Riflessioni Sistemiche n° 24


Educazione e Formazione:
livelli, problemi e prospettive

Storia di un mestiere


di Lucilla Ruffilli

Docente di Chimica in pensione, Circolo Bateson di Roma
Co-fondatrice del Laboratorio Epistemologico MUSIS.

Disegno di Massimo Corsetti

Sommario

Una docente di chimica racconta la propria esperienza lavorativa. La nascita del Circolo Bateson di Roma e del Laboratorio Epistemologico. Intervista a Concetta Calabrò, insegnante in una scuola media di Roma.

 

Parole chiave

Insegnante, Ragazzo, Ragazza, Bambino, Bambina, Auto-organizzazione, Sistema dissipativo, Chimica, Vita, Realtà, Epistemologia, Covid 19, Errore, Cura, DAD.

 

Summario

A chemistry teacher narrates her work experience. The birth of the Bateson Circle of Rome and of the Epistemological Laboratory. Interview with Concetta Calabrò, teacher in a secondary school in Rome.

 

Keywords

Teacher, Boy, Girl, Child, Selforganization, Dissipative system, Chemistry, Life, Reality, Epistemology, Covid-19, Error, Care, Distance learning.

 

  

“Ti meno ora o fra un po’?” chiede Concetta, l’insegnante, all’alunno di seconda media, che entra in ritardo.

Il ragazzo, solo un attimo spaesato, si rivolge ai compagni “Raga’ state buoni, che la prof ci porta fuori!”

Una parola che potrebbe destabilizzare un osservatore esterno diventa occasione di un gioco di parole, per gli adolescenti che, leggendo parti della Divina Commedia, hanno imparato il confronto dinamico tra contesti diversi. Il ragazzo di 12 anni sente che il ‘menare’ appartiene alla lingua viva e può essere risemantizzato nel contesto attuale.

Giocare con le parole, renderle nomadi nel tempo. Un rapporto di relazione simmetrica possibile solo se si è disponibili al dialogo e al cambiamento.

La relazione viene prima, una sua buona qualità è la matrice che suggerisce all’insegnante di   proporre frammenti di conoscenza accreditata in una forma ‘di vicinanza’ che permetta   al ragazzo di stare prontamente al gioco, accettando un rapporto culturale con l’adulto.

Ma come mettere le basi di una virtuosa relazione in un processo di insegnamento/apprendimento?

Per me è stato un lungo cammino; scrivere questo articolo mi ha dato occasione per ritrovare nella mia esperienza domande ancora legittime.

Nel 1965, da poco laureata in chimica, sono stata catapultata di nuovo nel mondo della scuola. Questa volta dall’altra parte, non più alunna ma insegnante.

Uno strano mondo dove, mi sembrava, tutto era dato per scontato. C’erano il giuramento sulla Costituzione e le note di qualifica, scomparse nel 1973. Le note, di competenza del Preside e non visibili dagli insegnanti, prevedevano la qualifica insufficiente, scarso, appena sufficiente, sufficiente, buono, distinto, ottimo. Erano vere e proprie ingerenze nella nostra vita. Una insegnante di ruolo poteva essere classificata con insufficiente solo perché conviveva con il compagno.

Quello che dovevo insegnare era scritto nei programmi ministeriali; per facilitare il compito la scuola metteva a disposizione aule, laboratori, strumenti sofisticati e la collaborazione di bravi insegnanti tecnici.

Come doveva essere il rapporto con gli alunni e le poche alunne era chiaro, io insegnavo, loro apprendevano. Per controllare la riuscita del mio lavoro non dovevo fare altro che porre domande, di cui ovviamente sapevo bene le risposte giuste, e scrivere sul registro un voto che attestava quanto lo studente o la studentessa si erano avvicinati alla verità.

Un lavoro così semplice e scontato da non richiedere nessuna preparazione se non quella universitaria della materia che si insegnava. C’erano insegnanti bravi, che sapevano spiegare e trasmettere conoscenza, e insegnanti meno capaci. Sembrava possibile scrivere a grandi lettere nell’ingresso della scuola Qui abita la conoscenza, eppure nessuno avrebbe scritto, per abduzione, nella rampa di ingresso di un garage Qui abita la velocità.

Così mi sono, per così dire, rimboccata le maniche e ho cominciato a insegnare la chimica ai futuri periti chimici.

Percepivo però che il mondo sociale e istituzionale della scuola era più problematico di quanto poteva sembrare.

C’è del vero nel dire che gli insegnanti ripetono sempre le stesse cose, anche se, siamo vivi, ogni ripetizione è ricorsiva, non si torna mai nello stesso punto.

La ripetizione, operazione di grande potenza, da una parte rendeva più oscuro e opaco il senso di quello che insegnavo, (l’oggetto stesso del mio studio e del mio insegnamento era diventato opaco); dall’altra faceva emergere con chiarezza domande di natura epistemologica. Domande con lunghe radici, che affondavano nella mia vita di studentessa, in segrete connessioni nate e ramificate nella relazione tra me e gli altri.

Potrei ora riassumere le mie perplessità nella doppia domanda che ho poi incontrato studiando il pensiero di Gregory Bateson:

Che cos’è un numero, che un uomo può conoscerlo, e un uomo, che può conoscere un numero?

(McCulloch W., citato in Bateson G. 1997, pag. 360)

Nell’insegnare una materia scientifica si disegna a poco a poco una particolare visione del mondo costruita nel tempo dalla comunità degli scienziati, si tramandano modalità di relazione con la natura, strumenti e abitudini di pensiero. Un insieme di conoscenze che hanno portato a un rapido e impetuoso sviluppo del sapere tecnologico.  Nella relazione educativa con gli studenti e le studentesse che incontravo ogni giorno cosa stavo costruendo? Cosa si aspettavano loro da me?

Nel mettere in discussione la loro visione ingenua della realtà, nel discutere e parlare di ‘chimica’, quale forma di conoscenza, quale mondo disegnavo insieme a loro?

Ero consapevole di vivere in un mondo di rapidi e imprevedibili cambiamenti, un mondo complesso dove erano in evoluzione gli stessi presupposti della conoscenza. Il cambiamento stesso era diventato qualcosa di talmente ovvio che si correva il rischio di dimenticare persino che cosa fosse cambiato.

Ma quanto, in un contesto scolastico, si discute dei presupposti, della natura dei modelli e dei metodi scientifici? Quanto nel corso del curricolo lo studente costruisce la capacità di percepire la natura della conoscenza?

Nei laboratori scientifici, a scuola nel triennio di un istituto tecnico, ma anche in altri luoghi come le nostre case, si usavano strumenti sofisticati, strumenti che racchiudevano un sapere scientifico che a scuola non veniva raccontato.  La tecnologia genera nuova cultura, ma nello stesso tempo è essa stessa il prodotto di una nuova cultura.

L’obsolescenza evidente degli strumenti concettuali tramandati nella scuola era contraria al rigore e all’immaginazione, produceva un sapere banalizzante e individui banalizzati, generava un bisogno di certezze mal poste, certezze che né la scienza né la società danno più. 

Scrive Marcello Cini: “Credevamo di vivere in un universo retto da leggi di natura necessarie ed eterne dove sarebbe bastato conoscenza e ragione per progettare e realizzare un futuro sempre migliore. Ci troviamo invece in un mondo di processi evolutivi irreversibili nei quali si intrecciano caso e necessità, dove occorrono soprattutto saggezza, prudenza e solidarietà per far fronte alle conseguenze impreviste delle nostre scelte e per non far ricadere irresponsabilmente sulle generazioni future l’onere dei nostri debiti” (Cini M., 1994, pag. 305)

Ma come coltivare a scuola una respons-abilità, indispensabile a futuri periti chimici nei laboratori di analisi? 

Come praticare insieme una ecologia del fare e del pensare? Mi è venuta in aiuto la teoria degli errori.

La teoria degli errori riguarda la misurazione di grandezze fisiche come la lunghezza, la massa ecc.

Scrive Gregory Bateson “Il numero è diverso dalla quantità. I numeri sono il risultato del contare, le quantità sono il risultato del misurare. Si capisce quindi come i numeri possano essere precisi, poiché tra ciascun intero e il successivo c’è discontinuità: tra il due e il tre c’è un salto. Nel caso della quantità questo salto non c’è, e poiché nel mondo delle quantità mancano i salti, è impossibile che le quantità siano esatte. Si possono avere esattamente tre pomodori, non si possono avere mai esattamente tre litri d’acqua. La quantità è sempre approssimata”. (Bateson G., 1984, pag. 72)

Nelle quinte classi, in laboratorio, si usano apparecchi sofisticati, in grado di rilevare

concentrazioni, per esempio di piombo, dell’ordine del µg/l (un microgrammo è un milionesimo di grammo). Come si decide la correttezza di un dato? Se l’errore è il risultato della differenza tra il risultato di una misura e il valore vero cercato chi mi dice qual è il valore vero?

Per gli studenti e le studentesse strumenti così sofisticati non potevano sbagliare.

Come convincerli che ogni strumento ha un suo limite? Che ogni misura ha un margine di errore, errore dovuto a cause ineliminabili di varia natura, e che l’unica possibilità era accettare questo limite intrinseco e studiarne la teoria?

Una teoria degli errori? Ma l’errore non era qualcosa che a scuola si imparava proprio a correggere e eliminare?

È stata necessaria una lunga discussione per convincere la classe. Una circolare del ministero che segnalava la necessità di studiare in chimica analitica l’incertezza di una misura e il problema dell’affidabilità del risultato, di cui comunque non si poteva conoscere il valore certo, mi ha salvato da un duro scontro con la classe.

Talvolta da un dettaglio impariamo qualcosa di nuovo che mette in discussione le nostre abitudini di pensiero. Quella discussione sull’errore mi ha convinta della responsabilità di avere cura del pensiero sul mondo di quella parte delle nuove generazioni che mi era stata affidata.

Così la teoria degli errori è diventata per noi in classe uno strumento per pensare, per riflettere sui limiti della conoscenza, dialogare con le incertezze e affrontarle.

Nei libri di testo la chimica era definita come la scienza delle trasformazioni, ma poi questi stessi libri raccontavano una chimica più di oggetti che di processi, proprietà oggettive e non proprietà di relazione, dove i livelli di realtà venivano banalmente attraversati uccidendo al nascere l’emozione e la meraviglia che questo attraversamento avrebbe dovuto suscitare.

Tra le tante confuse riflessioni che occupavano la mia mente in quel periodo una in particolare mi sembrava importante da afferrare e approfondire: la riflessione sul tempo. Mi affascinava la termodinamica, la scoperta dei processi irreversibili. Avvertivo inoltre un conflitto tra le due culture, le scienze umanistiche da un lato e le scienze cosiddette esatte dall’altro. Conflitto che nella scuola era particolarmente evidente. Da una parte le materie scientifiche, lo studio della natura e delle sue leggi, dall’altra la storia, l’arte, la poesia, la filosofia, le emozioni e i sentimenti, tutti argomenti trattati a scuola nelle materie così dette letterarie. Avremmo mai potuto incontrare in un laboratorio chimico il tempo creativo e storico della vita? Come pensare, fare agire e sperimentare queste domande in classe e in laboratorio?

Questa frattura era nella realtà? Aveva ragione Jacques Monod, il nostro numero è uscito al gioco di Montecarlo? Scoprii un libro, La nuova alleanza, scritto da un chimico, Ilya Prigogine, una figura singolare e straordinaria a cui nel 1977 era stato assegnato il premio Nobel.  Nel libro Prigogine ipotizzava che l’attività umana, creatrice e innovatrice, non fosse estranea alla natura, ma fosse piuttosto un’amplificazione e un’intensificazione di tratti già presenti nel mondo fisico,” …la vita, con i suoi connessi aspetti evolutivi biologici e socio-culturali, non appare più come un’eccezione alle leggi di natura, né raggiunge il successo solo grazie all’intervento di un esercito di diavoletti di Maxwell in lotta con le leggi della natura. Piuttosto questi aspetti della vita sembrano essere conformi con queste leggi quando si tenga conto propriamente delle importanti caratteristiche di non equilibrio e di non linearità. (Prigogine I., 1979, pp. 5-6)

Secondo Prigogine, contrapposte alle strutture di equilibrio, che noi studiavamo in classe, strutture lontane dall’equilibrio, attraversate da flussi di energia, potevano a un certo punto assumere un comportamento coerente, una struttura nel tempo, implicante la cooperazione di un gran numero di unità. Si poteva parlare a proposito di queste strutture, che la termodinamica chiamava strutture dissipative, di auto-organizzazione. La materia, cieca in prossimità dell’equilibrio, lontano dall’equilibrio cominciava a vedere. Lontano dall’equilibrio processi irreversibili potevano diventare fonte di coerenza di un gran numero di molecole. Il sistema non era più manipolabile, la sua evoluzione non era prevedibile.

Per Prigogine non vi era alcun dubbio che le strutture dissipative avessero un ruolo essenziale nel funzionamento dei sistemi viventi.

La vita poteva nascere dove gli elementi della materia cominciavano a vedere più in là, dove la materia diveniva sensibile. La frattura tra l’uomo e la natura sembrava sanabile. “In definitiva è questa la vita, è il tempo che si iscrive nella materia, e ciò non vale solo per la vita, ma anche per l’opera d’arte. Prendiamo l’esempio della scultura, delle opere più antiche che noi conosciamo, i graffiti che l’uomo di Neanderthal scavava nella pietra, come quelli che ci sono qui in Italia, nelle Alpi. Che cosa significano questi graffiti? Non ne sappiamo nulla, e tuttavia mi sembra che l’opera d’arte sia l’iscrizione della nostra simmetria spezzata (un’asimmetria molto accentuata perché noi viviamo molto intensamente nel tempo) nella materia, nella pietra.” (Prigogine I., 1991, pag. 33)

La vita emergeva quindi da una capacità della materia di divenire sensibile al contesto, di relazionarsi e incorporare altre proprietà fisiche, la gravitazione, i campi elettromagnetici, la luce.

L’attività umana, creatrice e innovatrice, non era più estranea alla natura, “ma può essere anzi considerata un’amplificazione e un’intensificazione di tratti già presenti nel mondo fisico che la scoperta dei processi lontano dall’equilibrio ci aiuta a decifrare.” (Prigogine I., 1997, pag. 68)

Una delle principali conseguenze di questa visione è il riconoscimento di una sostanziale continuità tra vivente e non vivente, tra vita non cosciente e coscienza.

La lettura di Prigogine ha aperto un campo di studio e di ricerca. Ho incontrato nel mio percorso la cibernetica (la cibernetica dei sistemi osservati), Norbert Wiener, la seconda cibernetica, (la cibernetica dei sistemi che osservano) Heinz Von Foerster, Gregory Bateson, Alberto Maturana, Francisco Varela e altri autori.

 Mi sono guardata intorno, ho cercato persone e contesti che mi accompagnassero nell’avventura. Vedere il mondo in un altro modo, cambiare le proprie abitudini di pensiero è una cosa che risveglia, che apre alla meraviglia, ma nello stesso tempo disorienta, rende insicuri, suscita dubbi e domande a volte senza risposta. Questo percorso non lo volevo fare da sola. Ho cercato amici e amiche che mi tenessero per mano. Per una insegnante è importante avere momenti di confronto con esperti della propria e di altre discipline.

Questa possibilità l’ho trovata nel Laboratorio di Didattica delle Scienze dell’Università la Sapienza di Roma, verso la metà degli anni ’80. Un esempio importante di rapporto virtuoso con le istituzioni.

Lavorando insieme in un ambiente stimolante ho messo a fuoco che ogni disciplina scolastica e ogni ambito della scienza, la chimica per esempio, ha proprie strutture epistemiche, particolari nodi concettuali. Un pluralismo epistemologico che riguarda sia i contenuti che i metodi, che preserva dal pensiero unico e favorisce meta-riflessioni.

Un’interessante e formativa esperienza. Sono tornata a scuola con molte idee.

Mi sono offerta per raccontare ai colleghi e alle colleghe, e per discuterne con loro, le mie scoperte e le mie riflessioni. Ma ho trovato, anche probabilmente per mie difficoltà a relazionarmi con loro dopo anni di distacco, molta diffidenza e poca disponibilità al dialogo, nella completa indifferenza del preside.

Ho cercato allora un’altra soluzione per condividere con altri i miei progetti e pensieri.

Mi sentivo pronta a riflettere con gli studenti e le studentesse su alcuni nodi concettuali della chimica, come l’equilibrio chimico, l’omeostasi, la natura di un sistema termodinamico, l’errore nella misurazione ecc. ma anche il concetto di vivente e di tempo da cui ero partita.

Volevo rendere visibile l’epistemologia sottesa nelle nostre abitudini di pensiero, ricercare possibili incontri con altre materie di studio, individuare e svelare insieme, insegnanti e studenti, le bugie epistemologiche, le difficoltà e i punti di frattura della rete che andavamo tessendo.

La chimica è una scienza particolare, nasce dall’alchimia, si sviluppa su un piano dualistico macroscopico/microscopico, visibile/invisibile, concreto/astratto. In laboratorio apparecchi sofisticati, con i loro particolari e molto sensibili sensori, disegnavano un mondo fatto di curve, grafici, disegni, mostravano una realtà non meno reale di quella che vedevamo con i nostri occhi. Chiedersi “Allora cos’è la realtà?” era una domanda legittima?

Durante la mia permanenza nel Laboratorio di didattica delle scienze noi insegnanti delle scuole secondarie, chiamate a lavorare a comando all’Università, avevamo formato un gruppo di discussione che si riuniva una volta alla settimana. A turno ponevamo problemi e temi. Io parlavo prevalentemente del libro che stavo leggendo Mente e Natura, una unità necessaria di Gregory Bateson. Non lo capivo molto, ma capivo che era un libro importante. Tra i colleghi c’era Giuliano Spirito, un insegnante di matematica che collaborava col CIDI.

Un giorno, tornata a scuola, ricevo una telefonata da Rosalba Conserva, una collega del CIDI. Giuliano Spirito le aveva parlato di me come una lettrice entusiasta di Gregory Bateson. Rosalba mi propone di formare un gruppo per leggere e discutere insieme i libri di Gregory Bateson. Accetto con entusiasmo! Forse avevo appena conosciuto una amica unica e preziosa! Chiamiamo a raccolta amici che pensavamo interessati alla proposta. Nasce così un gruppo di lettura, esperienza che ancora, magicamente, continua con il nome di Circolo Bateson, così come continua la mia preziosa amicizia con Rosalba.

Dal sito del circolo Bateson

A Roma, nel settembre del 1990, un piccolo gruppo di persone, interessate a saperne di più su Gregory Bateson, si incontra per conoscere e approfondire il suo pensiero. È un gruppo eterogeneo per formazione: due chimiche (Anna D’Attilia e Lucilla Ruffilli), tre letterati (Adolfo Sacchetta, Rosalba Conserva, Carla Bettarini) un ingegnere informatico (Massimo Corsetti), una grecista (Maria Giovanna Cantagalli), uno storico (Giorgio Guadagni).

L’anno dopo chiamarono quella piccola struttura, che già si era consolidata, “Circolo Bateson”.

 

 

 

Pensare per storie 

Nel 1995, dopo cinque anni di incontri, “venne in primo piano l’esigenza di comunicare e confrontare in un ambito più largo le problematiche emerse e le esperienze fatte. Una del gruppo ha scritto un libro con l’intenzione di raccontare come una insegnante ripensa il proprio lavoro attraverso Gregory Bateson: è il bel libro di Rosalba Conserva con il titolo ‘La stupidità non è necessaria’. Alcuni di noi (Calogero Albanese, Carla Bettarini, Massimo Corsetti, Anna D’Attilia, Lucilla Ruffilli, Maria Domenica Simeone), con tre nuove arrivate, (Angela Maria Petrone e in seguito Daniela Berardi e Concetta Calabrò) dettero vita al ‘Laboratorio epistemologico. Pensare per storie’, reso possibile dall’incontro con MUSIS (Museo della Scienza e dell’Informazione Scientifica) e dall’incoraggiamento del suo presidente prof. Luigi Campanella, ideatore dell’ipotesi di un Museo delle Scienze diffuso sul territorio ed aperto alla   cittadinanza” (Albanese C, Bettarini C., Corsetti M., D’Attilia A., Ruffilli L., Simeone M.D., 1998, pag.19).

Un passo indietro e un po’ di storia.

Sindaco di Roma Francesco Rutelli nel 1981 ci fu a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, la mostra “5 miliardi di anni. Ipotesi per un Museo della Scienza.”

In seguito alla mostra si aprì un dibattito sulla necessità di istituire a Roma un Museo della Scienza di tipo interattivo, sui suoi contenuti e sulla eventuale localizzazione. Nel 1985 ci fu la mostra “Vedere l’invisibile. Ipotesi per un Museo della Scienza” all’Istituto San Michele.

Provincia, Università, Italia Nostra, l’architetto Portoghesi, Walter Tocci, vicecapogruppo del PC, tutti erano d’accordo sulla necessità del Museo, tutti erano in disaccordo su dove. Via Giulia? Il Mattatoio? Oppure?

Nell’impossibilità di passare ai fatti il prof. Luigi Campanella propose di creare una rete MUSIS nelle scuole di Roma.

Il Laboratorio epistemologico è stato un felice esempio di collaborazione con le istituzioni. È nato nel 1995 come Polo di MUSIS (Museo della Scienza e dell’Informazione Scientifica). MUSIS ha finanziato l’allestimento del Laboratorio nell’Istituto Tecnico scientifico Lagrange, dove io insegnavo. Nell’ottobre 1996, per interessamento del prof. Luigi Campanella, presidente di Musis, dell’archittetto Cellie della Provincia di Roma e del Preside dell’ITIC Leonardo da Vinci prof. Stramondo, il Laboratorio si è trasferito all’ITC Leonardo da Vinci. Attualmente si trova, grazie all’interessamento e alla disponibilità del prof. Giovanni Madonna, nell’Istituto Italiano di Psicoterapia relazionale, Viale Maria Cristina di Savoia 18/c Napoli.

Per raccontare il laboratorio che abbiamo pensato, progettato, allestito e proposto al pubblico qui di seguito è riportata una presentazione del laboratorio per un progetto al CIDI del 1998 che trovo nel mio archivio.

 

 

Laboratorio epistemologico. Pensare per storie

 

Ogni vivente è portatore di una propria storia caratterizzata da un complesso insieme di relazioni e di apprendimenti che vanno raccontati. Cioè, più semplicemente, siamo storie e pensiamo per storie.

 

Il laboratorio fa sua la definizione di epistemologia di G. Bateson

 

“Epistemologia: come gli organismi particolari o gli aggregati di organismi conoscono, pensano e decidono e sui limiti necessari e le altre caratteristiche dei processi di conoscenza, pensiero e decisione.”

Pone come finalità quella di realizzare una riflessione sulle premesse epistemologiche che informano il modo che ogni individuo ha di guardare al mondo e anche la cultura scientifica e la diffusione della cultura scientifica.

 

Le tre stanze

 

Il Laboratorio Epistemologico “Pensare per storie” è una struttura MUSIS. È stato fondato nel 1995 da un gruppo composto in prevalenza da insegnanti che avevano studiato, letto e discusso le opere di Gregory Bateson. Il Laboratorio Epistemologico si articola in tre dimensioni esperienziali alle quali corrispondono tre ambienti ricorsivamente connessi tra di loro.

Il primo ha per titolo ‘La percezione’ ed è corredato da una serie di esperienze attraverso le quali il visitatore viene portato a riconsiderare la fede generalmente indiscussa che ciò che vediamo o che percepiamo è ciò che c’è, proprio come c’è: si mette in discussione la concezione   di oggettività propria del senso comune.

Il secondo ambiente si rivolge direttamente al visitatore e non a caso il suo titolo è

‘L’osservatore’. Vengono proposte delle esperienze volte a mettere a fuoco il ruolo dell’osservatore nella costruzione della conoscenza e la sua responsabilità conoscitiva. Siamo ovviamente lontani da ogni ipotesi soggettivista, perché l’osservatore non è affatto indipendente da vincoli biologici e culturali.

Il terzo ambiente, ‘La creazione del senso’, è stato progettato in modo che il visitatore realizzi che l’epistemologia è l’interfaccia fra osservatore e realtà, che è in questa interfaccia che emerge il senso, perché è lì che di volta in volta viene elaborato l’incontro tra i vincoli dell’osservatore e i vincoli di ciò che chiamiamo realtà. Ogni idea, ogni teoria sono una risposta ai problemi sollevati da questi incontri. (Questa descrizione del Laboratorio in tre ambienti si trova anche nel libro di Calogero Albanese, Carla Bettarini, Massimo Corsetti, Anna D’Attilia, Lucilla Ruffilli, Maria Domenica Simeone, 1998 pag. 19)

Il percorso o i percorsi possibili non sono stati progettati con l’intenzione di suggerire delle risposte, ma piuttosto di mettere in condizione chi li compie di porsi delle domande.

In questi tre anni il laboratorio è stato visitato da molti studenti, insegnanti e cittadini, perché come tutte le iniziative MUSIS non è solo rivolto al mondo della scuola, ma a tutti coloro che sono interessati a interrogarsi sulla conoscenza. Al suo interno si svolgono seminari, gruppi di lettura. In occasione della settimana della cultura scientifica sono organizzate iniziative a tema, come la mostra “Le cose come sono”.  

Il laboratorio ha un carattere itinerante, è infatti trasferibile su richiesta.

Il progetto propone l’organizzazione di visite guidate al laboratorio.

Le visite al laboratorio (massimo 30 persone) sono organizzate per appuntamento, la durata media di una visita è di tre ore.

Foto n. 1 - Roma ITI Lagrange

Provo a ricostruire due angoli del laboratorio.

Stanza “La creazione del senso. La moltiplicazione”

Dal metalogo “Quante cose sai?”

P. … Restiamo al problema di misurar il sapere … l’aritmetica è un insieme di trucchi per pensare con chiarezza. E la prima regola per essere chiari è quella di non mescolare idee che sono del tutto diverse tra loro. L’idea di due arance è del tutto diversa dall’idea di due chilometri. Perché se le sommi ottieni solo una grande confusione in testa.

 

F.  Ma papà io non so tener separate le idee. Dovrei farlo?

 

P.  No … no … no, naturalmente. Devi combinarle; ma non sommarle. Ecco tutto. Cioè se le idee sono numeri e vuoi combinarne due tipi diversi, la cosa da fare è moltiplicarli uno per l’altro. E allora hai un nuovo tipo di idea, un nuovo tipo di quantità. Se nella testa ci sono chilometri e ci sono ore e tu dividi i chilometri per le ore, ottieni chilometri all’ora, cioè una velocità.

(Bateson G., 2000, pag. 56)

Nel mondo reale le unità di misura sono importanti, sono una storia di rapporti tra numerosità, una storia di strutture... una unità di misura che non torna può indicare allo scienziato, come allo studente, un percorso errato.

Nello studio della matematica il passaggio dai numeri astratti alla realtà dei numeri può essere molto delicato, un cambiamento di epistemologia non facile da percepire, accettare e capire. Malgrado ciò, e malgrado gli errori degli studenti ci segnalino la difficoltà di questo passaggio, spesso è ignorato il diverso statuto epistemologico che nel mondo reale hanno le addizioni e le moltiplicazioni.

La proprietà delle moltiplicazioni di creare nuove strutture, stabilendo relazioni significative tra le parti, non viene quasi mai raccontata. Viene a crearsi così un ostacolo epistemologico; per   studenti e studentesse la relazione tra le unità di misura in una esperienza di laboratorio è spesso   problematica.

Da una pagina del catalogo (MUSIS. Museo della Scienza e dell’Informazione Scientifica, 1995. pag. 65):

 

La struttura. Nella prima realizzazione all’ITIS Lagrange era una quarta stanza.

Stabilità e cambiamento. L’acrobata

La struttura è un insieme di variazioni tra variabili. Le variabili cambiano nel tempo, e cioè in rapporto al mutare del contesto, per mantenere le relazioni.

Nel contesto mutevole, la stabilità è il risultato - momento per momento - di variazioni.


“Quando usiamo la parola stabilità a proposito di cose viventi o di circuiti autocorrettivi dovremmo seguire l’esempio delle entità di cui parliamo. Per l’acrobata sul filo è importante il cosiddetto equilibrio, per il corpo del mammifero lo è la temperatura. Il mutamento dello stato di queste importanti variabili istante per istante viene trasmesso alle reti di comunicazione del corpo…………L’enunciato “l’acrobata è sul filo” continua a valere anche sotto l’effetto di lievi brezze e di vibrazione della fune. Questa   stabilità è il risultato di continui cambiamenti nelle descrizioni della positura dell’acrobata e della posizione della sua asta di bilanciamento. (G. Bateson, Mente e nat. 1984, pag. 89)

Foto n. 2 - Livorno 2004. Il gioco delle regole ITI Galilei

Nelle stanze del laboratorio, allestite a Roma e Livorno, dei lucidi, esplicativi delle esperienze proposte, erano montati su pannelli. Ai pannelli erano applicate tasche di legno colorato dove il visitatore o la visitatrice trovavano istruzioni e commenti. Erano a disposizione tavoli di lavoro.

 

A Livorno una stanza era dedicata a esperimenti e giochi.

Consigliavamo a chi visitava il laboratorio di fermarsi davanti a ogni pannello e di eseguire gli esperimenti proposti, con un percorso solitario e personale. Alla fine del percorso, i visitatori si potevano raccogliere intorno a un tavolo per discutere e riflettere insieme. 

Foto n. 3 - 1996   ITI Galilei 

Foto n. 4 - Roma 1994 ITI Lagrange

Foto n. 5 - Roma 1994 ITI Lagrange

Per passare dalle scienze esatte alle scienze umane, dichiara Michel Serres in una intervista, non basta aprire una porta e attraversare la strada. “L’itinerario è complicato: un’idea può guidarci come un filo d’Arianna e, un attimo dopo, rompersi di netto e piantarci in asso. Bisogna allora tornare indietro e ripartire con un altro filo. Non esiste una carta” (Michel Serres a cura di Gaspare Polizzi e Mario Porro, 1981 pag. 68).

Nel pensare e realizzare il Laboratorio epistemologico cercavamo alcuni di questi fili.

Partivamo da poche ‘verità’ semplici e necessarie: non esiste esperienza oggettiva, la mappa non è il territorio, i processi di formazione delle immagini sono inconsci, la quantità non determina la struttura, la logica è un cattivo modello della causalità, la causalità non opera all’indietro. Suggerivamo domande ‘legittime’: cos’è una spiegazione? Cos’è il paradosso, questa bestia nera della logica? Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me?

 

Nel laboratorio era curato ogni minuto dettaglio, cercavamo la bellezza dell’essenziale. Volevamo un luogo dove poter ascoltare e sperimentare quello che la vita sommessamente ci raccontava.

 

 

Conversazione con Concetta Calabrò 

Ora, per parlare del presente, una conversazione con Concetta Calabrò che insegna in una scuola media di Roma

Lucilla - Concetta qual è, secondo te, il problema più evidente oggi nella scuola?

Concetta – Secondo me la debolezza attuale è che la scuola dovrebbe ripensarsi profondamente, con coraggio e senso di responsabilità. All’azione del virus non si può reagire proponendo una didattica tradizionale, frontale, in chiave DAD. Il come fare scuola richiedeva dall’inizio dell’anno un’organizzazione più articolata. Personalmente ho sentito l’esigenza di rivedere la programmazione, privilegiando contenuti e attività che potessero favorire la conoscenza di sé, un lavoro sulle emozioni, il sentirsi dentro una realtà attuale e cercare di capirla, cogliere relazioni e nessi tra sé e gli altri, quindi di sviluppare lo spirito critico.

Lucilla – I cambiamenti che tu vedi necessari riguardano il rapporto con i ragazzi e le ragazze: pensi anche a cambiamenti nei temi, nei programmi?

Concetta – Certo. Considera che, benché i programmi non esistano dal 1997, ancora sono in vita e serpeggiano con forte carica ansiogena tra docenti e genitori. Per favorire l’apprendimento, soprattutto in questo momento, l’ultima ansia deve essere quella del programma da finire.

Lucilla – E pensando a cambiamenti nei rapporti con la natura?

Concetta – In questo ultimo periodo si sono levate molte voci (di maestri, pedagogisti, pediatri, forse politici) affinché si potesse fare scuola in presenza e all’aperto. Spesso, in passato, mi sembrava che nel passaggio dalla scuola elementare alla secondaria, le alunne e gli alunni perdessero la dimensione del corpo, “costretti” a fare scuola quasi esclusivamente in aula. Aggiungi le mascherine e moltiplica per 6 ore, siedi al banco singolo e … cosa apprendi di buono e di bello?

Vedi, Luci, mentre parliamo io e te, mi arrivano messaggi in chat di colleghi e del rappresentante dei genitori: un nuovo lock down pare sia in arrivo. Si riapre il calderone DAD, tra paure, pretese, difese e regole. Eppure, a ripensarci, a marzo scorso, nonostante fossimo impreparati per offrire una DAD strutturata e disciplinata, ci siamo inventati di tutto e di più per rimanere in contatto con le alunne e gli alunni a casa. 

Possiamo pensare davvero di trasmettere saperi in DAD?  In una didattica a distanza non è possibile fare una lezione frontale, se tu fai già in classe una didattica attiva, costruttiva, partecipata, allora, anche se ne conosci poco di computer, di informatica, di piattaforme, ti inventi e attui una serie di soluzioni creative per poter raggiungere le ragazze e i ragazzi e farli sentire in relazione tra di loro e con te.

Lucilla – Il covid-19 ci costringe a rompere con il passato, a immaginare il mondo da capo. Cosa dovrebbe cambiare nella scuola dove la cultura passa per un filtro generazionale?

Concetta – Ma questa è già una soluzione alta, questo vuol dire già creare uno spazio di riflessione, chi lo sta creando?

 

Lucilla – Pensi sia necessario?

Concetta – Certo, la scuola dovrebbe essere uno dei luoghi dove si pensa, si riflette, si legge il mondo e si trovano degli adattamenti, invece si sentono altre preoccupazioni e si cercano altre soluzioni, del tipo: “Come li posso controllare in DAD ed essere sicuro che non copino?”

Lucilla – La possibilità che si copi sembra diventato il problema principale

Concetta – Un’ansia, quando invece potresti comunque fare delle bellissime lezioni di grammatica a distanza, senza pensare ai test a crocette. Il problema è che un cambiamento della scuola, affinché   avvenga dall’interno e dal profondo, deve riguardare innanzitutto i docenti. La scuola vuole essere un’azienda o invece un luogo di formazione, di riflessione, che si ponga anche come alternativa alla società?

Lucilla - Stai pensando alla necessità di corsi di aggiornamento ben fatti, messi a disposizione degli insegnanti?

Concetta – Corsi di aggiornamento non solo con esperti di informatica, ma anche con pedagogisti, psicologi.

Lucilla – Filosofi?

Concetta – Filosofi, sicuramente. Certo, per gli insegnanti questo lavoro è diventato dieci volte di più, non c’è più soluzione di continuità tra lo stare a scuola e lo stare a casa, la scuola ti invade con i gruppi WhatsApp, con le email continue, con il lavoro burocratico, con le riunioni pomeridiane on-line. Questo toglie vitalità e motivazione a tutto il resto, nelle riunioni che facciamo i discorsi di come sta quel bambino o quella bambina, dei bisogni che ha, delle strategie da mettere in atto rimangono sullo sfondo. 

Lucilla - Pensi che il lavoro degli insegnanti dovrebbe essere soggetto a valutazione come la maggior parte degli altri lavori? In particolare da parte delle alunne e degli alunni, dal Preside e dal Ministero?

Concetta - Luci, mi dispiace, non so rispondere a questa domanda. La premessa è: quale idea di scuola perseguono Ministero e Preside?

Ma dello sguardo dei ragazzi e delle ragazze mi fido molto.

Lucilla – Nel laboratorio epistemologico ho condiviso con te una leggerezza profonda nel pensare, l’arte di giocare con le parole, anche se devo dire sono piuttosto negata, e anche tanto altro. Cosa ha significato per te conoscere il laboratorio e lavorare con noi?

Concetta – Cara Lucilla: l’esperienza del laboratorio ci fa prendere confidenza con le domande, col porsi domande sul mondo. È un metodo che mi piace condividere con i miei alunni, che lo imparano velocemente. Inoltre dal Laboratorio sono uscita più connessa con la natura e gli altri esseri. Terzo punto, la finestra sulle mappe concettuali, sempre più utilizzate a scuola, anche se in modo sbagliato. Vi ho conosciuti (tu, Angela e altri) prima di cominciare a insegnare e quando sono entrata nella scuola è stato un po’ traumatico; ingenuamente pensavo di trovare colleghi come voi, ma…

  

 

Bibliografia

Albanese C., Bettarini C., Corsetti M., D’Attilia A., Ruffilli L., Simeone M.D., 1998. I modi dell’imparare, Carocci ed., Roma, pag. 19.

 

 

 

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