricezione di informazione. Per uno psicoterapeuta in formazione, la lettura di un libro o l’ascolto dei contenuti relativi a una certa unità didattica proposta da un formatore nell’ambito di una lezione frontale sono operazioni istruttive che possono fornire informazioni preziose circa una certa mossa da fare in psicoterapia o, più in generale, in questa o quella attività professionale; e che possono esercitare il pensiero rigoroso. In maniera isomorfica, per

uno psicoterapeuta, rispondere alle domande o alle richieste di consigli di un paziente è operazione istruttiva che può fornire informazioni preziose circa le mosse da fare in questa o quella circostanza della vita; e che può esercitare il pensiero rigoroso.

Coltivare, facendo ricorso alla finalità introversa, l’azione processuale e lo ‘stato’ mentale in connessione col quale essa può forse più facilmente nascere - vale a dire il pensiero vago - è lavoro che non attiene alla singola ‘mossa’ fatta bene o fatta male, ma piuttosto al come condursi nella propria attività professionale e nella vita in generale: con quale ‘postura mentale’ – lavoro, questo, che attiene dunque a una classe di mosse o comportamenti. Si tratta cioè di quel genere di perfezionamento di un’azione adattativa che risponde al nome di calibrazione e che attiene alla formazione personale. Bateson, rifacendosi a Horst Mittelstaedt (1958), vi fece riferimento insieme all’altro genere possibile di perfezionamento di un’azione adattativa, la retroazione, e illustrò la differenza fra questi due processi proponendo l’esempio della carabina e dello schioppo. Il tiratore fa ricorso a operazioni cognitive diverse quando usa l’una o l’altra di queste due armi. Quando usa la carabina egli prende la mira guardando attraverso il mirino, nota l’errore di mira, lo corregge, creandone forse un altro, a sua volta da correggere, e così via, fino a quando non è soddisfatto. A quel punto preme il grilletto e spara. L’autocorrezione è compiuta all’interno della singola azione di sparare. Questa è retroazione. Quando usa lo schioppo invece, per esempio per sparare a un uccello in volo, egli non ha il tempo per correggere e ricorreggere la mira. In questo caso compie un calcolo sulla base di un aggregato di informazioni che riceve dagli organi di senso, e in seguito a questo calcolo preme il grilletto e spara. Non ha possibilità di autocorrezione all’interno della singola azione. L’autocorrezione deve essere compiuta su una classe di azioni. L’esercizio e la pratica ripetuta dell’azione gli consentiranno di correggere l’assetto dei nervi e dei muscoli, di modificare la posizione e il coordinamento di mani, occhi e cervello in modo da avere una prestazione automaticamente ottimale al momento opportuno. Questa è calibrazione. L’informazione cui il tiratore fa ricorso nei due casi è di tipo logico differente. Quando usa la carabina, infatti, egli sfrutta le notizie relative a un errore in un unico evento. Quando usa lo schioppo fa invece riferimento alla classe o alle classi di errori commessi in molteplici esperienze nel corso del tempo. E la classe, come sappiamo, appartiene a un tipo logico superiore rispetto all’elemento (Bateson G., 1979, pp. 258-60; Bateson G., Bateson M.C., 1987, pp. 71-74).

Poiché un modo di essere è espresso da una classe di comportamenti e si incarna in una classe di comportamenti, il lavoro fondato sulla finalità introversa – che mira a cambiare il proprio modo di essere - può essere considerato, dal punto di vista della correzione degli errori, un lavoro di calibrazione o ricalibrazione del sé. In questo genere di lavoro non c’è un obiettivo esterno da raggiungere, proprio come nel caso del tiro con l’arco inteso come via per avvicinarsi allo Zen: “Il tiro con l’arco non mira […] in nessun caso a conseguire qualcosa d’esterno, con arco e freccia, ma d’interno e con sé stesso” (Herrigel E., 1948, pag. 21). Il bersaglio da colpire, in questo caso come più in generale nel caso della ricalibrazione del sé, è dunque, possiamo dire, un bersaglio interno.

Questa prospettiva, quella dell’‘allenamento’ dello psicoterapeuta ad assumere una certa ‘postura mentale’ – più della prospettiva dell’acquisizione di una certa ‘istruzione’ – è fondamentale nei processi di formazione alla psicoterapia. Allo stesso modo, questa prospettiva è fondamentale nell’aiutare uno psicoterapeuta che, già formato ed esperto, senta il bisogno, in alcune fasi della sua evoluzione professionale e personale, di chiedere un aiuto per il ripristino di una postura mentale divenuta difficile o impossibile da mantenere; si tratta, in casi di questo genere, di un lavoro di calibrazione o ricalibrazione del sé richiesto e fornito in chiave di manutenzione/cura del sé professionale e personale.

 

  

1.4  La supervisione come pratica sistemica

 

Nell’ambito della formazione alla psicoterapia, la supervisione può essere considerata come uno strumento fondamentale del processo o – meglio – come un sottoprocesso del più ampio processo della formazione, fondamentale sia nella prospettiva della trasmissione/ricezione di informazioni, sia nella prospettiva della formazione personale, che è – quest’ultima – peraltro profondamente intrecciata con la prospettiva della cura/manutenzione di sé (prospettive, tutte queste, fra loro distinte ma non separate e tutte adottabili nell’ambito di un percorso di supervisione).

I diversi aspetti della supervisione sono fra loro strettamente intrecciati e sono tutti importanti, sia per i professionisti in formazione sia per i professionisti già formati. Vorrei tuttavia dedicare un’attenzione particolare a quell’aspetto della supervisione che attiene alla calibrazione o ricalibrazione del sé e che è volto all’assunzione o alla riassunzione di una postura mentale adatta al condursi in maniera appropriata nell’attività professionale e nella vita più in generale.

Per uno psicoterapeuta che si ispiri all’ecologia della mente la postura mentale deve essere tale da consentirgli di non perdere di vista la natura cibernetica dell’io e del mondo; tale da consentirgli, in altri termini, di non smarrire la possibilità di cogliere l’unità e l’inseparabilità del mondo del processo mentale e di sentirsi, dunque, parte di un tutto più ampio che lo comprende.

Esistono pratiche che possono facilitare l’acquisizione o il ripristino della sensazione di essere parte di un tutto più ampio. Si tratta di pratiche connettive o riconnettive, che possiamo chiamare pratiche sistemiche proprio in quanto connettive o riconnettive. Fra queste Bateson ha indicato la contemplazione, anche esplicitamente accomunandola talvolta con la meditazione: “Vedete, ci sono altri rimedi, oltre alla meditazione, e uno di essi è la contemplazione del mondo vivente” (Bateson G., 1991, pag. 410). Meditazione e contemplazione non rappresentano tuttavia le uniche indicazioni di Bateson. Al termine del saggio ‘Effetti della finalità cosciente sull’adattamento umano’ (Bateson G., 1972, pp. 480-87) egli propose infatti un vero e proprio elenco di ciò che può fungere da correttivo rispetto alla separazione generata dalla finalità cosciente.

In questo elenco egli incluse l’amore, le arti figurative, la poesia, la musica, le lettere, il contatto con gli animali e con la natura in genere, la religione. Credo che, per la capacità di facilitare la riconnessione fra il dentro e il fuori, a integrare le proposte di Bateson potremo a pieno titolo aggiungere la danza, alcune arti marziali come il tiro con l’arco, il kendo, il tai chi, il judo e l’aikido, alcune altre pratiche orientali come l’ikebana e la cerimonia del tè e, infine, il gioco.

Il processo della supervisione - che sto qui descrivendo in chiave di ecologia della mente - è centrato sulla ricerca e sull’esplorazione delle interfacce. ‘Interfaccia’ è termine usato da Gregory Bateson “per indicare confini di sistemi definiti da scambi di informazione e da cambiamenti di codifica, piuttosto che per indicare delimitazioni come la pelle” (Bateson G., Bateson M.C., 1987, pag. 315). Le interfacce sono i ‘luoghi’ del processo stocastico o, più in generale, dell’interazione sistemica, ‘luoghi’ che insieme distinguono e connettono il dentro e il fuori, e che asseriscono identità e, insieme, appartenenza al tutto più ampio. Vi propongo dunque, per questo motivo, che quella che sto qui descrivendo come una supervisione connettiva o riconnettiva possa essere considerata come una pratica sistemica e che possa dunque essere inclusa nell’elenco delle pratiche sistemiche sopra riportato. 

La postura mentale coltivata da una supervisione che abbia carattere connettivo - una postura mentale, lo ripeto, che consenta a uno psicoterapeuta di non perdere di vista la natura cibernetica dell’io e del mondo e che gli consenta dunque di sentirsi parte del tutto più ampio che di volta in volta lo comprende, a partire dal piccolo ‘tutto’ che lo comprende insieme al suo paziente - implica (ed è implicata da) una pronta disposizione all’umiltà, all’attenzione e alla sollecitudine.

Con l’espressione ‘pronta disposizione’ possiamo fare riferimento ad abitudini di percezione, pensiero e azione che, in quanto abitudini, sono automatizzate, inconsapevoli e acquisite in forma durevole. Negli scritti di Gregory Bateson, espressioni quali ‘premessa’, ‘predisposizione’, ‘deuteroapprendimento’, ‘potenziale non impegnato di cambiamento’, ‘domanda implicita’ possono essere considerate, in buona sostanza, come sinonimi di ‘pronta disposizione’.

  

 

1.5  Coltivare umiltà

 

Il fatto stesso di chiedere una supervisione - a prescindere dal fatto che la supervisione si ispiri o no all’ecologia della mente - per un verso richiede umiltà e per l’altro la coltiva.

Una supervisione che si ispiri all’ecologia della mente, inoltre, costitutivamente e in maniera particolare coltiva umiltà. Uno dei capisaldi della teoria della mente immanente nel paradigma epistemologico batesoniano, riguarda, infatti, la differenza fra mappa e territorio, ovvero l’asserzione dell’impossibilità di acquisizione diretta di informazioni e la conseguente inevitabile distanza fra la percezione e ciò che è percepito (Bateson G., 1979, pp. 47, pp. 149-54; v. anche Madonna G., 2003, pp. 95-99; Madonna G., 2010, pag. 147-51; Madonna G., Nasti F., 2015, pp. 40): “il processo di codificazione o rappresentazione che sostituisce ai porci e alle noci di cocco le idee corrispondenti è già un passo, anzi un salto notevole, nella gerarchia dei tipi logici. Il nome di una cosa non è la cosa e l’idea di porco non è il porco” (Bateson G., 1979, pp. 251). La consapevolezza dell’inevitabile distanza fra la percezione e ciò che è percepito coltiva l’assunzione di una postura mentale di tipo costruttivista, che implica ed è implicata dall’assunto relativo all’impossibilità di percepire il mondo esterno in maniera oggettiva ed esaustiva e dal conseguente ridimensionamento della valutazione della propria efficacia percettiva.

La postura mentale costruttivista coltiva dunque, a sua volta, il valore dell’umiltà e da questo valore è coltivata (e sostenuta); ed è questo che rende una supervisione che si ispiri all’ecologia della mente costitutivamente e particolarmente adatta a coltivare umiltà: l’umiltà di cui lo psicoterapeuta ha bisogno per poter considerare il suo paziente capace di insegnargli qualcosa circa i processi del proprio ammalarsi e del proprio guarire e per poter essere, così, rispettoso e non arrogante nella relazione con lui; e, in maniera isomorfica, l’umiltà di cui il supervisore ha bisogno per poter considerare l’allievo o il collega che gli chiede aiuto capace di insegnargli qualcosa circa i processi del proprio apprendimento, delle proprie lacerazioni e delle proprie riconnessioni e per poter essere, così, rispettoso e non arrogante nella relazione con lui.

 

  

1.6  Coltivare attenzione

 

Proprio perché orientata a una postura mentale di tipo costruttivista una supervisione che si ispiri all’ecologia della mente coltiva attenzione. Chi assume una postura mentale di tipo costruttivista sa, infatti, di non poter percepire il mondo intorno a sé in maniera obiettiva ed esaustiva; presta allora al mondo intorno a sé molta attenzione: un’attenzione volta a sopperire, per quanto possibile, al costitutivo deficit di informazione implicato dai limiti dei propri sistemi percettivi. E siccome una supervisione che si ispiri all’ecologia della mente comporta inoltre l’adozione del metodo della descrizione doppia e della sua logica combinatoria, l’attenzione coltivata in un processo di supervisione ispirato all’ecologia della mente sarà un’attenzione complessa, risultante dalla combinazione di due diversi tipi di attenzione.

Possiamo denominare il primo tipo di attenzione coltivata in un tale processo di supervisione attenzione estroversa. Si tratta di un’attenzione rivolta al mondo esterno e volta a cogliere differenze ‘aguzzando’ i sensi per realizzare acuità percettiva; si tratta, in altri termini, di un’attenzione volta a cogliere, del mondo esterno, quel che può essere colto con la percezione sensoriale per ricavarne informazione, anche piccoli particolari che possano rappresentare indizi di significati ampi. La percezione sensoriale è il tipo di percezione che prevede un coinvolgimento diretto degli organi di senso, che ricevono differenze e creano notizie di differenze (Madonna G., 2010, pp. 182).

Possiamo denominare il secondo tipo di attenzione coltivata in un processo di supervisione ispirato all’ecologia della mente attenzione introversa. Si tratta di un’attenzione rivolta al mondo interno e volta a cogliere somiglianze ‘socchiudendo’ i sensi per realizzare ampiezza percettiva; si tratta, in altri termini, di un’attenzione volta a cogliere, del mondo esterno, quel che può essere colto con la percezione estetica per ricavarne informazione, rendendo il mondo interno luogo di conoscenza dell’altro e del mondo esterno più in generale. La percezione estetica è il tipo di percezione che non prevede un coinvolgimento diretto degli organi di senso e in cui è l’ecologia delle idee di chi percepisce che funge da organo di senso (Madonna G., 2010, pp. 183-88).

L’alternanza ripetuta di attenzione estroversa e attenzione introversa allestisce le condizioni per la combinazione dei due tipi di attenzione nonché dei prodotti dei due tipi

di percezione a tali tipi di attenzione connessi. I prodotti della percezione sensoriale sono le immagini costruite secondo le modalità dell’organo di senso corrispondente (Madonna G., 2010, pp. 192); i prodotti della percezione estetica sono i fenomeni fondati sull’asserzione o ingiunzione di somiglianza, quali cogliere isomorfismi, provare empatia e cogliere metafore (v. ibid. pp. 189).

L’alternanza ripetuta di attenzione estroversa e attenzione introversa genera un’attenzione complessa, di ordine superiore, che possiamo denominare attenzione fluttuante multifocale e che – riconnettendo il dentro e il fuori, il mondo esterno e il mondo interno, chi percepisce e chi è percepito – genera conoscenza complessa e consente, inoltre, il monitoraggio dell’andamento delle relazioni in corso (che attiene al processo dell’emozione - v. Madonna G., 2010, pp. 254-67) e la possibilità, nelle relazioni in corso, di ‘esserci’, assumendosi la responsabilità di sé e dell’altro.

L’attenzione fluttuante multifocale è quella di cui lo psicoterapeuta ha bisogno per poter diventare del suo paziente - per usare le parole di Carl Whitaker – il temporaneo ‘genitore affidatario’ (Whitaker C., 1989, pp. 61) e per potere, allo stesso tempo, prendersi cura della propria postura mentale e realizzare una buona ‘manutenzione’ di sé; in maniera isomorfica, l’attenzione fluttuante multifocale è quella di cui il supervisore ha bisogno per diventare, del suo allievo o del collega che gli chiede aiuto, il temporaneo ‘genitore affidatario’ e per potere, allo stesso tempo, prendersi cura della propria postura mentale e realizzare una buona ‘manutenzione’ di sé.

  

 

1.7  Coltivare sollecitudine

 

Una supervisione che si ispiri all’ecologia della mente, infine, coltiva sollecitudine. Trovo per questo la relazione di supervisione persino commovente. È una relazione che mi fa venire in mente l’immagine di un essere umano che curva la schiena per prendersi cura di un altro essere umano che curva la schiena per prendersi cura di un altro essere umano: una situazione che trasuda grazia. Uso qui il termine ‘sollecitudine’ nel senso estensivo di ‘cura affettuosa e premurosa’, la cura, cioè, che si rivolge a chi sta a cuore, a chi si vuole bene.

Ci stiamo imbattendo, qui, nel tema dell’amore, un argomento scivoloso – soprattutto in relazione all’esercizio delle professioni di cura – che tuttavia non possiamo eludere; e sul quale, per fortuna, possiamo riflettere a partire dall’insegnamento di Gregory Bateson, che, oltre quarant’anni fa, prevedeva la possibilità che, di lì a qualche anno, l’amore – che insieme ad altri temi importanti è stato tradizionalmente escluso dall’attenzione delle persone di scienza – sarebbe potuto divenire oggetto di riflessione scientifica: “Il bello e il brutto, il letterale e il metaforico, il sano e il folle, il comico e il serio... perfino l’amore e l’odio, sono tutti temi che oggi la scienza evita. Ma tra pochi anni, quando la spaccatura fra i problemi della mente e i problemi della natura cesserà di essere un fattore determinante di ciò su cui è impossibile riflettere, essi diventeranno accessibili al pensiero formale” (Bateson G., Bateson M.C., 1987, pag. 102).

Da quella previsione di Bateson sono trascorsi ben più di ‘pochi anni’ e la ‘spaccatura fra

i problemi della mente e i problemi della natura’ non ha purtroppo ancora cessato di essere un fattore determinante di ciò su cui è possibile riflettere. Credo, tuttavia, che i tempi possano essere considerati ormai maturi per iniziare a riflettere sull’amore, a partire da una definizione ‘sistemica’ di amore che lo stesso Gregory Bateson propose a Burg Wartenstein, in Austria, in occasione di un convegno Wenner-Gren: Considero me stesso come un sistema, fatto al quale do una valutazione positiva, preferendo essere un sistema piuttosto che disgregarmi e morire; considero la persona che amo come un sistema, e ritengo che il mio e il suo sistema insieme formino un sistema più grande avente in sé un certo grado di armonia” (Bateson G., Bateson M.C., 1987, pag. 287).

Trovo questa definizione illuminante per come riesce a descrivere in maniera semplice, ma senza sacrificarne la complessità, la diffusione dei confini dell’io che caratterizza le persone innamorate (‘innamorate’ in senso lato).

La diffusione dei confini dell’io delle persone innamorate comporta il fatto che esse tendano a perdersi l’una nell’altra o, comunque, nel ‘sistema più grande avente in sé un certo grado di armonia’. Ora, le persone innamorate possono amare in maniera più o meno stabile e più o meno intensa, e possono amare ‘porzioni’ più o meno estese del mondo ‘esterno’. Esse, tuttavia, vanno incontro, in ogni caso, alla diffusione dei confini dell’io e dunque a sentirsi più probabilmente e più facilmente parte di un tutto più ampio.

Credo, tuttavia, che esplicitare ed evidenziare la dimensione del desiderio nella definizione ‘sistemica’ o, per dir meglio ancora, ‘ecologica’ dell’amore possa rappresentarne un utile sviluppo e propongo pertanto di considerare l’amore come pronta disposizione alla connessione armonica, soggettivamente esperita come desiderio di connessione armonica.

Per la sua natura transcontestuale, che comporta l’attraversamento di interfacce sistemiche, l’amore (la pronta disposizione alla connessione armonica) è in una relazione di reciproca generazione con l’assunzione di un’epistemologia sistemica: la pronta disposizione alla connessione armonica genera percezione e pensiero sistemico e questi ultimi generano pronta disposizione alla connessione armonica. Questa relazione speciale di reciproca generazione rende l’amore da un lato e la percezione e il pensiero sistemico dall’altro una sorta di raddoppiamento soggettivo. Forse per questo Gregory Bateson non solo incluse l’amore nell’elenco di quelle che sto chiamando pratiche sistemiche (v. 1.4), ma lo indicò, addirittura, come la più importante fra esse: “È opportuno ricordare (…) alcuni dei fattori che possono fungere da correttivi; campi dell’azione umana che non sono limitati dalle anguste distorsioni dell’accoppiamento tramite la finalità cosciente e dove può manifestarsi la saggezza (…) di questi, senza dubbio, il più importante è l’amore” (Bateson G., 1972, pag. 487). In questo senso possiamo forse considerare l’amore come la pratica sistemica per eccellenza e le pratiche sistemiche in generale come pratiche d’amore.

Se i tempi sono maturi per iniziare a riflettere sull’amore in generale, sono maturi pure per iniziare a riflettere, in particolare, sull’amore in relazione alla psicoterapia e alla formazione alla psicoterapia, con particolare riferimento alla supervisione: è questo che maggiormente ci interessa in questa sede. Con l’amore inteso nel senso – sopra richiamato - di ‘sollecitudine’ ha certamente a che fare – e in maniera dichiarata – l’approccio alla psicoterapia di Carl Whitaker, il grande psicoterapeuta che da tempo  vado accostando all’epistemologia batesoniana (Madonna G., 2003, pp. 35-45) e il cui lavoro può essere considerato come una sorta di declinazione clinica dell’ecologia della mente: “Alcuni psicoterapeuti si pongono continuamente domande del tipo: ‘Sono troppo seduttivo?’, ‘Mi sto identificando eccessivamente?’, ‘La mia patologia sta interferendo?’ […] Questi psicoterapeuti ripetono essenzialmente il vecchio cliché: ‘L’amore non basta’, mentre la domanda dovrebbe essere: ‘C’è abbastanza amore?’ ” (Whitaker C., 1989, pag. 91). L’amore non basta, infatti, ma c’è bisogno di amore.

Se l’amore inteso nel senso di ‘sollecitudine’ ha a che fare con una psicoterapia ispirata all’ecologia della mente, esso – in maniera isomorfica - ha a che fare pure con una formazione e in particolare con una supervisione ispirata all’ecologia della mente. In 1.4 ho affermato che, in chiave di ecologia della mente, la supervisione, in quanto processo che aiuta lo psicoterapeuta a sentirsi parte di un tutto più ampio che lo comprende, assume i connotati di una pratica sistemica, ovvero di un esercizio che può fungere da correttivo della diffusa tendenza a dicotomizzare in generale e dunque anche a separare noi stessi dal tutto più ampio che ci comprende.

 

Coltivare sollecitudine – sia la sollecitudine dello psicoterapeuta per il paziente, sia la sollecitudine del supervisore per lo psicoterapeuta –, è aspetto costitutivo di una supervisione intesa come pratica sistemica, e dunque come pratica d’amore: curvare la schiena per prendersi cura di un altro essere umano che curva la schiena per prendersi cura di un altro essere umano.

  

 

Bibliografia

 

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