Riflessioni Sistemiche n° 25


Maestri e mentori.
Visioni sistemiche attraverso le generazioni

Dialoghi con un cattivo maestro


di Sergio Bellucci


Giornalista e saggista

Foto di Lars Nissen da Pixabay

Sommario
Marcello Cini, un maestro di politica e scienza in un intreccio “complesso”. Piccola storia personalissima di un incontro con chi ha fatto ricerca sui legami complessi che legano “interessi di classe” ed “ecologismo”, impegno politico e ricerca scientifica, ricercando con curiosità il nuovo e l’inesplorato che trapelava dalle quotidiane forme della vita.


Parole chiave
Marcello Cini, ecologia, sinistra, fisica, Il Manifesto.


Summary
Marcello Cini, a master of politics and science in a "complex" plot. A small, very personal story of an encounter with someone who made a point of researching the complex links that bind "class interests" and "ecologism", political commitment and scientific research, searching with curiosity for the new and unexplored that transpired from the everyday forms of life.


Keywords
Marcello Cini, ecology, left, physics, Il Manifesto.

 

Caro Sergio,

hai messo un "non" di troppo nel
tuo messaggio ma ho capito lo
stesso.

Ci sentiamo lunedì.

Ciao, Marcello

 

Questa potrebbe essere una sintesi efficace della relazione tra me e Marcello Cini. Anche in uno scambio di semplici messaggini, non tralasciava mai i dettagli. Ti obbligava ad essere “preciso”, “puntuale”, “corretto”. Nessuna slabbratura o approssimazione. Soprattutto, assolutamente banditi i “riduzionismi”. Rigoroso e rispettoso. Non tralasciava cose anche quando non lo convincevano appena. Sapeva lavorare insieme come un vortice e mettersi allo stesso livello anche di chi aveva altre storie rispetto alla sua. Come quando, nella correzione delle bozze del nostro Lo Spettro del Capitale, impose la correzione sugli autori in copertina – avevo fatto le bozze mettendo prima il suo nome - pretendendo la rigorosa applicazione dell’ordine alfabetico con un «non se ne parla nemmeno!». La sua comunicazione alla casa editrice fu secca: «Caro Giorgio, il volume è a doppia firma. Graficamente i nomi dovrebbero essere in ordine alfabetico! Il compenso va diviso in parti uguali».

Ebbi modo di conoscere un po’ della sua vita nella sua tarda età. I racconti, mentre in auto raggiungevamo i luoghi delle presentazioni del nostro libro, attraversavano tutto quel ‘900 fatto di storie dolorose e gloriose, di lotte politiche e di scoperte scientifiche. Di momenti esaltanti e di grossi grumi di vita, attraversati con le difficoltà “normali”, quelle che potresti immaginare per te stesso. Dialogare con Cini era avere uno scambio con una “mente aperta”. Almeno a me dava questa impressione. Una mente che non provava gusto nel costruire una “distanza” – quella tra un sapere “alto” e un sapere “normale” – ma che sentivi che si arricchiva dalle domande e dalle questioni che eri in grado di porgli, i problemi che gli sottoponevi, le soluzioni che intravedevi.

Durante quel rapporto di quegli anni mi domandai spesso cosa sarebbe stata la mia vita se avessi avuto modo di costruire con lui quel rapporto da ragazzo, al mio arrivo alla facoltà di Fisica. La sua disponibilità si era spinta addirittura a “programmare” una mia ripresa negli studi di fisica insieme a lui. Forse sapevamo entrambi che ciò non sarebbe mai realmente accaduto, ma fu piacevole per me immaginare per un momento di avere come “maestro di fisica” Marcello Cini. Non so se si convinse a rendersi disponibile, per un tale ipotetico progetto, dopo una lunga discussione sui grandi temi della fisica in un nostro viaggio quando ebbi il coraggio di porgli una di quelle domande che mi assillavano dai tempi della scuola: «ma come appare il nostro universo ad un fotone?». Cini mi guardò un attimo e poi allungò lo sguardo verso la strada che avevamo davanti ai nostri occhi e rispose con poche parole che a me apparirono come un tentativo di non aprire un discorso troppo complesso da affrontare in un viaggio: «ti poni sempre domande un po’… estreme!».

Non capii mai se quelle parole dovessero significare che era più importante farsi delle domande che potessero avere delle riposte utili per la vita materiale delle persone o che la mia propensione a estrapolare tendenze per comprendere i possibili esiti delle cose… era andata oltre! Non continuai ad insistere e proseguimmo il viaggio parlando di cose meno astratte.

Ricordo, però, che il mio pensiero tornò indietro nel tempo e un certo disagio si impadronì di me. Sentii come di essere andato fuori dai binari, come di aver invaso un territorio che non “doveva”, non “poteva” essere il mio. D’altronde dentro quell’auto che camminava verso un appuntamento che ci vedeva insieme, vi erano due storie molto diverse e che avevano avuto già la possibilità di incontrarsi ma senza un successo.

Spesso la vita, infatti, assume la caratteristica di un elastico o, se volete, quello di un attrattore strano (qui possiamo dirlo con maggiore semplicità che altrove). Quando da ragazzo mi iscrissi alla facoltà di Fisica, Marcello Cini era un personaggio che, per me, aleggiava nel mistero, in altezze irraggiungibili e non conoscibili. Venivo da un percorso di studi tecnico (l’ITIS Enrico Fermi di Monte Mario a Roma) dove avevo seguito il percorso sull’Energia Nucleare. Il nostro professore di Fisica Atomica, al terzo anno, il primo del triennio di specializzazione, ci aveva introdotti alle meraviglie della “relatività ristretta” e il mondo si era improvvisamente “scosso”. Gli anni successivi, prima di arrivare all’università, furono più un accumulo di incognite, di apertura di confini e orizzonti che di consegna di certezze con cui affrontare il mondo. D’altronde, quelli erano anni in cui l’impegno politico, il riconoscersi per la “strada” attraverso i percorsi di militanza era esperienza quotidiana e ineliminabile. La società era come pervasa da quelle gramsciane “connessioni sentimentali”, quelle in cui “l’elemento popolare “sente”, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale “sa”, ma non sempre comprende e specialmente «sente»” (Gramsci A., 1975, Q. XVIII, pp. 77-77 bis) che facevano sentire le persone “rappresentate e comprese” e capaci di costruire un rapporto positivo con chi si “supponeva depositario di un sapere” capace di rappresentarci interpretandoci nel profondo.

La mia provenienza da una famiglia operaia aveva costruito l’orizzonte cognitivo del futuro che potevo immaginarmi. Non sentivo vincoli “formali” né il peso degli sforzi che la mia famiglia aveva fatto e faceva per consentirmi di studiare. La leggerezza dei vent’anni impediva di percepire i pesi che la vita avrebbe avuto l’onere di farmi conoscere, come in tutti i percorsi dell’adultità. Ma era in me una sorta di “limite”, introiettato inconsapevolmente, che mi faceva percepire che da una parte c’era la mia condizione e dall’altra quella di queste grandi menti che avevano il compito di illuminarci la vita, il percorso, il futuro. Io ero come affascinato dalla loro “potenza in atto” e, talvolta, quella energia così elevata che rappresentavano con la loro vita e con i loro pensieri riusciva a cortocircuitare il mio fare e lasciarmi senza parole ad osservare il loro genio. Vivevo come “immerso” proprio in quella “connessione sentimentale” in cui ci sarebbe stata sempre una dimensione “alta” capace di illuminare e indicare una strada.

Era quella la realtà di una vita che era, credo per molti, intrecciata tra la responsabilità di costruzione del futuro personale e la dimensione collettiva del raggiungimento dei traguardi sociali che, proprio per quella loro dimensione, non potevano essere negati dagli errori e dai percorsi individuali. Un camminare insieme che “garantiva l’autonoma soggettività del fare” e, al contempo, regalava la confortevole certezza di un alveo dal quale non si poteva essere cacciati. Un modello di “welfare” che era non tanto misurabile sui “servizi pubblici” che le istituzioni potevano e dovevano fornire, ma sulla partecipazione collettiva ad un camminare umano che traeva la sua forza proprio dalla dimensione sociale del fare. Furono anni irripetibili, per me, che poggiavano su questa certezza percepita, su questa “solidarietà in atto” che si percepiva nel fare quotidiano, come se ogni gesto contribuisse al percorso scelto liberamente e liberamente condiviso.

Questa dimensione “sociale”, in me, si accompagnava al desiderio di conoscenza del mondo che mi aveva portato a interessarmi della “Fisica”. Conoscere il mondo per metterlo al servizio della dimensione sociale di quel percorso che sentivo condiviso e, da un certo punto di vista” percepito come “naturale”. Fisica e politica erano (o meglio avrebbero dovuto essere) vissute come due facce della stessa medaglia, due aspetti, due momenti di un unico cammino che avrei dovuto compiere nella vita.

L’arrivo a Fisica svelò una realtà molto più sfaccettata. Quel senso di “unitarietà” dei processi che avevo percepito nella mia esperienza a scuola e nella vita di quartiere, si sfaldava davanti ai mille rivoli che per me erano poco comprensibili. A metà degli anni ’70 quel fiume, che a miei occhi era un flusso unitario che avevo percepito esistere intorno a me fino a quel punto, iniziava ramificarsi come nei pressi di un suo approdo a mare, un delta di percorsi poco chiari, sovrapposti, e inestricabili. Dal punto di vista politico l’addensarsi di critiche al PCI rompeva quella percezione unitaria di un percorso “consapevole e saldo”. Dal punto di vista della conoscenza scientifica, l’impatto con la facoltà di Fisica mi svelò l’intreccio di interessi economici esistente tra la ricerca e le industrie, a partire dal territorio del nucleare ove alcune grandi compagnie multinazionali avevano costruito modelli di business che, con i loro interessi economici, condizionavano il “senso” della ricerca.

Era come aver svelato, in poco tempo, una dimensione complessa che mi poneva fuori dall’alveo di quel fiume di certezze collettive in cui ero cresciuto.

Su quel quadro, già per me abbastanza “complesso”, piombò un dibattito che travolse le ultime “certezze” che mi avevano accompagnato fino ad allora.

Nei conciliaboli informali si parlava di tesi che avevano “scosso” gli equilibri della facoltà. Sapevo poco o nulla delle gerarchie interne e degli equilibri “di potere” (e, in verità, poco mi interessavano, non per snobismo ma per incomprensione della loro reale dimensione) ma circolava la voce che un testo un po’ eretico aveva scosso gli equilibri del dibattito teorico. Il testo, inoltre, aveva un titolo strano che, a prima vista e senza conoscere la reale citazione che lo aveva ispirato, mi sembrava “leggero” e non tale da rappresentare un “problema” all’interno del mondo della ricerca. Fu in quei giorni che sentii parlare del libro “L’ape e l’architetto” che acquistai solo per non sentirmi “fuori” e provare ad entrare negli scambi sociali del momento.

La sua lettura non mi aiutò a trovare un nuovo punto di “equilibrio”. Anzi. Il processo di destabilizzazione delle mie percezioni aumentò. La “scienza” perdeva definitivamente, ai miei nuovi occhi, quella percezione infantile che mi aveva accompagnato fino ad allora e tutta la sua dimensione diveniva “aleatoria”, legata ad interessi commerciali o di potere.

 

Fu lì che sentii parlare per la prima volta di Marcello Cini.

Marcello rappresentava, oggettivamente, un punto di riferimento per la sua capacità di incarnare le mie due grandi passioni: la Politica e la Fisica, l’impegno sociale di trasformazione del mondo e la conoscenza necessaria a rendere quel processo “concreto”, “reale”. Spesso ne sentivo in me l’intimo legame ma difficilmente riuscivo a trovare una equazione che congiungesse queste due linee di fuga della mia mente. Marcello ne rappresentava la sintesi come poche altre persone. Un’altra fu Lucio Lombardo Radice, le cui lezioni erano come una lama tagliente all’interno del mio status quo mentale.

In Marcello intravedevo lo stesso mio desiderio di contribuire al cambiamento del mondo attraverso la capacità, non solo di mettere insieme conflitti e rivendicazioni, di strappare conquiste e diritti, ma di comprendere il “senso” del mondo, le sue strutture più profonde, le potenzialità che il conoscere il funzionamento delle cose apriva alle soluzioni che erano necessarie alla vita umana, alla condizione materiale delle persone. In quel momento della vita avevo schemi molto più semplici (e quindi “chiari”) e le letture del mondo che avevo a disposizione sembravano sufficienti a consentire un cammino, a districarmi nei processi complessi della vita. Ad esempio, fino ad allora il tema dell’“ambiente” era sempre stato, per me, in sintonia con la condizione operaia e con le sue lotte. La salute in fabbrica sconfinava per me, ingenuamente, nel rispetto delle condizioni ambientali generali che era il capitale a mettere in discussione. La vita si sarebbe incaricata di raccontarmi diversamente.

Ma ormai avevo inciampato, letteralmente, in quei due avvenimenti che avrebbero segnato la mia vita: da una parte il dibattito interno al collettivo di fisica sul nucleare circa gli interessi legati allo sviluppo degli impianti nucleari, e il condizionamento relativo che ricadeva sulle risorse disponibili per la ricerca “pura”, e sul modello di società militarizzata necessaria al loro sostentamento, dall’altra  la rottura dell’idea di scienza che “l’Ape e l’architetto” avevano aperto nel dibattito sul senso della scienza, sulla sua collocazione sociale, sulle implicazioni nella dinamica tra le classi, ecc.…

Il mondo che mi ero costruito nella mente era andato in “frantumi”. Cosa fosse possibile (o necessario) era diventato un gioco di equilibrismi, di dinamiche fluide, di connessioni e lacerazioni che venivano contrattate e ricontrattate in permanenza.

Nella mia mente si “condensava” l’idea di trovare una “soluzione” al mio dramma (anche esistenziale): cioè parlare con il prof. Cini per avere lumi, indicazioni, punti di riferimento.

Mi feci coraggio e decisi che avrei dovuto parlargli. Non ricordo molto di quel colloquio, del resto sbrigativo e anche tagliente (come sapeva essere Marcello) se non un “senso” generale: ritorna quando avrai studiato molto di più e avrai qualcosa da dirmi di interessante!

Cercavo un punto di riferimento e avevo trovato un canonico e semplicistico invito a impegnarmi di più. Cosa che mi deluse fortemente. Volevo intavolare con lui un confronto ma Marcello non aveva, giustamente dico oggi, riscontrato gli spunti utili e sufficienti.

Per anni, dopo di allora, lessi i suoi articoli politici su «Il Manifesto». Il mio impegno, sindacale prima e politico poi, mi portavano a seguire il dibattito, e le cose che scriveva Marcello Cini erano sempre impregnate di quello spirito che aveva animato i miei anni formativi. Fu durante un confronto in segreteria del Partito della Rifondazione Comunista negli anni ’90 che mi capitò di citare, a sostegno di una mia tesi, un testo di Cini. Il segretario di allora, Fausto Bertinotti, a margine della riunione mi disse che era vero che le mie posizioni erano molto vicine a quelle di Marcello Cini e che avevamo un “approccio simile” (ricordo che a me sembrò più la sottolineatura di una distanza con le sue tesi che un “complimento”).

Presi spunto da quel fatto per avere il coraggio di chiamare il direttore de «Il Manifesto», all’epoca Valentino Parlato con cui avevo avuto una lunga frequentazione per motivazioni politiche legate alla mia responsabilità nel dipartimento comunicazione del PRC, per chiedergli di mettermi in contatto con Marcello Cini. Valentino Parlato si dimostrò subito disponibile e mi mandò un account mail per contattarlo.

Marcello, almeno con me all’inizio, non fu di molte parole. Confermando la disponibilità a interloquire sui processi di trasformazione che riguardavano le nostre società, si mise come in “ascolto”. Probabilmente aveva vissuto quel mio contatto come il lavoro da parte di un “funzionario di partito” a cui era stato demandato il compito di “intrattenere” rapporti con un intellettuale d’area. Ovviamente non ricordava nulla dello scambio con quello studente che era andato a parlargli due decenni prima e la cosa non mi stupì.

Per alcuni anni i nostri rapporti si limitarono ai miei messaggi di apprezzamento (e talvolta di velata e limitata osservazione “critica”) delle sue uscite pubbliche, a cui Marcello non faceva mancare la sua replica. I nostri rapporti iniziano a intensificarsi nel momento in cui, agli inizi degli anni 2000 il percorso politico incontra la nascita del Movimento dei Movimenti, la svolta legata all’appuntamento del G8 di Genova, e alla svolta politica impressa a Rifondazione Comunista. Il PRC, infatti, era stato l’unico partito “interno” al movimento accettando la logica “paritaria” tra associazionismo, movimenti e partiti, innestando su quella scelta una dimensionalità nuova tutta aperta e in divenire. Furono gli anni del dibattito sulla non-violenza, la riscoperta di una nuova dimensione del problema del “modello di sviluppo” e la messa in discussione della stessa idea dello sviluppismo (come veniva indicato allora…). Avanzava il dibattito aperto da Latouche sulla “Decrescita” e sia io che Marcello, su lati diversi ma convergenti, discutevamo sul ruolo delle nuove tecnologie digitali nella determinazione di un quadro inedito sia di logiche produttive del valore sia di conflitto tra classi al potere e subordinati.

Fu in quel crogiolo di confronti/scontri tra vecchie e nuove divisioni che attraversavano i fronti delle sinistre, che fu deciso di lanciare il progetto di una sinistra a dimensione continentale, una sinistra che fosse in grado di riaprire il dibattito sulla fase politica e che riuscisse ad operare in un contesto non meramente nazionale.

Accolsi quell’occasione come un segnale di una possibile riapertura di uno spazio politico con una “qualità” nuova e fui incaricato di aggregare un’area che si interessava proprio di quello specifico che io pensavo come centrale: la qualità dei processi di innovazione che attraversavano le società a partire dalla rivoluzione digitale.

Il mio rapporto con Marcello Cini iniziò a divenire più maturo. Le occasioni di scambio si rafforzarono e diventarono sempre meno “virtuali” e sempre più interne ad appuntamenti che avevano una finalità definita e anche organizzativa. Il nostro dialogo iniziò a intrecciarsi sul ruolo dell’informazione nel ciclo economico e, quindi, delle implicazioni che la gestione digitale dello stesso fosse in grado di produrre. Al contempo, la stessa gestione digitale delle informazioni estratte dai comportamenti umani, definiva un territorio nuovo di controllo sociale e politico. Quella, però, era ancora una stagione pre-social network. Sulla base di quelle riflessioni, quando si decise di creare, all’interno del percorso di nascita della Sinistra Europea, l’associazione Net Left, Marcello Cini accettò di essere tra i fondatori di questa associazione, che avrebbe dovuto affrontare i temi della cosiddetta Rivoluzione Digitale. La compagnia di Stefano Rodotà, Sandro Curzi e anche diverse persone che aveva imparato a conoscere in quel percorso, lo avevano convinto che valesse la pena di perseguire quella strada.

Fu così, nell’ambito di quella fase di effervescenza, che programmammo una iniziativa che avrebbe dovuto essere propedeutica alla messa a punto del rapporto tra Rifondazione Comunista e le forze del centro-sinistra, nella costruzione del programma del secondo governo Prodi. Organizzammo un convegno, presso l’associazione Civita a Roma, ove presentare, alla presenza della Prof.ssa Flavia Franzoni e al responsabile economico di Rifondazione Comunista, Alfonso Gianni, una idea di welfare innovativo. Marcello Cini, infatti, si era come “invaghito” della mia proposta di un Welfare delle Relazioni e ne avevamo fatto diventare il centro di una proposta, da mettere a disposizione del fronte che si sarebbe opposto al Centro-destra guidato da Berlusconi nelle elezioni del 2006. Le sue conclusioni indicarono come il salto necessario alla politica fosse il cuore della scommessa della legislatura che si sarebbe aperta da lì a pochi mesi.

Il rapporto era diventato “adulto”. Quando pubblicai il mio E-work. Lavoro, rete, innovazione (Derive e Approdi) nel 2005, Cini intervenne solo a commentare alcuni passaggi che, per lui, erano ancora troppo “interni” alla tradizione del concetto marxista del “valore-lavoro”. Discutemmo con alcuni scambi di mail e, soprattutto a margine degli incontri politici a cui partecipava, del famoso punto strategico dell’impianto di Marx. Cini era molto vicino all’impianto di Sraffa. In uno scambio sulla economia immateriale mi scrisse: «Caro Sergio, ho riletto con attenzione il tuo testo che ti rimando, sul quale ho segnato i punti che più hanno attirato la mia attenzione. Quelli evidenziati in rosso sono quelli che secondo me sono fondamentali e alcuni pochi in blu che mi destano perplessità. Essenzialmente questi ultimi sono quelli dove si usa il termine plusvalore che è la chiave per una rivisitazione del processo di produzione delle merci immateriali». Nella mail mi sottolineava come: “Io non userei mai il termine plusvalore perché secondo me il termine “valore” è usato sempre da Marx come “quantità di lavoro astratto immagazzinato in una merce”.

Questo è proprio quello che contestiamo possa farsi per la produzione di beni non tangibili, o addirittura per la “produzione di senso”. (Sul rapporto valore/prezzo (Marx/Sraffa) ho scritto molti anni fa una analisi pubblicata su un volume collettaneo da Einaudi). Il problema centrale secondo me (anzi mi pare si possa dire secondo noi) è proprio cosa sostituisce il “valore” e il “plusvalore” nelle merci del capitalismo “conoscitivo””. L’uso dei “colori”, nello scambio di mail e di testi, sarebbe diventato “naturale” tra di noi. Cini era molto interessato alla mia lettura della funzione del sistema dei media che emergeva dal mio scritto e sottolineava l’interesse per il passaggio: “Quello che era stato il limite d'analisi della sinistra del '900 diviene, definitivamente, il limite politico. L'incapacità di comprendere l’effetto che l'avvento dell'industria di senso aveva prodotto, prima la crisi della capacità di produzione di egemonia, consegnandola al nuovo meccanismo e poi la crisi del rapporto tra le élite politiche della sinistra e la propria gente. Non si comprese che la produzione di senso, fatta a livello industriale, non è semplice capacità di propaganda, né un processo di imbonimento della percezione, ma un intreccio nuovo che prevede una capacità di relazione permanente, una spirale di feedback retroattivi, tra il valore del modello di consumo (con l'idea di vita correlata) e le reazioni degli individui, in una continua messa a punto, aggiustamento, mutazione, co-evoluzione attiva da parte di tutti i soggetti. Ma è proprio qui, nella distanza tra l'orizzonte delle promesse che emerge e che si deposita nel corpo sociale (la vita attesa) e la condizione materiale delle vite (imposta dai rapporti di produzione reali della società), che la sinistra può e deve riprovare a reinsediare il suo fare. Per queste ragioni non è possibile il semplice ritorno all'ascolto […] Fino al periodo fordista, infatti, esisteva una forma della vita relazionale sociale che era “geneticamente” difforme dalla vita relazionale produttiva. La vita sociale non era omologabile al modello fordista della parcellizzazione, cooperazione e controllo. Le due logiche differenti garantivano un margine di intervento politico in grado di evidenziare il livello di sfruttamento, di alienazione, di sradicamento che il modello di lavoro produceva negli individui e nei corpi sociali. La rivoluzione digitale riduce fortemente (o addirittura tende ad annullare) lo spazio tra le forme della vita relazionale e quelle della produzione, facendo assumere, ad essa, l'idea della naturalità. Lo spazio per il conflitto tradizionale diviene minore e diverso, assume caratteristiche meno generali. D'altronde c'è la materialità di questi ultimi due decenni a dimostrare tali ipotesi.” (bozza di documento politico di una iniziativa della Associazione Net Left mai pubblicata). Allo stesso tempo Cini mi sottolineava che alcune delle affermazioni presenti non lo convincevano affatto. Nei passaggi in cui il documento si soffermava sulla natura della nuova forma produttiva (la formazione economico-sociale) contestò fortemente il passaggio che riguardava la potenza e la sua forza: “Ma questa struttura, a differenza di quella contro la quale le sinistre otto-novecentesche hanno lottato, ha una potenza enorme basata sulla capacità di innovare in permanenza ma, al contempo, radici molto superficiali. Il gigante ha piedi di argilla sempre più esili. I margini per una lotta politica antagonista al sistema, se si inforcano occhiali critici adeguati, sono più ampi di ieri e la velocità dei processi (che oggi assume la forma virale, come il movimento dei movimenti ha già dimostrato) molto più alti di quelli del '900, come la stagione del movimento dei movimenti dimostra”. Per Marcello Cini serviva qualcosa di più che il semplice “riconoscimento” delle forme dello scontro: occorreva lo schierarsi delle forze organizzate.

Ripercorrere quello scambio di mail mi ricorda le possibilità, ancora in nuce in quel tempo, all’interno delle forze organizzate della sinistra e che furono disperse nel rinculo

derivante proprio dai ritardi nelle letture critiche della nuova società che avanzava.

Il giudizio che Marcello dava della incapacità delle forme organizzate della sinistra di comprendere la “fase” era totale, anche quando era portato a riconoscere a quelle forme le uniche “opportunità” che si aprivano al “fare concreto”. In particolare, contava molto sulle possibilità offerte dal quotidiano Il Manifesto con il quale manteneva un “rapporto sentimentale” e una vivida relazione attraverso Valentino Parlato.

I nostri scambi si fecero più intensi.

Fu in quella fase, nell’autunno del 2007, che Cini scrisse la famosa lettera per la sospensione della Lectio Magistralis di Papa Benedetto XVI per l’apertura dell’anno accademico. Una lettera che aprì un dibattito che lo portò direttamente a partecipare ad una serata da Bruno Vespa. Di quella esperienza mi scrisse: “Oggi “fare politica” ha voluto dire per me protestare pubblicamente insieme a un gruppo di colleghi della Sapienza, contro una decisione assurda del rettore che aveva deciso di affidare al Papa il discorso di apertura dell’Anno Accademico. Ci sembrava ovvio che l’inaugurazione solenne dell’attività di una Istituzione che ha per scopo la creazione e la trasmissione del sapere attraverso la libera discussione tra pari, non potesse essere affidata alla massima autorità, pur degna del massimo rispetto, di una istituzione fondata sulla gerarchia e sul dogma. Su di noi, invece, travisando così completamente il senso della nostra protesta, sono stati scaricati, in modo assolutamente bipartisan, a partire dal più alto Colle della Repubblica, torrenti di ingiurie e fiumi di minacce con l’accusa di aver “tappato la bocca” al Papa”.

Passarono dei mesi di intenso dialogo e, nell’estate del 2008, mi segnalò un libro da leggere e l’autore da conoscere: La logica aperta della mente (2008) di Ignazio Licata. Ci teneva molto e mi consegnò una relazione intensa con un altro grande fisico. Un giorno dell’agosto del 2008, Marcello mi inviò il testo di un suo scritto per avere un consenso prima della sua pubblicazione. Rimasi sorpreso della sua richiesta di un “visto si stampi” da parte mia. Il lavoro portò alla pubblicazione di un articolo in due parti, vista la sua complessità e lunghezza, e rafforzò il nostro modo di lavorare assieme.

Fu così che un giorno ricevetti una telefonata inattesa. Era pomeriggio inoltrato e gli avevo mandato una bozza di testo per un documento della associazione Net Left. Credevo di dover parlare di quel testo, della sua formulazione e invece mi giunse la proposta: «Sergio, perché non ne facciamo un libro a quattro mani». Confesso di aver avuto un attimo di perplessità, come se non avessi compreso le parole. Lui, però, aveva già chiaro tutto nella sua testa: «Organizziamo la scaletta dell’indice. Ci dividiamo i capitoli. Ognuno scrive il suo e corregge quello dell’altro». A parte il ricordo vivido delle sensazioni connesse, da quel momento iniziò un lavorio tremendo. Cini non tralasciava nulla, contestava e proponeva, ma apprezzava e accoglieva con la stessa facilità. Ero abituato a lavorare con persone che facevano politica e che o ignoravano o accettavano ciò che gli veniva sottoposto (spesso senza leggere) o scartavano in toto (perché considerato non utile al proprio percorso). Per questo l’esperienza con Marcello aveva un qualcosa di speciale. La qualità delle sue osservazioni e delle sue tesi, inoltre, era sempre supportata da forti elementi teorici e basi documentate. Scrivere con lui fu una esperienza unica. Come lo fu la modalità di stesura tecnica del testo. Una volta finiti i capitoli di competenza, ce li spedivamo per le verifiche incrociate. I testi ritornavano con il suo schema classico: le parti in rosso erano i passaggi significativi e quelle in blu quelli da rivedere, correggere o sopprimere. Una volta apportate le correzioni, i testi tornavano alla verifica e a quel punto, ognuno di noi, cominciava ad usare colori diversi per interventi aggiuntivi: «Ho scritto in viola la correzione nella parte blu che avevi sottolineato, mentre in verde la parte che io cancellerei».

Insomma, i testi cominciarono a diventare un patchwork di colori in cui gli interventi diventavano sempre più complessi (e, talvolta, anche poco comprensibili). Dopo alcuni mesi di lavoro cominciammo anche a ipotizzare il titolo. In una mail alla casa editrice scrisse: “Caro Enrico e caro Stefano, allego il capitolo 9 di RE MIDA (per ora chiamiamolo convenzionalmente così). A me e a Sergio sembrava che di libri sulla sinistra ce ne sono stati una tale quantità che “SINISTRA SENZA RETE” potesse destare meno curiosità. Per quanto mi riguarda, RE MIDA rientrava nella scia del Prometeo, ma è solo civetteria personale. Comunque ci sentiamo”. L’idea da cui partiva per il nostro libro e che lo stimolava enormemente, era che tutto ciò che il capitale toccasse si trasformasse in una materia “preziosa” ma “inerte” per i processi vitali. Qualche settimana dopo, nel pieno della preparazione editoriale dei capitoli, arrivò una sua mail: “Un ultimo dubbio (come vedi non sono proprio un decisionista!). “Lo spettro del capitale” o “Lo spettro del capitalismo”? Nel secondo il riferimento al Manifesto marxiano è esplicito. Ma non so perché il primo mi suona meglio. A te l’ultima parola: Ciao, Marcello!”. Il titolo era finalmente sbocciato. Una mattina, con il suo classico piglio, mi chiamò per dirmi: “Ora stampa tutto in bianco e nero. Vieni a casa e facciamo una correzione di bozze!”. Ricordo anche che, in quell’incontro, mi disse esplicitamente: “Dobbiamo sbrigarci, non vorrei che il libro uscisse e io non ci sia più!”. Sottovalutai un po’ quella sua affermazione, rassicurandolo e giocandoci un po’ su.

Da quel momento iniziammo una fase più intensa di relazione anche sul piano prettamente umano. Marcello si lasciava andare a qualche confidenza sulla sua vita, il suo stato di salute, il lavoro di ricerca. Organizzammo anche una presentazione del libro nella “sua” facoltà. In realtà, vennero poche persone e nessun “personaggio”. Marcello parve comunque felice anche se io sono sempre rimasto dell’idea che aveva sperato in ben altra accoglienza.

In uno dei nostri viaggi mi confessò quella che probabilmente fu la sua più grande crisi intellettuale o almeno così sembrò alle mie orecchie. Fu il momento in cui la ricerca della Meccanica Quantistica, una volta uscita dal ristretto cerchio di “adepti” della prima e seconda ora, iniziava a mettere le radici e la quantità di ricerche, strade teoriche, approcci, diventavano “inconoscibili” agli occhi di un singolo teorico. Una crisi profonda che, a mio avviso, incise molto anche sulla sua linea di ricerca e sugli approdi alla complessità, una crisi che lo cambiò alla radice e che, probabilmente, cambiò anche i rapporti con il mondo accademico e con quello della ricerca.

Girammo l’Italia per quello che le sue condizioni gli consentivano e quella esperienza lo portò a riavvicinarsi ad una “militanza” diretta. La nascita di “Sinistra Ecologia e Libertà” gli aveva dato l’occasione di portare un contributo “diretto” ad una organizzazione. Fondammo un circolo romano e partecipavamo al “Comitato Scientifico” di SEL insieme a Giorgio Parisi, Marcello Buiatti, Massimo Scalia, Gianni Mattioli e tanti altri. Questa rinnovata militanza lo portò ad accettare la candidatura a capolista nella Regione Lazio nel marzo 2010 nella lista di Sinistra Ecologia e Libertà che appoggiava la candidatura di Emma Bonino a Presidente della Regione. Una “candidatura di servizio” che rappresentò, sempre a mio avviso, una nuova delusione. Il “partito” che lo aveva voluto capolista non lo sostenne e il suo risultato non fu neanche lontanamente quello che sarebbe stato doveroso offrire ad un uomo come Cini. Un ristretto gruppo di amici e compagni di una vita lo supportarono, ma la ormai schiacciante logica dei pacchetti delle preferenze, che aveva preso il sopravvento anche a sinistra, lo condusse ad una esperienza che forse avrebbe potuto essergli risparmiata.

Cini continuò la sua militanza come se non fosse accaduto nulla anche se l’esperienza del Comitato Scientifico di SEL perdeva sempre più di spessore interno (esternamente non aveva mai avuto alcun ruolo o operatività reale, un vero peccato viste le personalità che lo componevano), fino al congresso costitutivo del partito che, fino a quel momento, era una struttura in costruzione. Scelse di non farsi delegare lasciando il posto a me e dal giorno dopo la chiusura del Congresso di Firenze, che vide la nascita del partito, le occasioni e le forme della sua militanza iniziarono a scemare.

Dopo quella “nostra” delusione Marcello non si tirò indietro dalla partecipazione politica anche se le occasioni negli “organismi” politici diventavano sempre più scarsi e poco significanti. In quei mesi, ripresi gli appunti per la scrittura del testo su “l’industria di senso” proponendo a Marcello di scrivere insieme anche questo libro. In maniera molto decisa mi disse che su quel terreno non aveva nulla da “donare” in termini di conoscenza e che non si sentiva di partecipare ad un lavoro ove non sentiva di poter contribuire con forza. Inutili furono le mie insistenze facendogli notare che le osservazioni che ci eravamo scambiati in quegli anni erano già un contributo importante ma lui fu drastico. Forse anche il suo stato di salute non era più dei migliori e dopo un po’ smisi di insistere.

Le discussioni con Marcello Cini mi mancano non solo per la “qualità” delle sue parole, l’acutezza delle sue argomentazioni e la profondità culturale che trasudavano nello scambio con lui, ma anche per le efficaci sintesi che sapeva offrire. Talvolta anche molto nette e che non lasciavano repliche. Ricordo una volta, durante uno dei viaggi che facemmo per presentare il nostro libro, una discussione sul tema della complessità dove, ad una mia argomentazione “critica”, su un aspetto marginale di cui oggi non ricordo, espresse la sua “conclusione”: “Sergio, l’unica rappresentazione veritiera di un sistema complesso… è il sistema stesso!”. Il tono era non solo perentorio ma assolutamente definitivo!

 

Marcello Cini, però, era sempre “curioso” e capace di domande anche in territori ove lui era senza dubbio molto più preparato di me. Ricordo un giorno in cui mi stupì e, di fronte ad una discussione sulle trasformazioni digitali, mi interruppe chiedendomi (lui a me!): “Sergio, ma tu pensi che esisterà mai un computer quantistico?”.


  

Bibliografia