Riflessioni Sistemiche n° 25


Maestri e mentori.
Visioni sistemiche attraverso le generazioni

Decolonizzare lo sguardo.
Ovvero tutto quello che è germinato
nel mio confronto con Serge Latouche


di Marco Deriu

Università di Parma

Sommario
Ci sono incontri che hanno nella propria esistenza l’effetto di un riorientamento cardinale, di un’apertura di nuove prospettive. Nel caso che racconto, l’incontro con Serge Latouche ha aperto all’autore del saggio prospettive di analisi nuove su alcuni dei paradigmi culturali della modernità occidentale e sui possibili antagonisti – dallo sviluppo alla sussistenza, dall’economia all’informale, dall’utilitarismo al dono, dalla crescita alla decrescita – stimolando in diverse direzioni un’avventura umana, relazionale e intellettuale. Un percorso attraverso idee e segnavia nel mio personale confronto con l’opera di Serge Latouche.


Parole Chiave
Occidentalizzazione, Antiutilitarismo, Dopo-sviluppo, Decrescita.


Summary
There are encounters that have in their existence the effect of a cardinal reorientation, of an opening of new perspectives. In this case, the meeting with Serge Latouche opened to the author of the essay new perspectives of analysis on some of the cultural paradigms of Western modernity and on possible antagonists - from development to subsistence, from the economy to the informal, from utilitarianism. to the gift, from growth to degrowth - stimulating a human, relational and intellectual adventure in different directions. A path through ideas and trail signs in my personal confrontation with the work of Serge Latouche.


Keywords
Westernization, Anti-utilitarianism, Post-development, Degrowth.

 

 

L’Occidentalizzazione del mondo: il titolo del primo libro di Serge Latouche che mi capitò in mano aveva un titolo che era in sé una sorta di pallottola mentale. Qualunque cosa volesse significare suonava di per sé estremamente provocatorio. Cosa voleva dire occidentalizzazione del mondo? Era il solito racconto apologetico sulla grandezza della cultura occidentale o era una immersione nei retroscena e nelle cantine della celebrazione del mito del progresso?

Mi gettai a capofitto nella lettura. Lo lessi con grande attenzione ma anche sospetto perché non capivo dove mi volesse condurre, che cosa mi voleva “vendere”. Arrivato alla fine capii che non c’era nulla da vendere. Si trattava di una lucida e appassionata controstoria dell’epopea dello sviluppo alla luce del paesaggio desolato da esso prodotto in molti angoli del mondo e con gli occhi di coloro che avevano cercato di resistere e di difendere una visione differente. Era il 1992 avevo 23 anni. Ero ancora studente all’università e il libro mi conquistò profondamente.

All’epoca venivo da percorsi dentro al pacifismo e terzomondismo del cattolicesimo critico. Avevo frequentato per diversi anni una rivista dei Missionari Saveriani (Missione Oggi), e poi da quella esperienza era nata nel 1991 una rivista laica “Alfazeta” con cui continuai a lavorare fino alla chiusura nel 1998. La rivista Alfazeta divenne uno spazio in cui parlare del lavoro di Latouche, con recensioni ed analisi (Deriu, 1993; Deriu, 1995) e con le prime interviste (Deriu M. 1995; Deriu M., Pellegrino V. 1997). Negli anni successivi cominciai a invitare ripetutamente Latouche in Italia e anche grazie al mio ingresso nel mondo universitario ad organizzare una lunga serie di incontri, convegni, scuole ed eventi per far conoscere il suo pensiero (cfr. Latouche S., 2000 e 2016). Un ruolo importante in questa fitta trama di scambi fu giocato anche dal compianto Alfredo Salsano, allora Direttore editoriale di Bollati Boringhieri, che diede un impulso cruciale traducendo e pubblicando in Italia i lavori di Serge Latouche, di Alain Caillé e tanti di altri autori e autrici critici, nonché promuovendo attorno alla casa editrice incontri con studiosi e intellettuali con cui sono nate collaborazioni e amicizie.

Nella sua carriera di autore, Serge Latouche ha pubblicato una cinquantina di libri e un gran numero di articoli. Non è mia intenzione avventurarmi in questa sede in una rilettura critica della sua opera. La mia ambizione è molto più modesta, ma anche molto più sincera: una riflessione sull’impatto che ha avuto nel mio percorso e nel mio pensiero lo scambio con lui. Certamente Serge è stato ed è per me un maestro, un termine che per altro uso con molta discrezione pensando a persone che hanno avuto un’influenza profonda nella mia formazione. Non so se posso definire Serge Latouche un mio “mentore” come suggerisce il titolo di questo numero di Riflessioni Sistemiche. Perché quello con lui è stato uno scambio profondo e affettuoso ma segnato dalla distanza e forse anche da una certa mia riservatezza nei confronti del personaggio pubblico che non è mai sparita nonostante i tanti anni di conoscenza. Certamente Serge ha avuto nei miei confronti tanti gesti di stima e di incoraggiamento e di generosa collaborazione. Gesti spesso conditi da affetto come quando anni fa mi mise sulla testa e mi regalò un suo storico berretto bretone o quando mi ha gentilmente ricordato tra i compagni di strada nel suo libro La decrescita prima della decrescita. Precursori e compagni di strada (Latouche S., 2016). E il suo calore umano e la sua carica conviviale negli incontri e nei pasti condivisi sono stati certamente uno degli aspetti che lo hanno fissato nella mia mente non solo come un modello di pensiero ma anche come emblema di un certo atteggiamento verso la vita. E in effetti quello che mi interessa in questa occasione è raccontare dal mio punto di vista, attraverso alcuni segnavia di idee, uno di quegli incontri che hanno nella propria esistenza l’effetto di un riorientamento cardinale, di un’apertura di nuove prospettive. Insomma, l’effetto di un soffio vivente nella vita della mente.



La colonizzazione dell’immaginario 

Tra gli anni ’80 e gli anni ’90 quando Latouche pubblica Faut-il refuser le developpement - tradotto in italiano anni dopo col titolo I profeti sconfessati (Latouche S., 1995) e L’Occidentalizzazione del mondo si stava affacciando una piccola internazionale di critici dello sviluppo – François Partant, Ivan Illich, Wolfgang Sachs, Gustavo Esteva, Jean Robert, Majid Rahnema, Arturo Escobar, Gilbert Rist, Helena Norberg-Hodge, Vandana Shiva ecc. Sono molti i punti in comune e i rimandi tra questi autori, che hanno rappresentato un passaggio dalla ricerca di un fantomatico “sviluppo alternativo” (endogeno, umano, fondato su bisogni fondamentali, culturale, durevole, sostenibile, locale ecc…) ad un’alternativa al paradigma dello sviluppo. Come taglia corto Latouche, non vi è altro sviluppo che lo sviluppo realmente esistente, con i suoi portati di guerra economica, saccheggio della natura e processi di uniformazione culturale (Latouche S., 1995, pg. 22).

Questo filone di critica dello sviluppo si espanderà in rivoli diversi. Nei decenni successivi si parlerà di post-sviluppo, di sussistenza ed ecofemminismo, di antiutiliarismo, di decrescita, post-crescita, di buen vivir, di post-estrattivismo, convivialismo ecc.

In questo orizzonte di pensiero, certamente Latouche ha mostrato, più di altri, la capacità di cogliere e aggredire frontalmente dei nodi simbolici – e quindi dei nervi scoperti – del canone occidentale moderno, scatenando così una possibilità di dibattito e di confronto che in passato era rimasto limitato a piccole nicchie culturali e politiche. Penso che questa capacità di Serge sia legata alla sua attenzione al tema dell’immaginario. Una lettura che deriva in parte da una parte dalla conoscenza del lavoro di Serge Gruzonski (Gruzinski S., 1994) che già parlava precisamente di “occidentalizzazione” e di “colonizzazione dell’immaginario” pur sottolineando la capacità creativa di trasformazione e adeguamento delle società indie nella difesa della loro identità culturale. Ma soprattutto dalla frequentazione approfondita dell’intera opera di Cornelius Castoriadis a partire dal suo celebre L’istituzione immaginaria della società, il quale consapevole che l’«l’istituzione della società è, ogni volta, istituzione di un magma di significati immaginari sociali che possiamo e dobbiamo chiamare un mondo di significati» (Castoriadis C., 1995, pag. 256) aveva ben presente che l’affermazione del capitalistimo, in Europa come altrove, era indissolubile dall’emergere ed imporsi di un nuovo significato centrale economico che riorganizza e riplasma una quantità di significati immaginari sociali (ivi, pp. 261-262).

Con questa consapevolezza Latouche parla di “sviluppo” come di una “parola tossica” che non a caso non trova una corrispondenza in molte culture locali e che porta con sé un intero mondo di significati e pratiche sociali destrutturanti. In questo senso Latouche afferma perentoriamente: «Lo sviluppo è stato ed è l’occidentalizzazione del mondo» (Latouche S., 1993, pag. 132) ovvero in primo luogo una forma di deculturazione e sradicamento. Il “tenore di vita” occidentale e il modello consumista cui richiama l’immaginario dello sviluppo, hanno costituito il miraggio attraverso cui si è imposto e giustificato lo sfruttamento dell’ambiente e delle persone e la riorganizzazione delle produzioni in ragione delle aspettative del mercato globali e non dei più sobri e contenuti bisogni locali. Ma l’assunzione della prospettiva dello sviluppo, l’applicazione più o meno pedissequa delle ricette economiche per il “decollo”, non ha determinato un accesso a un livello di vita definitivo acquisito da un paese una volta per tutti, ma ha significato piuttosto entrare in un regime di competizione generalizzata e di inclusione in una logica globale gerarchizzata: «Integrando le varie parti del mondo nel mercato mondiale, l’Occidente ha fatto qualcosa di più che modificare i modi di produzione: ha distrutto il senso del sistema sociale, cui tali modi erano strettamente connessi. Da quel momento l’economia diventa un campo autonomo della vita sociale e un fine in sé» (Latouche S., 1992, pp. 28-29). Mentre a livello sociale non ha garantito un innalzamento del benessere per tutti ma piuttosto una sempre più drammatica polarizzazione tra ricchi e poveri all’interno di una rottura delle forme di organizzazione e legame sociale tradizionali. «L’Occidente è emancipatore nel senso che libera dalle mille costrizioni della società tradizionale e apre infinite possibilità; tuttavia, questo affrancamento e queste possibilità di realizzeranno soltanto per una infima minoranza. In cambio, la solidarietà e la sicurezza saranno distrutte per tutti» (Latouche S., 1992, pag. 56).

  

 

L’interiorizzazione dello sguardo del colonizzatore 

L’opera di sradicamento portata avanti dallo sviluppo è al contempo materiale, sociale, culturale, simbolica, psicologica. L’occidentalizzazione per Latouche è un processo che contempla assieme la svalorizzazione del proprio punto di vista e della propria esperienza e l’interiorizzazione dello sguardo del colonizzatore. «non avendo più occhi per vedersi, parole per dirsi, braccia per agire, la società ferita adotta la visione dell’Altro, si dice con la parola dell’Altro, agisce con le braccia dell’Altro. Il suo mondo è invero disincantato. La parola disincanto va qui presa alla lettera. Che cosa le resta quando i suoi déi sono morti, i suoi miti sono favole, le sue realizzazioni impotenti e inutili?» (Latouche S., 1992, pag. 73). Il cosiddetto “sottosviluppo”, altro non è che l’assunzione di «questo giudizio sull’Altro, decretato miserabile prima ancora di esserlo, e che lo diventa perché così giudicato irrevocabilmente» (Latouche S., 1992, pag. 73).

Questa analisi dell’interiorizzazione del giudizio del colonizzatore trova analogie e conferme nel lavoro di altri importanti studiosi. L’antropologo statunitense Marshall Sahlins grande conoscitore delle società indigene del pacifico ha parlato nei suoi lavori di «disprezzo per se stessi», e di «vergogna» come dispositivi culturali necessari ad accogliere il modello di sviluppo occidentale (Sahlins, 1992, pp. 199-200). L’intellettuale maliana Aminata Traoré ha descritto in profondità la condizione di molti africani che avendo interiorizzato lo sguardo del colonizzatore non riescono ad amarsi ed aspirano a vivere come lui (Traoré, 2002, pag. 144 e seguenti).

Attraverso Latouche ho dunque compreso la potenza che le dimensioni dell’immaginario possono avere sulla realtà sociale, culturale e politica di interi paesi e popolazioni. Nel mio percorso ne ho tratto una grande attenzione al tema delle rappresentazioni dell’alterità. La capacità di imporre le proprie rappresentazioni nell’immaginario collettivo (proprio e altrui) è al tempo stesso frutto di rapporti di potere ma anche parte di un dispositivo di potere. Dunque, quando oggi ci confrontiamo con le alterità vicine e lontane noi pensiamo di essere liberi e aperti all’incontro e all’ascolto, ma in realtà portiamo inevitabilmente con noi il peso delle immagini, dei concetti e dei frames codificati che ereditiamo da secoli di colonialismo, di imperialismo e di esportazione di modelli culturali. In questa prospettiva, da oltre vent’anni raccolgo pubblicità che riguardano le rappresentazioni dei paesi del sud del mondo, nelle quali a mio avviso si può vedere la continuazione dello sguardo occidentale che infantilizza e spersonalizza quelle persone che idealmente pensa di aiutare. Ho riportato questo tipo di riflessioni anche nelle dinamiche di confronto con gli immigrati e con i rifugiati. Anche nelle città globalizzate l’incontro e il rapporto con le alterità culturali sono sempre mediati da rappresentazioni e costruzioni reciproche (linguistiche, visuali, narrative) che orientano lo sguardo, l’immaginario, l’atteggiamento e il tipo di relazione. Nei rapporti con gli altri queste rappresentazioni contribuiscono non solo a dirci come guardare l’altro, ma in maniera più profonda contribuiscono a creare una specifica realtà dell’altro nella nostra testa, a costruire l’altro. Quando l’immagine dell’altro viene ricondotta a codici e canoni stereotipati che si rafforzano nel tempo e che ostacolano un ascolto, un confronto e anche un conflitto reale tra diverse soggettività. Queste rappresentazioni codificate mentre ingabbiano gli altri, finiscono con divenire anche una gabbia per noi stessi. Una volta sedimentati in profondità nella nostra mentalità e nel nostro inconscio collettivo, infatti, questi codici e questi canoni definiscono anche i parametri e i confini di leggibilità e comprensibilità degli atti o delle espressioni dell’altro. In altre parole, non siamo padroni del nostro immaginario culturale. Questa assunzione di consapevolezza ha per me significato una postura riflessiva e uno sforzo di autoanalisi. Quello che possiamo fare è imparare a ritornare e a ridiscutere su quello che siamo abituati a dare per scontato, soprattutto tutto ciò che è costantemente proposto e riproposto ai nostri occhi quotidianamente. In termini pratici ho provato anche a lavorare sulla possibilità di un rovesciamento degli sguardi. Nel lavoro Sguardi stranieri sulla “nostra” città (Deriu M., Parma per gli altri, 2015) per esempio ho cercato insieme alle amiche di una Ong locale, di raccogliere e restituire il punto di vista di donne e uomini immigrati sulla città in cui vivo. Se gli occidentali sono abituati ad esplorare il mondo raccontando, descrivendo ed etichettando popoli, paesi ed usanze, in questo caso erano i cittadini di Parma ad essere in qualche modo “trafitti” dallo sguardo altrui. Nel libro, poi diventato anche un piccolo spettacolo teatrale, i “nativi” sono posti sotto la lente d’osservazione dagli “stranieri”, mentre questi ultimi si rivelano attenti osservatori dei modi, delle abitudini, delle credenze e anche dei rituali quotidiani delle genti del nord. Uno sguardo a tratti impietoso e a tratti riconoscente e comunque mai banale. Questo semplice rovesciamento, questa disposizione a essere letti dagli altri, ha permesso un confronto profondo e “alla pari” su ciò che ci rende umani e su quello che conta davvero nella ricerca di una buona vita, della felicità.

 

 

Il dono tra reciprocità e dominio 

Ma la colonizzazione verso l’altro è stata preceduta da una sorta di autocolonizzazione. Riprendendo il Polanyi de La Grande Trasformazione (Karl Polanyi, 1974) Serge Latouche ha più volte richiamato gli effetti ultimi di quel processo di “autonomizzazione dell’economico dal sociale” mediante la generalizzazione del mercato, l’accumulazione delle merci, l’imposizione dell’ideologia dell’homo oeconomicus. Per Latouche l’economico è arrivato ormai ad invadere la totalità del campo sociale finendo con l’erodere il senso stesso della socialità, della reciprocità. Da qui l’interesse per il dibattito sull’antiutilitarismo. Assieme a Alain Caillé, Jacques Godbout, Gérald Berthoud, Denis Duclos, Serge Latouche è stato uno dei principali animatori del celebre M.A.U.S.S. il Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali (cfr. https://www.revuedumauss.com.fr/) nato in Francia tra il 1980 e il 1982 e tutt’ora attivo, con lo scopo di contrastare l’economicismo oramai imperante anche nelle scienze sociali e di «avviare un dibattito e un'informazione scientifica sulla questione delle dimensioni non mercantili e non monetarie dello scambio» (http://www.journaldumauss.net/?Bulletin-no1-1982-Declaration-d-intentions-et-sommaire).

Nel dibattito sul dono e sull’antiutilitarismo, Serge portava una conoscenza approfondita delle forme di socialità, scambio e reciprocità africane (frutto di ricerche sul campo in Mauritania, Camerun, Senegal) di cui raccontava la capacità di vivere creativamente al di fuori delle logiche della razionalità economica e della contabilità ufficiale (Latouche S., 2000).

Ma la sua esperienza africana gli forniva anche una visione delle ambivalenze del dono, almeno nelle forme che assumeva nella cornice del neocolonialismo e del paradigma dello sviluppo. Come scriveva «È attraverso il dono e non la spoliazione (o il saccheggio caro ai terzomondisti) che il Centro risulta investito di uno straordinario potere di dominazione» (Latouche S., 1992, pag. 30). Serge ha riproposto una critica degli aiuti umanitari ne Il pianeta dei naufraghi (Latouche S., 1993, pp. 91-96) e nello scambio con autori come Michael Singleton.

Sicuramente Serge è stato uno degli ispiratori di un lungo lavoro di ricerca che ho sviluppato negli anni successivi di analisi critica del sistema umanitario che mi ha portato fra l’altro a scrivere – in collaborazione con alcuni amici – il testo L'illusione umanitaria. La trappola degli aiuti e le prospettive della solidarietà internazionale (Deriu M., a cura di, 2001). Un testo che ha aperto la strada ad una discussione critica sul funzionamento e le contraddizioni degli aiuti umanitari. La critica degli aiuti era chiaramente collegata alla critica dello sviluppo, giacché di fatto il sistema degli aiuti nasce proprio all’interno di quel paradigma come “aiuti allo sviluppo. La concezione universalistica e unilineare dello sviluppo che ha impregnato la mentalità occidentale ha significato nel rapporto con le proprie alterità nient’altro che il disconoscimento di tutte le diversità culturali e delle complesse visioni del mondo. Tali diversità, espressione di forme diverse di civiltà, sono state infatti sottratte ad una dimensione di coevità rispetto alla civiltà occidentale e collocate in un “altro tempo”. È quel dispositivo semantico di negazione della coevità e di allontanamento temporale che gli antropologi hanno chiamato “allocronismo” (Fabian J., 2000).  Le diversità sono allontanate e ricollocate nello schema di un'unica storia universale orientata in una stessa direzione, quella appunto del progresso e del moderno sviluppo capitalistico occidentale. Dunque, le altre culture, le altre forme di vita, le altre forme di organizzazione sociale ed economica non vengono considerate nella loro compiutezza, diversità, ricchezza ma sono ricondotte a posizioni arretrate (primitive, sottosviluppate, ritardatarie) in una scala temporale evolutiva tracciata nel suo percorso della modernità occidentale che si auto-rappresenta quindi come l'apice della storia. Gli altri popoli e le loro società divengono in questa prospettiva “primitive”, “arretrate”, “sottosviluppate”, “in via di sviluppo”. In sostanza, “bisognosi di aiuto” per definizione. Il giudizio di arretratezza che abbiamo imposto alle nostre alterità e la mentalità che ci porta a guardare noi stessi come rappresentanti di una civiltà più evoluta ci ha spinto a credere che gli altri popoli debbano in fondo imitarci per diventare come noi e accedere al nostro mondo di benessere. In questa prospettiva diventava necessario aiutare qui paesi che erano “rimasti indietro” con l'aiuto allo sviluppo e con l'imposizione di politiche di sviluppo. L’idea dell’aiuto, del dono, dunque non è stato altro che lo strumento attraverso cui gli esperti occidentali hanno creduto di colmare questo gap “temporale” tra “noi” e “gli altri”. In altre parole, attraverso il dono si è cercato e si cerca di rendere gli altri simili a noi. Gli aiuti da questo punto di vista non sono mai stati semplicemente oggetti o beni, ma anche segni, simboli, strumenti performativi, agenti attivi di colonizzazione culturale. I cooperanti, gli agenti di sviluppo si sono presentati in questo mezzo secolo come guide verso una liberazione dall’indigenza e verso la meta ultima dello sviluppo che avrebbe finalmente dato accesso alla modernità a questi paesi poveri e arretrati. Forti di questa autoinvestitura le élites di espatriati si sono sentite autorizzate a impiantare in questi paesi mentalità, linguaggi, valori, progetti presentati come neutri e universali, in realtà profondamente ambigui e spesso destrutturanti. Gran parte dei progetti di sviluppo anziché aiutare le forme di resistenza locali hanno partecipato alla distruzione e alla colonizzazione delle forme di economia informale e di sussistenza. Contribuendo ad inserirle nel mercato globale. Al contrario, “I naufraghi dello sviluppo” non sono nello sguardo di Latouche degli sconfitti. Il pianeta dei naufraghi può paradossalmente essere riconosciuto e compreso altrimenti solo alla luce del naufragio del modello dello sviluppo occidentale. È solo a quel punto che quel mondo informale legato ad una forma di sussistenza può essere rivalutato come «laboratorio di socialità alternativa» o come portatore di un’«altra società» e non di un altro sviluppo (Latouche S., 1993, pag.110 e pag.118). Quelle forme di bricolage che troviamo in molte realtà del sud del mondo non sono dunque residui di un mondo tramontato, ma sono per tanti versi addirittura anticipatori di quelle forme di “doposviluppo” verso cui – pur attraverso strade diverse – ci stiamo incamminando tutti.

 

 

Dall’antiutilitarismo alla decrescita 

Nel 2001, Serge mi chiese, a partire da una fitta rete di scambi e relazioni strette in Italia, di prendere contatti per lanciare un appello e far nascere anche in Italia una rete antiutilitarista. Nel 2002, in intesa con Serge Latouche, e in seguito a scambi con Alain Caillé ed Alfredo Salsano, si creò così un primo nucleo associativo di quella che chiamammo “Associazione Antiutilitarista di Critica Sociale” che raccoglieva inizialmente Claudio Bazzocchi, Mauro Bonaiuti, Pietro Montanari, Onofrio Romano, Mariella Morbidelli, Pantaleo Rizzo, Anna Maria Rivera, Paola Minoia, Marino Ruzzenenti, Armida Salvati, Franco Calzini, Gino Pompeo Giampriamo. Dopo un primo periodo di studio e confronto nel giugno 2003 organizzammo a Bologna il primo incontro pubblico dal titolo “Il mondo al di là dell’utile. Realtà e prospettive del movimento antiutilitarista in Europa e in Italia”, cui parteciparono tra gli altri Serge Latouche, Alfredo Salsano, Alberto Tarozzi. Introducendo l’incontro dissi che il nucleo caratteristico di un movimento antiutilitarista stava nella “consapevolezza che l’ostacolo alla possibilità di una società e di una politica diversa è dell’ordine dell’immaginario e del simbolico. La consapevolezza che se vogliamo uscire dalle contraddizioni della mentalità moderna occidentale dobbiamo lavorare a una interrogazione a una trasformazione critica del nostro immaginario”. Citai in merito Alain Caillé che scriveva che «L’utilitarismo non rappresenta un sistema filosofico particolare o una componente fra le altre dell’immaginario dominante nelle società moderne. Piuttosto, esso è diventato quello stesso immaginario; al punto che, per i moderni, è in larga misura incomprensibile e inaccettabile ciò che non può essere tradotto in termini di utilità e di efficacia strumentale» (Caillé A., 1991, pp. 4-5). Insistetti dunque sulla necessità di “ricollocare il conflitto sul piano dei sistemi simbolici, sul piano della lettura antropologica della realtà dell’essere umano e della società” e ricollegai la critica della logica dell’utile alla “critica della finalità cosciente” che avevo trovato nella riflessione sull’ecologia della mente di Gregory Bateson (1990).

L’associazione antiutilitarista promosse anche le prime “Scuole estive delle alternative” come le chiamavamo allora. La prima si tenne nel 2004 nel Parco dell’Aspromonte presieduto allora da Tonino Perna (“Oltre il pensiero unico. Prima settimana laboratorio su antiutilitarismo, ecologia ed economia-etica”, Gerace, Parco dell'Aspromonte, 23-28 settembre 2004) e la seconda si tenne nel 2005 al Lago Trasimeno (“Libera scuola delle alternative. dalla critica dello sviluppo alle pratiche di economia solidale”, Isola Polvese, 8-14 Settembre 2005). Do alcuni intensi anni di lavoro e di scambio l’associazione si sciolse di fatto nel 2006. Poco prima era nata a Bologna, per iniziativa di Mauro Bonaiuti, l’Associazione per la Decrescita e diverse persone della vecchia associazione confluirono in quel nuovo cantiere che a distanza di anni continua ad essere attivo.

La prima volta che sentii parlare di “decrescita” da Serge fu alla Scuola estiva di Gerace, organizzata dentro al Parco Dell’Aspromonte all’epoca presieduto da Tonino Perna. E confesso che in quell’occasione rimasi un po' perplesso da questo slogan. Ne condividevo ovviamente le premesse di critica allo sviluppo e al feticcio della crescita, ma in termini comunicativi mi sembrava una parola poco chiara e comprensibile, se non addirittura respingente. Inoltre, dai miei studi sulla comunicazione traevo il sospetto che evocando l’idea di crescita, seppure in senso negativo, si finisse comunque per rimanere attaccati all’immaginario economicista.

Non mi ci volle molto tempo per cambiare opinione. In termini sociologici e comunicativi, mi colpì infatti come il termine suscitasse in verità una forte curiosità, proprio in ragione della sua dimensione spregiudicata e irriverente, quasi blasfema nel contesto della fede moderna nello sviluppo e nella crescita: «Parlare di “decrescita” – ha scritto Latouche – significa dunque lanciare una sfida, azzardare una provocazione: all’interno del nostro immaginario dominato dalla religione della crescita e dell’economia, asserire la necessità della decrescita risulta letteralmente blasfemo e chi sostiene simili posizioni è quantomeno considerato iconoclasta» (Latouche S., 2007, pag. 8).

Credo che per comprendere meglio la valenza della prospettiva della decrescita si debba prendere atto del fatto che oggi l’immaginario dominante si è trincerato dentro alla fortezza dello “sviluppo sostenibile”. Un’idea che ha avuto tanto successo proprio perché inoffensiva. Va bene a tutti: economisti, imprenditori, politici, consumatori. Oggi non è possibile ascoltare un discorso elettorale, una reclame o un resoconto aziendale senza che in qualche modo si evochi direttamente o indirettamente l’idea di uno “sviluppo sostenibile”. L’idea è accolta senza difficoltà perché sembra mettere avanti l’idea della sostenibilità e della tutela dell’ambiente, mentre in realtà sottintende il reale obbiettivo che è quello della tutela e la conservazione dello sviluppo. Parlare di sviluppo sostenibile significa riconfermare il primato dell’economico sull’ambientale e sul sociale. L’idea di sviluppo sostenibile ci fornisce l’illusione che possiamo continuare sulla stessa strada di sempre con qualche attenzione e cautela in più, con qualche regola e soprattutto un po' di buona volontà. Ma il problema, come ci ha insegnato Serge Latouche, non è pensare ad un’altra economia ma ad un’altra forma di socialità: «Il progetto della decrescita non è né un progetto di un’altra crescita né un progetto di un altro sviluppo (sostenibile, sociale, solidale ecc.), ma un progetto di costruzione di un’altra società, una società di abbondanza frugale, una società post-crescita (termine utilizzato in Germania da Niko Paech) o di prosperità senza crescita (espressione dell’economista inglese Tim Jackon). In altri termini la decrescita non è un progetto economico, neppure nel senso di un’altra economia, ma un progetto societario che implica la fuoriuscita dell’economia come realtà e come discorso imperialisti» (Latouche S., 2021, pag. 15). Intendendo con questo l’istituzione immaginaria centrale dell’economia con tutto il suo arsenale e corredo simbolico di scarsità, di produttivismo, competizione, utilità, prezzo, profitto, lavoro salariato, ricchezza monetaria, accumulazione, ecc.

 

 

Portare la responsabilità del proprio sguardo 

Dunque, in effetti la parola decrescita è urtante, dà fastidio, crea conflitto. Ed è proprio questo che la rende interessante. Perché è chiaro e non sussumibile l’intento di ribellarsi all’ordine produttivista dominante. Perché ci ricorda che non è semplicemente il sistema economico ma il modello di civiltà che è in crisi. Perché ci spinge a ragionare sul fatto che l’unica possibilità di immaginare un futuro vitale sta in un profondo cambiamento riflessivo.

Da questo punto di vista penso che l’idea di decrescita produca in molti una sorta di difesa e di attrito perché implicitamente evoca la dimensione del lutto. Il farsi largo della consapevolezza della necessità di abbandonare e lasciare andare buona parte di quella pesante armatura ideologica e tecnica con cui abbiamo creduto di diventare potenti dichiarando guerra agli altri popoli, alle generazioni future, alle altre specie ed in fondo al pianeta.

Non sono penso, comunque, che si debba fare un feticcio della decrescita, in opposizione al feticcio della crescita. L’idea della decrescita serve ad aprire nuove prospettive, a produrre quella tensione che produce un salto nell’apprendimento (o deuteroapprendimento come direbbe Gregory Bateson).

Non è un caso se dopo aver resistito a mezzo secolo di politiche di sviluppo molti popoli indigeni nel mondo oggi riscoprono il senso e il valore delle loro tradizioni e si oppongano con più decisione al paradigma della modernità occidentale. In questo senso Latouche stesso è consapevole che la ricerca di una “buona vita” e l’invenzione di un doposviluppo presuppone una pluralità di linguaggi e creazioni simboliche a seconda dei diversi contesti e delle diverse tradizioni: «Si potrà chiamare umran (realizzazione) come in Ibn Khaldun, swadeshi-sarvodaya (miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come in Gandhi, botaare (star bene insieme) come tra i toucouleur, o fidnaa/gabbina (dispiegamento di una persona ben nutrita e libera da ogni preoccupazione) come tra i borana d'Etiopia, o semplicemente sumak kausai (vivere bene) come tra i quechua dell'Equador» (Latouche S., 2012, pag. 122).

Per concludere vorrei dire che Serge ha parlato molto spesso della decolonizzazione dell’immaginario. Ma se penso all’effetto che ha fatto su di me il confronto con lui e il suo pensiero, userei un’espressione più soggettiva, più personale: parlerei di decolonizzare il proprio sguardo. Certamente questo confronto mi ha insegnato a decolonizzare il mio. Mi ha insegnato non dare per scontato che il mondo sia realmente per come siamo abituati a nominarlo, a inquadrarlo o raccontarlo. Se Gregory Bateson mi ha suggerito questo sguardo riflessivo ed autocritico in termini ecologici ed epistemologici, Serge Latouche lo ha fatto in termini culturali ed umanistici.



Bibliografia