Riflessioni Sistemiche n° 24


Educazione e Formazione:
livelli, problemi e prospettive

Appunti per un’ecologia dell’educazione


di Giuseppe Torchia

Docente di arte
Scuola secondaria di primo grado

Foto di StockSnap da Pixabay

Sommario
L’articolo costituisce un tentativo di lettura sistemica di alcuni aspetti e momenti dell’esperienza d’insegnamento dell’autore. Si mettono a fuoco: l’apprendimento come co-costruzione delle conoscenze; il ruolo positivo che il ‘rumore’ può svolgere nel contesto delle attività scolastiche; il passaggio dalla spiegazione all’elaborazione di pattern di comprensione condivisi; la gestione delle regole attraverso un cambiamento di contesto; la considerazione del docente come osservatore partecipante.


Parole chiave
rumore, contesto, premesse implicite, feedback, co-costruzione, ricorsività circolare, canovaccio, spiegazione, mappe, cornici, osservazione partecipante, exotopia.


Summary
The article constitutes an attempt at a systemic reading of some aspects and moments of the author's teaching experience. They focus on: learning as a co-construction of knowledge; the positive role that 'noise' can play in the context of school activities; the transition from explanation to the development of shared understanding patterns; the rules management through a context change; the consideration of  the teacher as a participating observer.


Keywords
noise, context, implicit assumptions, feedback, co-construction, circular recursion, scenario, explanation, maps, frames, participant observation, exotopia.

 

 

L’esperienza del “rumore”
Una volta durante una video-lezione su Van Gogh un alunno di classe terza mi ha posto questa domanda: “Ma se era malato come faceva a dipingere questi quadri?”. Si può considerare un intervento di questo tipo come un’inutile divagazione da liquidare in pochi secondi o da ignorare del tutto. In entrambi i casi sarebbe un errore perché alla base dell’affermazione dell’alunno c’è l’interessante assunto dell’impossibilità che malattia e abilità artistica possano coniugarsi.

L’aver prestato attenzione alla domanda dell’alunno ha invece consentito di estendere all’intera classe l’onere delle possibili risposte. In quella circostanza scelsi di sottoporre alla loro attenzione alcune lettere o stralci di lettere di Vincent al fratello Theo in cui emergevano con una certa intensità gli stati d’animo dell’artista e i suoi impulsi creativi. Avrebbero avuto così la possibilità, attraverso il confronto in piccoli gruppi, di co-costruire risposte sintonizzando le proprie emozioni e i propri pensieri con quelli di Van Gogh così come loro li percepivano e con la rassicurazione che non c’erano risposte ammissibili e altre inammissibili.

Senza addentrarmi nei dettagli di un percorso di lavoro improvvisato in quanto non precedentemente pianificato ma non per questo condotto in modo spontaneistico, posso affermare che durante il suo svolgimento emerse un quadro variegato che contemplava, rispetto all’assunto sotteso alla domanda succitata, diverse letture del rapporto tra malattia e creatività artistica, una delle quali considerava anche l’assunto opposto: “grazie alla malattia riusciva a dipingere”.

Al tempo stesso la riflessione collettiva si era aperta ad una pluralità di temi rientranti in un dominio più ampio di quello dell’arte. Temi come la ‘normalità’, il binomio genio/follia, la spontaneità, la creatività, la malattia (mentale), la cura, il carattere, il suicidio, ecc. hanno trovato piccoli spazi di riflessione non soggetti all’imperativo della ricerca di una ‘conclusione’ o di una ‘verità’.

Questo ampliamento della discussione aveva fatto emergere quelle “teorie ingenue” che riflettono, tanto nei ragazzi quanto in noi adulti, le abitudini percettive e cognitive apprese con l’esperienza. Cosicché di fronte a coloro che sostenevano la tesi dei comportamenti altrui come causa del disagio di Van Gogh, vi erano coloro che ritenevano che la causa fosse ‘dentro’ l’artista cioè nel suo ‘carattere’ considerato come un ‘dato’ indipendente.

Nel corso della discussione tra le diverse voci della classe in entrambe le posizioni succitate emersero delle crepe, si manifestarono delle fragilità. Tracciare con decisione il confine tra gli “altri” e l’“io” dell’artista diventava difficile. La battaglia tra “ambientalisti” e “innatisti”, come mi piace definirla, si smorzava a favore di punti di vista più “liquidi”, privi di certezze e attraverso i quali emergevano possibili intrecci rispetto ai quali era molto difficile affermare un principio di causalità.

 

Alla fine dell’esperienza possiamo dire che si era co-costruito un sapere attorno all’oggetto della nostra riflessione. Un sapere condiviso, non uniforme ma pluriforme, non definitivo ma transitorio, vale a dire aperto a nuove ipotesi. La prospettiva della co-costruzione dei saperi si basa sul presupposto che l’apprendimento sia un processo in cui l’individuo che apprende svolge un ruolo attivo di rielaborazione e riorganizzazione delle informazioni. Le conoscenze pregresse organizzate in “mappe cognitive” sono il filtro attraverso il quale passano le informazioni nuove. I criteri costitutivi di tali mappe distinguono tra ciò che va accettato e ciò che va respinto. Ciò che si accoglie può provocare feedback sulle mappe nel loro insieme. In questo modo l’acquisizione di nuove conoscenze si configura come auto-riorganizzazione delle mappe di cui dispone il soggetto che apprende.

L’input occasionale che ha avviato tale processo di co-costruzione è stata la domanda dell’alunno citata in apertura di questo scritto. Evento che evidenzia il possibile ruolo positivo che può giocare il ‘rumore’ nel contesto delle relazioni didattico-educative che intercorrono tra il docente e gli alunni.

 

Riprendendo l’accezione proposta da Atlan, il termine ‘rumore’ è “considerato nel senso derivato dallo studio delle comunicazioni: si tratta di tutti i fenomeni aleatori parassiti che disturbano la trasmissione corretta dei messaggi e che d’abitudine si cerca di eliminare al massimo” (Morin E., 1974, pag. 35).

A scuola il rumore può essere costituito da tutti quegli eventi casuali e/o imprevedibili che possono disturbare il pianificato svolgimento delle lezioni e che si tende a rimuovere o a ignorare quando possibile. Tuttavia, come ci avverte Atlan, vi sono casi in cui il ‘rumore’ può svolgere un ruolo benefico (ibidem). E Bateson, in Mente e Natura, scrive: “senza il casuale, non possono esservi cose nuove” (Bateson G., 1988, pag. 197).

Il rumore come evento potenzialmente perturbante può tramutarsi in una sorta di “momento propizio” da cogliere “a volo” per imprimere una proficua deviazione al tracciato didattico.

Gli eventi casuali e imprevedibili non si possono per loro natura inserire in una programmazione didattica che si basa su un’epistemologia lineale. Tale documento programmatico, obbligatorio nelle scuole da diversi decenni, presuppone la stesura e l’esecuzione di un percorso in cui si scandiscono tappe punteggiate da obiettivi disposti in sequenze ordinate progressivamente.

 

La metodologia e gli strumenti selezionati dovrebbero garantire l’affidabilità del percorso.

È una prassi “ingegneristica” che considera gli alunni “macchine banali che a un determinato input generano sempre e comunque lo stesso output” (von Foerster H., 2020, pag. 65). Una prassi che presuppone l’esistenza di una realtà esterna ed indipendente dal soggetto in rapporto alla quale la conoscenza consisterebbe nell’elaborazione di informazioni che la rispecchiano e che il docente (colui che sa) travasa negli alunni (coloro che non sanno). Il ruolo di questi ultimi è pertanto quello di “recipienti-riceventi” a cui è affidato il compito di memorizzare risposte e di saperle ripetere in occasione di interrogazioni, verifiche, compiti.

 

Un modello di scuola che viene dato ancora per dominante e che, usando la terminologia di Von Foerster, si limita a porre “domande illegittime” cioè domande di cui si conosce la risposta anziché “domande legittime” le cui risposte siano ignote. Ritengo che la domanda dell’alunno su Van Gogh riportata nell’incipit di questo scritto appartenga alla categoria delle domande legittime. Essa è soltanto una delle forme che può assumere il rumore a scuola. Vi sono anche forme più “estreme”. Alessandro Cravera in un post scritto per il suo Blog (Cravera A., 2015) ci ricorda un episodio del film "Nuovo cinema

Paradiso" in cui una maestra di un paesino siciliano chiede a un alunno quanto fa 5x5. L’alunno, dopo due errati tentativi, vedendo un compagno che prova a suggerirgli il numero 25 indicando l’illustrazione di un albero di Natale, risponde: “Natale!”. Risposta che gli procura altre vergate da parte della maestra accompagnate dalle risate dei compagni.

Oggi non assisteremmo più a tale risposta violenta da parte di un insegnante. Questi si limiterebbe a richiamare severamente l’alunno per la sua impreparazione e a invitarlo a studiare di più. Ma cosa succederebbe invece se gli si chiedesse: “Come mai hai detto Natale?”.

Si può supporre che risponderà riferendo l’accaduto, il che costituirà già un’ottima occasione per prendere coscienza del processo d’inferenza che ha attuato. Ma si potrà andare oltre spingendolo attraverso opportune domande a scoprire altre possibili inferenze ivi compresa quella che conduce al numero 25. 

Queste opzioni non sono ininfluenti in quanto svolgono una funzione metacognitiva: mettono in moto i processi conoscitivi del bambino, le sue deduzioni, la sua capacità di elaborare argomentazioni, di sperimentare diverse chiavi interpretative.

 

“Non darmi la risposta giusta, dammi tutte quelle possibili” recita il titolo di un altro post di Cravera (Cravera A., 2014). Per l’autore questo incitamento serve ad allenare alla complessità. Non bisogna limitarsi a porre domande che richiedono risposte giuste, bisogna allenare bambini e ragazzi anche a domande che tendono ad aprire anziché chiudere, avverte Cravera. “Provate a chiedere a un bambino di seconda elementare che ha appena finito di imparare le tabelline: la risposta è 10. Quali sono le domande?” (ibidem).

 

Le domande, tutte ugualmente giuste, possono essere molteplici e si può ipotizzare anche un’uscita dal contesto delle operazioni aritmetiche. Se si ha che fare con dei ragazzi più grandicelli si può anche presupporre la possibilità di una domanda del tipo: “Quanti sono i “piccoli indiani” del famoso romanzo giallo di Agatha Christie?”.

Moltiplicare le domande e moltiplicare le risposte aiuta a centrare l’attività didattica sulle operazioni metacognitive che consentono agli allievi di scoprire i propri procedimenti mentali. È una prassi che favorisce l’esercizio dell’immaginazione come apertura verso l’inatteso, il probabile, il possibile.

 

 

 

Dalla spiegazione a pattern di comprensione condivisi

 

Il mondo è per se stesso

fluidità e caos, e perciò si presta

non a spiegazioni ma a interpretazioni,

non a rivelazioni ma ad attribuzioni di senso.

Giovanni Maria Bertin

 

Per un “docente sistemico” la cui vocazione è quella di tessere relazioni tra le componenti di un contesto educativo inteso come tessuto di relazioni tra individui (allievi e docenti) e ambiente (spazi, arredi, materiali, ecc.), è di vitale importanza, di fronte ad un evento dissonante, agire cucendo una relazione e non operando uno strappo.

In relazione agli aspetti organizzativi del lavoro didattico, più consono a tale visione risulta lo strumento del canovaccio piuttosto che quello della programmazione. L’uso di questo termine risulta alquanto seducente sia a livello etimologico che figurativo. Etimologicamente richiama l’idea di tessuto con i suoi fili intrecciati, figurativamente indica la trama, l’intreccio più o meno definito di un’opera teatrale. L’aspetto che ritengo più interessante della definizione figurativa è il suo carattere d’incompiutezza. L’opera, i suoi dialoghi e le sue azioni sceniche, si costruiscono strada facendo, attraverso le interazioni tra gli attori che mettono in gioco esperienza e arte dell’improvvisazione. Era ciò che facevano gli attori della Commedia dell’Arte.

Il canovaccio apre la strada ad una relazione coevolutiva tra gli attori coinvolti nel processo educativo (docenti e allievi). Docenti e allievi sono parte di un processo ricorsivo circolare che modifica entrambi. I saperi non sono più concepiti come prodotti pre-confezionati che vanno semplicemente trasferiti dal docente al discente ma come configurazioni conoscitive emergenti dal processo d’insegnamento /apprendimento.

Una strada ben diversa da quella lineale prescritta dai manuali scolastici e dalle programmazioni curricolari che non favoriscono l’incontro con l’inaspettato, l’imprevedibile.

Marco Baliani (Baliani M., 2015), attore, autore e regista, ci invita a considerare l’etimologia della parola ‘educare’, ex-ducere, nel significato di “portare via da”. Sviare dalla strada prefissata, dice sempre Baliani, è il compito principale del vero Maestro. Ecco, credo, che l’insegnante debba essere anche un po’ Maestro. Che debba allestire scenari di ricerca che per essere tali non devono condurre in un luogo già noto.

Nell’affrontare un tema complesso, l’insegnante deve offrire la possibilità di esplorarlo da più punti di vista per coglierne aspetti diversi: “il sapere è come un tutto intrecciato insieme, o intessuto, come una stoffa, e ciascun pezzo di sapere è significativo o utile solo in virtù degli altri pezzi” (Bateson G., 1987, pag. 56).

In questa prospettiva la pratica della spiegazione, pilastro della lezione frontale, andrebbe riconsiderata criticamente.

Possiamo assumere come punto di partenza il noto principio di Alfred Korzybski (Korzybski A., 2000): “la mappa non è il territorio”. Un principio che istituisce una distinzione tra le nostre mappe del mondo e il mondo stesso. I modelli di mondo che costruiamo tentano di generalizzare e sintetizzare le nostre osservazioni ma le parole e i concetti che elaboriamo non sono in grado di render conto della molteplicità di esperienze e osservazioni possibili.

A scuola la spiegazione è praticata come lo strumento che veicola una mappa bell’e pronta e ben definita di un determinato argomento (territorio), a tal punto da apparire allo sguardo e all’ascolto dei discenti come una sorta d’incarnazione del territorio.

 

Una visione pertanto “sostanzialistica” dell’oggetto di studio in base alla quale le rappresentazioni mentali che la mappa offre corrisponderebbero a presunte proprietà dell’oggetto.

Questo errore epistemologico si accompagna ad un’idea di comprensione come variabile dipendente, da una parte, dalle qualità intrinseche della spiegazione (chiarezza, coerenza, precisione, completezza, ecc.), dall’altra, dalla capacità degli alunni di decodificare la spiegazione “nel modo giusto” cioè in modo tale che il discorso che l’emittente intende trasmettere sia riflesso nella mente dei destinatari e ripetibile “in modo corretto” all’occorrenza. L’idea di comprensione così si focalizza sui membri dell’interazione considerati separatamente e non sull’interazione che si realizza. Se si assumesse la prospettiva dell’interazione si dovrebbe considerare la possibilità di un contesto più ampio in cui la comprensione possa realizzarsi attraverso la compartecipazione di tutti gli attori coinvolti nell’avventura didattica. E uso appositamente il termine “avventura” per sottolineare la dimensione non ordinaria e inaspettata che assume l’esperienza didattica quando alla prassi della spiegazione preferisce la co-costruzione di pattern di comprensioni condivisi.

Questa prospettiva tradotta in prassi didattica comporta un passaggio dalla centralità della spiegazione alla centralità dell’esplorazione. Pochi input informativi su un argomento possono generare, per ramificazione, una molteplicità di opzioni di ricerca basate su associazioni, interessi, curiosità che proliferano nel vivo delle relazioni intersoggettive.

 

Nel corso di un’esperienza condotta sempre con le classi terze della secondaria di primo grado, siamo entrati in contatto con il fenomeno dell’Impressionismo attraverso una pluralità di elementi suggestivi: la relazione luce-colore, la pittura en plein air, i treni a vapore, l’abbigliamento del pittore e il suo kit di pittura, la nascita dei tubetti, animali come il maiale e il furetto, la città, l’acqua, le ballerine, i gessetti del sarto, l’ippodromo e i cavalli, la fotografia, la rivolta contro l’arte ufficiale, ecc.  Ogni elemento è diventato un possibile punto d’incontro con le “storie” delle ragazze e dei ragazzi. La ragazza che studiava danza coglieva un’“affinità elettiva” con le ballerine di Degas e questo sentimento diventava per lei una chiave di accesso al movimento artistico. Così accadeva per altri in rapporto a proprie “storie”. Ogni punto di contatto diventava l’incipit di un percorso esplorativo che, supportato dalla consultazione di fonti (audiovisive, cartacee, digitali), veniva condiviso e rielaborato con altri compagni all’interno di un lavoro per piccoli gruppi. Le diverse “storie” in questo modo potevano rivelare tra di loro punti d’intersezione e connessioni. Lo strumento della mappa come rappresentazione grafica di parole e frasi-chiave tra di loro interconnesse è stato scelto come il modo più adeguato per visualizzare le idee elaborate.

Questo approccio multiprospettico ha il vantaggio di portare alla scoperta delle possibili relazioni tra gli elementi dell’oggetto di studio (le parti del tutto) rifuggendo al tempo stesso un ordinamento secondo un principio di causalità lineare.

Nella genesi e nello sviluppo del fenomeno “Impressionismo” diversi fattori hanno svolto un ruolo generativo e propulsivo. Tali fattori si richiamano a vicenda in un dialogo incessante e mai definitivo. Per questo il “punto finale” del lavoro didattico non va considerato come un traguardo che ci illumina sulla “verità” del fenomeno bensì come il compimento di un’opera aperta a ulteriori e possibili sviluppi.

L’apertura all’ignoto che ogni conoscenza dovrebbe contemplare comporta rischi di dispersione, di frastornamento, di smarrimento ma sono rischi che vanno affrontati per evitare i clichés, le frasi fatte, le risposte già pronte, le interpretazioni pre-confezionate. Le direzioni di senso vanno scoperte con il confronto tra le diverse descrizioni che gli allievi costruiscono attraverso la riflessione individuale e il lavoro collettivo.

  

 

Le regole: dall’aula al teatro 

La cultura come “mappa” del mondo, la realtà come costruzione sociale, la dimensione sociale dell’apprendimento sono tutte idee che negli ultimi decenni si sono affermate in diversi ambiti di riflessione (scienze sociali, epistemologia, pedagogia). Eppure nella scuola l’apprendimento è concepito come qualcosa che accade dentro la testa del soggetto conoscente in una dimensione pressoché solitaria, nel contesto di un insegnamento che si basa ancora su presupposti comportamentisti (modello stimolo-risposta) e su principi di causalità lineare (l’insegnamento causa l’apprendimento).

L’apprendimento invece è un processo complesso, reticolare, circolare e multiforme che mette in gioco molti fattori interrelati: affettivi, cognitivi, socio-culturali, organizzativi, esperienziali, ecc. È naturalmente illusorio pensare che i docenti possano padroneggiare e controllare tutti questi fattori. Così come è altrettanto illusorio pensare di programmare una didattica basata su procedure standardizzate. Le variabili e gli eventi imprevisti che si presentano in itinere nella relazione educativa sono tali da esigere una retroazione creativa che si muova tra aggiustamento e cambiamento. Essi costituiscono informazioni che perturbano lo stato d’equilibrio del sistema classe e che richiedono una risposta in grado di ripristinare la stabilità o creare un nuovo stato equilibrio.

Nella scuola è frequente riscontrare situazioni in cui di fronte ad un comportamento che incrina la “regolarità” della lezione cioè “il suo sereno svolgimento”, si reagisca cercando di diminuire o rimuovere l’elemento disturbante. Sia ben chiaro che spesso o talvolta tale strategia può risultare sufficiente e non richiedere ulteriori azioni. Ma supponiamo, ad esempio, che nel corso di una discussione collettiva, generata magari da una o più domande poste dal docente, numerosi alunni, non avendo preventivamente alzato la mano per attendere il proprio turno, rispondano contemporaneamente e ad alta voce. In questo caso all’interno del sistema-classe si genera un’informazione come differenza tra uno stato di quiete e uno stato d’agitazione o di vero e proprio caos a cui generalmente il docente reagisce cercando di apportare correzioni che ripristino l’equilibrio del sistema-classe. Spesso il tentativo di ‘correzione’ consiste nell’adottare una reazione tipicamente simmetrica: rimproverare gli alunni urlando ancora più forte di loro per imporre il silenzio. È una prassi che oltre a risultare spesso inefficace, tende a ristabilire una forma d’interazione docente/alunni di tipo complementare (autorità/sottomissione).

Sottrarsi a queste reazioni “spontanee” è fondamentale per un docente sistemico che aspira a un ruolo di “tessitore di relazioni” cioè di colui che tende a tessere la trama e l’ordito della classe come “comunità di apprendimento”. Diventare una “comunità di apprendimento” vuol dire imparare a condividere significati. In un contesto di questo tipo anche le regole che generalmente sono dettate come ingiunzioni che denotano un obbligo hanno bisogno di una “negoziazione” che abbia per oggetto i significati sociali che ad esse si possono attribuire. Non si tratta di predicare il loro valore normativo e imperativo argomentandone la necessità e l’ineludibilità quanto di costruire esperienze e interazioni che ne facciano scoprire i possibili significati.

Si tratta pertanto, in situazioni problematiche, di ampliare il contesto della “correzione”. Le variabili che operano all’interno del sistema classe di cui il docente è parte non consentono di proporre frame applicabili in tutte le situazioni.

Nel mio percorso scolastico ho talvolta attinto al mondo del teatro e del gioco per sperimentare modalità diverse di approccio ai problemi delle classi e/o per creare legami tra i membri del gruppo-classe. Due mondi in qualche modo imparentati come ci insegnano i verbi jouer e to play che possono significare al tempo stesso ‘giocare’, ‘recitare’ e ‘suonare’.

Augusto Boal amava ripetere: “Tutti possono fare teatro, anche gli attori” (Boal A., 2020, sinossi).

 

Alludeva alla valenza pedagogica, sociale e politica che il teatro può avere e che fa sì che esso possa trascendere gli stessi confini del palcoscenico. Proprio al repertorio di giochi-esercizi del suo “Teatro dell’Oppresso” (Boal A., 2009) ho avuto modo di ispirarmi quando mi sono trovato in tutte quelle situazioni in cui il pattern educativo evocato dalla canonica disposizione dei banchi e degli alunni per file parallele di fronte al docente situato dietro una cattedra, si evidenziava come una gabbia epistemologica all’interno della quale era molto difficile operare un cambiamento. In tali casi cambiare l’assetto della classe, trasferirsi in un altro spazio scolastico più informale o all’aperto, fuori dalla scuola, significa innestare un fecondo scarto nelle routines scolastiche.  All’interno di questo rinnovato ambiente, l’esecuzione di giochi-esercizi teatrali possono generare nuove e inedite relazioni. Il docente depone le vesti del dispensatore di norme e conoscenze, si limita a fornire le istruzioni relative alle azioni da compiere, dopo di che diventa un attore come gli altri che in quanto tale prende parte al gioco.

Uno degli aspetti interessanti di tali giochi-esercizi è proprio costituito dal fatto ch’essi si reggono sul rispetto di alcune regole, spesso molto elementari e senza le quali non potrebbero realizzarsi. Lo scarto rispetto a quella procedura educativa che scommette sul potere persuasivo della comunicazione unidirezionale effettuata dal docente, consiste nel fatto che qui, nel gioco-esercizio, le regole sono agite e lo sono con tutto il corpo perché è richiesta una partecipazione “organica” di tutti gli attori come unità corpo-mente. In tal modo sono percepite come immanenti al funzionamento del gioco e in quanto tali imprescindibili.

Uno dei giochi più gettonati, molto graditi agli alunni di secondaria di primo grado, proposti soprattutto alle classi prime, era quello de “L’orchestra e il direttore” ideato, appunto, da Augusto Boal.

Gli alunni-orchestrali si dispongono in semicerchio di fronte a un compagno che interpreta il ruolo del direttore con o senza bacchetta. Il direttore con un gesto dà inizio alla musica che consiste nell’emissione vocale di un suono ritmico o melodico. Gli orchestrali devono emettere sempre lo stesso suono sino a quanto il direttore con un altro gesto non impone loro di tacere. Così il direttore comporrà la sua musica. Ognuno degli attori può, se lo vuole, interpretare il ruolo di direttore.

L’aspetto interessante di questo gioco è che le regole richiedono una coordinazione con i gesti del direttore e una precisione nel mantenere nel tempo lo stesso suono o ritmo senza lasciarsi distrarre dalla compresenza degli altri suoni. Nello spazio ludico della finzione si realizza una connessione tra regole, coordinazione, precisione e percezione. Un evento nient’affatto scontato che richiede impegno e concentrazione. L’allievo considerato come il perenne ‘distratto’ incapace di concentrarsi, nel contesto del gioco, può sperimentare la possibilità di uscire dalle descrizioni negative dei docenti che agiscono come “gabbie prescrittive” per approdare a un’esperienza positiva di sé.

D’altra parte va evidenziato che la sovrapposizione di voci che in classe produceva una situazione di difficoltà, qui si tramuta in un atto creativo corale e che la responsabilità della riuscita del gioco è affidata all’intero gruppo docente-alunni e non alle capacità direttive del docente.

  

 

L’osservazione partecipante 

Quanto fin qui esposto presuppone come sfondo che il docente veda se stesso come parte del sistema classe e non come programmatore-osservatore esterno. Il docente nelle vesti di guida, di facilitatore, di attore e regista interno al contesto impara a modificare le proprie azioni in base ai feedback degli alunni con i quali si genera un rapporto di causalità circolare.

L’attenzione ai feedback degli allievi richiede la capacità di percepire le informazioni che esse possono trasmettere.

 

Percepirle significa “ricevere notizie di ‘differenza’” (Bateson G., 1988, pag. 46).

La percezione delle “differenze” è un’attività osservativa che il docente sistemico realizza come osservatore partecipante. Quest’ultima definizione è mutuata dall’ambito antropologico e sociologico dove indica una tecnica di ricerca che prevede l’inserimento del ricercatore all’interno della comunità o gruppo sociale oggetto di studio. Il primo a formalizzare questa tecnica fu l’antropologo Malinowski con l’obiettivo di cogliere il punto di vista dell’indigeno, il suo modo di concepire la vita e il mondo. Il ricercatore pertanto interagisce con le persone che studia condividendo il loro habitat.

Le analogie che ci interessano e che giustificano l’uso dell’espressione osservatore

partecipante riguardano il fatto che entrambi, l’antropologo e il docente, producono osservazioni a stretto contatto con gli osservati, intrattenendo con loro relazioni durature e significative all’interno di uno stesso ambiente.

Secondo un consolidato approccio all’osservazione nella scuola, il distanziamento è considerato pre-condizione per ottenere osservazioni più attendibili, più “oggettive”. La soggettività del docente in quanto rumore andrebbe espunta per quanto possibile.

Il docente sistemico non condivide queste premesse perché riconosce l’impossibilità di operare un distanziamento, ritiene che la realtà non sia conoscibile in modo oggettivo e non considera la soggettività come un ostacolo.

Alla base di tali considerazioni c’è il presupposto fondamentale che la realtà non è separabile dal modo in cui un osservatore la osserva e organizza. In base alle sue premesse, l’osservatore costruisce mappe della realtà osservata. Le mappe si costruiscono in base alle premesse implicite che selezionano e organizzano la “realtà” osservata secondo una modalità di organizzazione e secondo modelli di punteggiatura degli eventi (Bianciardi M., 2016).

Ma se il docente-osservatore è inscritto nelle relazioni che costituiscono il contesto di cui è parte e il suo sguardo è in-formato dalle premesse implicite che sottendono le sue mappe interpretative, in che modo può praticare un’osservazione partecipante?

Penso che occorra innanzitutto imparare a riconoscere le abitudini percettive e cognitive attraverso le quali guardiamo il mondo.

Ricordo che nel corso di un Consiglio di classe nel considerare la capacità di socializzazione di un alunno emersero due punti di vista opposti. Da una parte c’era il professore di Scienze motorie (educazione fisica) che sosteneva un parere positivo basato sulla sua esperienza nel contesto del lavoro in palestra. Dall’altra la professoressa d’Italiano che, a titolo semplificativo, per sostenere il suo parere negativo citava la sua esperienza nell’aula d’informatica dove l’alunno non era stato capace di collaborare con i compagni nell’espletamento di un compito. Si tratta di una situazione emblematica in quanto ricorrente nei consigli di classe.

I contrasti tra punti di vista, spesso legati all’esercizio della propria disciplina, si manifestano all’interno di un dialogo tra “sordi” in cui non si colgono le differenti premesse culturali che li determinano. Premesse implicite differenti, non riconosciute come tali, portano a chiudersi dentro il proprio punto di vista.

Il prof. di Scienze Motorie faceva riferimento a esperienze di socializzazione mediate dalla corporeità, dal linguaggio non verbale, la prof. d'Italiano a una socializzazione mediata da una comunicazione centrata sul linguaggio verbale e su competenze informatiche. Ciò che rimaneva in ombra erano le differenti cornici culturali in cui era collocata la nozione di socializzazione. Quest’ultima oltretutto, di là dalle diverse osservazioni generate dai diversi contesti, è assunta nel contesto dialogico del Consiglio di classe come una nozione scontata e in quanto tale condivisa.

 

Sebbene sia vero che di essa prevalga un’accezione riduttiva e generica che le attribuisce il significato di “capacità di stare con gli altri”, ognuno di noi in base alle proprie cornici può attribuirle significati diversi. D’altra parte va considerato che il

termine socializzazione ha un alto grado di complessità tant’è vero che costituisce una delle principali tematiche della sociologia, della psicologia sociale e della scienza dell'educazione. Oltretutto è un tema che mette in gioco la possibilità di un approccio sistemico in quanto riguarda i processi di formazione della persona considerati nel contesto della relazione individuo-ambiente.

Un’altra premessa implicita, ricorrente nei Consigli di classe, consiste nel far coincidere l’osservazione con la valutazione. Prevale l’ansia classificatoria che conduce a distinzioni del tipo: capace/incapace, attento/disattento, rispettoso/indisciplinato, ecc. La stessa discussione tra i docenti di diverse discipline spesso si esaurisce in un elenco di giudizi, concordanti o discordanti, su prestazioni e comportamenti di questo o quell’alunno. E quando lo si ritiene opportuno, si delega la pratica dell’ascolto allo psicologo territoriale a disposizione della scuola. 

È quanto mai singolare che docenti che lavorano a stretto contatto con i propri allievi abbiano bisogno di uno “Spazio di ascolto” gestito da uno specifico professionista ed esterno rispetto alla propria attività educativa. In realtà i docenti potrebbero in prima persona praticare forme di relazione conversazionale come occasioni di osservazione partecipante.

Una possibilità è costituita dallo strumento dell’intervista.

Una buona regola da tenere a mente per realizzare un’intervista è quella di evitare di centrare le domande sui ‘perché’ e concentrarsi principalmente sui ‘come’. I ‘perché’ stimolano risposte che devono risultare accettabili per l’intervistatore e suscitano nell’intervistato la sensazione di una persona “sotto inchiesta” dal punto di vista morale. I ‘come’, invece, si riferiscono ai modi in cui l’intervistato, l’alunno nel nostro caso, esperisce eventi e persone dell’ambiente scolastico. Mettono a fuoco dunque l’aspetto relazionale lasciando spazio alle tonalità emozionali di cui questo si colora. I ‘perché’ indagano, i ‘come’ esplorano.

Di fronte a un compito non eseguito non si chiederà: “Perché non l’hai fatto?” ma si cercherà con opportune domande di esplorare, in rapporto alla specificità del compito, quali sono le reazioni suscitate nell’allievo. “Come vedi questo compito? Come troppo difficile o noioso? Come una perdita di tempo?”. Sono alcune domande possibili, non le uniche, che possono lanciare l’intervista che nel corso del suo sviluppo interattivo genererà altre domande esplorative.

Proprio con lo stesso alunno, oggetto del confronto valutativo su riportato, ebbi l’occasione di usare tale strumento di comunicazione. E l’occasione fu quella di un’interrogazione con lui concordata e a cui era arrivato impreparato. Riporto uno stralcio dell’intervista all’alunno che chiamo con il nome fittizio di ‘Giovanni’ (G.).

Comincio col chiedergli:

 

- Trovi che questi argomenti di Arte siano difficili da studiare? -

- G. No, è che non mi piace studiare.

- Cosa c’è di sgradevole nello studio?

- G. È un obbligo e poi è noioso. Io, se una cosa mi piace, do il massimo per farlo. Se non mi piace, do il massimo per non farlo. Se mi piacesse la scuola sarei il secchione della classe.

- Senti, facciamo finta che tu diventi Ministro della Pubblica Istruzione cosa cambieresti nella scuola?

- G. La scuola la frequenterei anche di estate pur di vedere i miei compagni. La scorsa estate non passava mai perché volevo rivedere i miei compagni.

- Cos’altro ti piacerebbe fare come Ministro?

- G. Farei una scuola senza compiti. Avrebbe un gran successo!

 

 

Poco dopo il colloquio ricade sullo ‘studiare’ e in tale circostanza gli chiedo:

- Cosa potrebbe spingerti a studiare?

- G. Ad esempio la minaccia o un avvertimento, come l'anno scorso, quando mi è stato detto che potevo essere bocciato. Allora io per paura di lasciare i miei compagni, mi sono messo a studiare.

- E quest'anno non hai ricevuto alcuna minaccia?

- G. Sì la prof. (...) mi ha detto che doveva interrogarmi in Storia per poter essere promosso. Allora mi ha fatto studiare con i compagni (li cita tutti in modo preciso). Ho usato assieme a loro i loro appunti e all'interrogazione ho preso tra 7 e 8.

- Un buon voto può essere qualcosa che può spingerti a studiare?

- G. Il voto non lo vedo come premio. Sì, arrivo a casa con un sorriso e lo dico a mia madre che poi è contenta, ma è come faticare tanto per avere qualcosa che dura poco!

 

Questa intervista ci aiuta a vedere come Giovanni vede la scuola. Qual è il significato e il valore che gli attribuisce, che tipo di relazione intrattiene con essa. Ciò che mette a fuoco è come Giovanni si coordina emozionalmente con la scuola lasciando sullo sfondo ciò che generalmente è tenuto in primo piano e che corrisponde alle domande: Cosa sa? Quanto studia? Cosa ha capito? Domande che, come altre, presuppongono un paradigma prestazionale.

I bambini e i ragazzi che frequentano la scuola sono di frequente “invisibili” per i docenti. Sono visti soltanto dalla prospettiva delle performance che sono in grado di realizzare e dell’adeguatezza o meno dei loro comportamenti.

Le parole di Giovanni ci raccontano che il trait d’union tra lui e la scuola è costituito dal legame con i compagni. Questo è l’unico elemento di connessione con la scuola. Al tempo stesso Giovanni ci parla implicitamente della motivazione.  Ci dice che non è qualcosa che sta o non sta “dentro di lui” ma che non si attiva perché la scuola non è in grado di promuoverla. D’altra parte c’insegna anche quanto effimero sia, da un punto di vista che oserei definire ‘esistenziale’, il piacere di un buon voto.

L’intervista può costituire una possibilità di esercizio dell’exotopia cioè di quella “tensione dialogica in cui l’empatia gioca un ruolo transitorio e minore, dominata invece dal continuo ricostituire l’altro come portatore di una prospettiva autonoma, altrettanto sensata della nostra e non riducibile alla nostra” (Sclavi M., 2002, pag. 178). Il che comporta una capacità di uscire dalle proprie cornici interpretative per riconoscere l’altrui punto di vista e il proprio dalla prospettiva dell’altro: “Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista” (ibidem, pag. 69).

 

In relazione all’intervista (non strutturata) occorre tuttavia tener presente che tale strumento sebbene proponga un approccio qualitativo che predilige la descrizione, la narrazione e la trascrizione di resoconti orali, conserva un’implicita asimmetria tra intervistato e intervistatore. Infatti l’intervistatore è colui che fa le domande e l’intervistato è colui che elabora le risposte.

A scuola sarebbe opportuno offrire spazi conversazionali a richiesta degli allievi in cui i ruoli d’intervistatore e intervistato siano superati a favore di una reciprocità basata sulla possibilità per entrambi di porre domande.

Le forme attraverso le quali può realizzarsi l’osservazione partecipante possono essere molteplici. Si può, ad esempio, utilizzare il taccuino come strumento di annotazione etnografica. Le osservazioni che andrebbero trascritte dovrebbero focalizzarsi sugli aspetti più dissonanti rispetto alle nostre cornici culturali, quelli che “spontaneamente” ci appaiono come più strani, più insoliti o illogici.

Si può imitare Mary Catherine Bateson che, come ci ricorda Marianella Sclavi (ibidem), riportava le osservazioni disponendole in due colonne diverse: una destinata alle descrizioni dei comportamenti e l’altra alle proprie reazioni.

L’ “attrito” tra comportamenti e reazioni può essere fonte di stupore, di spiazzamento: buone basi per apprendere ad inquadrare eventi e persone in una cornice diversa da quella che diamo per scontata.

L’uso di questo strumento si presta molto bene, ad esempio, durante il lavoro didattico per piccoli gruppi quando il docente ha la funzione di consulente e moderatore “lieve”. In tali circostanze può permettersi di sostare presso ogni gruppo per svolgere il lavoro di annotazione su accennato.

Qualsiasi siano gli strumenti, i modi, gli atteggiamenti che si adottano, l’osservazione partecipante mira a riconoscere l’alterità dell’altro: le mappe che bambini e ragazzi hanno e con cui si orientano nel mondo. Questo stato disposizionale si apprende soprattutto per via negativa: rinunciando al primato delle nostre abitudini percettivo-cognitive che diamo per scontate. Occorre affrontare un processo d’iniziazione che sia di natura esperienziale e non soltanto teorico-riflessiva. Non a caso il libro qui più volte citato della Sclavi si presenta quasi come un manuale che integra giochi-esercizi e riflessioni teoriche. Un testo prezioso per l’autoformazione del docente. Ma qui ci addentriamo nel terreno della formazione, un tema che appartiene ad una sfera di pertinenza diversa che sebbene interconnessa con quella qui trattata, costituisce un’altra storia che andrebbe narrata ma soprattutto inventata.

 

  

Bibliografia