Riflessioni Sistemiche n° 25


Maestri e mentori.
Visioni sistemiche attraverso le generazioni

Maestri


di Gabriella Giornelli


Ex insegnante di scuola media, impegnata nella ricerca azione,
esperta di mediazione scolastica e di pedagogia/didattica inclusiva.

Foto di Couleur da Pixabay

Sommario
In questo articolo analizzo l’importanza di avere avuto maestri della levatura di Perticari, Sclavi e Maturana. Tutti e tre, con visioni e aspetti comunque diversificati, mi hanno formata circa l’importanza di essere insegnante capace di modulare attenzione e ascolto in rapporto stretto con gli studenti. Perché ogni materia che insegniamo ha senso se la ricostruiamo con loro e se permette a tutti di accedere ad un mondo di conoscenze.


Parole chiave
Conversazioni-ascolto attivo-mediazioni-conduzioni e convivenze relazionali-il senso della conoscenza.


Summary
In this article I analyse the importance of having had high masters such as Perticari, Sclavi and Maturana. All of the three, with their different visions, formed me to be a teacher capable to pay attention and listening in a close relationship with my students.  In fact, whatever subject we teach it makes sense if we construct it with pur students, and if allows all of them to access to a world of knowledge.

 

Keywords
conversation, active listening, mediations- conducts and relational co-existence, social value of knowledge.

 


Importanza della scuola 

Recentemente sono stata sollecitata a riflettere sull’importanza che hanno avuto per me alcuni insegnanti, essendo stata alunna alle medie di “Donata Doni”, pseudonimo della poetessa Santina Maccarrone.

Non vi avevo pensato fino in fondo prima, ma era ora che facessi i conti, che cominciassi a valutare la mia formazione tenendo presente anche la scuola, esperienza che tendo a scartare, a non valorizzare, perché come studentessa sono stata ribelle e assolutamente non amante dei banchi di scuola.

Promossa” era il mio unico obiettivo nei riguardi della scuola.

La formazione era affidata soprattutto a letture continue e agli ambienti familiari intensi e stimolanti. Eppure ho avuto bravissimi insegnanti.

Non l’avevo considerato più di tanto, invece anche la scuola mi ha dato un esoscheletro che mi avrebbe permesso poi di essere quella che sono stata come insegnante e come persona. Penso alla tolleranza dei miei insegnanti verso il mio essere così sinceramente e candidamente “divergente”, una che magari ha letto da sola tutte le opere minori di un autore, ma poi non prepara l’interrogazione perché se ne dimentica. Se penso a come oggi la scuola mortifica l’intelligenza degli studenti programmando le interrogazioni e valutando con voti positivi concetti esposti in modo mnemonico, bene, devo riconoscere l’intelligenza e la profondità di preparazione dei miei docenti quando consideravano veramente le nostre capacità di rivedere in modo personale e critico quello che avevamo appreso.

Ma un conto è avere avuto ottimi insegnanti e rendersene conto una volta adulti, un conto è, invece, apprezzare la grandezza di persone che riconosci come mèntori nel momento stesso in cui agisci.  

Per questo parlerò di tre maestri da cui ho appreso con consapevolezza il significato e la pratica dell’insegnamento/apprendimento.

 

 

 

Paolo Perticari

 

“Cosa vuol dire dare la parola a uno che fa fatica?
Non significa <<parlare di >> o <<parlare per>>
ma <<parlare con>>.
Il linguaggio apparentemente così naturale

impone modi di pensare comunitari.”
Paolo Perticari “Attesi imprevisti”

 

 

Sono giunta a Paolo Perticari attraverso un percorso di studi e conoscenza non lineare ma molto formativo, intrapreso con Andrea Canevaro. Dovrei iniziare da Andrea, dunque, che mi ha fatto conoscere la pedagogia speciale prima ancora di Paolo. Ma la linea di pensiero di Canevaro è molto conosciuta, il pensiero pedagogico di Perticari invece non è così famoso, mentre io lo ritengo uno dei più lucidi e intensi pensieri pedagogici della seconda metà del ‘900, con uno sguardo assolutamente nuovo e rivolto al futuro.

Partecipando ad un suo corso di formazione e da lui interpellate, la mia collega di matematica ed io abbiamo accettato di far parte di un suo gruppo di ricerca: lui giovane ricercatore, noi già insegnanti di ruolo nella scuola media. Non sapevamo che sarebbero stati anni di intenso studio e impegno. Come primo incontro del gruppo, Paolo ci indicò due libri da leggere, per poi discuterne insieme a distanza di quindici giorni: uno era “Ecologia della mente” di Gregory Bateson, l’altro di A. Canevaro “Handicap e scuola. Manuale per l’integrazione scolastica”.  Era un consiglio del tipo: “Andate sulla luna, poi dite com’è stato!” Non ci ha chiesto di preparare un’unità didattica, né di elencare le nostre difficoltà a scuola, no, ci ha mostrato uno sfondo filosofico su cui muoverci, indicandoci le riflessioni che sostengono la visione del pensiero sistemico e, contemporaneamente, il modo di intendere lo stare insieme a scuola, integrandosi a vicenda.

Bateson me lo ha fatto conoscere lui.

Le piacevolissime riflessioni di Bateson non ci suggerivano come preparare le lezioni, ci facevano comprendere che muovendoci in un mondo bidimensionale, del tipo “io ho ragione, tu hai torto”, non potevamo comprendere un mondo a più dimensioni, a più realtà. Per me è stato capire il senso del mio essere una insegnante capace di modulare l’insegnamento in relazione agli altri e perché era importante questa mia flessibilità relativamente all’apprendimento dei miei studenti: significava stare su più piani e nello stesso tempo trovare il modo di unificarli, poi sapere osservare quei mondi con sensi completamente rinnovati. Quello che ho iniziato a fare, dunque, è stato osservare e ascoltare in modo diverso. Come dire, se vuoi cambiare il mondo devi incominciare da te.

L’impegno di Paolo verso il mondo della scuola è collegabile a quello di Don Milani, così come l’attenzione verso gli ultimi, gli “scartati”, quelli che non si sentono capaci e non sanno da che parte iniziare per apprendere. <<La scuola è per loro>> diceva <<di loro vi dovete occupare, parliamo di loro, non di quelli che sarebbero bravi comunque, con ogni insegnante>>. Ah, come mi piace ripensare a questa frase che segna una demarcazione tra chi “è” insegnante e chi “fa” l’insegnante come mestiere.

E di loro ci siamo occupati veramente.

L’insegnante abile dunque, per lui, era quello in grado di far emergere le potenzialità in uno studente che non si sentiva capace, che fino a quel momento a scuola aveva fallito le prove e non sapeva come migliorare, quello che si sentiva inadeguato per.

Avevamo magari già sperimentato unità didattiche inclusive, ma quello che Perticari evidenziò è che inclusivo deve essere il modo di porsi con l’altro, non le attività in sé, quelle vengono spontaneamente di seguito. Come?

Intanto con una sottrazione di protagonismo come insegnante. L’insegnante che si pone in una forma di contrapposizione sapere/ignoranza spesso gestisce la sua cultura come potere e, magari inconsciamente, umilia lo studente attraverso la sottolineatura dei suoi errori, fino a far coincidere i risultati negativi a scuola con la valutazione dello studente in sé, facendo corrispondere persona e studente in un’unica figura.

Ho provato in tutti questi anni a discutere su questo con gli insegnanti che incontravo in corsi di formazione, ma qui ho trovato sempre molte resistenze, benché questo concetto sia la leva potenziale di tutto il pensiero pedagogico veramente inclusivo. Quando poi un ministero ti conferma che attraverso i test di valutazione si può quantificare la vera competenza, e che se uno non impara bene a leggere/comprendere un testo entro un certo periodo è dislessico e che si può diagnosticare la dislessia con un’oggettiva prova psicologica (o altre cose di questo tipo), bene, a questo punto un insegnante si sente autorizzato a essere superficiale, a segnalare i bambini, a fare prove oggettive, a dividere la classe in “chi può” e “chi non può”.

Perticari indica nella conversazione l’unità di misura dell’insegnamento/apprendimento, riprendendo ed ampliando il pensiero di Gordon Pask, cibernetico inglese, psicologo e teorico dell’educazione.

È un modo differente di considerare l’azione dell’insegnare e quella dell’apprendere, non più separabili, ma intimamente connesse. L’idea di base è che l’apprendimento avviene attraverso “interazioni” di vario tipo tra chi insegna e chi apprende, chiamate appunto conversazioni, in modo tale che la conoscenza viene esplicitata (sia da chi insegna come da chi apprende), rivelandola a diversi livelli. L’insegnante modula la sua conversazione nel rispetto di chi sta apprendendo, per permettergli di interagire, considerando il fenomeno dell’apprendere un fatto personale e sociale nello stesso tempo. Personale perché ognuno ha intelligenze ed esperienze uniche, sociale perché si apprende in un contesto sociale, con una guida conversazionale di un docente e immersi in esperienze di conoscenze diverse dalle proprie, come quelle dei compagni.

Ci sono diversi livelli di conversazioni in classe, definiti anche dal tipo di intensità: la conversazione debole è quella che si ha con tutta una classe, forte quella che si tiene in un piccolo gruppo, dove insegnante e studenti hanno modo di interferire con più intensità, fortissima con un singolo studente, quando l’azione dell’apprendere e dell’insegnare sono più correlate.

Le situazioni di conversazione “debole” possono essere quelle relative ad una spiegazione, o a una discussione aperta a tutta la classe. I tempi e la modalità non permettono eccessivi approfondimenti, essendo numerosi i partecipanti. Una conversazione in un piccolo gruppo ha già più possibilità di interferenze e di rapporti vicendevoli. Se, ad esempio, si affronta il modo differente di studiare in rapporto ai risultati, ecco che non solo c’è l’insegnante che parla, ma diversi studenti: se l’insegnante sa “conversare” può mostrare le diverse strategie di studio, rendendo esplicito come certi apprendono in modo solido ed altri no. Dai compagni si apprende anche per confronto e questo semplifica molto i passaggi.

La conversazione molto forte si ha quando l’insegnante deve rimuovere una fissità. Si intende come fissità un errore ricorsivo, uno di quelli che si è consolidato nella mente, facendoci sbagliare ripetutamente. Se gli errori sono inerenti a concetti che richiedono poi un’applicazione, questi errori possono diventare un “blocco” per l’apprendimento, dunque per rimuoverli non basta e non serve dire allo studente “Hai sbagliato”, ma bisogna agire in modo che la consapevolezza dello sbaglio diventi per lui un campanello d’allarme per correggersi. A questo proposito riporto un’applicazione di questo modo conversazionale, rifacendomi ad un esempio che io e la mia collega di matematica abbiamo riportato nel libro di Paolo Perticari “Attesi imprevisti”.

Cercherò di mostrare le sequenze di tre “conversazioni” forti avvenute tra l’insegnante di Matematica e una ragazza di seconda media in tempi leggermente diversi.

Siamo in classe: io in questo caso osservo e prendo nota, la mia collega di matematica agisce direttamente con la studentessa, in conversazione.

L’insegnante è seduta in mezzo ad un piccolo gruppo di tre e mentre due ragazze del gruppo collaborano tra loro per la soluzione di un problema di Geometria, lei lavora ragionando con O. Agisce in questo modo per far emergere le difficoltà di O. in Matematica/Geometria (che ha già rilevato) e comprendere meglio come procedere per aiutarla.

 

Prima conversazione: emergono problemi di comprensione.

 

Prof. di Matematica (mentre osserva la figura disegnata dalla ragazza e i dati del problema): “Avendo la lunghezza dei cateti, come fai a trovare la misura dell’ipotenusa di un triangolo rettangolo?”

O. la ragazza interessata: “Trovo l’area del triangolo e gli tolgo la lunghezza dei cateti sommati”.

 

In questo primo stralcio di dialogo riportato, O. non solo confonde lunghezze e area, ma dimostra di non conoscere, né prendere in considerazione il Teorema di Pitagora.
La Prof spiega perché sta sbagliando, le chiarisce che da un’area non si può togliere una lunghezza e poi si dirige con O. alla lavagna e le rispiega il Teorema di Pitagora. O. fa delle prove, ragiona ad alta voce dimostrando di aver compreso.

 

L’errore si ripresenta come ricorrente.

A distanza di pochi giorni l’errore si ripresenta di nuovo con la caratteristica di fissità. O. sbaglia degli esercizi e ricommette l’errore nel compito in classe a distanza di un mese.
La fissità è un errore che diventa stabile nella mente, perché si è consolidato come conoscenza, per essere sradicato ha bisogno dell’autoconsapevolezza che spesso può avvenire solo se qualcuno dall’esterno te lo mostra.

 

Seconda conversazione. L’insegnante si ferma in un piccolo gruppo in cui c’è anche O.

 

Prof.: “Cosa stai facendo?”
O.: “Devo trovare l’area del trapezio. Trovo l’area del quadrato, l’area del triangolo rettangolo, poi...”
Prof: “Come fai a trovare l’area del triangolo rettangolo?”
O.: “Prima applico il teorema di Pitagora...”
Prof: “Perché?”
O.: “Perché il lato obliquo di un triangolo rettangolo è uguale alla somma dei due cateti…” (!!!)
Prof: “Sei proprio sicura che sia così? Osserva questi triangoli rettangoli che ora ti disegno e proviamo a misurare sia i cateti che l’ipotenusa...”
O.: No Prof!! adesso mi ricordo. Aspetta che ci ripenso. Io mi sbaglio spesso quando c’è da applicare il Teorema di Pitagora...”

Prof: “Sì, lo so...”

Questo è un momento importante poiché:

·         l’alunna ha la consapevolezza di sbagliare rispetto all’argomento in questione;

·         manifesta il desiderio di correggersi;

·         chiede la collaborazione dell’insegnante;

·         l’insegnante collabora non rispiegando di nuovo tutto l’argomento, ma favorendo l’autocorrezione e orientando lo studente verso procedure corrette.

Questo momento viene chiamato accordo” in quanto sia l’insegnante che chi apprende concordano non solo sul lavoro che si sta facendo, ma soprattutto sulla reale competenza di chi sta apprendendo.

Intanto il lavoro con O. prosegue. L’alunna prova ad applicare il teorema di Pitagora ma sbaglia, perché al quadrato dell’ipotenusa aggiunge il quadrato del cateto, quindi l’insegnante decide di intervenire.

 

Terza conversazione:

 

Prof: Riguardiamo insieme il teorema di Pitagora, mentre io disegno la figura, tu mi ripeti le regole, controllandole nel tuo quaderno”.

In questa fase O. è più sciolta, si sente più sicura e soprattutto sa dove dirigere il suo ragionamento. L’insegnante le ha dato un filo d’Arianna che la guida. Sbaglia ancora qualcosa, poi utilizza finalmente la procedura giusta e dimostra di saperla applicare nel problema in questione.

È il secondo momento di accordo poiché entrambe hanno la consapevolezza dell’avvenuta comprensione.

La ragazza dimostra di aver compreso bene il teorema non solo perché se lo ricorda in teoria, ma perché lo sa applicare in contesti diversi, in presenza dell’insegnante.

Più semplicemente l’insegnante può affermare che la ragazza ha “compreso” l’argomento perché conversando con lei ne condivide ragionamenti e applicazioni.

 

Quello che è avvenuto non è una semplice “lezione”. La conoscenza rispetto al teorema di Pitagora si è mossa da una mente all’altra con la sapienza antica di un adulto che insegna ad un giovane che apprende, con naturalezza, senza giudizi, né forzature. E lo studente non apprende solo il teorema di Pitagora, ma anche a considerarsi capace di correggersi da solo, di ravvedersi dai propri errori, di saper chiedere all’insegnante, di ascoltare con più attenzione, senza che su queste operazioni di pensiero ci si soffermi esplicitamente. Il flusso delle riflessioni danza” nel movimento creato dalle diverse considerazioni, producendo spessori di conoscenza, ben oltre Pitagora. In questo contesto ci si trasforma a vicenda.

Se durante una conversazione uno studente rimuove procedimenti errati e, in un’altra, una classe discute attorno ad argomenti di varia natura, attraverso tutte queste conversazioni anche l’insegnante apprende. Si sarebbe tentati di dire che l’esperienza già in sé per sé insegna. Quello che voglio dire (e che ho appreso bene con Perticari) è che avviene un teach-back, un insegnamento di ritorno che si riferisce in modo preciso al contesto in cui avviene.

Sappiamo tutti cos’è il feed-back, ossia l’azione indiretta di ritorno rispetto ad un’azione. Il teach-back è un insegnamento di ritorno consapevole rispetto alla precisa situazione presa in esame. Si ha un feed-back tutte le volte in cui insegniamo anche in una lezione frontale, non necessariamente “in conversazione”: l’insegnamento di ritorno si ha quando siamo nella consapevolezza che sono gli studenti a indicarci dove andare, come procedere, quale strada scegliere perché si abbia successo insieme. È quella danza che si fa solo insieme, ascoltandosi e correlandosi a vicenda.

Non si rinuncia mai ad essere insegnante, ma nell’insegnamento di ritorno si permette agli altri di entrare nella nostra sfera d’azione, emotiva, conoscitiva, pedagogica per indicarci la migliore scelta possibile da fare.

E lo capiamo con un’attenzione diversa che si esercita attraverso l’ascolto attivo.

Per applicare meglio l’ascolto attivo e vederne le molteplici opportunità, ho conosciuto Marianella Sclavi.

 

 

 

Marianella Sclavi

 

“Per divenire esperto nell’arte di ascoltare

devi adottare una metodologia umoristica.

 Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé.”

Marianella Sclavi (la 7° regola dell’Arte di Ascoltare)

(E, aggiungo io, hai imparato anche ad insegnare)

 

 

Ho letto il primo libro di Marianella Sclavi quando ancora non la conoscevo direttamente, ed era “A una spanna da terra. Indagine comparativa su una giornata di scuola negli Stati Uniti e in Italia e i fondamenti di una “metodologia umoristica”. Il libro, uscito nell’89 in Italia, evidenzia già quello che è stato fondamentale per me nell’avvicinarmi al suo pensiero, ossia quelle caratteristiche che lei fa vedere con tanta naturalezza e che a me, invece, per praticarle sono costate esercizio, riflessione e a volte delusione.

Intanto mi ha mostrato, fin da subito con chiarezza, come osservare.

Intendiamoci, l’osservazione per un insegnante dovrebbe essere pane quotidiano, è parte integrante del mestiere. Dovrebbe. Ma non è così. Abitualmente, all’Università, nessuno spiega al futuro insegnante come “osservare” uno studente, né ti dice che come osservi racconta anche il tuo modo di insegnare, semmai lo fa solo il corso di Pedagogia Speciale. Durante i Consigli di Classe si sentono lunghi elenchi di azioni eseguite dagli studenti, ma quasi mai sono frutto di osservazioni mirate, bensì comportamenti spesso registrati in base a pre-guidizi formulati in relazione ad una serie di fattori complessi, che vanno dal rendimento scolastico alla vivacità o alla maleducazione. Insomma, se uno studente ci è “simpatico”, tendiamo a chiudere un occhio rispetto a certi atteggiamenti, viceversa, se abbiamo degli elementi per non apprezzarlo, gli attribuiamo spesso una lunga serie di negatività, trascurando le possibili qualità.  Marianella mi ha insegnato ad osservare con una forma diversa di sguardo, lo sguardo di chi sa in partenza che è esploratore di un mondo che non conosce, un mondo che può anche non piacermi, ma che comunque, attraverso la reazione che ho, racconta molto anche “di me”, di come so vedere l’altro, di come mi rapporto in base alla sua inevitabile differenza da me.

Attraverso i libri di Marianella avevo compreso due concetti nuovi per me. Il primo è che all’interno di un ambiente sociale definito, come può essere quello scolastico, noi diamo per scontati, ovvii certi comportamenti e pensiamo che non richiedano spiegazioni. Ho sempre avuto un buon rapporto con gli studenti delle mie classi ma (grazie anche al suo insegnamento) ho imparato che, se volevo farli crescere come persone, dovevo farli ragionare con responsabilità attorno alle regole che condizionano i comportamenti quando si è nel gruppo classe o in gruppi sociali allargati. No, non abbiamo discusso sul regolamento appeso alla porta, quello scritto dagli organi ufficiali della scuola, quello lo conoscevano già. Se volevo che lo comprendessero e soprattutto che lavorassero sereni, dovevano prima prendere in considerazione i piccoli comportamenti quotidiani nella relazione con gli altri e dovevano farlo da soli. È stato così che hanno imparato a riflettere, prima di ogni attività, sulle due o tre regole comportamentali di base importanti per realizzare quell’attività. E non lo hanno fatto per qualche mese, ma per un tempo lunghissimo, anche perché ogni attività richiede comportamenti sociali diversi. All’inizio impiegavo un po’ di tempo, poi, essendo certe regole diventate abituali venivano adottate velocemente. Per esempio quando si lavorava nei piccoli gruppi avevano imparato ad abbassare notevolmente il tono della voce e, nelle conversazioni attorno ad argomenti di forte interesse, nessuno interrompeva più o commentava malamente, ma ascoltavano attivamente. Certamente io ricordavo “la regola comportamentale” nel momento in cui serviva, ma loro non “ubbidivano” perché costretti, ma la seguivano (o tentavano di seguirla) perché la condividevano.

Sapevo poi che è veramente difficile, quando si è giovanissimi, correggersi su certi comportamenti in luoghi affollati. La mensa era diventata, ad esempio, un luogo insopportabile: toni altissimi di voce, palline di pane infilate nelle bottiglie dell’acqua o tirate negli occhi ai compagni, carne recisa coi denti prima ancora di essere tagliata. Il Collegio Docenti aveva deciso regole durissime. Io ho approfittato di quella occasione perché gli studenti comprendessero. Ho chiesto alla mia classe terza (classe vivacissima) di osservare come si comportava la classe prima, quasi fossero “estranei” a quel mondo. Una volta ritornati in classe hanno fatto un lungo elenco di comportamenti inadeguati degli studenti di prima, ammettendo però, gradualmente, che anche loro si comportavano spesso così.

In piccoli gruppi poi hanno trovato cinque semplici regole per rendere l’ambiente mensa un luogo vivibile. Non si diventa persone responsabili tutto in una volta, ma la scuola può veramente aiutare ad essere socialmente meglio inseriti e a comprendere l’ambiente in cui si vive.

Il secondo concetto appreso dall’insegnamento di Marianella è correlato al precedente: se ad esempio vogliamo comprendere veramente uno studente che ci irrita, che ci indispone, dobbiamo prima di tutto essere più abili a riconoscere i limiti del contesto in cui noi ci muoviamo. La nostra irritabilità o la rabbia ce lo mostrano.

Non vuol dire ancora conoscere l’altro, ma intanto implica sapere che quello che per noi “è dato per scontato” per lui non lo è. A questo proposito narro un fatto che per me è stato illuminante.

Christian era uno studente simpatico e molto partecipativo. Non in storia, però, soprattutto quando spiegavo, lui apparecchiava il banco con tutto quello che aveva nell’astuccio e nell’astuccio aveva veramente di tutto: penne vecchissime da utilizzare come cannucce, matite lunghe e cortissime, temperini con tutto quello che avevano prodotto temperando. Quando incominciavo a spiegare lui con innocente naturalezza incominciava a prepararsi per il suo rito di svuotamento dell’astuccio. Dopo una serie di mie proteste, Christian aveva imparato a fare quest’azione con più prudenza, ma comunque non aveva smesso. All’interno del contesto in cui io mi muovevo (penso comune a molti insegnanti) vedevo la sua azione come in contrapposizione o comunque una ribellione alla mia spiegazione, per questo l’avevo più volte sgridato “come se lui volesse opporsi”, ma non glielo avevo mai chiesto apertamente.

Una volta, seguendo l’insegnamento di Marianella, invece di sbraitare ricordandogli le regole per l’ennesima volta, mi decido a dire apertamente come mi sento quando lui apre l’astuccio, pressappoco con queste parole:

<<Christian, tutte le volte che tu apri l’astuccio mentre io spiego, mi sembra che tu mi voglia ostacolare, per cui mi sento offesa. È questo il tuo obiettivo?>>
<<Oh, per carità, Prof, no assolutamente! mi dispiace!>> fa lui e dicendo così riempie l’astuccio con tutto il materiale esposto e mi guarda angelico.

Christian non ha più “giocato” con l’astuccio mentre spiegavo: incredibile! è bastato che io riferissi il mio malessere per bloccarlo!

Nel momento in cui Christian mette via gli oggetti nell’astuccio, dichiarando la sua estraneità rispetto alla mia ipotesi, io vedo con chiarezza i limiti del mio pensiero, contemporaneamente al pensiero di Christian e sorrido dentro di me dei miei pregiudizi, guardando con sguardo nuovo me, Christian, la mia relazione con lui, il suo astuccio, storia, la spiegazione in atto. Questo doppio sguardo mi fa comprendere molto e mi fa sorridere rilassata, introducendomi ad un consapevole metodo umoristico.

Riferire come ci si sente, comunicare il proprio disagio o comunque quello che si prova dopo una data azione dell’altro è il primo passo verso la soluzione creativa del conflitto.

E questo è uno dei tanti insegnamenti di Marianella.

Quando ho cominciato a studiare il conflitto attraverso i suoi libri, in modo particolare “L’arte di ascoltare e mondi possibili”, pur non essendo digiuna di psicologia, non riconoscevo pienamente i conflitti che avevo con i miei studenti, poiché non c’erano grandi disaccordi tra me e loro, e il conflitto lo relegavo quasi esclusivamente nell’area affettiva-relazionale, escludendo, in un certo senso, il conflitto cognitivo. Approfondire la dinamica del conflitto ha arricchito anche il mio metodo conversazionale, restituendo in pieno allo studente la legittimazione del suo percorso mentale e dando a me più capacità dialogica.

Di fronte ad un errore, ad una difficoltà dello studente, al fallimento di un risultato, restituire l’autonomia significa riconoscere l’intelligenza dell’altro e la grande capacità che ha di modificarsi in meglio. Non si deve “convincere” nessuno, ma solo capire in due dove dirigerci. E soprattutto lo deve comprendere la persona a cui insegniamo.

L’ascolto attivo è il grande strumento dialogico, non è uno strumento “rituale” da utilizzare solo in caso di mediazione, no, non solo, quando s’impara ad usarlo è un’attenzione nuova nell’ascolto, una specie di antenna cresciuta insieme alla propria professionalità.

Come diceva Perticari, una conversazione tra studenti ed insegnanti è sempre in atto se si vuole, e lo è, aggiungo, solo perché l’ascolto attivo lo permette. È l’ascolto attivo che ti consente di cogliere tutti gli spunti interessanti mentre si è in classe, di approfittare di un errore per approfondire un argomento o dell’intervento di uno per rilanciare l’apprendimento o di capire che è il momento di smettere, che sono stanchi, o che è il caso di cogliere una battuta e ridere insieme.

Certamente, quando si fa mediazione tra due studenti che hanno litigato, l’ascolto attivo acquista un potere più forte e visibile anche agli altri: me ne sono accorta quando l’ho applicato più volte negli istituti professionali in cui ho fatto esperienza di mediatrice. Durante la mediazione, insegna Marianella, attraverso l’ascolto attivo i due interessati si ascoltano a vicenda, apprendendo, oltre il punto di vista dell’altro, anche come ci si è sentiti, le emozioni reciproche: queste informazioni agiscono in genere come calmanti e le tensioni decadono.

L’esperienza della mediazione dei conflitti, della mediazione degli apprendimenti e del corso di mediazione per studentesse interne ad un istituto professionale mi hanno mostrato non solo la validità dell’insegnamento di Marianella Sclavi, ma anche la necessità che certe strategie si diffondano nelle scuole. Circa dieci ragazze di quarta e quinta superiore si fermavano di pomeriggio a seguire il corso di mediazione, senza che la scuola lo riconoscesse con punti di merito per l’esame di stato e l’hanno seguito con profondo interesse fino alla fine, dimostrando continuamente la necessità di comprendere meglio le dinamiche del conflitto e di diventare abili nel mediare.

Per chiarire l’importanza e la dinamica della mediazione, ne riporto qui una, avvenuta in un Istituto Professionale di Cesena, in cui io ho agito all’interno di un progetto comunale di recupero degli apprendimenti che coinvolgeva l’Istituto stesso e il Centro di Documentazione Educativa del Comune.

 

Mi trovo in una classe prima che vede iscritti, come tutte le prime, diversi studenti in affanno come studio, ma anche con difficoltà relazionali. Gli studenti sanno che faccio mediazione e sono informati di cosa si tratta. Mi cerca una ragazza molto agitata, dicendo che una sua amica è in lacrime perché un compagno di classe l’ha offesa. Funziona un po’ così a scuola: quando i ragazzi sono in difficoltà cercano di appoggiarsi a qualche adulto ma non da soli, tramite un compagno che li sostiene. Chiamerei questa fase iniziale la “premessa alla mediazione”.

 

Premessa alla mediazione:

·         Maria, amica di Sonia, mi riferisce che la sua amica sta piangendo perché è stata offesa

da Matteo nel corridoio. A detta sua le avrebbe detto<<puttana!>>, senza nessun motivo, mentre le passava accanto.

·         Do la mia disponibilità alla mediazione, ma escludendo l’amica.

·         Incontro separatamente Matteo e Sonia che sono d’accordo sull’accettare la mediazione.

 

Prendo in considerazione ora la mediazione vera e propria.

Primo momento della mediazione

La spiegazione, prima fase della mediazione.

Spiego ai due interessati (Matteo e Sonia) lo scopo della mediazione e le regole che devono rispettare: a) la mediazione è segreta e quello che avviene rimane solo tra noi; b) si devono impegnare a ascoltare il compagno o la compagna; c) non devono interrompere mentre uno parla. La spiegazione è una parte importante del tutto, perché introduce gli studenti alla “ritualità” dell’incontro. È come se si dicesse: ragazzi, quello che stiamo facendo è importante e per funzionare ha bisogno che voi condividiate la procedura. Non ho mai trovato nessun studente che si sia rifiutato, perché in questo modo si invitano ad essere più adulti, responsabili delle proprie scelte.

 

Mediazione: ascoltarsi e ritrovarsi

Io: “Sonia, mi hai raccontato un episodio successo poco tempo fa che ti ha fatto soffrire, vuoi raccontarlo a Matteo? I due sono uno di fronte all’altra.
Sonia: “Sì, era finita da poco l’ora di italiano e mi trovavo in corridoio. Mi si è avvicinato Matteo che mi ha dato della puttana, senza nessun motivo!”

Io: “E tu come ti sei sentita?”
Sonia: “Offesa! Sono stata veramente male”
Io: “Matteo hai sentito tutta la narrazione del fatto raccontato da Sonia, cosa ne pensi?”
Matteo: “Sonia ha ragione, è così che è andata, ma c’è un fatto che è accaduto prima!”
Io: “Cosa? racconta!”
Matteo: “Durante l’ora di matematica mi sono girato verso di lei, per chiederle se andava bene un procedimento che avevo iniziato a sviluppare e lei mi fa <<Ma cosa sei handicappato!?>>
Sonia: “Ma ho detto così per dire! Lo diciamo tutti quando uno non si accorge che si tratta di qualcosa di molto semplice!”
Io: “Calma Sonia, non interrompere. Matteo sta raccontando un episodio che lo ha fatto star male! Come ti sei sentito Matteo, puoi definire il tuo stato d’animo?”
Matteo a questo punto si sfoga veramente e racconta di altri episodi in cui è stato trattato come uno che non capiva, soprattutto in matematica, come se fosse uno stupido e questo lo fa star male.
Sonia è stupita e si affretta a chiedere scusa, dicendo che proprio non pensava che una frase buttata là come fa tante volte con diversi compagni lo avesse ferito. Anche Matteo si scusa della parola volutamente offensiva che aveva detto.

Non è necessario nessun altro mio intervento, se non per ricordare che c’è l’obbligo di tenere tutto per sé, di non raccontare niente a nessuno.

La mediazione in tutto è durata 15/20 minuti, ma alla fine non solo gli studenti sono rappacificati, ma hanno scoperto un aspetto dell’altro che neanche supponevano esistesse. Sono sereni.

Anch’io su questo fatto mi ero fatta un’idea tutta mia prima che avvenisse la mediazione: che i ragazzi maschi lancino volgarità tutte le volte che una ragazza gira in modo un po’ provocante come fa Sonia e che le ragazze stesse a volte fingono di non accorgersene, perché sono giochi che fanno parte dell’adolescenza. Anch’io mi sbagliavo.

È bastato ascoltarli con attenzione e anch’io ho capito.

Da quelle esperienze ad oggi sono diventata più esperta dell’arte della mediazione, solo raramente e per fatti gravi la eseguo con tutta la ritualità e rispettando i codici di segretezza. Più spesso la svolgo con semplicità di fronte ad insegnanti che devono apprendere come fare poi da soli. Tutte le volte, però, nel momento in cui si attua, percepisco un’emozione diversa negli studenti ed essi, prima degli adulti, colgono la richiesta sottesa di ogni mediazione: quella di essere disposti a comprendere l’altro, superando i propri limiti. Come pochi mesi fa, quando mi hanno chiamato in una scuola in cui opero perché due ragazzine si erano insultate violentemente, con tanto di tifoserie opposte, per la distribuzione dei posti in classe. Dopo che si sono ascoltate in mediazione, rispettandosi, ho chiesto loro di pensare ad una possibile soluzione per la posizione dei banchi. Nel tempo di un’ora la soluzione è giunta inaspettata, piacevolmente trovata insieme dalle due ragazze, senza che consultassero nessun adulto.

Credo fermamente che un educatore consapevole del suo ruolo alla fine sia sempre un “mediatore”, ossia uno che sappia trovare una via possibile, praticabile e la migliore, tra gli obiettivi dello studente, tra quello che la scuola richiede, e i propri obiettivi di insegnante, mantenendo ad ogni modo la distinzione dei ruoli.

Sono convinta anche che, mentre si ragiona con uno studente, mentre si conversa con una classe, mentre si insegna e si apprende, mentre si media, si modifichi tutto: contenuti, modi di fare, modi di pensare, sfondi, immaginazione e quello che ne deriva è l’insieme dei mondi possibili di cui parla Marianella.

 

 

 

Humberto Maturana

“La coscienza e la mente appartengono al dominio
di accoppiamento sociale ed è lì che si realizza la loro dinamica.”

“La struttura obbliga. Noi, esseri umani in quanto tali, siamo inseparabili dalla trama

di accoppiamenti strutturali tessuta dalla continua trofallassi (scambio) linguistica”

 

“...el amor es el dominio de la conductas relacionales atràves de la cuales el otro

o la otra surge como legitimo otro en conviviencia con uno”
...l’amore è il dominio delle condotte relazionali attraverso le quali l’altro

 o l’altra emergono come legittimi altri in convivenza con uno… “

 

 

Tratterò per ultima l’influenza che ha avuto Maturana sul mio modo di intendere l’insegnamento/apprendimento, anche perché studiando lui ho affrontato più in profondità il pensiero di Perticari e quello di Marianella.

Il fascino profondo del suo pensiero e di quello di Varela, impegnato nella stessa ricerca, consiste anche nel fatto che entrambi sono biologi, anzi, medici specializzati in biologia. I due scienziati, dunque, si interrogano sul senso e sul processo della conoscenza negli esseri umani, sulla trasformazione che avviene quando le persone interagiscono tra loro mentre si apprende e si insegna e sull’influenza che le loro azioni hanno sull’ambiente in cui agiscono.  Ritengo fondamentale per la mia formazione il libro “L’albero della conoscenza”.

Noi insegnanti spesso siamo considerati gli ultimi della catena intellettuale che si interroga sull’apprendimento, più che altro ci si aspetta che noi pensiamo solo a come far conoscere gli apprendimenti. Quasi mai viene chiesto agli insegnanti di riflettere sul senso sociale della conoscenza e sulle trasformazioni reciproche in atto nell’insegnamento/apprendimento, come se le due competenze fossero separabili nella loro importanza. Il libro dei due scienziati in questo senso è rivelatore e indispensabile.

Ho conosciuto direttamente Maturana e ho potuto sentire da lui le spiegazioni del suo pensiero. Lo scienziato si serve di esempi tratti dalla vita quotidiana, quindi apparentemente semplici, per condurre poi a considerazioni epistemologiche complesse e niente affatto scontate.

Chi siamo noi, esseri umani? Questo è il primo concetto affrontato.

Intanto siamo esseri viventi. I sistemi viventi sono sempre entità particolari che hanno alcune caratteristiche comuni, avendo tutti, dal più piccolo al più grande, gli stessi meccanismi vitali. Non solo, ma tutti i sistemi viventi sono strutturati in modo tale per cui le componenti delle strutture operano contemporaneamente in due campi fenomenici tra loro separati: uno riguarda le dinamiche che sostengono la vita dell’essere vivente stesso - ossia i sistemi molecolari che interagiscono tra loro all’interno del corpo - l’altro riguarda il rapporto tra l’essere vivente e l’ambiente in cui si muove.

Se il primo campo riguarda l’anatomia e la fisiologia, il secondo riguarda il “comportamento” che consiste in una relazione fra un sistema vivente operante come un tutto e un ambiente indipendente dal sistema vivente stesso. Questi due campi, pur non essendo riducibili l’uno all’altro, si condizionano a vicenda, interconnessi secondo una modalità di mutua modulazione dei fenomeni che li riguardano.

Se, dunque, analizziamo la scuola, noi stiamo parlando di diversi esseri viventi indipendenti gli uni dagli altri che interagiscono tra loro, agendo a loro volta in un ambiente, l’istituzione scuola, che è a sua volta indipendente sì, ma connessa con gli esseri viventi che lì operano. I vari comportamenti, quindi, non appaiono né determinati solo dai vari sistemi viventi che agiscono all’interno della scuola, né solamente dall’ ambiente, ma sono costituiti dalle “reazioni” di tutti i sistemi e dalle “reazioni alle reazioni”, cioè da tutti quei processi che rivelano il reciproco adattamento.  Per spiegare il fenomeno della reazione e del reciproco adattamento, Maturana si serve spesso di un esempio che magari abbiamo avuto modo di sperimentare nella vita reale, e che è facilmente comprensibile. Questo esempio non solo spiega la reazione, ma soprattutto come la reazione di un elemento comporti la reazione alla reazione e via di seguito.

Un cane incontra un uomo e viceversa

Immaginiamo, dunque, che un uomo incontri un cane per strada, un cane abbandonato e che gli piaccia; si avvicina al cane, lui si sottomette e scodinzola e l’uomo decide di portarlo a casa sua. Ben presto tra loro si stabilisce un coordinamento di comportamenti ben visibile da un osservatore esterno: il cane chiederà in un certo modo di uscire e l’uomo capirà che deve accompagnarlo fuori, oppure l’uomo lo chiamerà con un certo nome e il cane imparerà a correre quando lo chiama e a scodinzolare per chiedere ricompense e così di seguito.

L’uomo esclamerà <<Com’è intelligente questo cane!>> L’animale dunque è intelligente perché ha coordinato il suo comportamento a quello dell’uomo che l’ha adottato. Ma anche l’uomo ha coordinato il suo comportamento a quello dell’animale, cercando di capire le sue richieste e assecondandole. Poi magari si sono guardati reciprocamente, una volta che si erano capiti, per confermare il reciproco consenso. E questa consensualità con il tempo è cresciuta e l’uomo magari, parlando del cane con i suoi amici, loderà l’intelligenza dell’animale.

Il punto centrale del discorso è questo, aggiunge Maturana: “cos’è l’intelligenza?” L’intelligenza non ha niente a che fare con la soluzione dei problemi, prima di tutto l’intelligenza è una questione di consensualità. Immaginiamo che un uomo, invece, si rapporti con un cane che non gli piaccia, magari perché l’ha trovato la moglie e non ha desiderio di avere un cane in casa e immaginiamo che voglia imporgli certi comportamenti dandogli degli ordini, prescrivendogli delle regole senza che il cane capisca o ubbidisca. Quello che l’uomo penserà sarà sicuramente <<Com’è stupido questo cane!>>. Se il cane piace, dunque, è intelligente, se non piace è stupido. Questo esempio è applicabile anche nei rapporti tra esseri umani: se stai esaminando un’altra persona e ti piace, ti comporterai per creargli uno spazio ricettivo, se non ti piace non ti affretterai per accoglierlo.

Nei rapporti fra insegnanti e studenti vale lo stesso principio, l’intelligenza dunque è una questione di reciproca accettazione e di reciproca intensità. Se uno studente non piace, se pensiamo che sia stupido, ci comportiamo in base a quest’idea: non saprà rispondere alle domande, non sarà all’altezza delle nostre pretese di insegnante.

Guardando indietro alle origini della vita e considerando come funziona un sistema vivente, Maturana pensa che sia scientificamente dimostrabile che l’amore sia il migliore nutrimento per l’intelligenza e che sia vera la metafora che dice: se vuoi che un altro sia intelligente, amalo di più. L’amore è accettare l’altro in modo da permettergli di entrare nel tuo sistema di vita.

Prendiamo ad esempio l’amicizia. Attraverso l’amicizia noi accettiamo l’altro così com’è e l’amico accetta noi e creiamo insieme un contesto di coesistenza che è piacevole per entrambi. L’amicizia è piacevole perché è priva di imposizioni, ma se si procede a suono d’imposizioni, l’amicizia finisce.

Cosa significa apprendere, cosa significa insegnare? Apprendere e insegnare significa trasformarsi in un contesto di coesistenza.

Il primo esempio che viene spontaneo fare è quello del primo momento in cui un bambino entra nel mondo della scuola dell’infanzia: sta piangendo, non vuole entrare, tiene strette le mani dei genitori, non vuole sedersi con gli altri, poi l’insegnante gli dice qualcosa e gli allunga la mano e il bambino l’afferra e si lascia convincere ad entrare. Nel momento in cui il bambino accetta quella mano inizia la trasformazione, un intero mondo incomincia a svilupparsi a partire da questa mutua accettazione. In ogni contesto di scuola dovrebbe succedere questo: uno che deve apprendere si deve sentire prendere per mano dall’insegnante, a qualunque livello di scuola.

Se un professore non riesce a prendere per mano, metaforicamente, uno studente, non ci sarà reale apprendimento, perché lo studente sarà infelice, sentirà che non c’è spazio per lui, si sentirà non accolto. Ogni volta che, come insegnante, noi diventiamo dei “controllori” del comportamento dei nostri alunni, noi non stiamo davvero insegnando, perché viene a mancare una dimensione fondamentale dell’insegnamento, ossia l’integrazione sociale. L’integrazione sociale avviene quando l’insegnante e lo studente operano in una dimensione di mutua accettazione, collaborando per costruire insieme un mondo e, qualunque sia il campo in cui loro agiscono, quello che conta per l’apprendimento, per la soluzione dei problemi, per il futuro di quello studente, è il “dominio del vivere insieme”.

Sono le dinamiche del vivere insieme che permettono l’integrazione sociale.

Se l’insegnante, per rapportarsi allo studente, si affida a un codice di comportamento standardizzato, stabilito dai regolamenti scolastici o dalla tradizione e tratta gli studenti come se fossero uguali, se non accetta e valorizza la loro unicità e personalità, fallisce nel suo compito.

Quando l’insegnante restituisce la qualità umana alla partecipazione di un lavoro comune, l’apprendimento non è più pesante, diventa realizzabile.

Per Maturana, dunque, la conoscenza è un apprendimento relazionale nella convivenza e, perché si realizzi, l’insegnante crea una circostanza in uno spazio di convivenza che permette agli studenti di modificarsi apprendendo, in una continua coordinazione di comportamenti.

 

Faccio un esempio rispetto ad una mia diretta esperienza.

A) Creare una “circostanza”

Mi sono accorta, sin dai primi momenti della prima media, che i miei studenti hanno molti pregiudizi rispetto alla scrittura, non si sentono capaci e alcuni dicono espressamente che la odiano. Quindi penso di organizzare un laboratorio di scrittura personale emozionale, in cui ognuno possa esercitarsi scrivendo di sé (dunque in un ambito in cui ha esperienza), valorizzando ricordi, pensieri, riflessioni, perciò dando ampio spazio al campo delle emozioni, dei sentimenti, senza però citarli molto, ma lasciando che questi affiorino attraverso le loro parole, con naturalezza. Viene ridotta al minimo la difficoltà tecnica.

B) Spazio di convivenza

Il “laboratorio” crea uno spazio di convivenza perché in quel contesto ognuno si sente libero di scrivere pensieri/ricordi/emozioni solo suoi, utilizzando la sua lingua, senza le restrizioni di scritture complesse che richiedono padronanza tecnica e sono più faticose. È uno spazio di convivenza pensato per rinnovare il patto con la scrittura e, dunque, anche per coordinare meglio la mia azione alla loro, ma lo diventa anche per la classe: attraverso il confronto, lo scambio, le mescolanze dei linguaggi, ognuno si sente confortato nella sua fatica, si diverte, collabora, migliora il pensiero e il modo per esprimerlo.

C) Coordinazione di condotte (ossia del modo di comportarsi e nello stesso tempo di permettere   la “conduzione”, ossia il passaggio, attraverso il linguaggio) (rispetto il doppio significato che Maturana dà al significato di “condotta”, da lui intenzionalmente utilizzato così).

1° livello di coordinazione (così la definisco io)

 La proposta di un diverso contesto in cui esercitarsi a scrivere crea nuove possibilità nel relazionarsi con la scrittura, gli studenti partecipano con entusiasmo, dunque si sono coordinati;
2° livello di coordinazione

È già una coordinazione multipla, in quanto la si potrebbe immaginare come coordinazioni delle condotte che conducono ad altre coordinazioni, quelle tra loro e la scrittura, quelle tra loro e me, quelle esclusive tra loro e quelle tra me e la scrittura.

Che funzione ha il linguaggio?

Il linguaggio è un modo di fluire attraverso lo spazio di convivenza. Il linguaggio è dato da come propongo il laboratorio, linguaggio è il modo in cui gli studenti reagiscono; linguaggio è quando ridono collaborando insieme o quando litigano, linguaggio è il modo in cui esprimono le loro emozioni, è quando chiedono aiuto, è quando io leggo ad alta voce i loro componimenti. Linguaggio infine è anche la loro scrittura.

Possiamo considerare, poi, il duplice ruolo del linguaggio. Da una parte permette i legami sociali nel rispetto delle singole identità personali di ognuno, e dall’altra produce la dinamica ricorsiva della riflessione che amplia la prospettiva, consentendo di considerare l’altro non solo come diverso da sé, ma anche come colui che ti mostra un’altra visione del mondo che prima non avevi considerato.

Si attua così l’integrazione sociale e nello stesso tempo si creano mondi condivisibili.

Cos’è la conoscenza? Cos’è l’apprendimento?

Certamente attraverso questo laboratorio gli studenti hanno appreso maggiore interesse verso la scrittura, ne hanno scoperto aspetti per loro più interessanti, hanno acquisito più competenze, ed io ho imparato come stimolare in maggior misura le loro emozioni, in modo che la loro lingua sia più ricca nell’esprimerle.

Ma la conoscenza non si limita a questo, perché altrimenti si ridurrebbe a sterile esercizio scolastico.

 La coordinazione comportamentale ci ha aperto molti paesaggi, molti mondi che non conoscevamo neanche, non perché il linguaggio ci abbia permesso di dire forte chi siamo, ma perché siamo “emersi” nel linguaggio: immersi in un continuo mondo linguistico che abbiamo creato, fatto di sguardi, di gesti, di significati, di emozioni e di parole.

E questo linguaggio può rinnovarsi in altri contesti se ne saremo capaci e se lo vorremo, perché già ne abbiamo fatto esperienza. Questa è la conoscenza.

 

Bibliografia minima