Riflessioni Sistemiche n° 25


Maestri e mentori.
Visioni sistemiche attraverso le generazioni

Boscolo e Cecchin.
Una storia intima


di Pietro Barbetta

Psicologo, Psicoterapeuta, Direttore CMTF di Milano

Sommario
In questo saggio racconto la mia formazione con Boscolo e Cecchin in connessione con la storia della formazione in psicoterapia a partire dagli anni Ottanta, con la storia della loro formazione a partire dagli anni Sessanta e con la storia della formazione dei loro formatori a partire dagli anni Trenta. Con particolare riferimento ad Arieti. Il grande esilio degli psicoanalisti ebrei dall’Europa verso l’America.

Boscolo e Cecchin furono nomadi volontari in America, alla ricerca, inconscia, delle tracce di un pezzo di storia perduta, il loro rientro in Italia ha portato un vento di cambiamento e de-provincializzazione delle idee e delle pratiche terapeutiche.


Parole chiave
Boscolo, Cecchin, Arieti, Bateson, schizofrenia, ironia, formazione.


Summary
In the following essay, I will write about my training with Boscolo and Cecchin in connection to the history of training in psychotherapy - starting from the 1980s - with reference back to their training - during the 1960s - as well as back to the history of their trainers. With particular reference to Arieti, proscribed from Italy during the 1930s, amongst the great banishment of Jewish psychoanalysts from Europe to America. Cecchin and Boscolo, 30 years later, were volunteers nomads, unconsciously seeking the traces of the generation rejected by fascists. The two came back to Italy with a sweet wind of change, out of the provincial Italian usual psychoanalytic therapies.


Keywords
Boscolo, Cecchin, Arieti, Bateson, schizophrenia, irony, training.

 

La formazione del soggetto dentro la storia della formazione 

Precisamente quaranta anni fa, a ventisette anni, dopo un periodo di turbolenze politiche e universitarie, mi trovo a insegnare psicologia e relazioni pubbliche presso un liceo per il turismo all’Ortica - zona nota per via del palo della banda di Enzo Jannacci e della traduzione milanese di Brave Margot di George Brassens - periferia di Milano.

L’ordine professionale è lungi dall’esistere, le scuole di psicoterapia rarissime, quasi tutte sistemiche.

Gli psicoanalisti si formano attraverso due analisi interminabili, o, se si è brillanti, anche una sola,  breve, come tra Musatti e Fachinelli.

I comportamentisti sono poco noti, se ne parla, perlopiù, come roba d’importazione nordamericana. Lo stereotipo, è già presente, prima ancora che, dieci anni dopo Jodie Foster, facesse la parte della brava agente del Behavioral Unit FBI nel film The Silence of The Lamb.

Infine c’è il cognitivismo piagetiano - molto apprezzato dai teorici della complessità - la cui prospettiva epistemologica si sta integrando con la terapia sistemica e costruttivista.

All’Istituto di Psicologia di Parma - dove inizio un periodo di assistentato volontario con Walter Fornasa durante il giorno libero dall’insegnamento - mi capita la prima occasione di seguire una lezione di Gianfranco Cecchin. Rimango incantato a guardare il nastro magnetico di una seduta familiare con un giovane uomo, definito schizofrenico perché dorme nel lettone con la mamma obesa e ha un padre dandy, sempre lontano per affari.

Provo il desiderio di fare il lavoro di Cecchin. Ho l’impressione che produca cambiamento, senza volerlo. Non è come guidare un tram o fare l’ingegnere. La semplice descrizione del sistema di relazioni è terapeutica anche per me che osservo il video. Chiarisce, con la pratica,  alcuni nodi dei testi di Gregory Bateson (Bateson G., 1977, 1984), autore che stavo leggendo. Mi sembra un approccio antiautoritario, liberatorio, che scatena energie e alimenta prospettive e speranze.

L’idea di Cecchin è una provocazione che mi ha traviato per sempre facendo scaturire uno sconvolgimento del mio pensiero: così si produce un paziente schizofrenico in famiglia, ma pochi ce la fanno. Altri devono accontentarsi di diventare geni matematici, letterari o artistici. Il salto trans-contestuale dello schizofrenico consiste in un particolare tipo di creazione: il delirio (Barbetta P., 2008, 2012). Alcuni il delirio lo esternalizzano e creano prodotti letterari o artistici – James Joyce, Jackson Pollock – magari bevendo. Altre volte invece, matematici, come George Cantor, scultrici, come Camille Claudel, oppure Antonin Artaud, ispiratore delle avanguardie teatrali contemporanee, possono avere entrambe le esperienze: follia e creazione. Ma chi è questo signore? E come mai che sconvolge il pubblico tra i banchi dell’accademia?

 

Cecchin 

Cecchin porta a spasso il suo corpo come un inconscio ambulante: “Ora finalmente ho capito come si fa a essere un buon genitore, me lo ha spiegato quello psichiatra che va da Vespa: se tuo figlio non ti ammazza, allora sei un buon genitore”. Incarna lo stile decostruzionista: “Se vuoi comprendere la schizofrenia, devi studiare come sono organizzati i manicomi”. Le cose non accadono mai nel vuoto, c’è sempre un contesto - il manicomio, la televisione, ecc. – e lui vede sempre l’altro aspetto: se non ci fosse la televisione non ci sarebbe il tipo che ci insegna la morale, se non ci fossero i manicomi,  

non ci sarebbero gli schizofrenici che diventano catatonici, e così di seguito.

Siamo nel 1983 e il mio lavoro di insegnante all’Ortica prosegue. Un “collega di materia” mi parla del Centro Milanese. Mi dice di essere un allievo della scuola. Io, a Parma, studio la “teoria della complessità”, l’”epistemologia genetica”, ma di psicoterapia so poco. La connessione tra la visione del nastro magnetico di Cecchin e le informazioni del “collega di materia”, mi spinge a fondere i miei studi con quanto accade a inizio anni Ottanta.

A Parma collaboro con Walter Fornasa, grande maestro elementare e psicologo dell’educazione (Barbetta P., 2013). Curiamo insieme l’edizione italiana degli Studi sociologici di Jean Piaget (Piaget J., 1989). Lavoro durato cinque anni. Negli stessi anni, dal 1982 in poi, io e Fornasa si fa ricerca-intervento nei nidi e nelle scuole dell’infanzia. La chiamiamo “ricerc-azione”. Si osserva l’interazione precoce, per esempio, per la contesa di un oggetto, tra bambine e bambini di diversa età. Si videoregistrano gli episodi. La contesa si risolve quasi sempre in maniera cooperativa quando l’adulto non interviene per dirimerla. Chiaro che l’intervento educativo dell’adulto insegna ai bambini sopraffazioni e alle bambine sottomissioni.

“Dài Suellen! Lascia l’orsacchiotto a Gionatan ch’è piccolinooo!”.

Ricordo con amore e disillusione quegli anni di lavoro nei nidi e nelle scuole d’infanzia. Vedevamo l’inesorabile creazione della prepotenza. L’amara conclusione che i maschietti, quando iniziano le elementari, sono già rovinati dalla gabbia di virilità che il sistema educativo ti costruisce intorno, che ti fa sentire impotente (Adichie C.N., 2015). Impossibile produrre cambiamento. Quel lavoro è amaro, non aiuta, entra in conflitto col mio corpo maschile. Come suggerisce Luce Irigaray (1975), c’è come un’assenza di spazio nel corpo maschile. L’idea che bisogna combattere il sistema educativo dominante è, in fondo, un’ostinazione, una difficoltà ad accogliere.


 

Dall’antagonismo all’ospitalità 

In quegli anni, ammiro Franco Basaglia e Franca Ongaro, che scrive i testi di entrambi. Le imprese di Gorizia e Trieste, il coraggio di dire: “e mi no firmo” segnano quell’epoca. Ammiro altrettanto il contributo di Letizia Comba (2011), sia a Gorizia che nella partecipazione all’équipe di De Martino a Galatina per la ricerca sulle donne tarantate. Ammiro lo psicoanalista milanese Elvio Fachinelli, e la sua critica ironica alla psicoanalisi classica, il suo paragone dell’analista con la prostituta: ricevere onorario per questioni di sesso. Leggo Foucault, altrettanto caustico, e sento parlare delle imprese di alcuni neuropsichiatri infantili a Roma: Luigi Cancrini e Giovanni Bollea.

Invio domanda d’ammissione al Centro e, qualche tempo dopo, mi arriva una lettera che chiede di recarsi alla sede della scuola, via Giacomo Leopardi 19, in data tale.

In data tale, mi reco sul posto e mi trovo davanti a un ascensore. Dietro di me, due signori. Entriamo insieme. Il primo, più basso, sembra il dottor Freud: occhialini, barba, giacchetta, bretelle da psicoanalista, mi scruta curioso. È lo stesso signore che ho visto a Parma dall’emiciclo accademico. Il secondo, più alto e corpulento, ha lo sguardo di un

attore americano, tipo Gregory Peck. Mi chiedono il piano: secondo e scendiamo là tutti e tre. All’incontro siamo una quarantina, leggera prevalenza femminile: psichiatri, neuropsichiatri infantili, psicologhe, pediatre, assistenti sociali, psicoanaliste, filosofi, ecc.. Quel giorno al Centro parla Cecchin. Dice: se cercate di imparare qui i giochi psicotici nella famiglia, fate bene a cambiare indirizzo, noi non insegniamo giochi psicotici che non possiamo osservare, qui interessano i giochi tra il terapeuta e la famiglia e vogliamo sapere da voi e dai vostri commenti come migliorarci. Avete domande? Silenzio.

All’incontro successivo, metà del gruppo scompare. L’intervento si rivela uno strumento “selettivo” eccellente. Quelli che hanno “completato” l’analisi, non hanno più nulla da imparare, figuriamoci la provocazione di un maestro che ti chiede aiuto per migliorarsi. In realtà, e poiché la storia si ripete, molti dei partecipanti, in quegli anni, sognano di imparare la programmazione neuro-linguistica, che va di moda, e pensano che sia una tecnica insegnata al Centro poiché Boscolo e Cecchin conoscono personalmente Milton Erikson.

Insomma l’inizio è faticoso, ma dicono tutti che le differenze sono una risorsa.

Durante la formazione, prendo un semestre sabbatico di studio all’estero con Barnett Pearce e Vernon Cronen ad Amherst, in Massachusetts. Là stringo amicizia con Marcelo Pakman, mio coetaneo e maestro. Grazie a lui, visito Carlos Sluzki presso il Centro di Terapia Familiare al Berkshire Medical Center di Pittsfield, vicino a Tanglewood, luogo di vacanza degli intellettuali newyorkesi, che vanno ad ascoltare la Boston Symphony Orchestra, di stanza là nel periodo estivo, nel prato, con le candele di citronella per tenere a bada ferocissime zanzare.

Laggiù frequento un corso di Terapia familiare all’Università del Massachusetts, con Janine Roberts, conosco Lynn Hoffman, incontro il matematico Ernst von Glasersfeld, poi, negli anni a seguire, Heinz von Foerster, Humberto Maturana, John Shotter e tanti altri.

Quando rientro a Milano, ritrovo tra i mei compagni ancora alcuni personaggi bizzarri e divertenti: uno psichiatra che si lamenta per il rispetto con cui Boscolo e Cecchin accolgono le famiglie – “ in psichiatria è impossibile, là si è in trincea” -, un altro psichiatra non sa che cosa sia un antropologo e si chiede come mai studiamo Bateson, invece di partire dalla grande nosografia di Kraepelin: “almeno per gli psicologi, che non la conoscono”.

Questa varietà mi diverte.

In compenso ci sono i filosofi che parlano di Michel Foucault, altri medici che parlano del contesto ospedaliero, risvegliati dalle letture di Ervin Goffman, e gli psicologi, che, in quei giorni, desiderano connettere gli studi accademici con la biologia di Humberto Maturana e Francisco Varela, studiare la matematica di Heinz von Foerster e, addirittura, la chimica fisica di Ilya Prigogine - teorico delle strutture dissipative, co-autore, con Isabelle Stengers, di testi di epistemologia della complessità (Prigogine I., Stengers I., 1984). Si cerca di capire meglio, con maggiore intensità, come agisce il “pattern che connette” di Gregory Bateson.

Si tratta di studiare per rendere fluide le incrostazioni insediatesi nella mente manicomiale, teatro di oppressione per le classi sociali “perdenti”, o in quella degli

psicoanalisti, abbonati alle analisi interminabili, al “servizio” delle classi “vincenti”. Il dogma è semplice: è sano chi “si comporta bene”, altrimenti scattano le contenzioni o i prolungamenti dell’analisi, anno per anno. Ce n’è per tutti, ricchi e poveri, intellettuali e operai, a ognuno il suo. Non è quanto predicano molti sistemici oggi? “Rendere funzionali le famiglie disfunzionali”, basta frequentare i nostri congressi. Ecco perché chiedo ai nuovi allievi di viaggiare.

Viaggiare serve quanto studiare, forse di più. Viaggiando scopri nuovi mondi e nuovi amici, nuove prospettive, nuovi contesti, dove il caffè non è “normale” e non giace in una tazzina di 35 ml, ma “regolare”, in un bicchiere di carta da un quarto di litro.

Dopo il sabbatico da Via Leopardi, mi son messo a viaggiare di nuovo: Stati Uniti, Argentina, Brasile, Messico, Cile, Colombia. Imparo sempre tanto dai viaggi in America Latina, dove ascolto la voce dei torturati, degli adolescenti devastati dal crack nelle carceri minorili a Brasilia, delle donne stuprate a Porto Alegre, o al campo, da narcos, poliziotti e guerriglieri a Bogotá. Nei viaggi, capita di incontrare colleghi da cui impari a lavorare ai margini. Eduardo Villar, Maria Rosa Glasserman, Eloisa Vidal, Rosana Rapizo, Nira Acquaviva e le altre donne del Centro Domus. E ancora tante e tanti ancora.

Tutto questo non sarebbe accaduto se non avessi incontrato Boscolo e Cecchin. Forse sarei stato un professore di psicologia che porta a spasso il cane ai giardinetti.

 

 

Boscolo 

Vado alle origini. Negli anni Trenta, gli psicoanalisti italiani divennero “materiale di scarto”. Cacciati dalle leggi razziali di Mussolini: Edoardo Weiss, Wanda Schrenger, Silvano Arieti, Enzo Bonaventura e tanti altri - come il topolino Fievel di Spielberg - sbarcarono in America o altrove. Tra loro, un giovane medico, Silvano Arieti, partì da Pisa nel 1939.

Vent’anni dopo, Boscolo e Cecchin si stavano formando come medici. Nel dopoguerra si sentiva l’odore dell’italico clima provinciale postbellico. Sotto un manto di educazione, tecnologia e terminologia medica, si veicolavano pregiudizi maschili, razziali, piccolo borghesi. Boscolo una volta mi racconta:

 

“Al termine della specialità, il primario di pediatria mi aveva individuato come suo successore. In quel momento ebbi un feed forward, vidi la mia vita in un villino d’area residenziale di Vicenza, o Padova; portavo a spasso il cagnolino tra i giardinetti dopo il turno di guardia. Decisi di fuggire a New York.”

 

Non fu decisione politica, né finalità cosciente. Boscolo e Cecchin furono esuli da sé. A New York cercarono gli psicoanalisti esiliati e dimenticati là, alla Mèrica, come si dice in Veneto. Come avessero fatto un viaggio nel tempo, trent’anni prima, non sapevano ancora che quella linea di fuga sarebbe servita a ridare libertà alla psicoterapia. L’intuizione li portò a ricongiungersi con la parte amputata della cultura terapeutica italiana.

Rientrarono a Milano dieci anni dopo, portando con sé lo stile newyorkese: una visione critica della terapia, liberata dalle incrostazioni delle società psicoanalitiche e liberata da modelli biologici e genetici semplicisti. Si racconta che avessero frequentato i locali del Greenwich Village, ascoltando Lenny Bruce e Woody Allen, dai quali sembrano avere preso lo spirito.

Cecchin frequentò una scuola di psichiatria, Boscolo, dopo avere fatto pediatria in Italia, arrivò a New York per frequentare il corso di Psicoanalisi presso il New York Medical College - Metropolitan Hospital.

Arieti, cha là insegnava ed esercitava la professione di psicoanalista, aveva pubblicato L’interpretazione della schizofrenia a metà degli anni Cinquanta, un trattato di psicopatologia che contrastava la prospettiva clinica biologico-psichiatrica. Là, nelle trame di un testo che oggi appare controverso, troviamo più di un ammonimento agli psichiatri di non abusare del farmaco e di intervenire con il colloquio clinico. Inoltre troviamo pagine e pagine intorno  alla relazione tra schizofrenia e capacità di creazione.

Il pregio di quel testo è la de-medicalizzazione della schizofrenia e la sua collocazione in una prospettiva relazionale, senza mai abbandonare la clinica. Arieti diede a Boscolo la spinta per rendere operative nuove pratiche.

Anni dopo, ricordo Luigi parlare con le voci del “paziente designato”, davanti alla famiglia. Distinguere, insieme allo schizofrenico, le identità vocali disperse, togliere loro il potere perturbante, attraverso domande circolari e ipotetiche. Boscolo stava trasformando la teoria della clinica, acquisita da Arieti, in teoria della tecnica nella conduzione della seduta. Creava la relazione terapeutica con la molteplicità dell’esperienza allucinatoria, che diventa patrimonio familiare e, dopo una fase perturbante, si trasforma in esperienza quotidiana.

Prendiamo un esempio possibile di questo tipo di conversazioni, così come lo ricorda la mia immaginazione, o come mi è accaduto di sperimentare:


 ·   tra le voci che lei sente, Francesco, ce n’è una che le dice di insultarmi, giusto?

·  

·   e un’altra che le dice di non venire più in terapia

·   esatto, sì

·   se obbedisse a questa voce, non potrebbe più obbedire alla voce che le impone di insultarmi, no?

·   no, lei si confonde, è la stessa voce, dice di insultarla perché sono costretto a venire qui

·   chi la costringe?

·   no, quella è la voce loro (indica i genitori)

·   quindi c’è un conflitto tra la voce interna che le dice di non venire e la voce esterna dei suoi che le dicono di venire?

·   poi ci sono altre voci…

·   lei obbedisce ai genitori, ma dà anche un contentino alla voce interna, che si rivale dicendole di insultarmi, si tratta di un compromesso tra voci interne e voci esterne?

·   non potrei mai disobbedire a papà e mamma…

·   che altre voci ascolta?


Il maestro è nell’anima 

Quando Boscolo e Cecchin rientrano da New York, iniziano la notissima collaborazione con Mara Selvini (Bertrando P., Toffanetti D., 2000; Barbetta P., 2017; Barbetta P., Telfener U., 2019, 2021). Da quell’esperienza esce Paradosso e contro-paradosso, nel 1975, sulle psicoterapie con famiglie “a transazione schizofrenica”. Nella mia prefazione alla nuova edizione del libro da parte di Raffaello Cortina, nel 2003, ipotizzo che Paradosso e contro-paradosso sia una formazione compromissoria. In sé contiene la prospettiva strategica, continuazione dell’eredità del Mental Research Institute di Palo Alto, e la prospettiva sistemico-relazionale di Gregory Bateson.

Dopo l’uscita del libro, e di una serie di articoli, si avvia una discussione che dura diversi anni. La formazione compromissoria produce uno splitting nel gruppo. Luigi e Gianfranco scelgono di insegnare le pratiche terapeutiche, di trasformare la strategia in ipotizzazione, di abbandonare ogni modello strategico, di “principio direttivo”, di non sottoporre la famiglia, il cliente, il gruppo a una teoria astratta.

Se si legge nei dettagli Paradosso e contro-paradosso, si coglie questa tonalità dissonante e tormentata. Prendiamo per esempio la “prescrizione del sintomo”:

Da qui al prossimo incontro, tra un mese, non cambiate nulla, continuate con i comportamenti che ci avete descritto.

 

Da un lato rappresenta un sfida verso la “struttura patologica interna alla famiglia”, dall’altra un’indicazione che si può continuare a vivere con un paziente schizofrenico in famiglia. Nel primo caso si concepisce l’intervento come una sorta di shock à famille in contesto di terapia breve. Così come l’elettroshock funziona tra i neuroni, la prescrizione del sintomo funziona tra i familiari: vengono per cambiare le cose e i terapeuti prescrivono di non cambiare nulla.

Dall’altro la prescrizione del sintomo è un’offerta di supporto temporaneo “lungo/breve” – come amava dire Boscolo - per gestire le difficoltà dei familiari attraverso la risonanza terapeutica continua/discontinua nel tempo (Boscolo L., Bertrando P., 1993).

Le testimonianze di amici psichiatri di “guardia seconda” a Milano confermano che il metodo contro-paradossale fu rischioso e - benché avesse risultati eclatanti qui e ora, sia in positivo, che in negativo - mai risolutivo.

L’incontro clinico con le voci, il dar loro rilevanza pubblica, questioni di cui si può parlare tranquillamente, produce una comunità de-patologizzante della schizofrenia. L’uscita da Paradosso e controparadosso è l’abbandono di un riduzionismo pericoloso. Seconda linea di fuga della coppia Boscolo e Cecchin: la schizofrenia non è una scatola nera, è una condizione esistenziale complessa, non bastano pochi incontri a effetto.

 

Spesso i due, interpellati per un consiglio, dicevano: “non saprei, ma potete parlarne tra voi tranquillamente”.

C’è una consonanza tra questa separazione e la separazione di Bateson da Jay Haley, diversi anni prima. Questa prima scissione, a Paolo Alto, la raccontano Carlos Sluzki e Donald Ransom (1979).

Quando Haley sostenne che, in linea teorica generale, le persone entrano in  relazione allo scopo di tenere sotto controllo le relazioni in cui entrano - affascinante esempio di intelligenza strategica guidata dal pensiero di von Neumann (2014) - Bateson rispose che l’idea del potere è sempre corruttiva. Se crediamo che le famiglie rispondano solo a dinamiche di potere, siamo già dentro le dinamiche di potere a cui crediamo. Haley, a sua volta, lo accusò di “psicoanalisi”. In quel momento, Bateson (1977) diede vita all’idea che la circolarità coinvolgesse il soggetto che la enuncia. Dunque, se la teoria sistemica aveva adottato l’idea cibernetica di ragionare in termini circolari – e non di causa-effetto - Bateson predispone i suoi allievi e colleghi a pensare che la circolarità riguarda anche il soggetto che la enuncia.

Se ho un termostato, so che serve a mantenere la temperatura in casa a certi gradi, cibernetica del prim’ordine, ma se non mi prendo la responsabilità di regolarlo, sarò al freddo. In fondo, gli schizofrenici non sempre si sbagliano, per esempio quando passano dall’idea “io ho un termostato” all’idea “io sono un termostato” (Matte Blanco I., 1995). D’altro canto, se devo prendere il treno, sarebbe meglio pensare che il biglietto è un gettone per il mio posto, perché se penso di essere il posto che ho acquistato, va a finire che il treno lo perdo. Un po’ di logica razionale non guasta, anche se non bisogna esagerare.

Io non c’ero, ma posso immaginare l’aria che respirarono i due nel liberarsi dalle teorie dell’attore sociale razionale che gioca sempre a somma zero, somma positiva, vincente/perdente, come se la vita fosse un agone relazionale prolungato.

In poche parole, per semplificare, gli strateghi del potere sono seguaci di Hobbes: “l’uomo si fa lupo verso gli altri uomini”. Noi hanno capito che i lupi tra loro sono molto più solidali di quanto si pensi, vegliano e proteggono gli anziani e i piccoli nella muta, hanno relazioni coordinate, e non entrano in conflitto neppure durante la caccia, permettono ai più deboli di mangiare le parti migliori della preda. In fondo la terapia sembra un tentativo di imitare i lupi. Alcuni etologi sostengono sia falso. Può darsi, forse i lupi sono cambiati in peggio osservando gli uomini.

Gianfranco usava un metodo che mi piace definire “dolce ironia”. Ironia non significa far ridere gli altri, significa mettere a distanza un evento tramite una descrizione paradossale, descriverlo con rispetto. Nella cibernetica del second’ordine, non c’è ironia senza auto-ironia. Ricordo un esempio:

 

Dobbiamo premettere che stiamo parlando di una donna che si nutriva solo di zucche.

Durante una seduta familiare – insieme al padre medico e la madre insegnante, entrambi pensionati – il padre racconta di come, dopo che la figlia – mangiatrice di zucche - ha preso casa propria, continui a recarsi da loro, alle sei del mattino, li svegli e li costringa a fare colazione, mentre loro preferirebbero dormire ancora un po’.

Gianfranco, dopo aver avuto conferma che la figlia ha le chiavi di casa loro, chiese:

 

·   e voi, voi avete le chiavi dell’appartamento di vostra figlia?

·   no, risposero entrambi, sarebbe impensabile!

·   siete molto obbedienti, disse Gianfranco.


  

Poi si rivolse alla “mangiatrice di zucche” con una domanda ipotetica:


· cosa succederebbe se uno di loro si ribellasse? Per esempio: se suo padre un giorno, mentre lei è a casa con loro, le rubasse dal cappotto le chiavi e si intrufolasse a casa sua con un piccone, mentre lei non c’è, e picconasse tutte le zucche che possiede. Come reagirebbe?


La donna stava per assumere un’espressione iraconda e aggressiva, era diventata rossa in volto e il collo le si era gonfiato. Ma quando comprese l’intero contenuto della frase, scoppiò in una grande risata.

 

 

Ogni scolaretto lo sa 

Ogni scolaretto sa (Bateson G., 1984) che le esperienze della vita sono soggettive, che si tratta di percetti che si trasformano in immagini e affetti, a volte gioiosi, altre sgradevoli. Quando se ne andò, diciott’anni fa, Gianfranco aveva poco più della mia età. Dopo la morte venne pubblicato in inglese un saggio su Heinz von Foerster scritto, prima dell’incidente, da lui insieme a me e Dario Toffanetti (Cecchin G. et al., 2005). Terminata la giornata di lavoro, ci concedevamo una pausa caffè, poi si tornava su e si faceva una chiacchierata davanti al magnetofono. Toffanetti e io introducevamo i temi cari ad Heinz – macchine non banali, ordine dal caos, domande legittime, ecc., Gianfranco partiva. Poi intervenivamo noi.

Una di quelle sere, ero un po’ alticcio, avendo corretto il caffè con lo stravecchio, proposi, come tema da sviluppare, “la mappa non è il territorio”, che era un tema originario di Bateson, non di von Foerster. Gianfranco iniziò a raccontare l’esperienza di un giovane ufficiale austriaco  disperso sul Carso - che fosse Wittgenstein? Parlava di un diario durante la guerra. Per fortuna, un soldato del plotone aveva la mappa. Attraverso la mappa il gruppo raggiunse la postazione. Senonché la mappa che avevano consultato era la mappa dei Pirenei, ergo: la mappa non è il territorio. Sembrava un’interpretazione della mappa come oggetto transizionale. A quel punto lo interruppi: “scusa Gianfranco, come potevano avere la mappa dei Pirenei nel 1915? La guerra civile di Spagna arriva vent’anni dopo!” e lui: “il solito professore con la concezione lineare del tempo!”, grande risata.

Poi scomparve. L’autostrada lo inghiottì.

Luigi gli sopravvisse di oltre dieci anni, si spense nel 2015. Era un meraviglioso story teller, aveva capacità narrative straordinarie, sembrava di ascoltare Il viaggiatore incantato di Nicolaj Leskov, o La chiave a stella di Primo Levi. Il suo racconto era popolare, quel che faceva in terapia è paragonabile a quel che facevano questi scrittori in letteratura. Praticava lo stesso discorso libero indiretto. Ci si avvicina fino a un passo di distanza al personaggio, rendendolo persona. Così Luigi con il “paziente designato”, in maniera da togliere la designazione “paziente”, attraverso intensità affettive, come parlare con le voci della schizofrenia (Boscolo L. et al., 1991). Oggi la chiamiamo “empatia”, è diventata un ingrediente chimico che risiede nel cervello, chi ce l’ha, chi non ce l’ha. Luigi e Gianfranco la creavano momento per momento, la fondevano con

l’ironia, per loro era un fenomeno relazionale, poteva anche non crearsi, ma in quel caso, pensavano di avere sbagliato ipotesi. Mai attribuire i tuoi errori al soggetto che frequenta la terapia.

Quando iniziai vialeopardi - nome del CMTF tra i supposti habitué - non “sapevo” che le esperienze sono soggettive e che si tratta di percetti e affetti. Lo imparai da Luigi e Gianfranco.

Una pletora di “maestrini” si mostrava assai più competente, parlava continuamente di teorie e di premesse, come fossero i pipistrelli dentro le macchie di Rorschach. Altri usavano il gergo vialeopardesco: ricordando il bar Virgilio. Serie di nostalgie da osteria o da cappella di famiglia.

C’è ben altro. I nostri maestri - o meglio, i miei maestri, e sono affari loro per chi la pensa diversamente - mi hanno insegnato a produrre sempre nuove pratiche, nuove ipotesi cliniche, nuove idee. Non come ideali astratti e trascendenti, ma nell’immanenza della pratica terapeutica.

Le circostanze della mia “elezione” a direttore, sono strane, non me l’aspettavo, certo non lo meritavo. Molti se ne andarono delusi, altri si riavvicinarono al Centro. Voglio ricordare due veri maestri: Massimo Matteini e Gabriela Gaspari, che mi hanno insegnato a pensare sistemico nella contingenza della seduta. Non si tratta della frase, un po’ melensa, “lavoro sul sé del terapeuta” – che ricorda i lavori di ristrutturazione del tetto di casa – ma l’intuizione di un evento che produce “sintesi disgiuntive”. E qui rimando all’ultimo libro scritto, prima di lasciarci, di uno dei miei più cari amici, Mario Galzigna: Rivolte del pensiero (Galzigna M., 2013).

 

 

Il presente. E il futuro? 

In questi anni di lavoro, sto scrivendo e praticando il futuro del Milan Approach, in collaborazione con un nutrito gruppo di terapeuti sistemici. Umberta Telfener e io abbiamo raccolto gli scritti dei didatti e dei direttori delle scuole a noi affiliate; insieme a Umberta, abbiamo scritto e stiamo scrivendo le cose che si trovano in bibliografia (Barbetta P., Telfener U., 2019, 2021), nuove idee, condivise in giornate di discussione e confronto tra Roma e Milano, tra Milano e Londra, tra Milano e Buenos Aires; condivise da Britt Krause e Maria Esther Cavagnis, coautrici di un libro che uscirà presto (Barbetta P., Cavagnis M.E., Krause I.B., Telfener U., 2022), dedicato all’etica e all’estetica della terapia sistemica.

Durante questi anni alcune sedi hanno chiuso per il pensionamento dei direttori, altre stanno aprendo. Alcune si sono “ribellate”, perché a Milano non siamo “sufficientemente sistemici” (Pearce B.W., Villar E., McAdam L., 1992), ne siamo felici, per loro, che sicuramente svilupperanno nuove idee, e per noi.

Di recente, un’amica mi ha suggerito di leggere le opere  di Chiamamanda Ngozi

Adichie (2015, 2020), scrittrice nigeriana Igbo. Due brevi saggi, Il pericolo di un’unica storia e Dovremmo essere tutti femministi, insegnano qualcosa che ho visto praticare al Centro Milanese da sempre. Il secondo è provocazione, ironia, capovolgimento del punto di osservazione. Basti questo aforisma: “Facciamo un grave torto ai maschi … Soffochiamo la loro umanità. Diamo alla virilità una definizione molto ristretta. La virilità è una gabbia piccola e rigida dentro cui richiudiamo i maschi” (Adichie C.N., 2015, p. 21).

Un tempo, l’idea che la finalità cosciente avesse effetti collaterali anti-ecologici era prevalente. Nel dopoguerra eravamo testimoni di opere come la diga del Vajont, Chernobyl, le devastazioni ecologiche di quel colosso che chiamavamo Mortedison.

Oggi, la “buona” società è vissuta come computazione universale e ognuno, inclusi gli psicologi, cercano metodi quantitativi senza considerare la complessità bio-psico-sociale dei fenomeni, la singolarità degli eventi, le loro concatenazioni (Guattari F., 2007).

È disarmante leggere una ricerca “scientifica” che contiene frasi come: “bassi livelli di ketamina, riducono i pensieri suicidari”. Come può, una sostanza chimica, alterare il pensiero, fenomeno correlato alla condizione storica, relazionale e sociale di ognuno di noi? Eppure questo messaggio mediatico (apparso sul New York Times) rassicura lo psicologo impaurito dalle “stranezze” e dai pensieri suicidari del suo paziente, la sua formazione accademica lo ha privato di riflessione filosofica e letteraria sulla morte, sulla vita, sulla speranza, sui diritti umani (Barbetta P., Scaduto G., 2021).

Molti studenti, oggi, si fanno questa domanda: se l’esperienza è soggettiva, che ne è della scienza? Nella generazione in cui sono cresciuto la domanda era diversa: non è che tutta questa tecnologia sta creando un mondo robotizzato e disumanizzato?

L’antidoto alla robotizzazione della terapia è l’abbandono delle proprie ipotesi, non avere un modello. In psicoterapia è questione di affetti, di bellezza, la formazione passa per questi aspetti, non basta, la consapevolezza, è necessaria la comunità, il confronto. Le pratiche terapeutiche richiedono “empirismo soggettivo” (Deleuze G., 2012). Formulare ipotesi da confutare, perché ogni ipotesi confutata crea spazio per altre differenti ipotesi. Questa l’etica che mi hanno insegnato Boscolo e Cecchin.

Nel 2014 fui intervistato, per la rivista messicana Psicoterapia y Familia (Rico D. et al., 2014). Avevo dichiarato che non sarei mai diventato direttore della Scuola di Milano per via del mio carattere eretico. Pochi mesi dopo, in relazione alla scomparsa di Luigi, mi fu proposto questo incarico e lo accettai, alla faccia della coerenza. Ero stato irriverente alla mia irriverenza (Cecchin G. et al., 2003)? Oggi sono passati 7 anni e, se riuscirò, emulerò un personaggio del Quinto Secolo prima dell’era cristiana: Cincinnato, almeno per come Tito Livio lo racconta: tornerò a lavorare il mio orto, mi libererò dagli oneri e lascerò ad altri gli onori di proseguire con questo impegno.



Bibliografia