Riflessioni Sistemiche n° 24


Educazione e Formazione:
livelli, problemi e prospettive

Le persone del manicomio.
Appunti autobiografici delle mie esperienze di bambina nell'Ospedale Psichiatrico di Cogoleto


di Francesca Pisseri

Medica veterinaria a orientamento sistemico, agroecologa

Con commenti di

Maurizia Benedetti

Psichiatra, Psicoterapeuta, membro e docente Ist. It. per la Ricerca e l'Insegnamento della Psicoterapia Intensiva Dinamica Breve di H. Davanloo

Simona Baratti,

Coordinatrice pedagogica di servizi educativi per l'infanzia

Sommario
L’Autrice rievoca l’infanzia vissuta come figlia di medico dentro un manicomio, un contesto ricchissimo di meta-messaggi che hanno potentemente contribuito alla sua formazione come persona. Il testo è commentato da una psichiatra che ha lavorato nello stesso ospedale e da una educatrice.


Parole chiave
apprendimento contestuale, scrittura autobiografica, comunicazione sistemica.


Summary
The Authoress evokes her childhood as a doctor’s daughter in a Psychiatric Hospital, a very rich of meta-messages context that potently contributed to her education as a person. The text is commented by a psychiatrist who worked in the same period in the same Hospital and by an educator.


Keywords
contextual learning, autobiografic writing, systemic communication

 

Le immagini che arrivano subito alla mente sono i viali, il sole, le piante, i luoghi segreti, gli orti, e i loro occhi, gli sguardi dei “malati”.

Il manicomio di Cogoleto era un luogo cintato da mura, che comprendeva padiglioni, 21 per l'esattezza, larghi viali, aiuole, alberi, campagna. Nell'entroterra ligure, in una frazione chiamata Pratozanino (da: prato di Giovannino), da cui si vede il mare e il monte Beigua.

Al manicomio si accedeva tramite una portineria, una larga stanza con un piccolo ufficio delimitato da vetri dove stava il portinaio, con cui potevamo fare due chiacchiere, o chiedere qualunque informazione. In portineria stava il telefono a gettone, e quindi i primi anni andavamo lì a fare le telefonate all'esterno.

La portineria e il grande cancello dividevano il “dentro” dal “fuori”: tutti noi, pazienti, medici, cittadini di Pratozanino, usavamo queste parole per indicare da un lato l'Ospedale Psichiatrico e dall'altro tutto quello che stava all'esterno.

In casa avevamo il “telefono interno”, i numeri erano costituiti solo da 3 cifre, con quello potevamo chiamare i medici, la portineria, i padiglioni.

Le case dei medici erano in un grande palazzo adiacente alla portineria, appartamenti grandi, luminosi, bellissimi.

Eravamo un piccolo gruppo di bambini, figli di medici, e giravamo liberi sia per la frazione di Pratozanino, sia all'interno del manicomio, con le biciclette o anche a piedi.

Incontravamo molti ricoverati, che chiamavamo “i malati”, diverse volte in una giornata.

Papà era basagliano e quindi la nostra famiglia aveva con i pazienti relazioni più strette rispetto alle famiglie di psichiatri più conservatori, a volte venivano al cinema con noi in paese, e li invitavamo a casa a bere un caffè.

Ricordo il grande viale di ingresso del manicomio, che iniziava dopo il cancello, ricordo il sole e i fiori, ricordo i visi dei ricoverati, a volte ci guardavamo negli occhi, a volte non volevano guardarci o lo sguardo era vuoto, assente. Alcuni di loro facevano smorfie, o ripetevano parole o frasi, si muovevano molto piano o in modo ripetitivo, voci e gesti a volte erano sincronizzati in una emozione, a volte no.

Gli spazi del manicomio erano amplissimi, dagli ingressi dei padiglioni alle porte e finestre larghe e alte, come se al manicomio avessero vissuto persone di grandi dimensioni.

I suoni del manicomio: ricordo voci nasali, a volte un suono che faceva fatica a uscire dalla bocca e quindi prendeva la via del naso, e risuonava nella testa, diventando forte e stordendo quasi chi ascoltava; altri muovevano bocca e lingua producendo suoni gutturali o acuti, e la saliva colava ai lati della bocca; a volte mi dispiaceva, pensavo che volessero parlare e non ci riuscissero.

E i bambini del padiglione 10: erano chiusi dentro, vedevamo i loro visi dai vetri, molti urlavano, ricordo urli rochi, ritmici, ripetuti. Ricordo, ancora viva, la sofferenza, la sento ancora nello stomaco. I bambini del 10 con il viso contratto, le lacrime spesse, appiccicose, sul viso e sugli occhi, dietro quelle vetrate fatte a quadratini, sono felice di ricordarvi.

C'erano dei suoni che venivano emessi a lungo, un “mmmmmmmmm” seguito da una vocale che le conteneva tutte, e che magari finiva in una risata appena accennata.

Gli urli degli adulti: acri, con eco infinite, che restavano nell'aria, come se nulla potesse contenerli, urli che cercavano qualcosa.

Gli odori del manicomio: al chiuso c'era odore di pulito, di stanza chiusa, di ospedale, mescolato ai fiati dei pazienti, fiati a volte emessi con forza dalle bocche spalancate, fiati non sgradevoli, né gradevoli, odore di persona, a volte di saliva stantia, saliva che restava troppo in bocca senza venire deglutita.

I movimenti dei pazienti: a volte a scatti, a volte lenti, spesso ripetitivi, in qualche modo ricordavano un ritmo, in qualche modo erano consolanti, credo di avere imparato da loro che il ritmo è consolante, che il movimento è consolante.

Credo anche di avere imparato quanto è importante il momento presente, quanto può essere pervasivo e lunghissimo, quanto il senso del tempo sia variabile.

Ricordo quanto fosse autentico il modo di essere e di esprimersi, quanto fosse faticoso, ma al tempo stesso vero. Quanta coerenza ci fosse tra il sentire, il pensare, e la loro espressione.

E c'era per loro la vita quotidiana, andare a passeggio nei viali, al bar, lavorare nei campi o dentro gli orti e i pollai, lenta, con un tempo che durava in modo interminabile.

A volte ci fermavamo a chiacchierare con i pazienti sui viali, e qualcuno chiedeva due soldini, o altre cose, e anche se non potevi accontentarlo continuava a chiedere.

Molti pazienti potevano uscire e andare giù in paese, a Cogoleto, anche prima della Legge Basaglia. Io li vedevo divertirsi, a prendere la corriera e andare in giro per il paese, i paesani per lo più li evitavano. Tutti li chiamavano “i matti”, a noi in casa avevano insegnato che quella parola non andava usata.

C'era la Liliana, era tra quelli che potevano uscire, giovane, piena di corteggiatori, prepotente e comandava tutti. Stava sempre accanto alla portineria, era il suo luogo di comando.

C'erano Stagni, e Delfino, che dopo la Legge Basaglia diventarono i nostri vicini di casa, affettuosi e gentilissimi, Stagni faceva fatica ad articolare le parole, ci metteva tanto tempo a parlare, ma dagli occhi capivi che stava bene con te, che era contento, oppure se era a disagio perchè si vergognava di qualcosa. Avvertivo che spesso erano contenti.

Gli occhi di Stagni, di Delfino (perchè li chiamavamo per cognome?), occhi che si posavano nei miei, senza cercare, senza indagare, ma con la pura semplicità del contatto.

Un contatto che poi ho sempre ricercato, dello stare, del condividere qualcosa, o anche nulla, solo un puro contatto.

Io credo che loro mi abbiano insegnato tanto sulla comunicazione, sui segnali. Alcuni avevano delle potenzialità espressive incredibili, anche senza parlare entravi con loro in un mondo colorato e dinamico, divertente e appassionante.

Ho imparato qual modo di entrare in relazione: semplice, sciolto, libero, poco condizionato dagli schemi. Quel modo, credo, ha contributo a rendermi una donna libera, in quanto seguo il sentire, il contatto con le cose e le persone, più che gli schemi. Credo di essere anche vulnerabile, per questo.

Le bocche di alcuni erano spesso sorridenti, o un poco aperte quando c'era quella emozione mutevole o indefinita; a volte cattive, arrabbiate, e io potevo solo assistere, non c'era nulla che potessi fare. Mai ho percepito un pericolo per me o gli altri bambini, ma solo per loro stessi nei confronti di se stessi.

Alcuni non si potevano capire né sentire, Bianca, per esempio, una ragazza giovane, adolescente, il viso pallido, gli occhi cerchiati di grigio, i lineamenti come congelati, lo sguardo fisso davanti a sé. Suonava a casa nostra, mamma le apriva, correva a sedersi a tavola, mamma le dava una menta da bere, lei si teneva con le mani al bordo del tavolo e andava avanti e indietro con il busto, oppure stava immobile, e dopo un po' beveva la menta; io non provavo neppure ad avere uno scambio con lei, ma credo che quei momenti fossero per lei importanti.

Ricordo bene quanto per noi fosse normale avere relazioni con i pazienti, quanto facesse parte della nostra vita, e ringrazio di aver potuto vivere quella esperienza, così ricca e intensa.

Ricordo quanto mi sembrassero strani ed enigmatici, a volte, i medici, non riuscivo a capire cosa volessero dire, non capivo alcuni gesti, alcune espressioni. Alcuni impostavano i loro modi per dimostrare autorevolezza, altri parlavano in modo affrettato, interrotto, uno faceva un giro su se stesso ogni volta che doveva aprire una porta.

Mi trovavo bene con le mogli dei medici, e con la farmacista, e con l'unica giovane psichiatra donna.

Le piante erano mie amiche: le siepi di pitosforo ben curate con la loro barriera verde, le acacie, i pini marittimi, i ciliegi e gli amareni. Ricordo alberi sani, con foglie perfette e verdissime, che arrossivano e ingiallivano in autunno, per essere poi perse e rimesse in primavera.

 

 

Maurizia Benedetti 

Ho conosciuto Francesca al tavolo della mia sala da pranzo. Donna viva, molto, dagli occhi luminosi, la parlata schietta. Raccontava alcuni suoi brevi e nitidi ricordi con i pazienti dell’Ospedale Psichiatrico di Cogoleto, in Liguria. Incontri ravvicinati, fra lei bambina e questi “matti” che giravano per l’Ospedale, con cui lei aveva rapporti quotidiani, di scambio, informali, fuori dalle regole.

Da quegli incontri aveva tratto nutrimento per la vita, per la sua professione, per il suo essere donna, medico-veterinaria, sistemica. La osservavo, con accanto suo figlio. Un figlio vivace, intenso, curioso e incuriosente.

Sapevo da tempo della sua storia di bambina cresciuta all’interno di quell’ospedale, nel periodo in cui gli psichiatri vivevano ancora nella struttura, in abitazioni separate. Mi ero sempre chiesta che vita potesse essere stata. Io lo avevo conosciuto quello stesso Ospedale Psichiatrico, ma come giovane studentessa di medicina prima e come psichiatra visitatrice poi. Mi si erano chiusi lo stomaco e i sensi per il dolore la prima volta che vi ero entrata.

Francesca invece parlava serenamente dei suoi ricordi. Di Bianca, spesso ospite a casa loro, alla loro tavola. Le era rimasta nella memoria e nel cuore. L’importanza dell’accoglienza, anche senza parole. Il dondolio ritmico del corpo della giovane ricoverata come pratica consolatoria, quando il corpo e l‘anima sono congelati. L’esperienza “ricca, intensa, colorata” di entrare in contatto con mondi diversi.

E così la mia curiosità, a saperne di più. Un invito a scriverne. E poi una promessa a scriverne insieme. 

Sono rare le memorie dei bambini cresciuti all’interno degli Ospedali Psichiatrici. Per me era anche insolito un ricordo sereno di quel luogo.

Ne è nato questo splendido racconto, fatto di osservazioni senza sbavature. Non c’è il grigio. E’ una storia in bianco e nero. I toni sono forti, chiari. Le emozioni precise. E’ la rivisitazione di una donna adulta.   

 

Voglio ora ricordare solo alcuni punti, quelli che forse più hanno fatto eco dentro di me, che ho visto quegli stessi luoghi in quegli stessi anni, da adulta, da medico in visita. Con alcune mie riflessioni.

Le mura, il cancello, il “dentro e il fuori” sono l’entrata verso un tempo diverso, un tempo separato, un tempo in cui i pazienti venivano chiamati gli alienati. Ma qui la memoria di Francesca ci accoglie con i viali, il sole, le piante. La natura viva.

Passiamo attraverso appartamenti “grandi”, quelli dei medici, bellissimi.

Padiglioni dagli stanzoni immensi sono invece quelli dei ricoverati: “fuori misura, per giganti”.

Francesca ci mostra due spazi, uno spazio raccolto, a misura, dove si accoglie e si condivide. Con-divisione, parola straordinaria: vale a dire lo stato di grazia di poter stare insieme mantenendo la propria individualità.

Di valore opposto è quel secondo spazio enorme, smisurato, che non permette di prendere le misure, ma che dilata e fa perdere i confini.

E qui mi torna alla mente il mio primo ingresso in uno di quegli stanzoni. Reparto uomini. Immenso. Mucchietti di corpi s-finiti, senza i confini dell’individualità, sdraiati per terra, grigi nell’uniforme. O dondolanti su se stessi. Una dottoressa vestita in modo provocante: una calzamaglia aderente e solo un lungo maglione sopra. Noi giovani donne che entriamo, un piccolo gruppo, in un luogo con il tempo sospeso, dove sembra che nessuno mai si avvicini. Non uno sguardo si è alzato. Non un attimo di curiosità e di vita, in quei corpi. Luogo dove disperdersi e perdersi.

 

E poi i suoni. Francesca non parla di voci, ma di suoni. E della consuetudine ad ascoltare chi voce non ha e a stare vicino a chi non ha schemi. L’attenzione alla comunicazione, ai segnali. Nel contatto.

E anche a vedere chi è chiuso dietro le vetrate, come i bambini del padiglione 10. Francesca “è felice di ricordarli”, per dare loro memoria. Memoria a quei piccoli che non hanno diritto a essere condotti fuori dalle mura, per le salite e le discese della vita.

E qui di nuovo il mio ricordo, di quegli stessi bambini del padiglione 10.  Cadevano per terra alle prime aperture del padiglione. A causa delle piccole discese, troppo ardue per loro, abituati ad andare solo in piano.

La descrizione dell’allegria. Una Liliana libera, prepotente, corteggiata, che aveva il permesso di uscire. Mi viene in mente un mio ballo, un valzer, con un assistito, alle prime aperture del manicomio. Molta gente, medici, ricoverati, infermieri, gente comune. Allegria. E il mio cavaliere che mi fa volteggiare con un dito puntato dietro la mia schiena, in basso, a sorreggermi e a guidarmi: un senso di timore, in me, anche.

A fare da cornice i genitori. Il padre “basagliano”. La madre, che accoglie in casa chi suona il campanello. La famiglia, che gli assistiti non li chiama matti, ma malati. Per i malati si cercano le cure. Una bambina che può andare in giro, curiosare per le strade protetta dai confini, sapendo che al rientro c’è una casa “bellissima e luminosa”. Questa è una vita vera. Anche nelle favole che finiscono bene c’è sempre la paura, il male, l’ignoto. Da conoscere, per trovare le strategie, per non arrivare impreparati al dolore nel mondo adulto. Per non negare una parte della realtà.

 

Concluderei con un pensiero dedicato al valore della memoria. Il primo che ho avuto, commossa, dopo la lettura di questo testo.

Una piccola che osserva, vive, sente, gioisce, condivide, impara, si addolora. Senza una critica, senza un giudizio. Come attraverso un vetro, o un sogno.

Il sogno procede da sé, non si può intervenire, si può solo sognarlo.

Così lei vive e convive, impara che il ritmo conforta, che le regole si possono invertire. Spettatrice, sente e mantiene nella memoria. Non fa nulla, ma tiene, contiene e mantiene. Trattiene la vita e la libertà espressiva, gli urli muti, il dolore nello stomaco, i volti che guardano o non guardano, le lacrime secche e le piante rigogliose.

Questa descrizione della memoria è straordinaria. Un registratore che non ha perso nulla, che può riprendere i fili, per collegarli, in un momento adulto, in una nuova declinazione.

 

 

Simona Baratti 

I ricordi di Francesca, tra “il dentro e il fuori” del manicomio, ci raccontano di un’infanzia che costruisce i propri saperi e le prime conoscenze della vita nella sua quotidianità. Ci parlano di uno sguardo dell’infanzia attento, sapiente, capace di osservazione acuta e precisa. Come Francesca, i bambini e le bambine amano andare a caccia dei dettagli del mondo, e spesso, attraverso di essi, riescono a mettere a fuoco l’essenza delle cose e le intenzioni dell’altro.

Il racconto è fatto di immagini e visioni, di suoni e rumori, di odori, di materia, di oggetti. E ci mostra quanto i sensi tutti, fin da piccolissimi, sono gli strumenti che abbiamo per conoscere il mondo e i suoi infiniti fenomeni. Potremmo dire, infatti, che tutto il corpo è strumento e luogo di conoscenza, una sorta di conoscenza “incarnata”, di cui il corpo stesso conserverà la memoria.

Il manicomio, nel suo spazio interno e nello spazio che lo circonda esternamente, diventa il contesto privilegiato di innumerevoli apprendimenti. Francesca, con il gruppo dei coetanei, è essa stessa parte di quel contesto, con il quale intrattiene molteplici relazioni che la rendono sempre più sicura e donano senso compiuto alle sue esplorazioni.

Credo che questo contesto di vita abbia racchiuso in sé tante possibilità di crescita e di esperienze proprio per il fatto che, come ci racconta Francesca, “giravamo liberi (…) con le biciclette o anche a piedi” e “mai ho percepito un pericolo per me o per gli altri bambini”. Gli adulti di riferimento, in qualche modo, creano una regia efficace: accettano e contemplano eventuali piccoli rischi, in cambio della possibilità dei bambini di fare le proprie esperienze, con libertà e creatività.

Il gruppo di bambini e bambine, di cui Francesca fa parte, diventa un gruppo di esploratori ed esploratrici in una continua ricerca delle cose del mondo e dei loro misteri. Non ultimo il mistero dell’animo umano. Questa è un’opportunità fondamentale nell’infanzia, perché genera curiosità, autostima, capacità di cavarsela con le proprie risorse. In un contesto di questo tipo i bambini e le bambine creano pian piano una loro piccola cultura e una propria mappa per poter esplorare e fare scoperte. 

Il racconto valorizza la possibilità che ha il gruppo dei bambini e delle bambine di conoscere la diversità e l’unicità degli esseri, umani e non umani. Il manicomio è luogo di diversità, la diversità dei “matti” che, negli occhi di Francesca, diventa unicità nel momento in cui in casa si decide di non chiamare in quel modo gli ospiti dell’Ospedale. Ancora una volta, la regia dell’adulto si fa efficace nel sostenere la costruzione di senso e di valore, e nell’evitare stereotipi, paure e luoghi comuni. Certamente, ne deriva uno degli apprendimenti più importanti che si può costruire nell’infanzia: saper accogliere e riconoscere l’unicità dell’altro.

 

Mi piace approfondire anche un altro aspetto dell’esperienza che ci viene raccontata da Francesca: “Le immagini che arrivano subito alla mente sono i viali, il sole, le piante” (…) “le piante erano mie amiche…”. Nelle esperienze dell’infanzia la Natura ha un posto di primo piano. La Natura è spazio, tempo, incontro, attesa. La Natura è mistero, meraviglia ed evento inatteso. In questo senso, essa ha una funzione educativa fondamentale in quanto lo stupore, che essa genera, è un formidabile motore di apprendimento.

La vita del manicomio si intreccia con la vita delle piante, degli agenti atmosferici, degli animali. La Natura non è semplice scenario, ma è essa stessa contesto educante, in continua relazione con ciò che avviene nella vita quotidiana.

Il racconto di Francesca ci conferma che ognuno di noi, fin da piccolo, ha una propria “autobiografia verde”, come ci suggerisce Duccio Demetrio. Nei nostri ricordi dell’infanzia, a ben vedere, troviamo sempre qualche elemento naturale che ha intrecciato la sua esistenza con la nostra, e, spesso, è diventato elemento chiave per creare memoria di qualche episodio accaduto.

La Natura, in questo senso, non è soltanto lo sfondo delle esperienze ma ne è essa stessa materia, oggetto di conoscenza, e chiave per interpretare il reale. Come ci racconta Francesca, la possibilità di vivere e osservare liberamente il continuo cambiamento di alberi, fiori, piante, condizioni climatiche ci educano già nell’infanzia al concetto di trasformazione e di mutamento. Queste esperienze sono davvero preziose perché predispongono fin da piccolissimi ad una connessione intima con la Natura, di cui noi umani, con la nostra unicità, facciamo parte. I contesti di vita, che offrono tale opportunità di accogliere cambiamenti e differenze, sono certamente contesti che possono sostenere la crescita. E, soprattutto, sono occasioni per comprendere quanto, fin da piccoli, siamo immersi in processi fatti di relazioni e di interscambi fondamentali per la qualità della vita.