Riflessioni Sistemiche n° 24


Educazione e Formazione:
livelli, problemi e prospettive

Respiriamo la stessa aria.
Una riflessione sull’educare negli ecosistemi dell’apprendimento


di Emanuele Serrelli

Docente e ricercatore sistemico

Sommario
In questo saggio guarderemo, da un punto di vista inevitabilmente trasformato dall’esperienza pandemica, a tre usi del concetto di ecosistema applicato alla conoscenza, alla formazione e all’educazione: training ecosystem o ecosistema della formazione, education ecosystem o ecosistema dell’istruzione, e knowledge ecosystem, l’ecosistema della conoscenza. Come sempre avviene nella metafora, i tre concetti mettono avanti alcuni aspetti degli ecosistemi fisico-biologici tralasciandone altri. Gli aspetti meno evidenziati – come il destino comune e la compenetrazione fisica, ma anche l’equilibrio e il rischio di cambiamento catastrofico – sono tuttavia, a ben vedere, davvero essenziali quando si parla di educazione. Se la situazione pandemica ha accelerato alcune tendenze in corso nel mondo dell’educazione e della formazione, essa ha forse messo ancor più in ombra quegli aspetti, che in chiusura cerchiamo di rimettere a fuoco riconnettendo il concetto di ecosistema con le nozioni di comunità e di destino comune, i quali tracciano le sfide urgenti e cruciali per la ricostruzione dell’educazione del futuro.


Parole chiave
Ecologia, ecosistema, educazione, formazione, apprendimento, pandemia


Summary
Training ecosystem, education ecosystem and knowledge ecosystem are three ways of looking at knowledge, education and learning. Here we look at those concepts from a point of view inevitably transformed by the ongoing pandemy. As in any metaphor, the three notions put forth a limited number of aspects of physical-biological ecosystems. Features such as common fate, physical permeation, flowing equilibrium and catastrophic change are somehow left in the background, despite some of them being in fact essential in speaking about education. By accelerating some tendencies that were already in place in education and training, the pandemy might have further ditched those fundamental features of education. By reconnecting the concept of ecosystem with the notions of community and common fate, we foresee some challenges that will be crucial for future education.


Keywords
Ecology, ecosystems, education, training, learning, pandemy

 

 

 

Scendete alla prossima fermata… ecosistemi e pandemia 

“Se vi sentite osservati, forse non state indossando bene la mascherina, scendete alla prossima fermata, gli altri passeggeri viaggeranno molto meglio”. Maggio 2021, sono recentemente tornato a viaggiare per tenere corsi in presenza, e mi colpisce questo messaggio affidato a una voce registrata nella metropolitana milanese. Respiriamo la stessa aria ma ci dobbiamo difendere. Condividiamo gli stessi spazi ma dobbiamo porre barriere tra noi, per tutelare la salute, per non spaventare gli altri. Se non ci comportiamo propriamente, meglio che ce ne andiamo.

È mattina presto, arrivato all’università dove tengo la lezione vengo colpito anche dal suono di un campanile. Altro segno di condivisione di spazio, di tempo, di aria e di onde sonore. Oggi siamo connessi - mediante Zoom, WhatsApp, Teams, Meet, Facebook, Instagram, a volte perfino grazie alle care vecchie telefonate - ma sicuramente scioccati, traumatizzati e un po’ assuefatti dai lunghi mesi in cui l’epidemia di COVID-19 ha spezzato la contiguità spaziale e la continuità della convivenza.

Si dice che tutto ciò abbia accelerato tendenze in corso. Vero. Si dice anche che la pandemia abbia introdotto nel mondo novità inedite e irreversibili. Altrettanto vero. Si è anche rotto qualcosa che va riparato e recuperato? Forse.

Esamineremo qui tre degli usi del concetto di ecosistema applicato alla conoscenza, alla formazione e all’educazione. Il primo – training ecosystem, o ecosistema della formazione – può essere attribuito a un recente testo italiano di management, a cura di Raoul Nacamulli e Alessandra Lazazzara. Il secondo, education ecosystem, l’ecosistema dell’istruzione, non è molto diffuso come termine ma il suo significato è estremamente presente nella riflessione internazionale sulla scuola e sull’educazione, in particolare negli ultimi lavori della commissione educazione dell’UNESCO. Il terzo – knowledge ecosystem – è certamente quello più in voga e si trova spesso citato in questo modo in moltissimi media, dai bandi di ricerca ai TED talk.

Mentre tutte le appartenenze comuni, le convivenze, le comunità paiono affievolirsi, è interessante notare un paradosso insito nell’uso metaforico dell’idea di ecosistema, che da una parte sembra sottolineare l’unione e la comunità più profonda di destini, mentre dall’altra descrive in realtà una dinamica sociale diretta alla separazione, all’individualizzazione, all’accumulazione di progetti di natura eminentemente individuale e privata.

Come ogni metafora, anche quella di ecosistema ha determinate caratteristiche che la rendono “portatile”. Nel “contesto di arrivo” la metafora orienta l’attenzione su alcuni aspetti, e dà la sensazione di unitarietà del sapere, e allo stesso tempo “perde” alcuni dei significati del contesto di origine e oscura altre dimensioni del contesto di arrivo (Serrelli 2011, 2019). Chiediamoci dunque innanzitutto quale sia il contesto originario, “nativo” della metafora (Serrelli e Tëmkin 2016). A introdurre il concetto scientifico di ecosistema fu Sir Arthur Tansley, che nel 1935 scrisse:

Clements’ earlier term “biome” for the whole complex of organisms inhabiting a given region is unobjectionable, and for some purposes convenient. But the more fundamental conception is, as it seems to me, the whole system (in the sense of

physics), including not only the organism-complex, but also the whole complex of physical factors forming what we call the environment of the biome-the habitat factors in the widest sense (Tansley, 1935).

Si trattò di una mossa teoretica ma anche epistemologica importante, con cui l’ecologia – almeno una sua parte – diventava una scienza dei sistemi complessi. In effetti già dalla fine dell’Ottocento chimici-fisici e matematici come Ludwig Boltzmann o Alfred J. Lotka lavoravano agli aspetti dinamici e termodinamici generali del mondo vivente. Boltzmann considerava ormai ovvio ciò che fino ad allora ovvio non era stato: la vita è un fenomeno termodinamico, e il mondo vivente è organizzato in sistemi aperti attraversati da flussi di energia. Lotka, autore di importanti modelli matematici come l’equilibrio dinamico preda-predatore, lavorò poi sulla medesima linea: “the fundamental object of contention in the life-struggle, in the evolution of the organic world, is available energy” (Lotka 1922, p. 147).

Gli ecosistemi sono forme dinamiche di materia ed energia, e le loro proprietà da “sistemi complessi” generano le loro affascinanti regolarità e aporie: la presenza di dinamiche generali e ricorrenti versus i percorsi imprevedibili del cambiamento, l’intensa interconnessione e il decentramento, la retroazione collegata alla stabilità e al ritmo discontinuo del cambiamento.

Insomma, la natura dell’ecosistema sta proprio nella compresenza spaziale, nella circolazione di materia ed energia, nell’oscillazione correlata di miriadi di variabili ma soprattutto di miriadi di esseri viventi, elementi e processi materialmente collegati tra loro.

È in questa vicinanza, in questa membership radicale, che i confini interni sfumano o meglio possono essere tracciati in modi differenti perché in realtà altro non sono che ‘emergenze’ del sistema. Tanto che persino il primato degli esseri viventi può essere messo in discussione:

Though the organisms may claim our primary interest, when we are trying to think fundamentally we cannot separate them from their special environment, with which they form one physical system. It is the systems so formed which, from the point of view of the ecologist, are the basic units of nature on the face of the earth. Our natural human prejudices force us to consider the organisms (in the sense of the biologist) as the most important parts of these systems, but certainly the inorganic " factors" are also parts - there could be no systems without them, and there is constant interchange of the most various kinds within each system, not only between the organisms but between the organic and the inorganic. These ecosystems, as we may call them, are of the most various kinds and sizes (Tansley, 1935).

Oggi quando si parla di ecosistemi della conoscenza, della formazione, dell’educazione, dell’apprendimento e così via, chiaramente si utilizza il termine ‘ecosistema’ in maniera metaforica per sottolineare diversi aspetti fenomenici: eterogeneità degli elementi, connessione pervasiva, confini permeabili, apertura, chiusura e riuso, equilibrio che fluisce, proprietà emergenti, interdipendenza e vincolo reciproco, cambiamento catastrofico, scambio di energia termodinamica, scambio di materia, destino comune (si tratta di una lista rappresentativa anche se forse non esaustiva; si veda anche la tabella nell’ultimo paragrafo).

Come sempre avviene nella metafora, i tre concetti enfatizzano alcuni aspetti degli ecosistemi fisico-biologici e ne tralasciano altri. Gli aspetti meno evidenziati – come il destino comune e la compenetrazione fisica, ma anche l’equilibrio e il rischio di cambiamento catastrofico – sono però, a ben vedere, veramente essenziali quando si parla di educazione. Se la situazione pandemica ha accelerato alcune tendenze in corso nel mondo dell’educazione e della formazione, forse questa accelerazione consiste proprio nell’ulteriore disattenzione a questi aspetti, che in chiusura cercherem di rimettere a fuoco grazie a tre contributi critici (Biesta 2014, UNESCO 2015, Triani 2018).

 

  

L’ecosistema della formazione (training ecosystem) 

È del 2019 il libro pre-pandemico L’ecosistema della formazione a cura di Raoul C.D. Nacamulli e Alessandra Lazazzara. Forse non è corretto parlare di un testo profetico, quanto piuttosto di un libro che descriveva tendenze che erano da tempo in atto nel mondo della formazione ma che erano forse ancora molto sottovalutate da molti anche addetti ai lavori, e che sono state invece accelerate e amplificate dall’arrivo della pandemia. Il libro è una raccolta di saggi di management e sviluppo delle risorse umane, costruito in maniera corale, che conia appunto il principio organizzatore di ecosistema della formazione basato su tre variabili chiave: People, Power e Place. “People” indica che la formazione nel contesto attuale è sempre più pluralista poiché non è più focalizzata su singole appartenenze ma include soggetti con molteplici ruoli e appartenenze (ad esempio executive e lavoratori della conoscenza, startupper e clienti). “Power” pone l’accento sulla mobilitazione di risorse sociali, una questione sempre meno scontata e allo stesso tempo sempre più urgente nella formazione, perseguita con diverse modalità che mirano all’empowerment e all’engagement. “Place” mette in luce che l’ambiente in cui la formazione si svolge e si diffonde è sempre più digitale; come sappiamo questa digitalizzazione è aumentata vertiginosamente con la pandemia ma già in precedenza si parlava di ambienti ‘phygital’ (physical+digital) o ‘digitalmente aumentati’, con i social network e le piattaforme online sempre più presenti che costituiscono anche potenzialità per la costruzione di employee experience positive, coinvolgenti e significative. Il concetto di ecosistema della formazione, per i curatori del testo di cui stiamo parlando, descrive bene l’ampliamento dei confini che incrementa la complessità e che deve essere tenuto in considerazione dai decisori nel processo di elaborazioni di politiche adeguate. D’altra parte molti prodotti accademici come la rivista su cui scriviamo (Riflessioni sistemiche) o lo stesso libro L’ecosistema della formazione vengono ormai generati mediante una logica ecosistemica: si lavora insieme tra persone (People) con molteplici appartenenze, che si “ingaggiano” (Power) per mobilitare risorse intellettuali e operative in (o generando un) luogo (Place), che consiste in una rete di relazioni agite sia attraverso incontri faccia a faccia che nel mondo virtuale.

 

Il concetto di ecosistema della formazione vuole esprimere il profondo mutamento della natura stessa della formazione, dovuto soprattutto alle piattaforme digitali. Accanto alle crescenti offerte anche gratuite di livello universitario (Coursera, MOOC, TED…) fiorisce una imprenditoria formativa digitale da parte di una proliferazione di soggetti, e aumenta a dismisura lo scambio tra pari e l’iniziativa di singoli che mettono a disposizione delle community le proprie expertise. Questa circolazione di contenuti si sposa con un’idea fai-da-te della formazione, customizzata dalla singola persona che esercita un vero e proprio diritto alla formazione permanente anywhere, anytime. L’ecosistema si estende con le sue dinamiche anche all’interno delle organizzazioni e delle aziende, dove la formazione era fino a poco tempo fa un processo maggiormente guidato dall’alto e strutturato come impalcatura di apprendimento e aggiornamento per tutti. Oggi non è più così, e in questo mondo della formazione anche tutti i confini tradizionali – interno ed esterno, professionale e amatoriale, accademia e mondo produttivo, e così via – sfumano, saltano, perdono di significato. Saltano anche i confini tra formazione e comunicazione: come scrivono Nacamulli e Lazazzara, accade così che iniziative formative vengano “in maniera ripetuta e spesso anche ossessiva rimbalzate nel mondo dei social network come se fossero eventi di marketing, non tanto per veicolare dei contenuti con un valore intrinseco, quanto per testimoniare e diffondere un’immagine positiva dell’azienda sponsor, del consulente o del guru (o presunto tale) di turno”. Inoltre di compenetrano e si sfumano i linguaggi, in particolare le diverse modalità di narrazione

con una mimesis reciproca tra i vari media. Ecco quindi che:

“…mai come ora, il fabbisogno d’iniziative di formazione e di sviluppo organizzativo capaci di accompagnare il cammino delle aziende verso la quarta rivoluzione industriale è stato così elevato. Inoltre non mancano dei programmi di change management capaci, per la loro sostanza, di andare oltre le vetrine effimere della comunicazione social per arrivare ad incidere in modo positivo nella vita delle persone, delle aziende e delle istituzioni.”

Si fanno strada nuovi format di “formazione-intervento” nuovi progetti orientati ad una maggiore flessibilità e agilità organizzativa nonché al coinvolgimento ed empowerment delle persone.

  

 

L’ecosistema dell’istruzione (education ecosystem) 

In questi anni viviamo una evoluzione del welfare state e dell’istruzione che vede da un lato l’incrememento della domanda di educazione, dall’altro l’aumento del numero degli attori in gioco. Anche l’UNESCO (2015) fa notare il fenomeno globale della pluralizzazione degli attori in gioco nell’education:

“L’espansione dell’accesso all’educazione in tutto il mondo nel corso degli ultimi decenni ha comportato oneri sempre maggiori per le finanze pubbliche. Inoltre, negli ultimi anni, si sono moltiplicate le voci di coloro che richiedono una maggiore partecipazione alla vita pubblica e un maggiore coinvolgimento degli attori non statali nel settore dell’educazione, sia a livello nazionale che globale. Questa diversificazione dei partenariati rende più fluidi i confini tra il settore pubblico e il settore privato, creando problemi per la governance democratica dell’educazione (p. 13).”

Il pedagogista Pierpaolo Triani nel testo La collaborazione educativa (2018) coglie in questo movimento anche una crescente compenetrazione tra aspetto sociale ed educativo: da una parte il mondo dei servizi sociali e del terzo settore si amplia e si complessifica, e assume inoltre sempre più una curvatura pedagogica andando oltre la protezione e l’assistenza, verso una individualizzazione e un approccio di promozione umana, di insegnamento e di empowerment; dall’altra l’ambito educativo e scolastico assume una curvatura sempre più sociale. La scuola attraversa quindi un riposizionamento funzionale, con l’assunzione dell’inclusione come priorità e con l’affermarsi di una logica di care.

Emblematico di questa compenetrazione è il concetto oggi grandemente utilizzato di “povertà educativa”.

Diviene urgente e prioritaria, accanto a una revisione della governance dell’educazione, una cultura e una capacità collaborativa tra attori differenti. La collaborazione è una forma specifica di interazione partecipativa che consiste nel lavorare intenzionalmente insieme su qualcosa, agire insieme per raggiungere obiettivi condivisi (Triani 2018). La presenza di obiettivi condivisi e di vantaggi comuni, o addirittura di valori di interesse ancor più generale, è cruciale. Il lavoro comune per ottenere vantaggi individuali, infatti, è più propriamente detto coordinamento (basato su accordi e contratti), non ancora collaborazione:

“...la collaborazione esce dalla logica del solo coordinamento quando le azioni dei singoli, pur rimanendo distinte, convergono verso uno scopo che, una volta raggiunto, si presenta come un bene per ciascuno e un bene per (e di) tutti” (Triani 2018, pag. 98).

Quali sono le condizioni della collaborazione? Vi sono fattori relativi al contesto, fattori soggettivi e fattori relativi ai processi. La collaborazione può avvenire solo in un contesto definito ma non rigido, in cui si esplicitano e si accettano valori, norme e finalità comuni. Gli attori coinvolti nella collaborazionedevono esercitare disponibilità a dare fiducia, ascolto, attenzione, dialogo, fedeltà agli impegni, capacità di attendere, tolleranza e disponibilità a dare valore all’altro. Infine, nell’ambito dei processi, sono condizioni per la collaborazione la co-progettazione e la co-produzione, la ricerca condivisa di soluzioni, la valutazione e la rimodulazione.

Come si vede da tutte queste condizioni, la collaborazione non è né facile né scontata, è anzi un’impresa difficile che deve essere promossa intenzionalmente e con sforzi a vari livelli. Gli ostacoli possibili sono molti, anche perché

“C'è nel rapporto educativo una dimensione di antagonismo e di lotta che il processo collaborativo non può eliminare, quanto piuttosto riconoscere, contenere, e valorizzare inserendolo dentro un quadro più ampio dove al centro è posta la costruzione di un bene più grande che sta a cuore a entrambi i protagonisti” (Triani 2018, pag. 113).

Per sostenere la collaborazione è quindi necessario

“…non far esaurire la fonte da cui la collaborazione nasce, ossia l'incontro tra persone nello svolgersi ordinario della vita dove si può sperimentare, nell'informalità, la forza umanizzante dell'ascolto, dell'attenzione, della premura; la fatica e la ricchezza del fare insieme; dove si vanno mescolando continuamente le bellezze e le tragedie dell'interazione umana” (Ivi, pag. 115).

Quando parliamo di educazione, la collaborazione – fa notare Triani – non è una delle opzioni possibili, è bensì la scelta privilegiata e consustanziale: per educare è imperativo collaborare, e ciò per almeno quattro motivi. Innanzitutto la dinamica della collaborazione – primariamente quella tra docente e discente – è coerente con i fini dell’educazione:

“Così come la medicina è ars cooperativa naturae, ugualmente lo è l'insegnamento, che collabora con i propri mezzi all'attuazione del processo di conoscenza del soggetto” (Ivi, pag. 104).

In secondo luogo la collaborazione permette di non parcellizzare l’educazione ma di dirigerla sulla persona nei suoi vari aspetti e appartenenze:

“...più il [...] fine diventa quello di promuovere nella persona stessa uno sguardo unitario su se stessa, di crescere nella libertà e nella responsabilità, più si fa evidente l'importanza di concepire l'azione educativa come azione comune di stampo collaborativo” (Ivi, pag. 105)

 

In terzo luogo solo attraverso la collaborazione si può creare un ambiente educativo, e la costruzione di ambienti è la reale prassi dell’attività educativa:

“Per crescere in umanità le persone hanno bisogno di vivere in ambienti 'umanizzanti' e personalizzanti, ma questa qualità è il frutto del concorso di tutti coloro che vi vivono e vi operano” (Ivi, pag. 106).

Infine, la collaborazione è necessaria in quanto nessun attore educativo è autosufficiente:

“...non solo perché le risorse sono limitate, ma perchè il bene da promuovere non è il possesso sicuro di qualcuno, quanto una direzione da percorrere attraverso scelte concrete che richiedono spirito di ricerca e di confronto” (Ivi, pag. 107).

Scrive Triani:

“[La collaborazione] non rappresenta un semplice ideale, ma un processo di fondamentale importanza per rispondere al bisogno di sinergia che l'ambito educativo manifesta, per generare alleanze educative, per dare unità dinamica al lavoro educativo” (Ivi, pag. 115).

La prospettiva sistemica risulta – come sempre – naturale e produttiva per leggere, sebbene in senso largo e analogico, l’organizzazione sociale e i suoi cambiamenti. Di “sistema scolastico” si è sempre parlato, e anche l’idea di “sistema educativo” è ormai classica (Luhmann e Shorr 1998). Triani dà una interpretazione interessante della visione sistemica dell’educazione: “l’idea di sistema, dinamico e aperto, indica più che una realtà, un compito, quello dell’innalzamento del grado di integrazione e raccordo tra tutte le parti in gioco” (2018, p. 33). L’idea di ecosistema dell’educazione (caring ecosystem) è quindi innanzitutto un ideale regolativo.

 

 

 

Gli ecosistemi della conoscenza (knowledge ecosystems) 

Quando si parla di knowledge ecosystem, l’accento è posto sulla connessione da stabilire e mantenere tra produzione e fruizione della conoscenza, e sui processi da mettere in atto per la conservazione, la disponibilità, la crescita e la modifica della conoscenza grazie al contributo di molti attori differenti che ne sono a un tempo beneficiari e produttori.

In una recente ricerca promossa dalla Commissione Europea (Austrian Institute of Economic Research, 2020), il concetto di ‘knowledge ecosystem’ viene applicato ai posti di lavoro dei ricercatori e dei lavoratori della conoscenza: la ricerca vuole contribuire a migliorare le condizioni lavorative dei ricercatori e a identificare la trasformazione della domanda di competenze. I risultati infatti aiuteranno a dar forma alle policy nazionali ed europee per migliorare le carriere nella ricerca, sia nel settore accademico che in quello privato, migliorando le condizioni lavorative e l’attrattività delle carriere in Europa. Per raggiungere questi obiettivi, lo studio analizza “l’organizzazione e la diffusione di ecosistemi a livelli europeo, nazionale, regionale e l’efficacia di misure di supporto della cooperazione, il ruolo di attori specifici (università e centri di ricerca) che si trovano al cuore degli ecosistemi, la circolazione di conoscenza a partire dalla ricerca individuale e dall’innovazione dei talenti, e le potenziali misure a supporto delle carriere e della cooperazione”. Da queste sottolineature si coglie il forte significato di ‘ecosistema’ adottato dalla Commissione Europea e allo stesso tempo il suo cruciale ruolo nelle politiche della ricerca e dell’innovazione, ruolo confermato infatti dalla crescente centralità del concetto di ecosistema nelle linee strategiche attuali (si veda come esempio emblemativo l’horizontal pillar “Widening participation and strengthening the European Research Area” del nuovo programma Horizon, ).

Come scrivono Canestrino e Magliocca nel loro testo Dal Knowledge Management ai Knowledge Ecosystems (2019), nell’ultimo decennio la conoscenza è andata affermandosi sempre più come un asset da acquisire e valorizzare per il conseguimento e la conservazione di vantaggi competitivi da parte delle imprese. Di conseguenza il Knowledge Management – al crocevia tra approcci plurimi all’analisi dei processi di creazione e gestione del sapere – ha assunto importanza come disciplina a supporto della  

formulazione e dell’implementazione di strategie di successo per le organizzazioni. L’idea di ‘ecosistema della conoscenza’ in questo contesto è proprio un approccio – recente – al Knowledge Management, un approccio che rivendica forti vantaggi, dal favorire l’evoluzione dinamica delle interazioni di conoscenza tra entità diverse, al potenziare le reti di collaborazione, al migliorare la presa di decisione e l’innovazione. Questo approccio – concretizzato ad esempio nel celebre caso del governo canadese – si pone in alternativa rispetto alla direttività manageriale e alla gestione diretta e controllo dei risultati, focalizzandosi maggiormente sull’abilitazione dell’auto-organizzazione in risposta ad ambienti mutevoli.

Un knowledge ecosystem è un sistema interconnesso di risorse di conoscenza, database, esperti umani e agenti artificiali che, collettivamente, rendono disponibile conoscenza online, anywhere, anytime finalizzata allo svolgimento di compiti e processi dell’organizzazione. Apprendimento e lavoro sfumano quindi l’uno nell’altro in una continua interazione di conoscenza. Come gli ecosistemi naturali, i knowledge ecosystem ricevono input, processano e producono output nello scambio con l’ambiente. Centrale è il concetto di fitness di un ecosistema della conoscenza, una misura della corrispondenza tra la conoscenza e i problemi affrontati.

L’idea di condivisione e di continua fruizione e produzione di conoscenza raggiunge, in realtà, il suo culmine fuori dalle organizzazioni, in una visione della società e della cultura basata sullo sharing radicale portata avanti da guru innovativi della tecnologia, dalle startup e in parte dai grandi player di internet. Nel 2006 Richard Baraniuk della Rice University ha tenuto un talk basato sul progetto Connexions (che oggi si chiama OpenStax), una piattaforma in grado di memorizzare libri, scomporli in “moduli” marcati con il linguaggio XML, e rendere questi “mattoncini di Lego” disponibili ai docenti e agli studenti per la composizione di libri di testo sempre nuovi. Il potenziale di apertura del sapere è, per Baraniuk, dirompente. Ad esempio Connexions avrebbe lavorato con Insegnanti Senza Frontiere per sviluppare e restituire materiale di insegnamento per insegnare agli insegnanti come insegnare in 84 paesi in giro per il mondo. Nel suo talk Baraniuk solleva anche la questione della proprietà intellettuale, sottolineando la necessità di un nuovo framework (creative commons che, nel 2006, era ancora abbastanza nuovo). Altro problema – in un sistema di condivisione radicale – è il bisogno di un controllo di qualità tra pari. Molto interessanti sono le parole visionarie che partono dall’esempio della musica e arrivano all’applicazione ai libri:

“Ciò che è successo nel mondo della musica è che c’è una cultura o un ecosistema che è stato creato [in cui] creiamo, copiamo, mixiamo e masterizziamo. Ciò che voglio dire è che ognuno di noi è libero e autorizzato a creare nuova musica e idee musicali. Tutti in questo mondo sono liberi di estrarre o copiare idee musicali, utilizzarle in maniera innovativa. Ognuno di noi è autorizzato a mixarle in modi diversi, creare connessioni tra idee musicali e la gente può masterizzare o creare prodotti finiti e continuare così di seguito. E quello che è stato fatto è creare, come dicevo, una vivace e ampia comunità fatta di persone che lavorano continuamente per connettere idee musicali, innovare e tenere tutto sempre costantemente aggiornato. Il singolo di oggi non è il singolo dell'anno scorso” (Baraniuk 2006, 0:22).

Ispirandosi a quanto accaduto nella musica, Baraniuk espone l’idea che reinventa “il modo in cui pensiamo si scrivano libri, si leggano e si utilizzino per insegnare”:

“Immaginate di prendere tutti i libri del mondo. Ok, immaginate tutti dei libri e immaginate di strappare le pagine. Così, liberate queste pagine e immaginate di digitalizzarle, e poi le immagazzinate in un vasto, interconnesso, deposito globale. Pensatelo come un gigantesco iTunes, per contenuti come i libri. Poi prendete quel materiale e immaginate di renderlo libero, in modo che la gente possa modificarlo, giocarci, migliorarlo. Immaginate di renderlo libero, così che tutti possano avere accesso a tutta questa conoscenza e immaginate di utilizzare l'informatica per poter aggiornare i contenuti, migliorarli, giocarci, su una scala temporale che è più dell'ordine di secondi che di anni. Ok, invece di edizioni nuove ogni due anni, di un libro, immaginate un'edizione ogni 25 secondi” (Ivi, 2:42).

Secondo personaggi visionari come Baraniuk, questa via di lavoro offre addirittura la possibilità di risolvere la crisi della scuola, abolendo numerose barriere di accesso e di motivazione alla cultura. In ogni caso questo orizzonte è visto da molti come un vero e proprio sogno evolutivo dell’educazione del futuro, e ancora una volta può essere letto in chiave ecosistemica:

“io farò riferimento ad un "ecosistema della conoscenza". Quindi, veramente, questo è un sogno e in un certo senso potete pensare che stiamo cercando di permettere a tutti nel mondo, intendo veramente tutti nel mondo di essere il proprio DJ dell'educazione, creando materiale educativo, condividendolo con il mondo, innovandolo costantemente. È veramente un sogno” (Ivi, 3:31).

 

 

È davvero un sogno? Aspetti ecosistemici da recuperare – convivenza, destino comune, comunità 

Come sempre avviene nella metafora, i tre concetti training ecosystem, education ecosystem e knowledge ecosystem enfatizzano alcuni aspetti degli ecosistemi fisico-biologici e ne tralasciano altri. Nella Tabella 1 ho cercato di mappare queste diverse sottolineature. Gli aspetti meno evidenziati – come il destino comune e la compenetrazione fisica, ma anche l’equilibrio e il rischio di cambiamento catastrofico – sono a ben vedere tuttavia veramente essenziali quando si parla di educazione. Se la situazione pandemica ha accelerato alcune tendenze in corso nel mondo dell’educazione e della formazione, mi chiedo: forse tale accelerazione consiste proprio nell’ulteriore disattenzione a questi aspetti?

Tabella 1: Come sempre avviene nella metafora, i tre concetti training ecosystem, education ecosystem e knowledge ecosystem enfatizzano – nel contesto di arrivo – alcuni aspetti degli ecosistemi fisico-biologici e ne tralasciano altri.

È davvero il “sogno dell’educazione” permettere a tutti nel mondo “di essere il proprio DJ dell'educazione, creando materiale educativo, condividendolo con il mondo, innovandolo costantemente”? O questo “sogno”, portato alle estreme conseguenze, paradossalmente ci racconta di una parcellizzazione e di un radicale individualismo, dell’assenza di un’idea di destino comune, di una estinzione della condivisione nella smaterializzazione delle relazioni? L’esasperazione della situazione globale della pandemia di COVID-19, con il sovraccarico dei canali informazionali digitali e cognitivi, non ci fa forse riflettere più profondamente sulla convivenza sociale e sulla comune appartenenza che vengono messe alla prova?

Nell’educazione è sempre stato irrinunciabile e costitutivo guardarsi negli occhi, scambiarsi gesti, parlare per dirsi “questo è il nostro spazio, questo il nostro tempo, questi ingredienti (nozioni, stili, valori) che sono miei diventano anche tuoi, mentre il tuo contributo diventa anche mio, ci importa l’uno dell’altro, we care – l’uno dell’altro e del bene comune”. Credo si debba dare peso a questa materialità e vivacità quando si dice che alla base dell’educazione vi è condivisione, in senso molto forte e materiale: si educa respirando la stessa aria, dando spazio e facendo spazio, cedendo un posto, sedendosi accanto e facendosi colpire dalle medesime onde luminose e sonore, avvicinandosi e dando una mano quando l’altro cade. Sentendosi reciprocamente il respiro. Sono, quelli appena espressi, pensieri forse tradizionalisti e nostalgici. Mi sembra però che si accorpino in maniera interessante proprio all’idea di ecosistema nel suo contesto nativo. Come abbiamo visto all’inizio, la natura dell’ecosistema sta proprio nella compresenza nello stesso spazio, nella circolazione di materia ed energia, nell’oscillazione correlata di miriadi di variabili ma soprattutto di miriadi di esseri viventi, elementi e processi materialmente collegati tra loro.

Per quanto riguarda l’educazione, è molto interessante il punto di vista se vogliamo anti-ecosistemico del filosofo e pedagogista Gert Biesta, il quale parla da tempo di learnification dell’educazione (Biesta 2014). Secondo la sua analisi a partire dagli anni Settanta nei documenti internazionali si è progressivamente estinta la parola education per essere rimpiazzata da learning: siamo nella learning age – si dice – dove imparare è life long e life wide: imparare è inevitabile, intrinsecamente buono, ed è un compito cui tutti gli individui devono dedicarsi, pena l’esclusione dal mondo del lavoro e, in ultima analisi, la catastrofe della società. Per Biesta si trasforma, nel passaggio da education a learning, la concezione stessa della formazione dell’adulto. Nel learning si perde l’idea di relazionalità dell’educazione: il learning è infatti un processo sempre più individuale, attraverso cui l’individuo deve mantenersi appetibile, employable, connesso. E questo si nota sempre più anche nei delivery format del learning, videopillole e corsi online su tutti. Il termine educazione, ma anche la pratica educativa stessa, richiamano invece alle relazioni e alla comunità: non mi educo da solo, qualcuno mi educa, e non mi educo per essere solo, bensì per essere inserito in maniera positiva in una comunità. Inoltre il learning parcellizza il processo di crescita dell’individuo, come questo fosse una accumulazione lineare di “pezzettini” e mai un vero e proprio percorso di crescita, sviluppo, vero cambiamento, dove la persona viene aiutata e in più orientata anche verso certi valori. Estremizzando, poi, il learning – presentato come fine in sé – non aiuta a mantenere bene a fuoco i “perché”: perché sto imparando questo e non quest’altro? Qual è lo scopo ultimo di tutto questo apprendere?

L’analisi di Biesta ci aiuta a intuire quanto perdiamo se aderiamo totalmente alla filosofia del learning a tutti i costi, senza cercare invece di allargare lo sguardo e di pensare anche alla educazione dell’adulto. La formazione o educazione passa dalla relazione e dalla cura, dalla comunità, dall’accompagnamento, dai valori, anche dalla comprensione sì di saperi ma soprattutto da una comprensione morale veicolata insieme all’apprendimento delle conoscenze.

Alcune assonanze le troviamo anche nell’approccio “umanistico” all’educazione promosso dall’UNESCO:

“Le funzioni economiche dell’educazione sono indubbiamente importanti, ma è necessario superare la visione strettamente utilitaristica e l’approccio incentrato sul capitale umano che caratterizzano gran parte dei dibattiti internazionali sullo sviluppo. L’educazione non è solo una mera acquisizione di abilità, ma è anche apprendimento di valori quali il rispetto della vita e della dignità umana, necessari per garantire armonia sociale in un mondo caratterizzato dalla diversità. Avere consapevolezza dell’importanza delle questioni etiche per il processo di sviluppo, permette di contrastare l’attuale discorso dominante. Tale comprensione rafforza il ruolo che l’educazione riveste nello sviluppo delle capacità di cui le persone hanno bisogno per condurre una vita dignitosa e significativa” (UNESCO 2015, pag. 39).

 

Sempre dall’UNESCO è promossa una visione dell’educazione come “bene comune”, come “bene pubblico globale:

“Data la necessità di uno sviluppo sostenibile in un mondo sempre più interdipendente, l’educazione e la conoscenza dovrebbero, pertanto, essere considerate come beni comuni globali” (UNESCO 2015, pag. 13).

Il principio della conoscenza e dell’educazione come beni comuni globali è ispirato al valore della solidarietà che affonda le sue radici nella nostra comune umanità, e ha conseguenze per i ruoli e le responsabilità delle parti interessate nell’impresa educativa. Contrasta ad esempio con visioni privatistiche, individualistiche, neo-liberiste e competitive dell’educazione, e trasforma quindi la “ecologia dell’educazione” in un principio guida che, sulla base della forte motivazione da rinvigorire dell’appartenenza e del destino comune, spinge anche a camminare verso una unitarietà pedagogica. Il problema si solleva ad esempio nel contesto sempre più diversificato e intrecciato sopra descritto quando abbiamo parlato di education ecosystem:

“...la vera questione fondamentale riguarda se e come dare una qualche forma di unitarietà pedagogica alle pluralità di azioni e di soggetti che agiscono educativamente. Mentre l'unitarietà organizzativa si limita a definire le regole di interazione, a definire compiti e i ruoli, quella pedagogica si colloca su un piano diverso che investe la convergenza dei diversi 'protagonisti' in ordine al senso complessivo delle azioni che si mettono in atto, agli scopi educativi che si intendono perseguire, ai metodi attuabili” (Triani 2018, pag. 53).

Ma in che senso si può pensare una unitarietà pedagogica dell’ecosistema educativo?

Un primo approccio di risposta è focalizzato sulla società: ogni società educa con un proprio ‘ordine’, quasi fosse un organismo. Si può quindi dire che la società ha un proprio programma educativo magari implicito che se da una parte va svelato e rivelato, dall’altra va cambiato, specialmente in momenti di crisi epocale. Bisogna dunque, secondo questo approccio, svolgere un lavoro di coordinamento per condividere fini e principi generali validi, per renderli sempre più coerenti e per (ri)ordinare le azioni in relazione ad essi. Questo approccio all’ecosistema dell’educazione non è molto soddisfacente, perché un coordinamento tra tutti gli attori che contribuiscono all’educazione è non soltanto impossibile, ma indesiderabile per le sue derive ideologiche.

Un secondo approccio, più promettente anche se non privo di problemi, è quello focalizzato sulla comunità, concetto che rispetto a ‘società’ evidenzia maggiormente spontaneità e vicinanza. L’unità pedagogica si ritroverebbe non tanto coordinando gli attori a livello della società, quanto ritrovando l’appartenenza degli individui alle comunità, e le responsabilità educative di queste ultime. L’ecosistema dell’istruzione sarebbe dunque composto da reti di comunità in connessione tra loro.

Interessante è poi la visione che sottolinea la complementarità tra società e comunità:

La società con l'insieme delle sue istituzioni e delle sue norme ha bisogno della vitalità del livello comunitario e sono proprio le energie e le risorse messe in moto dalla communitas a garantire la vitalità e il rinnovamento del sistema sociale nel suo complesso.

Molta della riflessione sul lavoro sociale negli ultimi anni ha messo particolarmente l’accento sulla comunità come risorsa già presente da valorizzare, oppure come risorsa potenziale da far crescere e alimentare, prevedendo azioni di coscientizzazione, promozione della partecipazione, consolidamento dei legami, animazione delle comunità locali. La comunità viene vista come soggetto unificante e punto di riferimento stabile per ogni progetto educativo, e ciò è espresso in particolare nella nozione di “comunità educante”, una formula già presente alle origini della pedagogia sociale ma ben presente nel dibattito pedagogico a partire dagli anni ‘70, quando è stata utilizzata anche dagli organismi internazionali (assieme al concetto più generale di ‘comunità’) “come direzione di lavoro, come ‘presagio’, come ‘utopia’, come categoria chiave per ripensare il rapporto tra scuola e società...” (Triani 2018, pag. 69).

Queste piste di riflessione e di lavoro ci riportano alla stretta riconnessione del concetto di ecosistema con il concetto di comunità, di destino comune, di rischio condiviso, che si combina anche con la concezione dell’educazione come bene pubblico (globale) e che traccia le sfide urgenti e cruciali per la ricostruzione dell’educazione del futuro (Simeone et al. 2020).

 

Bibliografia