Riflessioni Sistemiche n° 25


Maestri e mentori.
Visioni sistemiche attraverso le generazioni

A pranzo con la Regina.
Raccontando Donata Fabbri


di Laura Formenti


Docente di Pedagogia generale e sociale, Università degli Studi di Milano Bicocca

Foto di Nile da Pixabay

Sommario
Raccontare della mia relazione con Donata Fabbri (e più implicitamente con Alberto Munari) è un modo per ricercare intorno agli elementi costitutivi del mentoring: un processo misterioso ed elettivo che coinvolge le persone oltre il livello micro, per interrogare il nostro rapporto con il sapere e il contesto, in un intreccio tra idee, emozioni, azioni che va oltre l’individuo per plasmare le organizzazioni, la vita accademica, la società più ampia.


Parole chiave
Formazione, trasformazione, psicologia culturale, epistemologia operativa.


Summary
Telling about my relationship with Donata Fabbri (and Alberto Munari more implicitly) is a way to search around the constitutive elements of mentoring: a mysterious and elective process involving people beyond the micro level, to interrogate our relationship with knowing and the context, weaving ideas, emotions, and actions, choices, beyond the individual, to shape organizations, academic life, and the wider society.


Keywords
Education, transformation, cultural psychology, operative epistemology.

 

Scrivere per costruire il senso 

Durante l’estate 2021 sono morti a un giorno di distanza Alberto Munari e Donata Fabbri. Poche settimane dopo, l’invito di Sergio Boria a scrivere per questo numero della rivista mi appare come un segno: è arrivato il momento di ricordare e rileggere una relazione che mi ha profondamente segnata e che mi sembra emblematica di quanto il rapporto con il mentore intrecci tutte le dimensioni dell’umano. Apprendere è un processo di trasformazione della nostra identità bio-psico-sociale in costante divenire, che implica corpo, mente, genere, classe, immaginazione, intelligenza ed emozioni. Direi, soprattutto emozioni. Ma se oggi posso dirlo è anche per aver incontrato, 34 anni fa, una piccola donna agguerrita, sensuale, spiazzante come Donata Fabbri.

Vorrei scrivere per dare senso, non una commemorazione né un testo puramente narrativo. Ho iniziato con lei a scrivere per ricercare, al di là dell’ovvio, analizzando i “dati” e sfidando premesse scontate. Oggi, il metodo autoetnografico mi consente di comporre nella scrittura il racconto d’esperienza, che esalta la dimensione micro del vissuto e dell’interpretazione soggettiva che comunque non può essere evitata, ma uniti all’analisi critica.

Riprenderò dunque scene e ricordi, piccoli accidenti della mia relazione con Donata e, più sullo sfondo ma inevitabilmente, con Alberto Munari, suo secondo marito, compagno di vita, co-autore e co-fondatore della psicologia culturale, dell’epistemologia operativa e degli omonimi laboratori. Devo moltissimo a Donata. Quella che sono oggi contiene le tracce delle nostre conversazioni, tensioni, scoperte e co-costruzioni.

La domanda di ricerca potrebbe essere: quale pattern connette Donata Fabbri con Laura Formenti ed entrambe con il contesto, illuminando il loro posizionamento in questo mondo e reciproco? Indagare l’impatto della nostra relazione su di me e sul mio rapporto con il sapere illumina la relazione di mentoring. Dal particolare all’universale. Negli anni molti studenti e giovani ricercatori mi hanno affiancata, ai quali ho insegnato delle cose, ma un supervisore non è sempre un mentore; non è definito dal ruolo, si tratta di un incontro di anime, non programmato, raro e prezioso.

Prima di iniziare a scrivere ho riletto gran parte del materiale edito e inedito in mio possesso, in particolare La memoria della Regina (Fabbri, 1990). Prefazione di Giuseppe Varchetta. E qui, la prima sorpresa: rileggo il colophon del libro e vedo cose che allora non potevo comprendere.

“La memoria della Regina è un’idea nata rileggendo Dietro lo specchio di L. Carroll: due protagoniste entrano in scena per rappresentare una metafora e una sfida nello stesso tempo: Alice, metafora di una conoscenza “classica”, lineare, prevedibile, “certa”, e la Regina, metafora di nuovi possibili modi di pensare che propongono il desiderio di conoscere diversamente.”

È chiaro che, in questa storia, Donata è la Regina di Cuori di Carroll. Tutta la sua vita è stata un tentativo di pensare altrimenti, di dare corpo e metodo al pensare in storie di Bateson. La Regina di Cuori si oppone alla logica dominante, che definisce “un vivere al contrario”. Un pensiero mi attraversa la mente: nel 1990 per Donata ero io l’Alice della storia. In quei primi tre anni della nostra relazione, credo di aver ispirato in lei l’intento di sfidare le mie premesse. Mi emoziono nel rileggere la sua dedica, in una calligrafia che riconoscerei tra mille. Mi appare oggi molto esplicita nel (non) dare nome a una relazione che si stava ancora definendo ma era già molto intensa.

A Laura… e basta!* Donata

*footnote: “con un dato linguaggio si può dire solo ciò che quel linguaggio permette di dire” (Maturana)


La mia domanda di ricerca si precisa: quale forma di mentoring c’è stata, tra due donne di generazione, classe, temperamento diversi? Quali sono stati i vincoli e le possibilità, quali gli apprendimenti? Si può scomodare la parola amore? Ma procediamo dall’inizio…

 

 

 

L’incipit 

Ginevra, fine marzo 1988.

Donata Fabbri, chioma rossa e sguardo che mi scava dentro, mi chiede chi sono e che cosa cerco. Queste due domande mi continuerà a porre, direttamente e indirettamente, in modo incalzante, senza darmi tregua, per 23 lunghi anni di conversazioni, notti in bianco, litigi, risate e viaggi. Sopra tutto questo, il nostro scrivere, progettare, ragionare insieme. A 4 mani e a 6. Donata e Alberto: impossibile raccontare l’uno senza l’altra. Anche in quel primo colloquio lui era lì, sullo sfondo, rilassato come un Buddha nella vecchia poltrona di pelle che, avrei scoperto poi, era stata di Jean Piaget, ma lui l’aveva salvata dal macero.

Il loro gioco di squadra, in quell’intervista, era già evidente. Donata diretta, curiosa, un’esploratrice nata, Alberto gentile ma distaccato, cauto, preciso, organizzato. Ricordo poco di quel primo colloquio, finalizzato alla mia assunzione nell’equipe che Alberto dirigeva alla FAPSE, Faculté de Psychologie et des Sciences de l’Education. Il mio curriculum li aveva impressionati: a 26 anni avevo pubblicato un libro sulla terapia familiare, tradotto negli Stati Uniti da Aronson (l’editore della Selvini), un articolo su cambiamento e complessità nella rivista Terapia Familiare e un altro sull’autopoiesi, rivisto e corretto con Maturana, per Family Process (che però non fu mai pubblicato per ragioni “politiche”). Ma tutto questo mi pareva nulla: da mesi ero senza lavoro, senza riferimenti certi, depressa e scoraggiata.

Durante il colloquio, pian piano mi rinfrancai: l’interesse di Donata era chiaro, disse che Mauro Ceruti mi aveva presentato in un’ottima luce. Alberto intervenne solo per puntualizzare gli aspetti procedurali della mia assunzione. Io ero agitata dentro, fondamentalmente ambivalente. Avevo già un mezzo accordo con Maturana a Santiago, ma non me la sentivo di fare un dottorato nel Cile di Pinochet. La psicologia genetica, di contro, non mi attirava per nulla. Per me Piaget era “quello degli stadi di sviluppo” (quanto mi sbagliavo!). Non avevo interesse per la “psicologia culturale”, che loro due avevano fondato come una rielaborazione delle idee piagetiane e che avevo incontrato negli anni precedenti seguendo le conferenze e pubblicazioni della “sfida della complessità”.

Altri erano i miei riferimenti, tutti lontani dalla psicologia: Bateson, von Foerster, Maturana e Varela. Nonostante la laurea in psicologia e la professione di terapeuta della famiglia che esercitavo da qualche anno, non mi sentivo psicologa e non mi interessava fare ricerca in psicologia. Mi mancavano le radici, un programma di ricerca al quale poter desiderare di aderire.

Partì così la mia avventura ginevrina, con un atteggiamento vagamente distante e scettico. Un anno di prova, non ero affatto sicura che l’avrei rinnovato, ma volevo darmi un’opportunità. In fondo, mi avevano preceduto nello stesso ruolo Mauro Ceruti e Gianluca Bocchi, due miti per me.

I miei compiti sarebbero stati una ricerca tutta mia, supporto ai corsi compresa qualche docenza in francese (nell’estate avrei dovuto rispolverare quel poco che avevo fatto alle medie) e garantire un supporto organizzativo quando venivano i frequenti visitatori: Capra, Goodwin, Morin, Latour, Ouaknin, Varela, von Foerster, von Glasersfeld... Conoscevo già la maggior parte di loro, l’idea di incontrarli regolarmente, portarli a pranzo, organizzare i seminari e le lezioni, era musica per le mie orecchie. Dovevo “solo” informare il mio neomarito che per un anno sarei stata una pendolare del fine settimana. Un anno che diventarono poi cinque.

Andare a Ginevra fu una scelta azzardata – prima di una lunga serie - che avrebbe cambiato la mia vita, la mia identità professionale e idea di ricerca, portandomi verso l’apprendimento permanente e la formazione. Non lo sapevo, ma stavo entrando in un tourbillon che avrebbe sconvolto le mie certezze…

 


La metafora dello scontro 

“Ma davvero pensavi di cavartela così?”

“In che senso?”

“Questa non sei tu. Eravamo d’accordo di scrivere per raccontarci, per esprimere una visione, un’epistemologia vissuta, attraverso la nostra identità narrativa. E tu hai intellettualizzato per dieci pagine. Hai perfino scritto in terza persona! Guarda qui!”

Mi consegna dei fogli strapazzati, getto un’occhiata e mi si gela il sangue: il mio capitolo è tutto commentato, ogni spazio bianco è coperto dalla sua calligrafia svolazzante. Vedo molti punti esclamativi e interrogativi. Mi sento sprofondare, provo a esprimere le mie ragioni… ma vengo interrotta.

“No, guarda, secondo me ci hai provato. Quello che abbiamo deciso [nda: scrivere il capitolo introduttivo di Carte d’identità in prima persona, scelta coraggiosa per quei tempi] è difficile, lo so. Per te che sei abituata a trincerarti dietro le tue conoscenze è una parete altissima da scalare. Così hai fatto quello che fai sempre, mi hai consegnato questa roba sperando in cuor tuo che potesse andare bene così. Ti sei fatta lo sconto. Ma non si arriva a pensare diversamente senza sforzo.”

Conversazioni come questa erano la norma, con Donata. Io mi irrigidivo, provavo ad alzare barriere protettive fatte di spiegazioni logiche e resistenze attive e passive. Nella caffetteria di Uni2, davanti a una tazza di verveine o a una salade, passavamo lunghe ore a discutere animatamente, ma sapevo che alla fine vinceva lei. Era irremovibile, anche quando aveva palesemente torto. In fondo, la Regina non può avere torto.

Quando uscì La memoria della Regina (Fabbri D., 1990) lo lessi tutto d’un fiato. Oggi però posso dire che lo avevo capito solo in parte. La metafora dello scontro tra paradigmi è, in filigrana, l’asse portante del testo, centrato sul “coraggio di costruire conoscenza diversamente” (ivi., pag. 16) e, almeno in parte, un j’accuse verso chi “smercia sottobanco” le idee della complessità. Per Donata, la complessità era innanzitutto una pratica trasformativa, un corpo a corpo con le idee, con sé stessi e con gli altri. Ricerca e formazione. Anzi, pian piano la “e” venne meno e la ricerca formazione diventò oggetto e metodo di lavoro. La scommessa era portare le idee della complessità, troppo spesso espresse in modi astratti e lontani dalla vita e dal linguaggio comune, ai pratici – formatori, educatori, insegnanti, consulenti, manager – proponendo un linguaggio accessibile e rivolto a loro, “alle loro esigenze, ai loro riferimenti culturali e operativi” (ivi., pag. 17).

Mai banalizzando. Ad esempio, la parola epistemologia doveva essere proposta senza paura, in modo tale da essere pienamente compresa e diventare termine d’uso quotidiano, accessibile anche a chi non ha una laurea in filosofia. Avere le chiavi dell’epistemologia significava autorizzarsi a pensare “come si pensa”. Scoprire di pensare è entusiasmante, liberante per gli adulti, che si avvicinano alla formazione con domande talvolta preformulate, ma portano sempre, dentro di sé, altre domande implicite, più complesse. Alta teoria, dunque, unita a scelte operative concrete rivolte a persone in carne e ossa, dentro a situazioni/contesti organizzativi e sociali definiti, ma mutevoli e in costante evoluzione: questo era, per Donata, il modo di pensare della complessità.

 

Questo la portava a essere tranchant nei suoi giudizi. Per lei non c’erano vie di mezzo. Era ipercritica verso la complessità da tavolino. Un giorno mi disse che correvo il rischio di molti sistemici: limitarmi a elaborare concetti senza “sporcarmi le mani”, quindi condannata a ripetere sempre le stesse idee, per lo più di altri. Era convinta che l’incontro/scontro con la realtà – e con l’altro – sia indispensabile per generare nuove possibilità. È una responsabilità etica del ricercatore cercare di fare qualcosa di utile e giusto, anche sbagliando. Mitiche le sue incazzature, non fuggiva mai a una “sana” litigata. Mi confondeva e mi spaventava.

 

 

Il rapporto con il sapere 

La ricerca di Donata e Alberto si condensa intorno a un oggetto apparentemente semplice e autoevidente: tutti noi sviluppiamo costantemente, per tutta la vita, un rapporto personale con le conoscenze che ci servono per vivere e con i contesti nei quali esse sono costruite. Il rapporto con il sapere tocca tutti i campi e livelli dell’esistenza. La genesi del concetto è francese (cfr. Fabbri D., Munari A., 2005, pag. 50 e sgg.), sembra dagli anni ’60 con Lacan, ma solo dagli anni Novanta viene riproposto da Charlot in ambito scolastico e avrà una certa fortuna come spiegazione della dispersione e dell’insuccesso formativo, oppure, con Lévy, per comprendere il rapporto con la tecnologia. Il rapporto che instauriamo con il sapere (con il conoscere, con l’apprendere, con i contesti formativi) è personale, fatto di elementi consci e inconsci, plasmato dalle nostre interazioni con il mondo materiale, immateriale e sociale e dalle pratiche organizzative, oltre che dai discorsi nei quali siamo costantemente immersi. Ho imparato da Donata che conoscere è posizionarsi, emozionarsi, scegliere, assumere una responsabilità verso l’oggetto conosciuto, verso noi stessi e verso il mondo.

Per una come me, abituata a razionalizzare, si trattava nientemeno che imparare a riconoscere la mia integrità e totalità di essere conoscente. Realizzare autenticamente la formula maturan-vareliana “vivere è conoscere”. Seguendo i corsi in università ma soprattutto discutendo costantemente con loro, scoprivo che ogni azione, anche la più banale, mette alla prova e rivela ciò che sappiamo e che siamo, per validarlo, adattarlo (in un equilibrio dinamico tra accomodamento e assimilazione), ma soprattutto per trasformarlo. L’approccio di Donata e Alberto alla ricerca formazione era trasformativo, generativo.

Negli anni ginevrini, dunque, ho visto pian piano sgretolarsi il mio falso sé. In fondo, ero stata amata per la mia bravura (ah, il dramma del bambino dotato!), o così credevo visto che la mia precocità era sempre stata premiata da genitori e insegnanti, poi in università e sul lavoro. Il rapporto con il sapere non tocca solo il cognitivo, ma coinvolge tutta la persona. Anzi, le dimensioni emotive, etiche, pratiche, relazionali vengono sussunte in un “cognitivo” più ampio e onnicomprensivo. Entrambi allievi di Piaget, Donata e Alberto non temono di tradire il maestro nel segnalare i limiti di una psicologia genetica centrata sul soggetto epistemico, ovvero un sé senza storia e senza corpo, per sostenere invece che il soggetto psicologico in carne e ossa può e deve essere studiato con lo stesso approccio. Così, decidono di usare l’apparato concettuale e metodologico dell’epistemologia genetica per studiare un’età – quella adulta – nella quale l’identità sociale, le relazioni significative, il contesto, i vincoli organizzativi hanno un ruolo decisivo per l’evoluzione del soggetto. A differenza di bambini e adolescenti (età della vita oltre la quale Piaget non va), gli adulti (ri)definiscono se stessi in relazione a tutto ciò che hanno già appreso e a ciò che viene offerto dal contesto.

In questo, la capacità di raccontarsi e il pensare in storie di Bateson giocano un ruolo centrale. Quando proposi a Donata il mio progetto di ricerca sulla costruzione dell’identità, le spiegai che la formazione alla terapia sistemica mi portava a vedere l’identità come una costruzione mitica: è la storia che puoi permetterti di avere nei tuoi sistemi prossimali. Fu entusiasta nel propormi la sua supervisione. Nel frattempo, la mia vita universitaria era densa di attività. Quando dovevo fare lezione, Donata voleva il testo e i lucidi una settimana prima; li correggeva scrupolosamente e mi chiedeva di attenermi a quello che avevo scritto. Soffrivo di questo controllo, abituata a fidarmi di me stessa, ma mi è servito, sia per perfezionare la lingua francese, sia per imparare i trucchi del mestiere. Per Donata, infatti, la retorica è parte integrante del processo di conoscenza: quando fai lezione, conta quello che hai da dire, ma molto di più come lo dici.

“Ma come, parti così senza presentarti, senza assicurarti di avere il loro ascolto?”

“Ma no, certo. Non pensavo che volessi anche quello. Improvviserò”

“Eh? Improvviserai con i miei studenti, ma siamo impazziti? Sai quanto mi disturba lasciare la mia aula ad altri, per piacere, scrivi che cosa dirai e come. E non dimenticarti che sei tu a doverti guadagnare il loro ascolto, non puoi pretenderlo”.

Le sue correzioni erano spesso spiazzanti. Mi costringevano a posizionarmi, se volevo oppormi dovevo argomentare. Usava dire che le persone provano per un conferenziere tutti i tipi di emozione, compreso l’amore e l’odio. Se rispetti e credi in ciò che hai da dire, vuoi che le persone lo amino e quindi amino te per il modo in cui glielo porgi. In tutte le sue lectures c’era una frase dedicata al pubblico. Ad esempio, “qualche giorno fa pensando a voi, a questo incontro, ho capito che…”. Era proprio così, lei pensava sempre al pubblico a cui avrebbe parlato, alle loro abitudini cognitive, speranze e paure. La formazione è seduzione, e Donata in questo era una vera Regina.

 

 

I sistemi organizzativi 

Nei processi cognitivi, la soggettività è solo uno degli elementi da considerare. Non è possibile comprendere come pensiamo senza considerare il contesto organizzativo, le sue regole, il suo rapporto con il sapere. Donata scrive con Demetrio e Gherardi Apprendere nelle organizzazioni (1994), un libro dove l’organizzazione non è solo un contenitore per l’azione umana, ma un organismo in grado di evolvere, di adattarsi in interazione con il suo ambiente e con i suoi componenti. Finalmente trovavo un terreno nel quale il sistema da studiare con lenti batesoniane non è solo la famiglia, ma può essere l’azienda, l’équipe di lavoro, una scuola, un asilo nido, un servizio per adolescenti. Nel suo insegnamento di Psicologia dell’organizzazione, Alberto organizzava i tirocini in azienda come ricerche sul campo dove invitava gli studenti a moltiplicare gli sguardi usando una grille d’analyse che trovo ancora oggi insuperata. Molti manager e professionisti che erano stati suoi studenti venivano a portare testimonianze.

Nel suo corso sul Cambiamento organizzativo, Donata invitava gli studenti a riflettere sul rapporto che, da adulti, abbiamo con il cambiamento. Le letture per l’esame, a scelta, erano molto eterogenee: classici della sistemica, opere di filosofia ed ermeneutica, trattati di sociologia… A lezione, apriva con Mafalda, Snoopy, una canzone o un film, poi proponeva esercitazioni spiazzanti sulle strategie cognitive che adottiamo quando siamo costretti a cambiare.

La sua premessa era che gli adulti non amano cambiare ma lo accettano se ha senso, se non costa troppo, se c’è una passione o un desiderio che consente di bilanciare la fatica e le resistenze. La dimensione etica non è trascurabile: perché chiedere a qualcuno di cambiare? Che cosa ci autorizza a farlo? A chi e cosa serve? La mania del nuovo, una forzatura di importazione americana, era costantemente criticata.

La sua esperienza di ricerca sullo sviluppo morale dei bambini le aveva insegnato che non si possono separare i sistemi di concettualizzazioni dai sistemi di valori senza perdere il senso (o la qualità, direbbe Bateson). Così come i bambini, anche gli adulti si rapportano al sapere in termini di “mi piace” (è giusto, bello, soddisfacente, utile), ma anche “mi fa paura” (non mi serve, è insostenibile, lo rifiuto).

Volizioni, affetti, relazioni e valori sono intrecciati nell’azione, che dunque è per definizione strategica – non in un’accezione funzionalistica, ma perché definita da un bisogno molto concreto di appropriazione e uso.

Il sapere ci serve, ci è utile, ci piace e ci soddisfa: sembra banale, ma quante teorie lasciano fuori queste dimensioni, per ridurre la conoscenza a qualcosa di astratto o, al contrario, misurabile?

 

 

Il femminile, da ragazza a donna adulta 

Avere come mentore una donna può sfidare il tuo femminile. Donata voleva che per lavorare mi vestissi in modo formale, capelli a posto, trucco leggero. Era una cosa nuova per me. Nata in una famiglia piccolo borghese senza troppi fronzoli, dall’adolescenza la mia divisa erano stati jeans e maglioni o gonnellone da figlia dei fiori. I miei gioielli erano collane di perline e orecchini di bigiotteria. Nel mio lavoro precedente in ospedale nessuno badava a com’ero vestita. Donata iniziò presto a lavorarmi ai fianchi: quando lavori devi essere percepita come una professionista, una donna adulta non è una ragazza, la sciatteria non è ammessa - e basta con quella coda di cavallo! – gli altri ti valutano per come appari… non mi piaceva questo discorso, resistevo, ma volevo anche farle piacere e sentirmi a posto. Ricordo una discussione su “la forma è il contenuto” – tirava in ballo Bateson (uno che notoriamente girava con calzini spaiati!). Il suo stile, la sua pettinatura, i suoi gioielli raccontavano le sue origini da figlia dell’alta borghesia modenese. Quella forma non era la mia, ma quale era la mia? In realtà non lo sapevo.

Una volta, poco prima di Natale, mi portò a fare shopping e mi convinse a provare un abito nero molto fasciante… vedendomi riflessa nello specchio mi spaventai – oddio, sono io quella? – ma mi piacque. Decisi di comprarlo. “Sì, dai, fai una sorpresa a tuo marito”. Ricordo lo sbalordimento del suddetto quando mi presentai così agghindata alla serata di Capodanno tra amici d’infanzia. Nessuno sembrò farci caso, ma lui era veramente imbarazzato. Per un po’, fu come vivere in mondi paralleli: la mia ricerca a Ginevra era centrata sulla costruzione dell’identità (Fabbri D., Formenti L., 1990) e questo lavoro sulla mia forma era un modo, prima inconscio, poi sempre più consapevole, per misurarmi con la mia biografia di genere: un curricolo nascosto che mi aveva insegnato cosa fosse legittimo e accettabile per la mia famiglia, mio marito, gli amici, che mi aveva condotto al rifiuto di una femminilità (mia e altrui) troppo esibita, per assumere l’aspetto della nerd asessuata plasmato dall’aspettativa di essere giudicata “non bella ma intelligente”, come mi ripeteva mio padre. “Ma scherzi?!?”, per Donata la bellezza era nel comunicare, cercava di insegnarmi come comunicare la mia intelligenza e la mia bellezza.

E un giorno, a pranzo con un esperto in visita, nel bel mezzo di una conversazione sui sistemi organizzativi arrivò un commento inatteso: “Che sorpresa, sapevo che eri una bella donna, ma in realtà sei una che pensa!”. Un commento sincero, senza secondi fini, che mi stupì per la sua logica ribaltata.

Oggi, a 60 anni e dopo tante esplorazioni delle mie caleidoscopiche identità, guardo con tenerezza a quella iniziazione un po’ forzata, utile per farmi uscire dal guscio, ma credo che il femminile si esprima in molti modi, senza bisogno di aderire ciecamente agli stereotipi di genere. Una ricerca che ogni donna è costretta a fare, nel bene e nel male, quando ha un ruolo sociale.

Ero incerta se raccontare questo aspetto, ma la relazione con Donata è stata profondamente connotata dal suo desiderio di plasmarmi, quasi fisicamente.

Non era ingenua, era consapevole di questo suo desiderio e ne parlavamo, ma alla fine era convinta di essere nel giusto. Come molti educatori, lo faceva per il mio bene. Penso che se abbiamo resistito insieme per 23 anni è perché l’ho lasciata vincere, per tanto tempo.

 


I Laboratori di Epistemologia Operativa 

Quella sera, Donata e Alberto mi avevano invitato a cena. Lavoravo con loro da quasi 2 anni. Nel darmi l’indirizzo del ristorante, Donata aveva accennato a una “serata speciale” accendendo la mia curiosità. Dopo aver assaporato quei cibi così alieni, accompagnati da doviziose spiegazioni della mia mentore sulla cucina Thai (con lei ho imparato a esplorare ogni varietà di cibo come esperienza cognitiva e culturale totale), lei fa spazio sul tavolo e trae dalla borsa una cartellina. “Ecco, adesso ti mettiamo a parte del nostro lavoro degli ultimi anni, è ancora in fase di sviluppo ma è la nostra creatura. Sei la prima a cui lo mostriamo”. Non so se queste siano state le esatte parole, ma questo è il senso che arrivò a me: un dono, un’iniziazione e un segreto. Anche un invito a giocare insieme.

Conoscevo la psicologia culturale e l’epistemologia operativa, ma fino a quel momento le manifestazioni concrete di questo approccio, sul lato della pratica, erano state la didattica dei corsi (molto più attiva e ingaggiante rispetto a qualsiasi esperienza precedente), gli esami (un saggio scritto, per comprendere come pensa lo studente e se sa di pensare), i travaux pratiques (progetti di tirocinio) e soprattutto il metodo di ricerca costruito sull’intervista clinico-critica di Piaget. Entrare nel dettaglio del metodo piagetiano esula dalle finalità di questo scritto, ma vorrei segnalare quanto sia lontana la psicologia contemporanea dall’averlo compreso. Un metodo qualitativo, che osserva e genera situazioni cognitive complesse per rendere accessibile l’azione di costruzione del mondo e di sé da parte del soggetto. Un metodo che impegna anche il ricercatore in una costante messa in gioco delle proprie premesse, se vuole comprendere quelle dell’altro.

Ed eccomi lì, più di 30 anni fa, al tavolo di un ristorante Thai, unica spettatrice di una mostra privata dei materiali, delle domande, dei primi risultati dei laboratori di epistemologia operativa. Materiali bellissimi. Domande spiazzanti. Risultati entusiasmanti. Un metodo di formazione, come ce ne sono tanti. Eppure, unico. L’unico che io conosca che – partendo dall’apparato teorico ed epistemologico della psicologia genetica – provi a dare corpo e forma ai percorsi cognitivi dell’adulto conoscente, alle strategie del sapere, alla capacità umana di ripercorrere in ogni situazione-problema le stesse tappe cognitive che ha percorso l’umanità nel costruirsi storicamente come specie pensante (filogenesi) e le stesse tappe cognitive che ogni umano percorre dalla nascita (ontogenesi) per costruire le proprie strutture di conoscenza, non dunque i contenuti, ma i modi, le forme, le strategie appunto. Oggi diremmo: le competenze.

I laboratori fanno propria l’ipotesi piagetiana di un’omologia formale tra tre processi: la genesi della cultura, la genesi del soggetto epistemico e la genesi di un sapere situazionale. Nulla a che vedere con gli stadi di sviluppo del fanciullo; qui è il Piaget epistemologo che bisogna rileggere, quello di Biologie et connaissance (1967), L’epistemologie génétique (1970) e Psychogénèse et histoire des sciences, scritto con Rolando Garcia e uscito postumo (1983).

In estrema sintesi, l’idea è allestire un dispositivo formativo che renda visibile e trasformabile l’epistemologia dei partecipanti. Quindi: un setting spazio-temporale (da 4 a 72 ore – la formula del residenziale è quella più interessante ed efficace) nel quale gruppi di adulti sono invitati ad affrontare compiti cognitivi inusuali che implicano un fare (c’è da costruire, manipolare, creare qualcosa) e dunque uno spiazzamento per persone abituate a risolvere tutto con le parole. “Se vuoi vedere, impara ad agire”: la massima di Von Foerster si traduce in una pedagogia che coniuga ermeneutica, pratica ed epistemologia. Il “compito” ha una forma narrativa, metaforica, di gioco, che lo rende interessante e attraente mentre attiva l’inconscio cognitivo. Mentre il gruppo lavora alla propria consegna, un osservatore epistemico prende nota, per poter restituire il processo cognitivo. La comparazione tra gruppi diversi fa emergere le strutture nascoste, ovvero le azioni cruciali che consentono alla situazione-problema di evolvere fino a trovare una sua forma, soddisfacente per il gruppo. Queste intuizioni sono oggetto di riflessione collettiva, commentate dai formatori per valorizzare gli insight emergenti e consolidarli, ma lasciando libertà ai singoli e ai gruppi di rielaborare inconsciamente un materiale ricco e complesso, che non pretende di essere totalmente esplicitato. Infatti, gli effetti dei laboratori arrivano spesso nel lungo periodo, non sempre piacevoli, quasi sempre sorprendenti. Come fiumi carsici.

I laboratori sono offerti ad adulti, sempre sullo sfondo di un’organizzazione: manager d’impresa, insegnanti di scuola, operatori di servizi socioeducativi, è molto ampio il ventaglio dei luoghi nei quali ho seguito per anni Donata e Alberto come osservatrice, facilitatrice ed esperta. Ogni laboratorio era unico, costruito ad hoc per quella situazione, un prodotto di alta sartoria nel quale confluivano una domanda di consulenza (secondo l’idea che la ricerca formazione è la migliore risposta a tali domande), informazioni sull’organigramma (si preferiva costruire un gruppo misto, trasversale a tutti i livelli e ruoli dell’impresa o servizio), il profilo dei partecipanti (la consegna e i materiali dovevano essere spiazzanti, significativi, metaforici e quindi distanti dalla quotidianità). Si lavorava al progetto per settimane, covandolo attraverso chiacchierate a cena e nelle pause (nel frattempo mi ero trasferita nell’appartamento dirimpetto), leggendo tutto il possibile e raccogliendo diversi tipi di materiali – ricordo i pomeriggi alla Bibliothèque della facoltà di lettere, luogo magico affacciato sul parco des Bastions, sfogliando libri d’arte e testi sul mito, sugli specchi, sull’iconografia medievale, alla ricerca di rappresentazioni belle e utili. Alberto invece ci riforniva di immagini scientifiche, mitica un’attività sull’evoluzione dell’Hallucigenia. Ma anche un film con Richard Gere o la campagna pubblicitaria del Bon Génie potevano offrire spunti.

Con l’avvicinarsi della data del laboratorio, il lavoro artigianale si intensificava. Una pizza veloce dal signor Armando, calabrese trapiantato a Ginevra negli anni ‘60 (“Signo’, ce lo mettiamo un po’ di olio al peperoncino?”) e poi a casa, a pensare e provare su noi stessi le attività, decidere la sequenza, preparare la cornice concettuale, immaginare tutti gli ostacoli, resistenze, problemi che potevano insorgere. La preparazione della scaletta (il conducteur) era a dir poco maniacale. “Solo se hai un piano chiaro e dettagliato puoi cambiarlo, poi la formazione è sempre improvvisazione, perché non sai che cosa succederà, ma tu devi essere preparata”. Quante volte ho detto questa frase alle mie ragazze di Lab’O?

Dopo tutto questo lavoro, si partiva. Ho incrociato, grazie a Donata e Alberto, piccoli e grandi gruppi, organizzazioni no profit, pubbliche amministrazioni, grandi aziende e banche sparse nella penisola: il metodo lavorava a livello meta, quindi poteva essere adattato a molteplici contesti e domande. Vedevo molto chiaramente la dimensione di ricerca, oltre a quella di formazione e consulenza. Un po’ mi dispiaceva che dei contenuti specifici non si tenesse traccia: il processo era, per Donata e Alberto, il focus al quale prestare la massima attenzione.

Intanto iniziavo anch’io a sperimentare, alla scuola di terapia familiare, poi in università e infine, per 10 meravigliosi anni, alla SILSIS, la formazione degli insegnanti. Lì, rivisitai il metodo con i cari amici Beppe Pasini, Pinuccia Samek, Pietro Danise, Norina Vitali, per inventare delle pratiche di formazione che consentissero agli insegnanti di scoprirsi costruttori di conoscenza.



Evoluzioni metodologiche e relazionali 

Da quella prima sera, divenni parte del team, dove portavo il mio sguardo diverso e complementare, finché nel 2000 decidemmo di progettare un Master triennale per formare i formatori. Le nostre aspettative erano diverse: per Donata e Alberto era un modo per creare continuità, dando avvio a una generazione di formatori certificati che avrebbero continuato nel solco della loro proposta. A rafforzare questa idea, i laboratori diventarono LEO©, un marchio registrato. Per me era un’altra storia: il metodo era abbastanza solido e sviluppato, a quel punto, da potersi trasformare, meticciare, ri-contestualizzare. Nel frattempo, io continuavo a esplorare. Un dottorato in pedagogia (nuova svolta identitaria), due maternità, l’incontro con Ivano Gamelli e la pedagogia del corpo, il lavoro in università, Duccio Demetrio e la Libera Università dell’autobiografia, la comunità di pratiche filosofiche di Philo... Trovare modi per comporre l’epistemologia operativa, il metodo autobiografico, la ricerca cooperativa e l’estetica incorporata diventò la mia missione. Nel 2005, la prima formulazione di un modello sincretico, la spirale della conoscenza, viene accolta da Donata tiepidamente, senza curiosità ma nemmeno critiche. Cerca solo di accertarsi che io non esca troppo dal solco: quando propongo un LEO© devo dichiararlo e attenermi alle regole formalizzate nel metodo.

Quell’anno esce la riedizione di Strategie del sapere, Donata e Alberto me lo dedicano: è il clou della nostra relazione, che nel frattempo si è intensificata sul piano affettivo e amicale con viaggi, feste, compleanni, Donata è madrina di mia figlia, Alberto padrino di mio figlio, compriamo una casa per le vacanze nello stesso luogo. Ma è sul senso del lavoro di ricerca che lo scontro si fa via via insanabile, fino alla rottura nel 2009.

Oggi, rifletto sulla relazione tra mentore e mentoree: l’amore ne è componente essenziale, c’è un investimento affettivo, uno scegliersi a vicenda, ma non basta. Aspetti etici, estetici e valoriali differenziano i partner della relazione: Donata aveva un’etica e un’estetica diverse dalla mia per motivi di classe, età, appartenenze. Interpretavamo la nostra identità sociale e di genere in modi diversi, che ho dissimulato a lungo per evitare il conflitto. I suoi valori erano altri dai miei. La nostra asimmetria era da proteggere, io cercavo di ridefinire il rapporto su base paritaria; volevo che mi fosse amica per poterle dire apertamente quello che pensavo.

Nella differenza si impara, si cresce. All’inizio, la tentazione del mentore di imporre la propria cornice culturale, insieme al proprio sapere, è molto forte; d’altra parte, il mentoree è complice e consenziente. Senza questo patto, senza il desiderio dell’altro, non si può forse parlare di mentoring. Ma il desiderio contiene anche una dimensione violenta e distruttiva, come ci ha insegnato Girard.

 

Man mano che la relazione evolve inevitabilmente nascono tensioni: se il mentore ha fatto bene il suo lavoro, arriverà un momento nel quale il mentoree può spiccare il volo, ma per farlo deve individuarsi e differenziarsi. Un processo ad alto rischio, che ho vissuto molte volte in entrambi i ruoli, con esiti diversi.

La riflessività sistemica aiuta: come suggerisce Sclavi, le emozioni insegnano e il conflitto può essere occasione per riflettere sulle cornici, forse per trasformare la relazione in qualcos’altro. Nel nostro caso, nessuna è stata capace di fare questo passo. Ci ho provato con una lettera, nella quale riconosco ora tutta la mia hybris: invece di un gesto d’umiltà, ho proposto una rilettura della relazione, che – insegnava già Watzlawick negli anni ’60! – è una mossa one-up. La Regina non l’ha accettata, com’era ovvio.

 

Tracce di eredità 

Ieri a Grass ho provato una grande emozione. Mi sono autorizzata dopo tanto tempo a proporre un’attività che somiglia proprio tanto a una consegna LEO. L’abbiamo chiamata “story fitness”, come un esercizio volto a sviluppare il muscolo narrativo, non per potenziarlo come fanno certi runner incattiviti, ma per massaggiarlo, allungarlo, nutrirlo, connetterlo agli altri muscoli e all’apparato scheletrico. Mentre seguivo, a terra, le indicazioni di Silvia Luraschi che ci guidava in un’attività Feldenkrais, ho pensato che Donata non si sarebbe mai sdraiata per terra in pubblico e mi è scappato un sorriso. Abbiamo poi giocato con due storie: a una avevamo sottratto buona parte dei contenuti, all’altra gli elementi strutturali. Il gioco di creare il nuovo a partire da questi vincoli era volto a esplorare che cosa succede, cognitivamente, quando maneggiamo materiale narrativo.

Ogni gruppo aveva un osservatore epistemico. Avevo dimenticato quanto è potente questo dispositivo: qualcuno che osserva e restituisce il percorso cognitivo collettivo (non le dinamiche, non le proprie riflessioni, ma quello che ha osservato) è la personificazione della meta-cognizione e viene ascoltato con attenzione, quasi apprensione. Abbiamo ascoltato per primi gli osservatori, a sottolineare che il processo conta più del prodotto, ma le storie dei gruppi erano proprio belle. Non c’è il come senza cosa. Donata non smetteva mai di sottolineare che gli umani vogliono creare qualcosa di piacevole e soddisfacente. L’amore per le cose fatte bene può tramutarsi in esigenza radicale della perfezione, rifiuto dell’errore, punizione di chiunque trasgredisca la regola della bellezza. Ho in comune con Donata l’intransigenza, cerco di mitigarla con l’indulgenza e la gestione creativa dei conflitti (Sclavi M., 2003).

Nella discussione finale sono stati espressi, con naturalezza, molti concetti della complessità: il superamento delle contrapposizioni binarie, il potere dei vincoli nel generare possibilità, il pericolo di aggrapparsi al senso già dato, l’inevitabilità dell’interpretazione. In una storia, struttura e contenuto sono incomprimibili ed embricate: anche se proviamo a eliminarle, ci pensa la nostra mente a reintrodurle. La nostra ricerca è stata produttiva, i gruppi hanno portato riflessioni profonde, abbiamo vissuto insieme il piacere di pensare “ad alta voce”, riflettendo su come pensiamo.

 

 

Epilogo 

Come scriveva Alberto,

“Una teoria è un sistema coerente di concettualizzazioni, di strategie e di azioni, atto a fornire una spiegazione soddisfacente, sia dal punto di vista cognitivo che da quello morale, estetico e pratico, del mondo nel quale si vive e si opera” (Munari, 1993, pag. 61)

La mia teoria della relazione con Donata evolve costantemente, anche dopo la sua interruzione. È così che ci prendiamo cura del nostro apprendere, per tutta la vita. Come mentore sono e voglio essere diversa da lei. Non posso evitare i doppi legami intrinseci di questa funzione, ma provare a renderli generativi, non confondere troppo, non ferire l’altro che dipende da me. Il suo lascito resta nella passione delle idee, nelle piccole azioni che le ho visto compiere e che riconosco in me, nei trucchi del mestiere, nella cura della scrittura, nel modo in cui insegno e faccio gli esami (quell’elaborato riflessivo per cui gli studenti mi amano e mi odiano!).

Non sono più Alice. Sono felice di quella che sto diventando. Perdonarsi per aver tradito i Maestri, perdonare i Maestri per i loro limiti, è parte integrante del processo di crescita. La notizia improvvisa della morte ha fatto riemergere memorie e il desiderio di dare senso a una relazione nella sua complessità, riconoscendo quello che si è sedimentato, le consapevolezze che ha reso possibili. Per prendersi cura del legame, che resta per sempre. Prendersi cura del senso senza infingimenti e ipocrisie. Questa rilettura mostra che Donata aveva ragione: le nostre idee sono inestricabilmente intrecciate alle emozioni, alle relazioni, ai valori. Ci dicono chi e come siamo e stiamo nel divenire. E così sia.

 

 

Bibliografia minima