Riflessioni Sistemiche n° 25


Maestri e mentori.
Visioni sistemiche attraverso le generazioni

“Passo sicuro e sorriso libero”.
In cammino verso le braccia aperte di Edgar Morin


di Giuseppe Gembillo


Direttore del Centro Studi Internazionale di Filosofia della Complessità “Edgar Morin” – Messina

Foto di Pexels da Pixabay

Sommario
L’autore ricostruisce il suo rapporto con Edgar Morin, indicando quando e perché si è imbattuto nel suo pensiero e tracciando le tappe che lo hanno portato a integrare la propria concezione storicistica col pensiero complesso di Morin, con il quale ha intrecciato anche intensi rapporti personali. Sottolinea anche ciò che di importante ha imparato da lui o grazie a lui.


Parole chiave
Morin, Complessità, Metodo, Filosofia, Scienze


Summary
The author reconstructs his relationship with Edgar Morin, indicating when and why he came across his thought and tracing the steps that led him to integrate his historicist conception with the complex thought of Morin, with whom he also interwoven intense personal relationships. Also emphasize the important things you have learned from him or through him.


Keywords
Morin, Complexity, Method, Philosophy, Sciences

 

1.   Premessa

I miei due grandi Maestri all’Università di Messina, Raffaello Franchini e Girolamo Cotroneo, mi hanno insegnato che nel mondo del pensiero “abita” seriamente e in modo appropriato solo colui che dialoga con un numero sempre più ampio di interlocutori che lo accompagnano, tutti indistintamente, nel suo processo di crescita e di formazione. Seguendo il loro consiglio, ho imparato sia da coloro che ho riconosciuto come particolarmente affini, sia da coloro che Franchini definiva i “diversamente opinanti”, che sono stati utilissimi per rafforzare le mie convinzioni, per metterle in questione e, a volte, per abbandonarle.

Ad alcuni di essi, che mi hanno accompagnato nella crescita intellettuale e sono stati per me fondamentali, avrò modo di fare qualche riferimento in seguito. In maniera

particolare, invece, intendo parlare, in questa occasione, di uno dei più grandi pensatori del nostro tempo dal quale ho imparato tantissimo non solo attraverso la lettura dei suoi libri ma anche grazie a una frequentazione personale che dura da più di vent’anni. Mi riferisco a Edgar Morin, il pensatore che ha enunciato e che ha elaborato in maniera eminente quella che oggi viene definita “concezione della Complessità”.

 

2.  Il primo impatto 

Il primo incontro con i suoi scritti avvenne nel 1971, quando frequentavo il secondo anno del corso di laurea in Filosofia. Una libreria locale chiuse i battenti e mise in vendita i libri a prezzo dimezzato. Vi trovai due testi di “un certo” Edgar Morin: Autocritica e Indagini sulla metamorfosi di Plodémet. Li lessi con molto interesse, annotai che si trattava di un pensatore alla ricerca di una nuova prospettiva personale e continuai nella direzione che avevo intrapreso grazie allo studio dei classici che i miei due maestri mi avevano “imposto” come programmi d’esame: la Logica come scienza del concetto puro di Croce, la Fenomenologia dello Spirito e la Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio di Hegel, e la Critica della Ragion Pura di Kant. A partire da questi filosofi, cominciai un percorso che ha avuto come tappe principali l’approfondimento dello Storicismo e del rapporto Filosofia-Scienze a partire, soprattutto, dalle riflessioni di Benedetto Croce, che divenne il mio punto di riferimento fondamentale e mi indusse a leggere le opere di Vico, di Poincaré, di Mach, e a ripercorrere le tappe più importanti della Storia delle scienze.

 Dopo la laurea i due sentieri della Storia della Filosofia e della Storia delle Scienze si sono intersecati continuamente nel mio percorso di formazione attraverso tappe che mi hanno condotto ad approfondire le rivoluzioni scientifiche del Novecento, con particolare riferimento alla Fisica quantistica e, in maniera più specifica, al pensiero di Bohr e di Heisenberg; alla Relatività, alla Matematica, e, in Filosofia, al Neopositivismo, all’epistemologia sviluppatasi sotto l’influenza di Popper e al pensiero di Husserl. Particolare e perdurante interesse ha destato in me la riflessione degli scienziati contemporanei; interesse che mi ha condotto fino alla svolta ontologica ed epistemologica di Ilya Prigogine che ha compiuto la scelta rivoluzionaria di inserire la storicità e la temporalità nella scienza, muovendo da un ripensamento radicale del cosiddetto Secondo Principio della Termodinamica.

Giunto a questo punto di incontro tra Storicismo filosofico e Storicismo scientifico ho sentito forte l’esigenza di verificare se qualche pensatore avesse avviato un tentativo di sintesi, facendosi direttore di un’orchestra che mettesse in armonia i tanti grandissimi solisti che fino a quel momento avevo incontrato nel mio cammino. L’indagine mi condusse alla lettura del Paradigma Perduto di Edgar Morin. Tale lettura mi rivelò che l’autore dell’Autocritica letta poco più di vent’anni prima aveva trovato la via che cercava; una via che già nella prima metà degli anni Ottanta del Novecento aveva articolato in quattro tappe ideali, riunite sotto il termine Metodo.

 

3. La riscoperta, l’incontro, l’immediata sintonia, il rapporto di amicizia e fraternità 

La riscoperta di Morin produsse in me, in prima istanza, la decisione di tenere un corso accademico sul Paradigma perduto nel 1992-93, e, a seguire sul Metodo 1. La natura della natura e sul Metodo 2. La vita della vita. L’interesse che ne scaturì anche tra gli studenti si concretizzò in varie Tesi di laurea sul suo pensiero e in una Tesi di Dottorato che portò una mia allieva, Annamaria Anselmo, a un primo incontro personale con Edgar Morin ad Agrigento nel 1997 e a un successivo invito a Parigi, nel 2001, per partecipare, con una relazione, al convegno organizzato dall’UNESCO per i suoi 80 anni.

In quell’occasione gli ho trasmesso l’invito, da lui prontamente accolto, a tenere un ciclo di lezioni all’Università di Messina, agli inizi di marzo del 2002. Durante la preparazione dell’evento ho proposto ai docenti del Corso di laurea in Filosofia il conferimento a Morin della Laurea Honoris Causa, che gli abbiamo consegnato il 5 marzo 2002 nell’Aula Magna dell’Università di Messina, straripante di pubblico, come era avvenuto durante le lezioni da lui tenute nei giorni precedenti. Agli inizi dello stesso anno ho fondato, con un gruppo di colleghi e di allievi, il Centro Studi Internazionale di Filosofia della Complessità “Edgar Morin”, che da allora promuove il pensiero complesso mediante una serie di Collane scientifiche e, dal 2006, tramite la rivista “Complessità”. Il Centro, fin dalla sua nascita, si è fatto promotore di una serie di convegni internazionali organizzati a cadenza annuale, e di pubblicazioni scientifiche che hanno avuto come protagonisti sia Edgar Morin sia una serie di grandi pensatori che, direttamente o indirettamente, sono entrati nell’orbita dei nostri interessi specifici grazie all’incontro col suo pensiero. Tra di essi, Humberto Maturana, Benôit Mandelbrot, James Lovelock, Frtjof Capra, Ludwig von Bertalanffy, Gregory Bateson, Niles Eldredge, Jean Piaget, Hermann Haken, Manfred Eigen, Niklas Luhmann, Claude Shannon, Warren Weawer, Heinz von Foerster, Henri Atlan, Lynn Margulis, Paul Watzlawick, Norbert Wiener.

         La sera del 2 marzo 2002 Edgar Morin giunse in albergo molto tardi e forse era anche un po’ stanco, ma volle comunque cenare con noi. Fu subito un’esperienza umana sorprendente e incredibile per noi che lo avevamo accolto comprensibilmente rispettosi e intimiditi. Si mostrò presto un brillante “commensale del pensiero”, familiarizzò immediatamente con noi al punto che, dopo la seconda portata, ci sorprendemmo tutti in piedi a cantare insieme, in suo onore, la “Marsigliese”! Da allora i nostri rapporti sono stati sempre più amichevoli, tanto da sorprendere la moglie Edvige, che nel 2006 volle incontrarci, tra Natale e Capodanno, a Roma, per conoscere me e mia moglie, per cercare di capire, come ci disse, come mai, in pochi incontri e in poco tempo, si fosse instaurata un’affettuosità reciproca così forte. Sono stati giorni molto intensi, durante i quali il cibo del corpo e quello della mente si sono fusi perfettamente e hanno contribuito a rinsaldare un rapporto che, complici anche le melanzane molto amate sia da me che da Morin, si è consolidato negli anni, nonostante i non molti incontri che ho avuto e ho occasione di fare con lui. In ogni caso, Edgar Morin si è rivelato sempre più un “uomo intero”, che vive di sentimenti e di relazioni amichevoli e che sa intrecciare spontaneamente razionalità e affettività. Un uomo che sia nei miei confronti sia in quello degli altri suoi allievi-amici messinesi mantiene un rapporto vitale sia come tale che come studioso. In quest’ultima veste, per esempio, nel corso degli anni ha donato al nostro Centro una serie di inediti, tutti estremamente interessanti, che abbiamo avuto il piacere e l’onore di pubblicare nelle nostre collane o nella rivista “complessità” e che hanno raggiunto il culmine con il dono di un preziosissimo manoscritto che, agli inizi degli anni Ottanta del Novecento, avrebbe dovuto costituire il terzo volume del Metodo ma che Morin smarrì durante un trasloco, subito dopo averne ultimato la prima versione. Affidato alla nostra curatela, è stato pubblicato in versione originale francese quest’anno, in perfetta coincidenza con il suo compleanno e in traduzione italiana a fine ottobre, in tempo per poterne parlare durante il convegno internazionale che ho organizzato a Messina per i suoi cento anni.

         Questi ultimi riferimenti mi conducono “naturalmente” a ripercorrere anche il “cammino filosofico” nel quale egli mi è stato compagno di viaggio. 


 

4. Edgar Morin Maestro 

Quando, grazie al Paradigma perduto, mi sono imbattuto nuovamente nel pensiero di Edgar Morin eravamo cambiati notevolmente entrambi. Io avevo attraversato e assimilato il pensiero storicistico e quello logico-dialettico in tutte le sue sfaccettature più significative, essendo cresciuto, come già detto, filosoficamente alla scuola di Vico, Kant, Hegel e Croce e, scientificamente ed epistemologicamente a quella di Fourier, Bohr, Heisenberg Schrödinger, Born, Pauli e Prigogine.

 Morin, a sua volta, era diventato il più grande filosofo del secondo Novecento, quello che meglio di ogni altro ha aperto le porte al pensiero del nuovo millennio. Per me il nuovo incontro col suo pensiero è stato per un verso vivificante e corroborante rispetto a quello che avevo già assimilato, e che riguardava, soprattutto, l’aspetto storico-diacronico di tutto ciò che esiste e quindi del nostro modo di comprenderlo; per l’altro, è stato profondamente stimolante e fecondo perché mi ha fatto comprendere molto meglio l’importanza delle interazioni sincroniche nel mondo in generale e tra gli esseri viventi in particolare. L’anello di congiunzione tra questi due aspetti è stato il pensiero di Benedetto Croce, che aveva sviluppato in maniera adeguata l’idea che “la realtà è storia e nient’altro che storia” e che, unico tra i grandi filosofi, dalla rivoluzione scientifica galileiana in poi, aveva elaborato una visione della realtà, e della conoscenza di essa, “a più valori”, respingendo fermamente ogni forma di monismo, indipendentemente dal singolo valore scelto di volta in volta da intuizionisti, logicisti, attivisti, irrazionalisti.

Ho ritrovato infatti in Morin la durissima critica di Croce a ogni forma di meccanicismo, di riduzionismo, di determinismo e di oggettivismo; ho risentito l’invito

a sanare la frattura oggetto-soggetto; ho  incontrato nuovamente la convinzione che, a parte l’universo naturale, tutto il resto è opera umana; che tutto il resto è, come diceva Vico, o prodotto della sfrenata fantasia dell’uomo, o delle sue idee a partire dalle quali, come avrebbe ribadito Hegel, l’uomo ha prima pensato ogni cosa e poi l’ha trasformata in “idea oggettivata”, in “cosa”, cioè l’ha realizzata; ha fatto ciò a partire dalle immagini primitive delle divinità, fino ad arrivare al computer e al robot.

Ho ritrovato anche la rivalutazione del momento estetico accanto a quello logico e l’immagine dell’uomo distinto e articolato come un organismo che armonizza le parti in cui si articola. Ho risentito nelle sue pagine la medesima carica etica ed umana che emanano quelle crociane. Insomma, ho sperimentato tutta una serie di consonanze col “me stesso” formato dalla tradizione storicistica che certamente contribuiscono a rendere ragione della simbiosi emotiva e teoretica che mi fa sentire completamente a mio agio nell’orizzonte di senso creato dalla concezione della Complessità elaborata da Edgar Morin.

         Entrato nell’atmosfera culturale che lui ha contribuito in maniera così determinante a creare, ho cominciato a sperimentare una sorta di ridondanza che mi ha spinto a dirigere i miei approfondimenti nelle direzioni più varie e che mi ha condotto da un pensatore all’altro mediante un circolo virtuoso e dei rimandi costanti durante i quali ho approfondito e assimilato il pensiero di James Lovelock e la sua ipotesi del pianeta Terra strutturato come un organismo vivente. Ho riattraversato in lungo e in largo il percorso tracciato da Ilya Prigogine, contraltare scientifico di Edgar Morin in quanto fondatore della Scienza della Complessità. Ho capito quanto profondamente “storico” e “specifico” sia il cervello di ogni singolo essere umano grazie al concetto di autopoiesi, elaborato da Humberto Maturana e Francisco Varela e, per contrasto, quanto astratta sia l’idea di Cartesio e di Kant che hanno immaginato che il cervello umano fosse uguale in tutti da sempre e per sempre, aprendo il varco a coloro che oggi lo vogliono ridurre a forza alla struttura calcolante del computer. Ma ho imparato anche quanto sia riduzionista il concetto tradizionale di conoscenza come “rappresentazione” di una realtà esterna, quando invece in concreto tutti gli esseri viventi fanno quotidiani sforzi cognitivi per comprendere se il cibo che stanno ingoiando e che è indispensabile alla loro sopravvivenza, sia nutriente o velenoso, e quindi quanto la “cognizione” sia un bisogno vitale imprescindibile, piuttosto che una occupazione da otium. Ho potuto incontrare Benôit Mandelbrot, prima attraverso i sui libri e poi di persona, durante un memorabile convegno internazionale che ho organizzato a Messina nel 2007, e imparare per sempre che la cosiddetta “rettificazione” della Realtà è un modello tutto umano e tutto astratto, che non ha nessuna corrispondenza nel mondo reale; ho potuto imparare che se vogliamo creare un modello della realtà che si avvicina in qualche modo ad essa dobbiamo far interagire sia i nostri sensi che la nostra ragione perché, come aveva genialmente capito Giambattista Vico, i modelli logico-geometrici sono perfetti proprio perché non hanno nessun riscontro nella realtà visto che sono creazioni interamente umane, prodotto della scelta specifica di eliminare proprio ogni residuo “irregolare”. Ho letto con maggiore attenzione Norbert Wiener e ho apprezzato meglio, grazie alle correzioni proposte da Morin, il valore del circolo di retroazione delineato dal padre della cibernetica, depotenziandola del carattere deterministico e chiuso che l’elaborazione originaria ancora implicava. Ho recepito l’invito di Heinz von Foerster a mettere in pratica in maniera sempre più puntigliosa la nostra attitudine autocritica in quanto sistemi che si auto osservano.

Ma, a parte l’occasione che il contatto col pensiero di Morin mi ha dato, consentendomi di allargare le interazioni con i grandi pensatori del nostro tempo e rendendo così più ricca la considerazione espressa a suo tempo da José Ortega y Gasset secondo cui noi siamo “parte di tutto ciò che abbiamo incontrato” durante la nostra esperienza storica, ciò che più di ogni altro aspetto particolare mi ha impressionato e formato del pensiero di Morin è stata la sua capacità di fungere da “direttore d’orchestra” nei confronti di tutti i grandi solisti che hanno caratterizzato le Scienze e la Filosofia del nostro tempo. Ciò che mi ha formato è stato, insomma, il pensiero complesso visto nella sua interezza. Interezza che emerge chiaramente se si delinea sinteticamente il percorso che egli ha tracciato attraverso le tappe rappresentate non solo dai volumi sul Metodo ma anche in tutte le altre sue opere successive, che fungono sia da complemento che da approfondimento.

Bisogna a questo proposito precisare che già nel parlare di percorso emerge la svolta ontologica e metodologica che segna il passaggio dal meccanicismo allo storicismo. Morin infatti, in consonanza con la teoria dell’espansione dell’Universo, con le implicazioni insite nel Secondo Principio della Termodinamica e con il concetto di “struttura dissipativa” elaborato da Ilya Prigogine, ha potuto sottolineare come tutto ciò che esiste sia, hegelianamente, il risultato di un lunghissimo processo di auto organizzazione, prodotto da parti disordinate che entrano in interrelazione trasformando il disordine in ordine temporaneo, soggetto dunque anch’esso a un successivo degrado, come mostra il concetto di Entropia. Tutto questo determina anche un mutamento radicale nel concetto di “sistema” che da statico e ripetitivo diventa storico e innovativo.

A partire da ciò Morin mi ha insegnato che nel mondo reale non esistono elementi isolati, che non esistono particelle che vanno a spasso da sole senza essere in relazione con tutto ciò che sta “intorno” ad esse. Mi ha insegnato la differenza tra un sistema meccanico il quale, in quanto “artefatto” è il risultato di una assemblaggio di parti distinte l’una dall’altra le quali, per funzionare, non devono subire modifiche rilevanti, altrimenti “si guastano” e bloccano il sistema; e un sistema complesso, il quale, invece, funziona fino a quando le parti cambiano continuamente, “crescendo su se stesse” e facendo emergere, così, nell’intero sistema, delle proprietà nuove, che le singole parti non possiedono. In ragione di ciò, il computer più progredito resta sempre un sistema complicato perché costruito da un operatore esterno, e funziona finché resta immodificato in tutte le sue parti; mentre uno degli elementi più semplici come l’acqua, è un sistema complesso in quanto “emergente” dall’interazione tra idrogeno e ossigeno che, presi separatamente sono dei gas, mentre interagendo producono un liquido che ha delle caratteristiche del tutto inesistenti in ciascuno di essi. Mi ha insegnato, ancora, che “l’identità storica” di ognuno di noi, che è il risultato delle trasformazioni che subiamo per “autonegazione interna”, come ci ha fatto capire splendidamente Hegel, si completa con le modificazioni che subiamo in funzione delle relazioni “esterne” che viviamo concretamente sia nel rapporto con gli altri esseri viventi sia nell’interazione con l’ambiente circostante, col classico “oikos” dei Greci. In ragione di ciò, la nostra identità è mobile e plurima perché dipende dal momento storico in cui siamo nati, dal luogo geografico, dalla cultura del popolo di cui siamo parte, dal suo linguaggio, dalla sua religione e dalla sua etica. In relazione a quest’ultimo aspetto, poi, l’incontro con Morin è stato determinante per comprendere che oggi è fondamentale ampliare, per varie ragioni, il concetto di etica. Innanzitutto, perché abbiamo finalmente compreso che i principi etici sono il risultato di un processo storico in divenire che produce sempre nuove condizioni di vita, che suggeriscono di rendere fluida la staticità che ha caratterizzato tali principi per lungo tempo. In secondo luogo, è stato altrettanto determinante per comprendere che, in funzione del ruolo che abbiamo assunto nei confronti degli altri esseri viventi e della Natura in generale, che finora abbiamo trasformato e manipolato a nostro piacimento ma anche a nostro nocumento, dobbiamo allargare il concetto di etica trasformando la tradizionale “antropoetica” in ecoetica. Questo significa che il problema fondamentale da risolvere non riguarda più semplicemente la regolamentazione dei rapporti degli uomini tra di loro, ma quello del rapporto tra tutti gli uomini e il resto degli altri esseri viventi, e con la Natura nella sua totalità. Riflessione che fonda su basi rigorosamente razionali quello che oggi viene giustamente definito “problema ambientale” e che fino a poco tempo fa era sollevato quasi esclusivamente tramite approcci emotivi o astrattamente “olistici”. Riflessione che ha condotto Morin a ricordarci che il nostro pianeta rappresenta la nostra “Terra-Patria” che abbiamo il dovere di difendere da noi stessi e dalla manipolazione selvaggia e irresponsabile che finora abbiamo esercitato su di essa, pena la scomparsa delle forme di vita di cui siamo parte integrante.

In collegamento a tutto ciò, Morin mi ha insegnato, ancora, che la vita è, presa nella sua totalità, inevitabilmente “autofagica”, nel senso che, in generale, ogni essere vivente si nutre di altri viventi perché può metabolizzare essenzialmente ciò che è già “organico”. Che essa è indissolubilmente legata al suo contrario, alla morte, perché vive soltanto ciò che è soggetto a morte. Il che mi ha condotto a riflettere sul fatto che noi contemporanei ci siamo solo perché tutti quelli che ci hanno preceduto sono morti “per noi”, per consentire che il concetto “universale” di vita si concretizzasse, in continuità, in esistenze che si avvicendano, permettendo così che essa si realizzi in forme sempre nuove e, a quanto sembra, più progredite. Cosa sarebbe successo, infatti, se i primi uomini fossero stati immortali? Questa astratta domanda se ne tira dietro altre ancora più astratte: quale sarebbe stato il “livello” di vita da loro realizzato? Quello molto rozzo degli eroi omerici? O, a che punto si sarebbero “fermati” nella loro crescita? La domanda sarebbe legittima in tale ipotetico contesto perché appare ovviamente impossibile una crescita continua di uomini, animali e piante in uno spazio fisico chiuso come il nostro pianeta. Oppure, altra domanda curiosa, sarebbe “cresciuto” anch’esso? Come si vede chiaramente il quadro che emerge da queste vere e proprie fantasticherie non porterebbe da nessuna parte.

Tutto ciò, comprese le ultime divagazioni, induce a tornare, con un movimento circolare “virtuoso, al punto da cui era partito il “giovane” Morin: l’autocritica, con la “complementare” metacritica. Si tratta dei due aspetti strettamente connessi che Morin aveva posto al centro di quel volume del Metodo temporaneamente smarrito e che, nel suo progetto, avrebbe dovuto completare il ciclo aperto con i primi due. Il primo aspetto, l’autocritica, torna a sottolineare l’importanza di sottoporsi costantemente a quell’autoesame che, da parte sua, Morin ha iniziato pubblicamente nel 1959 e che continua a esercitare fino ad oggi.  Torna così a sottolineare l’importanza di, come diceva Benedetto Croce, “invigilare se stessi”, per evitare la caduta in quello che Hegel ha stupendamente definito “il delirio della presunzione”, che nasce quando ci innamoriamo troppo delle nostre idee.

Su questo tema Morin mi ha insegnato molto, imponendomi una sorta di ridimensionamento rispetto a quanto recepito sia da Hegel che da Husserl i quali, diversissimi tra di loro, pure consentivano su questo punto: sul fatto che gli uomini, come già sottolineato, hanno fatto tutto a partire da idee; sul fatto cioè, che, come diceva espressamente Hegel, tutte le produzioni umane non sono altro che, “idee oggettivate”. Ebbene Morin, in sintonia con una profonda riflessione di Goethe secondo cui “ogni cosa all’uomo è data sia come ricchezza che come maledizione” ha fatto idealmente interagire Socrate e Dostoevskji facendoci notare che le nostre idee sono, a seconda dei casi, sia démoni che demòni. Esse cioè sono prodotte dalle nostre menti con le migliori intenzioni e ci appaiono meravigliose ma, soprattutto se incontriamo difficoltà a realizzarle, finiscono per assillarci sempre più, fino a “possederci” totalmente come demòni, spingendoci ad azioni irragionevoli e spesso anche ignobili. Insomma, figlie della ragione, spesso finiscono per trasformarsi in pulsioni irrazionali, rivoltandosi contro la loro genitrice. Ma la critica va estesa anche a ogni produzione umana e soprattutto a quelle elaborazioni intellettuali, come le scienze fisiche e le matematiche, che pretendono di enunciare verità e certezze definitive. Essa, in quanto critica razionale, è “meta”, cioè va oltre il dichiarato e l’enunciato, soprattutto quando coloro che pronunciano “sentenze” le presentano come oggettive nascondendo, come dice Morin, dietro il paravento dell’oggettività, le opinioni personali al fine per farle passare, appunto, per “oggettive”, necessarie e quindi “ontologiche”. Egli invita ad attrezzarsi intellettualmente in modo da difendersi da tali sofismi, affinando le proprie capacità critiche col formarsi “una testa ben fatta”, in alternativa a una testa piena di nozioni accumulate acriticamente. In diretto collegamento a ciò auspica una riforma dell’educazione e dell’insegnamento che vada in tale direzione e che, in concreto, metta al centro dell’attenzione i problemi e non i settori disciplinari separati all’interno dei quali i problemi finora vengono affrontati asetticamente e in maniera del tutto irrelata.  Come ribadisce ripetutamente, solo una mente strutturata in maniera critica rende liberi sia dai condizionamenti ideologici sia dalle restrizioni pratiche imposte dall’esterno e non frutto del normale equilibrio derivante dai condizionamenti reciproci.

In funzione di ciò, Morin fornisce anche una concezione molto concreta e realistica del concetto di Libertà, vista non come assenza di vincoli ma come relazione di reciprocità in cui i condizionamenti avvengono sempre in maniera interattiva e circolare. Naturalmente questo significa che l’incidenza di ogni individuo dipende inevitabilmente dal ruolo che egli occupa nella società, la cui strutturazione, a sua volta, non è frutto di disegni esterni ad essa, predisposti astrattamente “a tavolino”, ma, come ha messo benissimo in evidenza Niklas Luhmann, dipendono dalle innumerevoli azioni degli individui che si incrociano tra loro, modificandosi a vicenda. Questo fornisce l’occasione a Morin di parlare di “ecologia dell’azione” per indicare che ogni nostra azione inizia come attuazione di un nostro progetto specifico, ma presto va a interagire con le azioni di tanti altri che la modificano, vedendo a loro volta modificati i loro progetti. Allora “essere liberi” significa agire secondo un progetto razionalmente predisposto, ma avere anche la prontezza di rimodularlo in funzione delle resistenze che incontra incrociando inevitabilmente altri progetti e dunque altre azioni. Significa, dunque, sapere che ogni nostra azione è “aperta all’incertezza” e richiede una scelta più o meno prevedibile che comporta sempre e comunque una specifica assunzione di responsabilità verso se stessi e verso coloro con i quali ci si trova a interagire. Fare ciò con equilibrio è possibile solo se si riesce a far intervenire, nella dose di volta in volta più opportuna, emotività e razionalità, passione e riflessione.

Tutto questo Morin non lo enuncia soltanto a livello teorico, ma lo pratica nella vita quotidiana, che affronta, invitando a fare altrettanto, sempre con ragione e con passione, come dimostrano le sue predilezioni da un lato per l’autocritica, per la Filosofia, per la Sociologia, per l’impegno politico; dall’altro, per il cinema, per la letteratura, per il buon cibo, per l’amore e per la musica.

E proprio tenendo conto della passione di Edgar Morin per ogni forma di musica, che rappresenta un’altra delle “affinità elettive” che mi legano a lui, ho voluto, in apertura, inserire nel titolo di questo mio intervento, il verso di una canzone di Roberto Carlos, anche per sottolineare il comune amore per il Brasile.

È questo, in astratta, incompleta, ma fedele sintesi, il mio percorso umano e intellettuale col Maestro e Amico Edgar Morin, con il quale ho camminato sottobraccio e al quale sono sempre andato incontro, ricambiato, a braccia aperte, con “passo sicuro e sorriso libero”.

 

Bibliografia