Riflessioni Sistemiche n° 25


Maestri e mentori.
Visioni sistemiche attraverso le generazioni

Un ambiente in cui tutti imparavamo da tutti:
le JIES di Chamonix


di Nicoletta Lanciano


Dip. Di Matematica – Università di Roma “La Sapienza”
e Movimento di Cooperazione Educativa (MCE)
Mail: nicoletta.lanciano@uniroma1.it

Sommario
Ho individuato più che un maestro, per la mia formazione verso un pensiero maggiormente sistemico rispetto a quello della mia formazione iniziale, un ambiente che ho frequentato negli anni 1980 e 90, a Chamonix in Francia. Gli incontri annuali delle JIES erano situazioni di scambio e di crescita con ricercatori di diverse discipline scientifiche, ma anche pedagogiche e artistiche, legate alla medicina e alla comunicazione, alle tecniche e all’epistemologia, con i loro linguaggi e le loro domande. Una situazione che mi ha coinvolto come persona intera e che mi ha dato dei compagni di strada.


Parole ChiaveImparare da tutti, far nascere domande da domande, guardare con punti di vista diversi, affrontare i problemi del presente e del futuro.


Summary
I have identified an environment I had mixed with in Chamonix, France, in the ’80 and ‘90s, rather than a master for my training towards a more systemic thought, in comparison with my initial sudies. The annual meetings of JIES were opportunities for exchanging and growing with researchers in different scientific subjects, but also pedagogical and artistic ones, related to medicine and communication, to technics and epistemology, with their jargons and questions. This situation has enthralled me as a person and has given me some fellow travellers.

 

Keywords
Learning from everybody, rising questions from questions, looking through differnt points of view, facing present and future problems.

 

 

Verso una visione sistemica della scienza e dell’insegnamento 

Ho identificato come "guida" alla mia crescita verso una visione sistemica della scienza e della cultura una situazione, una "scuola", una comunità, un gruppo di riferimento costituito dai ricercatori, educatori, insegnanti, ma anche mediatori culturali e comunicatori della scienza, che negli anni 1980 e 90 incontravo alle Journées Internationales sur la Communication, l'Éducation et la Culture scientifiques, techniques et industrielles (JIES) a Chamonix, in Francia, ideate da André Giordan e Jean Louis Martinand. Era una situazione in cui tutti imparavamo da tutti e che è stata decisiva per me. E poiché si tratta di una comunità, e il valore di una pluralità di persone che si incontrano sta nel loro dialogo, che si è aperto allora e che con molti, sia italiani che stranieri, non si è mai interrotto, ho pensato di chiedere ad alcuni di loro qualche ricordo e riflessione sul senso di quell’esperienza che abbiamo condiviso, ricordi che citerò in seguito.

 

 

 

Il contesto delle Journées Internationales al Centro “Jean Franco” di Chamonix

 

Ci ritrovavamo ogni anno nello stesso periodo, spesso con la neve, in un paese per me amico e familiare, la Francia e la sua grande montagna, le pendici Nord del Monte Bianco.

Eravamo circa 80 ogni anno, di tante parti d’Europa e del mondo francofono in particolare, e in quell’occasione incontravamo tanti giovani studenti che facevano un dottorato in Francia o in Svizzera, provenienti dalle ex colonie francesi soprattutto dell’Africa: ricchezza e opportunità nuove e rare in quel tempo, per noi.

Alle JIES si creava una situazione molto semplice sul piano sociale, multilingue e amicale. Si parlava soprattutto il francese, una lingua per me amica, ma una lingua che ognuno parlava come poteva – anche canadesi, svizzeri, belgi e francesi parlavano in modi diversi! - e tutti ci sforzavamo per esprimerci e per capirci davvero in profondità, senza accontentarsi di capire “così e così”. Era una situazione divertente dove le persone intere erano importanti, con i loro pensieri ma anche con i loro corpi, dove si mangiava e si beveva bene e insieme in lunghe tavolate. Era molto importante l’unità di luogo dell’incontro, per abitare e per lavorare: un Centro, le Centre Jean Franco, del ministero dell’istruzione francese, una sorta di casa vacanze per insegnanti, tipo una pensione senza grandi pretese, che aveva le stanze per dormire ai piani superiori, quasi tutte a più letti, e a piano terra sale di diversa misura per fare le comunicazioni e gli atelier, dei salottini, una palestra dove si mettevano le mostre, il bar, la sala dove la sera si cantava e si ballava, un grande auditorium e un bel giardino. Il personale di cucina e di ricezione diceva che era una festa quando c’erano le JIES: noi eravamo socievoli, contenti di ritrovarci e tendevamo a non lamentarci. Loro ci aiutavano con passeggini e seggioloni per i bambini piccoli, spengevano le luci quando volevamo guardare le stelle, si ricordavano di qualche richiesta speciale da un anno all’altro, ci chiedevano notizie di qualcuno che non era presente.

 

Nella didattica delle discipline una peculiarità è far dialogare le scienze relative all’oggetto di studio (scienze fondamentali, epistemologia, storia delle scienze…) con le scienze relative a chi apprende (modi dell’apprendimento e dello sviluppo, interazioni sociali…). Infatti, a Chamonix le persone presenti erano dei settori più diversi e c’era chi proponeva speculazioni su settori d’avanguardia di una scienza sperimentale, o chi chiedeva di discutere un frammento di tesi di dottorato ancora acerbo: questo crogiolo ci portava ad una ginnastica mentale assai formativa. Non tutti, in questo contesto, molto meno formale di quello di un convegno scientifico classico, si trovavano a loro agio, e magari non tornavano più. Ricordo, senza particolare sofferenza ma con qualche preoccupazione, che i matematici erano assai pochi. Come se ci fossero meno persone in quell’ambito (io sono laureata in matematica) disponibili a mettersi in gioco nel confronto con altri o a incontrare scienze della natura e delle applicazioni, o a incontrare mondi diversi e linguaggi diversi.

Grande e attuale era l’attenzione ai rapporti tra scienze, società e ambiente, e soprattutto alle nuove domande che questi rapporti ponevano, con uno sguardo al presente, con le sue sfide e le questioni impellenti, uno al passato e alla variegata storia delle scienze con le sue dispute, che qualcuno metteva in teatro, seriamente e allegramente al tempo stesso, ma soprattutto con grande attenzione al futuro e quindi agli allievi, abitanti del mondo di domani, a cui era destinata la nostra ricerca educativa.

In quel periodo i francesi e gli svizzeri erano molto avanti nella ricerca, avevano gli INRP per la formazione degli insegnanti, che come scrive Silvia Caravita erano una istituzione nazionale, che permetteva la sistematica interazione tra ricercatori e insegnanti, in servizio e in formazione, con l’obbiettivo di produrre una scuola capace di riflettere sulle sue pratiche, una ricerca attenta ai cambiamenti della società e capace di incidere sulla qualità dell’insegnamento in situazioni territoriali diverse. In Italia istituzioni scientifiche con queste caratteristiche mancavano e già avevo sperimentato la difficoltà di perseguire i miei interessi non volendo condurre ricerche confinata in ambienti sperimentali accademici. In Francia e in Svizzera avevano tante riviste dedicate alla ricerca didattica e una gran produzione di testi pertinenti alle nostre tematiche e una editoria scolastica a tutti i livelli dalla scuola dell’infanzia, legati ai risultati della ricerca.

 

Soprattutto cambiava in quel tempo la visione delle conoscenze spontanee o di senso comune, e di conseguenza la visione dell’errore che diventava oggetto di grande attenzione e non come qualcosa da evitare, valutare, eliminare. Mentre in ambito anglofono si parlava di miss-concezioni con evidente accezione negativa, André Giordan parlava invece di concezioni iniziali di chi apprende: concezioni comunque, dunque strutture complesse portatrici di pensiero, conoscenze, immagini, esperienze ed emozioni. Concezioni iniziali, concezioni ostacolo, evoluzione delle concezioni sono state la base fertile di molte ricerche condivise nell’ambito  delle scienze.

 

  

I protagonisti 

Sono arrivata alle JIES attraverso gli amici e colleghi, universitari e insegnanti, del Laboratorio di Didattica delle Scienze della Facoltà di Scienze dell’Università di Roma “La Sapienza”. Chamonix è stato anche il luogo dove sono nate amicizie-professionali che durano ancora ad esempio con Claudio Longo ed Enrica Giordano di Milano e con Silvia Caravita di Roma, con cui riconoscevamo di condividere un certo spirito etico e politico del lavoro educativo.

A mia volta ho condiviso alcune volte la partecipazione alle Journées con gli amici del Gruppo di ricerca sulla pedagogia del cielo del MCE: con Teodora, con Rita, con Franco con cui abbiamo invitato poi alcuni ricercatori a venire in Italia. Con loro ho presentato i nostri laboratori intorno alla ricerca sullo stare nella natura e al rapporto con il cielo e l’astronomia.

André Giordan e Jean Louis Martinand, un biologo e un fisico, erano capaci di valorizzare e mettere in comunicazione persone che vedevano simili o interessate a questioni simili, creavano ponti. Ascoltavano tutti, durante le comunicazioni e al bar del Centro erano sempre ricercati per discutere con qualcuno e si preoccupavano moltissimo dei loro dottorandi di tutte le età, paesi, interessi disciplinari, modalità di lavoro fantasiose, alle quali contribuivano a dare rigore e senso.

André Giordan mi colpiva per la sua arte nel porre domande senza fine, nell’insegnare a porsi domande, a non essere apodittici, a pensare che qualcuno potrebbe avere altri punti di vista, ad esempio con il paradigma di altre discipline, o di altre esperienze contrarie alle mie (genitore - figlio), o perché proviene da un altro paese o ceto sociale o disabilità. Con lui qualsiasi affermazione era messa in discussione con un sorriso, come a dire “neanche questa volta è così e basta!”. In seguito, ho capito che mi portava verso una complessità che non respiravo ancora in Italia nella didattica della matematica, ma di cui sentivo parlare tra gli ambientalisti e gli epistemologi. Quello che poi ho chiamato con i miei studenti universitari e gli insegnanti in formazione “il metodo indiziario”, nasceva in quegli scambi in cui non si temeva di salutarsi con più domande di quante se ne erano portate arrivando, in cui era lecito rispondere “non lo so, non lo sappiamo”, in cui le domande sapevano aspettare le risposte anche da un anno all’altro.  Nel settembre 1986 André, in Spagna, ad un altro convegno dove eravamo entrambi ospiti, mi propose di fare una Tesi di Dottorato con lui sulle mie ricerche. In Italia non si parlava di Dottorato per la Didattica delle discipline scientifiche e inoltre un Dottorato preso in Svizzera, che non era nell’Europa, dal punto di vista burocratico e di carriera, sapevo che non mi sarebbe stato riconosciuto; in realtà, in seguito, mi è servito, anche sul piano pratico, per essere chiamata ad insegnare “Didattica delle scienze” in un corso di laurea di carattere pedagogico. Ma l’idea mi stuzzicava e sotto la guida di André ho valorizzato e imparato a guardare con occhi nuovi, critici e autocritici, molto sinceri e onesti, il mio lavoro e anche a dare continuità ad esperienze e attività che erano frammentarie e di cui non sempre sapevamo leggere gli aspetti impliciti, dunque poco trasmissibili ad altri. Il lavoro sul campo durò 5 anni con osservazioni nelle 5 classi elementari della scuola di Via Bosio a Chieti Scalo dove mi recavo 3-4 giorni ogni mese, e dove entravo nelle classi delle insegnanti che appartenevano al MCE; nel pomeriggio riflettevamo tra adulte e il mio ruolo era di formatrice tra pari. La mia tesi in Sciences de l’Education, alla Faculté de Psychologie et des Sciences de l’Education, all’Università di Ginevra, ebbe il titolo “L’analisi delle concezioni e l’osservazione in classe: strumenti per la definizione degli obiettivi educativi e delle strategie pedagogiche per l’insegnamento dell’Astronomia nella scuola elementare in Italia”.

André Giordan aveva citato, come esempio in un suo libro, un mio lavoro, oggetto della Mémoire della tesi di dottorato, poco dopo averlo letto, mostrandomi la fiducia che aveva nella bontà del mio pensiero, che aveva apprezzato e che valeva la pena menzionare. In seguito, ha appoggiato il nostro Progetto Globolocal, di diffusione del mappamondo parallelo, un mappamondo democratico utile per insegnare l’astronomia e per dare la stessa dignità a tutti popoli della Terra con la propria diversa situazione geografica. Recentemente mi ha coinvolto nella scrittura di un testo collettivo che ha curato con Maridjo Graner, dal titolo Apprendre par l’erreur.  

 

Raul Gagliardi era un omone poco più grande di me per età, scappato dall’Argentina durante la dittatura e sbarcato a Ginevra per caso. Era di origine italiana e veniva volentieri a trovarci. E’ rimasta nel lessico familiare degli amici del MCE, con cui lavoravamo presso la Casa Laboratorio di Cenci in Umbria, la sua spiegazione dell’autopoiesi che ci diede mentre cucinavamo: “vedete questi pomodori e questo olio che sono sempre gli stessi si trasformeranno in muscoli, sangue … umani quando li mangeremo noi, ma si trasformerebbero in muscoli e sangue di gatto se li mangiasse un gatto…insomma ognuno di noi viventi è capace di trasformare in “sé stesso” di “auto farsi” attraverso ciò di cui si nutre, che respira e beve”. Imparavamo a turno a guardare ogni cosa da punti di vista complementari, e a stupirci di relazioni ignorate fino a quel momento.

Degli amici spagnoli ricordo in particolare Daniel Gil Pérez e Carles Furiò Mas, di Valencia, che erano molto impegnati nel rapporto tra scienza e ambiente, tra educazione e lotta politica per i diritti umani; i loro temi erano la alfabetizzazione scientifica e l’educazione per la sostenibilità, con un’attenzione particolare al futuro. Univano l’attenzione per le scienze sperimentali a quella per le scienze sociali e si occupavano di “Desafíos y utopías socioambientales”. Mi invitarono in un Tribunal de Tesis di Dottorato a Valencia in un momento drammatico, in cui in Europa c’erano molte manifestazioni per la pace: ricordo la loro gioia nell’accogliere la bandiera colorata della Pace che avevo portato in regalo e che sventolava dalle finestre dell’Università di Valencia, in contemporaneità con tante altre piazze d’Europa.

 

 

Qualche situazione 

Una volta per introdurre la tematica e la problematica dell’educazione sessuale (eravamo negli anni in cui imperversava l’AIDS), tabù nelle scuole di un paese cattolico come l’Italia, nell’anfiteatro dove ci trovavamo tutti riuniti per una plenaria, venne lanciata dal palco una pioggia di preservativi, di tutte le forme e i colori. Eravamo invitati a raccoglierli e poi aprirli e toccarli, tutti insieme, come esempio di azione didattica tesa ad affrontare pudori e vergogne, a confrontarsi tra maschi e femmine seduti vicini nella sala, a guardarli, annusarli…a familiarizzare con un oggetto utile, necessario, importante da

presentare agli allievi. Era quello sperimentare su di sé, come persone, azioni e reazioni,

spesso insospettate, per poter poi proporre in classe in modo più consapevole, come insegnanti; era, questa, una pratica molto utilizzata e condivisa anche nei laboratori adulti del MCE.

Una volta, nella sala “Biblioteca” notai la presenza di un libro “Maitresse c’est quoi la mort?” che rompeva un altro tabù, quello legato all’esperienza della morte e alle emozioni che il tema porta con sé, che rivelava l’interesse dei bambini piccoli per le cose vere della vita, interesse che chiedeva ascolto da parte dell’adulto, accoglienza delle domande dirette che i bambini fanno e rispetto alle quali si aspettano di essere presi sul serio.

Su questo e altri temi fondanti, ha agito su di me la ricchezza del dialogo con due anziani belgi, di cui uno fisico, che si occupavano di formare i neogenitori, e che ci portarono a conoscere il lavoro di osservazione dei bambini piccolissimi della pediatra ungherese Emmi Pikler che aveva fondato la scuola Lóczy a Budapest, e i cui libri erano tradotti in italiano da Emanuela Cocever.

Ricordo i libri di matematica con i fumetti di Jean Pierre Petit che portai a Roma alla mia insegnante Emma Castelnuovo, aperta a tutte le novità e felice di ricevere dai suoi allievi, quale ero io, delle suggestioni raccolte in giro per il mondo.

Tra i gruppi che lavoravano anche sul territorio, fuori dall’istituzione scuola, ricordo l’incontro con simili ma diversi da noi, de Les mains à la pâte, e con un gruppo di ricercatori che avevano sperimentato, in ospedali di lungo degenti e malati terminali, i benefici del prendersi collettivamente cura di un orto e di un giardino: forse erano in Canada quei primi esperimenti, e i vantaggi raccontati da medici, da altro personale sanitario e di supporto psicologico negli ospedali; mi apparvero come una di quelle buone pratiche che era auspicabile diffondere immediatamente e il più possibile. Non si trattava di botanica, agraria o di architettura di giardini, ma di collaborazione di questi saperi per un futuro migliore per molti.

Usavamo nelle comunicazioni generali, e in quelle in piccoli gruppi, gli spazi interni del Centro, ma abitavamo anche molto il giardino: qui un anno feci l’istallazione della mia “eclisse in scala” su un rettilineo di circa 100 metri, che si conquistò l’interesse, la partecipazione e lo stupore di adulti e bambini messi insieme a lavorare; l’esperienza fu poi replicata (un po' a mia insaputa…ma succede anche nelle migliori famiglie!) a Ginevra sulle sponde del Lac Léman in scala molto maggiore; da qui una volta, facemmo alzare una miriade di palloncini bianchi con bigliettini scritti da ciascuno nella sua lingua, con un messaggio positivo di cui non ricordo la tematica, indirizzati a tutti e tutte.

E poi, una guida alpina ci raccontò la storia delle prime salite al Monte Bianco, di quanto furono interessati e pionieri in ciò gli scienziati della meteorologia e dell’atmosfera, mentre i locali, i montanari delle valli, iniziarono a percorrere la montagna solo più tardi, al seguito di turisti fruitori della montagna per diletto.  

Questi particolari forse fanno cogliere anche l’ampiezza della concezione di scienze e di

 

tecniche che era presente nelle JIES. Ricordo anche la generosità dell’offrire ad altri i

propri risultati, le proprie piste di ricerca, le proprie domande ed inquietudini, e oggetti – modelli – strumenti – ma anche costumi teatrali, assai ingombranti, trasportati da lontano, che qualcuno voleva condividere e difficili da dimenticare: ben altra cosa che le minuscole e poco evocative pendrive!

 

 

La condivisione delle riflessioni amplia il senso di quella comunità 

L’amico biologo Claudio Longo, anche lui presente all’incontro del 1990, ricordava di aver preso appunti. Eccone degli stralci, delle piccole schegge.

Riporto alcune frasi staccate, colte da questo caos. Queste prime in francese – scusate – per conservarne meglio il sapore:

- un hasard salvateur / Je vois dans vos yeux l’imaginaire debordant / l’imaginaire n’est autre que le réel mais un réel légérment decalé

- le plus grand imaginaire dans la science: la science est rationelle. Un savoir sans illusions c’est une illusion pure

- L’homme de laboratoire ne considère plus son laboratoire comme sa maison, son grenier, sa cave; il en est émotionellement detaché

- le leggi non sono leggi se non vengono violate di tanto in tanto

- preconcetti degli allievi ma anche degli insegnanti. Bisognerebbe far ricerca su quelli degli insegnanti

- ottenere spazio libero per attività creative, sbranando il programma, forzandolo con le unghie. Forzare questo tempo imbottito. Per far crescere il pensiero divergente occorre molto tempo.

- Rappresentazione dell’universo in una miniatura medievale. Città murata divisa in settori con la chiesa al centro: simbolo della Terra. Sopra, il mondo celeste con angeli e beati. Ma intorno alla città corre un fossato e subito fuori c’è un girotondo di diavoli. (FIG 1)

- A 5 anni i bambini dicono “parola complicata” (quella che non comprendono), più tardi dicono: “parola scientifica”

- Conferenza sul cervello e le sue funzioni. Il pubblico chiedeva “i sogni” Gli scienziati offrivano “l’olfatto” che per il pubblico aveva poco interesse. Alle domande che più interessavano il pubblico, per esempio “il cervello è differente nella donna e nell’uomo?” la risposta era sempre la stessa “Sono problemi secondari e delicati”

 

Così ripensa l’esperienza delle JIES Silvia Caravita, anche lei biologa:

… Mi ero inserita nel gruppo di lavoro coordinato da Francesco Tonucci, cominciando a osservare i processi cognitivi e sociali che si svolgono all’interno della classe e nell’istituzione scolastica… cominciai a mettere a fuoco problemi più specifici connessi con la costruzione di conoscenze e pensiero scientifico durante i primi anni della scolarizzazione quando le scienze sono soprattutto quelle biologiche e naturali.

Anche grazie ai contatti con i colleghi incontrati alle Journées entrarono a far parte dei miei strumenti professionali il concetto e il metodo della ricerca-azione, la raccolta di documentazione di tipo etnografico, l’analisi e interpretazione partecipata di questa, la concezione non lineare dei processi di apprendimento. A Chamonix ho provato la gioia di trovare tanta convergenza di interessi sui temi che avevano cominciato ad appassionarmi e su cui neppure ora ho smesso di pensare: le relazioni tra uso di linguaggi per comunicare la conoscenza e costruzione (dinamica) di rappresentazioni della realtà; le relazioni tra esperienze in un contesto definito (fisico e sociale), modi di guardare la realtà attivati da questo e processi di cambiamento delle rappresentazioni.

Nell’entusiasmo di avere trovato tanta risonanza di idee e un clima rilassato ebbi perfino il coraggio, e la cosa mi sorprende ancora, di fare in francese la presentazione di un mio studio analitico sulla discussione in classe pur non avendo alcuna conoscenza scolastica di questa lingua!

Notai la differenza tra altri convegni e le Journèes: queste mi apparivano come la continuazione di momenti di lavoro e di crescita attraverso scambi allargati anche ad una comunità un poco più esterna. Il tipo di problemi indagati, le osservazioni e interpretazioni presentate, le discussioni anche teoriche mantenevano una aderenza alle realtà dei contesti scolastici e proprio per questo erano stimolanti. Ciò che sfida davvero la ricerca è la resistenza alla sperimentazione di nuove idee, opposta da contesti autentici e complessi.

Gratitudine e amicizia mi legano ancora ai tanti colleghi con i quali ho interagito in modo stimolante e piacevole.

 

Quello stupore che ancora oggi ricorda Silvia nello scrivere di quando fece un intervento in francese, lingua che non aveva studiato a scuola, racconta del clima aperto e dell’interesse nell’essenza della comunicazione, dello sforzo condiviso e conosciuto da molti, per trovare le parole giuste per capirsi, e della conoscenza diretta del problema dell’esprimersi in una lingua diversa dalla propria. Questa difficoltà l’avevano a volte gli italiani e gli spagnoli ma anche tutte quelle persone, tra cui i giovani dottorandi provenienti dai paesi africani, che avevano lingue madri assai diverse, per struttura, etimologie, e a cui mancavano tanti vocaboli. Il clima era disteso, e si rideva degli errori che a volte diventavano “lessico familiare” come quando Giuseppe, un italiano del mio gruppo del LdS, parlò della ricerca sulla gravità sul nostro pianeta sferico attraverso una domanda su “le buche (letto le busc) de la Terre” che nel suo francese indicava il “buco nella Terra”.

Anne- Nelly Perret-Clérmont, che incontravamo alle JIES di Chamonix, scrive oggi: “tra le priorità nella preparazione educativa della prossima generazione è necessario promuovere la cooperazione, l’aiuto reciproco e la solidarietà come valori essenziali e che vivere insieme richiede una formazione al dialogo interculturale e di scoprire come imparare ad adoperare una lingua straniera anche conoscendo solo poche parole”;  condivido con lei questa responsabilità educativa rispetto ad un plurilinguismo, che non vuol dire inglesizzazione del linguaggio, ma apertura mentale e disponibilità a sforzarsi di capire gli altri che hanno diritto al riconoscimento della dignità della loro lingua madre. La salvaguardia e la sopravvivenza della molteplicità delle lingue, anche minoritarie come la LIS (Lingua Italiana dei Segni e tutte le lingue dei segni in tutte le lingue) va nella direzione della non omologazione, della pluralità di espressioni e del non perdere questo patrimonio intangibile. Come per le specie animali e vegetali, è vitale non perdere le lingue; questo si fa evitando di ridurre la comunicazione tra molti ad una sola lingua, espressione di potere e di una visione miope sul piano culturale e spesso violenta sul piano etico. Anche questa problematica e salvaguardia della bio-diversità e della salvaguardia della molteplicità delle lingue, è uno degli insegnamenti e delle attenzioni che mi derivano dalle “lontane nel tempo” Journées di Chamonix.

 

 

Appendice 1 

Gli Atti delle 31 edizioni delle JIES, dal 1979  al 2013, si trovano in http://artheque.ens-cachan.fr/items/browse/2?collection=5.  Cito la tematica di qualche edizione:

 

I temi delle mie comunicazioni e atelier sono stati i seguenti:

 

 

Appendice 2

 

André Giordan

http://www.andregiordan.com/biblio.html http://www.andregiordan.com/

è noto soprattutto per i suoi studi sulle concezioni di chi apprende e sull'appropriazione della conoscenza nei campi della scienza, della tecnologia, dell'ambiente e della salute. Ha sviluppato un modello di apprendimento chiamato modello di apprendimento allostérique e ha sviluppato strumenti per la formazione di insegnanti, mediatori, giornalisti scientifici, ingegneri, infermieri e medici. Per promuovere questo campo di indagine, ha fondato le Giornate Internazionali sulla Comunicazione l’Educazione e la cultura Scientifica e Industriale.

 

 

Bibliografia