Riflessioni Sistemiche n° 25


Maestri e mentori.
Visioni sistemiche attraverso le generazioni

La composizione:
l’educazione degli adulti come arte


di Silvia Luraschi


PhD in Scienze della Formazione, Pedagogista, counselor e Insegnante di Metodo Feldenkrais

Laura Formenti, Ma Mort dialogo con Marino Formenti, PianoSofia, Milano 24 settembre 2021
(PH Alfredo Di Pietro)

Sommario
L’articolo descrive l’importanza del ruolo del mentore nella biografia incorporata e professionale dell’autrice. Lo scritto evidenzia come il mentore abbia avuto un ruolo cruciale nel farle apprendere l’approccio sistemico attraverso una serie di esperienze di ricerca cooperativa e di pratiche estetiche seguendo il metodo com-posizionale nell’ambito dell’educazione degli adulti.


Parole chiave
Ricerca cooperativa e art-based, metodo composizionale, educazione degli adulti


Summary
The article describes the importance of the mentor's role in the author's built-in and professional biography. The paper highlights how the mentor played a crucial role in making her learn the systemic approach through a series of cooperative research experiences and aesthetic practices following the compositional method in the field of adult education.


Keywords
Cooperative & art-based research, compositional method, adult education


 

Diventare co-ricercatrici

Every human being is an artist

(Ogni essere umano è un artista)

Joseph Beuys

 

 

Ascoltare Laura leggere frammenti di Dove gli angeli esitano (Bateson & Bateson, 1989), tra un brano musicale e un altro suonato al pianoforte da suo fratello Marino, è stata un’emozione che rimarrà impressa nella mia memoria. La composizione tra vibrazioni sonore e risonanze biografiche mi ha fatto sentire come “docile fibra dell’universo” (Ungaretti, 1916) toccandomi dentro. La musica, infatti, così come la voce sono in grado di toccarci. Certamente questa emozione è stata generata da un intreccio di relazioni in quanto, come continua a insegnarci Gregory Bateson attraverso i suoi scritti, “la relazione viene prima, precede” (Bateson, 1984, p. 179). Infatti, Laura, che possiamo definire il mio mentore, è primariamente una donna a cui voglio molto bene e Marino, che ho avuto modo di conoscere proprio in qualità di suo fratello, è un’artista che ammiro per l’originalità del suo lavoro, che supera i confini del concerto tradizionale ingaggiando gli spettatori a prendere parte in vari modi alle sue performance (Formenti, Luraschi & Del Negro, 2022).

Scrivo in prima persona per raccontare che cosa sento riguardando una delle fotografie che ritrae Laura Formenti (Figura 1, qui sopra) alla seconda edizione del “Festival PianoSofia” (https://www.pianosofia.it) nella serata dedicata al dialogo tra una sorella, studiosa di sistemi complessi, e un fratello, pianista e compositore. Per riflettere sulla mia relazione con il mentore, parto dalla memoria del corpo, o meglio da un’emozione che sento attivarsi in esso nell’atto di riguardare una fotografia come oggetto evocativo (Bollas, 2009), perché ritengo possa rappresentare la complessità di relazioni di relazioni (Bateson, 1984) che grazie, e insieme a Laura, ho imparato a riconoscere. Ecco come lei descrive questa esperienza di formazione allo sguardo:

 

Mi rivolgo spesso al lavoro delle fotografie, perché sono ancora misconosciute nonostante la loro incredibile attività e originalità di sguardo (Leonardi, 2001). Con un gruppo internazionale di accademiche, educatrici, artiste e curatrici (Sanford et al., 2020) sperimento pratiche di pedagogia femminista, che interrogano le immagini e le scelte di contesto: come sono esposte, quali didascalie le accompagnano, quali storie sono rappresentate, e così via. Nel far convergere gli sguardi su una fotografia, chiedo: Che cosa vedi? (Formenti & West, 2018, pp. 27-33). Sembra banale, ma è il primo passo per ascoltare davvero. Ciascuno vede qualcosa di diverso e dentro questo vedere c’è un mondo soggettivo di esperienze e idee. […]

Ho imparato che la fotografia è una miniera inesauribile di spunti critici, che mostra i dilemmi della società rivelando l’assurdo che è nel mondo, e nella vita umana, ma anche la sua bellezza.” (Formenti, 2021, pp. 69-70)

 

Queste pratiche di ricerca-formazione-intervento attraverso le fotografie sono forse le più efficaci a rappresentare l’epistemologia profondamente sistemica che ho imparato lavorando insieme al mio mentore perché in queste attività laboratoriali “la foto non è né oggetto né prodotto della formazione, ma ingrediente di una ricerca collettiva” (Formenti, 2021, pag. 69). Una ricerca collettiva che mi coinvolge con tutto il corpo da quasi quindici anni, nella quale ho avuto modo di esplorare molteplici pratiche corporee, estetiche e artistiche. In particolare, riguardare la foto di Laura con il microfono in mano significa per me sentirne la voce, una voce che rievoca in me le nostre esplorazioni con il respiro e il canto. Infatti, durante i miei anni di dottorato (dal 2014 al 2017), nei quali lei aveva nei miei confronti il doppio ruolo di tutor di dottorato e direttrice del corso di dottorato in Scienze della Formazione e Comunicazione dell’Università degli Studi di Milano Bicocca che frequentavo, avevo preso l’abitudine a trascorrere del tempo nel suo ufficio per studiare dove c’era, e c’è, una scrivania a disposizione per i suoi collaboratori e collaboratrici. L’azione di entrare in ufficio, che rappresentava per me uno spazio tranquillo, mi permise di rendermi conto che sovente, quando percorrevo il corridoio per arrivare a toccare la maniglia per aprirne la porta, mi ritrovavo in apnea. Tale sensazione di mancanza di respiro mi portò con il tempo a interrogarmi sulla mia postura di dottoranda e a iniziare una conversazione che poi si trasformò in una pratica di ricerca condivisa sul tema del respiro a partire dalla sensazione di non respirare che anche lei, mi raccontò una volta nel suo ufficio, avvertiva da qualche anno. Fu proprio durante una conversazione informale nel suo ufficio che decidemmo di legittimare queste nostre sensazioni di disagio e d’interrogarle sperimentandoci insieme, a partire da due diverse prospettive, nel metodo qualitativo e dialogico chiamato Duoethnography (Norris et al., 2012; Sawyer & Norris, 2013). Per circa due anni dedicammo parte del nostro tempo a cercare di comprendere e decostruire la domanda: come respiriamo nell’ambito formativo e accademico? Ecco come Laura descrive, dalla sua prospettiva biografica, il punto d’inizio di questa nostra avventura:

 

Subito dopo il dottorato, ho iniziato una collaborazione con un collega (Ivano Gamelli, insegnante di yoga ed esperto di teatro, ora studioso di Pedagogia del Corpo). Organizzavamo workshop mirati alla connessione corpo e parole nell'insegnamento e nella formazione nei quali invitavamo i partecipanti a muoversi, ballare, respirare, leggere, cantare, disegnare…e raccontare (oltre a scrivere) storie legate a queste esperienze. Ho imparato molto in quegli anni sul corpo, il movimento, i linguaggi estetici, essendo io stesso una praticante.

Abbiamo anche pubblicato articoli e libri su quelle esperienze (Formenti & Gamelli, 1998). Ma quando siamo diventati membri del dipartimento, avevamo bisogno di pubblicare più testi accademici, e c'è stata per me una scissione. Fuori dall'università ho continuato a esplorare: dal teatro, al canto, alla danza mediorientale, il disegno e, più recentemente, alla meditazione. All'interno dell'università, invece sono stata investita dalle convenzioni accademiche, e sono stata assorbito dall'insegnamento, dalla scrittura e dalle riunioni!

(Formenti, 2017, in Formenti e Luraschi, pag. 312, mia traduzione)

 

Un’avventura che ci ha permesso di conoscerci al di là delle convenzioni accademiche e più in generale delle pratiche educative e formative, che generalmente dimenticano il corpo (Gamelli, 2011; Gamelli & Mirabelli, 2019; Luraschi, 2021), partendo dall’idea batesoniana dell’interdipendenza che supera le contrapposizioni dualistiche tradizionali di mente vs corpo, io vs tu, individuo vs società, ecc. per esplorare “quale struttura connette” (Bateson, 1984, pag. 21) tutte le creature.  

Dal punto di vista pedagogico, partire dalla “struttura che connette” (Bateson, 1984, pag. 25) per fare ricerca significa “porre la vita a grandi caratteri in primo piano. Questo non solo in termini esistenziali o di progettualità, ma proprio a partire dalla sua accezione biologico-naturale.” (Demozzi, 2011, pag. 169). In altre parole, insieme a Laura ho imparato, e continuo ad imparare, a muovermi in direzione dell’ecologia della mente, e a fare ricerca pensando alla vita e agendola allo stesso tempo, ovvero sperimentando “l’estetica dell’essere vivi” (Conserva, 1996, pag.113) attraverso pratiche partecipative e differenti linguaggi artistici, corporei ed estetici (Luraschi & Formenti, 2016).

 

 

Il dis/orientamento come apertura di possibilità 

Come ho conosciuto il mio mentore? Come ha avuto un ruolo importante nel far proprio l’approccio sistemico? Se nelle pagine precedenti sono partita da un ricordo evocativo per raccontarvi cosa Laura rappresenti per me, in questo invece proverò a fare un salto indietro nel tempo per raccontarvi il nostro incontro e, soprattutto, la sua continua ricerca in chiave sistemica e collaborativa. Ai tempi dell’università ero una studentessa magistrale in Scienze Pedagogiche non frequentante, lavoratrice in ambito educativo, first-generation (Romito, 2021) poiché ero la prima in famiglia a frequentare l’università e “non tradizionale” (Galimberti, 2018) visto che ero rientrata in formazione dopo una prima rinuncia agli studi universitari e un percorso scolastico precedente travagliato anche, forse, per una mancata diagnosi di disturbi dell’apprendimento. L’esperienza universitaria, le poche volte che riuscivo a frequentarla, era qualcosa di sempre nuovo e disorientante. Ogni volta che entravo nell’edificio chiamato U6 dove si svolgevano generalmente le lezioni e gli esami, per esempio, mi ritrovavo lì dentro, in uno dei ventuno edifici a forma di cubo tutti squadrati e apparentemente identici in mattone rosso progettati alla fine degli anni Novanta dall’architetto Vittorio Gregotti, sempre a sentirmi un pesce fuor d’acqua. Una sensazione di disorientamento che mi ha accompagnato per molti anni anche quando, scoperta per caso la possibilità di svolgere il tirocinio obbligatorio in un Servizio d’Orientamento sotto la supervisione scientifica di Laura e formata all’attività, conducevo laboratori d’orientamento di peer-guidance (Formenti & Vitale, 2016) rivolti a studenti e studentesse, che desideravano iscriversi o già iscritti, per riflettere e discutere in gruppo sulla scelta del percorso di studi e professionale (Formenti et al., 2015). Ecco come raccontavo in quegli anni la mia esperienza all’interno del servizio d’orientamento “Parliamone”:

 

Accogliere l’incertezza come vincolo inevitabile, da una parte, e come garante di possibilità (Ceruti, 1986) dall’altra, costituisce un passo decisivo per l’orientatore universitario che si trova per necessità a “educare all’incertezza” (Formenti, 2009). L’orizzonte disorientato mi ha portato in qualità di studentessa “orientatore” a ipotizzare, per analogia, il possibile disagio dei partecipanti […]. Davanti all’ingresso in università i “futuri” consulenti in-esperti si avvicinano al tema dell’orientamento alla scelta del percorso universitario, con un misto di dubbi e d’incertezze, per incontrare i futuri studenti che sembrano esitare. L’immagine del “mettere piede” è una delle metafore frequentemente evocate in orientamento. […] Ecco cosa racconta Damiana una futura matricola durante un open day:

«All’alba ho fatto colazione con il solito latte e biscotti, compagni di tante mattine. Mentre mangiavo pensavo con nostalgia che oggi non avrei percorso la solita strada verso la vecchia scuola. Strano, è la vita che va avanti, ma io non so dove sto andando. Poi ho preso il treno e sono arrivata in università per la prima volta. Qui gli edifici sono enormi e io, lì nel mezzo, mi sono sentita piccola. Mentre camminavo ho provato un senso di vertigini. Ho fatto il primo passo con i piedi pesanti.»

[…] La studentessa con la sua esitazione e le sue vertigini pare rievocare il senso del sacro di cui lo stesso Bateson aveva molto rispetto poiché si trova là Dove gli angeli esitano (Bateson & Bateson, 1989). […] Il disorientamento appare all’inizio di un percorso come un momento di attesa e di sospensione che, pur aprendo a qualcosa di sconosciuto e indefinito, può essere vissuto sia con timore, ma anche con curiosità.

(Luraschi, 2013, estratto dal capitolo di un libro rimasto inedito a curatela di Alessia Vitale, allora coordinatrice di “Parliamone”)

 

Dal racconto emerge implicitamente che l’esperienza di tirocinio ha coinciso per me non solo con l’incontro con Laura, sotto la quale direzione scientifica e supervisione si svolgevano le attività del servizio, ma anche con il pensiero di Gregory Bateson. In realtà, già anni prima, nel mio percorso universitario triennale in Scienze dell’Educazione, avevo precedentemente incontrato Laura studiando i suoi testi per sostenere l’esame del corso di Pedagogia della Famiglia, ma di quegli anni non ricordo molto. Solo che, particolare per altro non irrilevante, il giorno dell’esame, che avevo sostenuto con un suo collaboratore, al momento di registrare il voto sul mio libretto mi aveva sorriso e chiesto con curiosità che cosa facessi nella vita. Ma è stato anni dopo che l’esperienza avvincente in “Parliamone” poi rinominato in LAB’O (Laboratori di Orientamento dell'Ateneo Bicocca) proprio per segnalare “una postura di reciproco apprendimento” (Vitale, 2016, pag. 187) nell’allestire “laboratori esperienziali e riflessivi” (Vitale, 2016, pag. 191) dove “i partecipanti erano invitati a parlare, scrivere, disegnare” (Vitale, 2016, pag. 187) per “vivere un’esperienza plurisensoriale” (Vitale, 2016, pag. 191), m’invitò ad avvicinarmi ai testi di Gregory Bateson e, in particolare, a Dove gli angeli esistano (Bateson & Bateson, 1989) che Laura mi suggerì di leggere per iniziare a pensare alla mia tesi di laurea magistrale. La lettura e la scrittura di quella tesi, dedicata a esplorare il “dis-orientamento come momento sacro nei processi d’orientamento tra la vita e la formazione” (Luraschi, 2013b), mi permisero di accettare il mio senso di disagio nei confronti del mondo accademico e più in generale di provare ad accogliere l’incertezza come tratto permanente di me, degli altri e del mondo per imparare a “apprendere a navigare in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze” (Morin, 2001, pag. 14). Ciò nella pratica significò per me comporre il mio timore, le mie paure, con la curiosità per l’inedito e l’inatteso, il piacere per la ricerca e la bellezza dell’esplorazione imparando che orientamento e disorientamento stanno insieme come dimensioni interagenti in un sistema complesso costituito da processi “orientamento disorientante e disorientamento orientante” (Formenti et al., 2017) che coinvolgono l’individuo e il sistema più ampio nel quale vive.

A mio parere, da questa mia trasformazione personale è possibile intravvedere la straordinaria originalità e forza innovatrice di Laura nel coinvolgere un gruppo di giovani studenti e ricercatori per sperimentare insieme, come le teorie sistemiche e della complessità potessero fornire una nuova visione dell’orientamento capace di superare le visioni tradizionali, oggi ancora imperanti, dell’orientamento come processo lineare di fornire informazioni e del paradigma dell’orientamento come problema da risolvere attraverso processi di accompagnamento, guidance e counseling (Formenti et al., 2015), al fine di formularne un’epistemologia in azione. Tra gli scritti di Laura sul tema, ho sempre trovato questo passaggio illuminante per riassumerne l’epistemologia e la metodologia:

 

Le teorie costruttiviste e della complessità mostrano la circolarità dell’esperienza umana e della cognizione; le strutture della conoscenza si auto confermano, i loro punti ciechi creano una doppia cecità così siamo ciechi ma inconsapevolmente (Foerster, 1987). In questa prospettiva, frasi apparentemente neutre come ‘Trova la tua strada’ e ‘Progetta la tua vita’ appaiono come ingiunzioni paradossali, le cui cornici contengono assunti e polarità che possono ostacolare la libertà e la creatività umana.

Nell’orientamento formativo non si tratta dunque di ‘dare informazioni’ ma di esporre, decostruire, sfidare, e trasformare in una certa misura le cornici personali. È una grande sfida. Un pattern che connette collega virtualmente tutti i contesti educativi e di apprendimento ai processi di dis/orientamento: processi dove orientamento e disorientamento accadono simultaneamente. Lo slash è usato qui per segnalare la polarità dinamica implicata nell’azione umana: quando un senso, una direzione, un confine è definito, dato, disegnato dallo stesso atto della distinzione, crea anche un dis-senso, una o più alternative, e mondi possibili. Senza questo la vita non può accadere.

(Formenti, 2016, pag. 235, mia traduzione)

 

Oggi, credo sia possibile sostenere che il dis/orientamento non è solo metafora dell’orientamento universitario e professionale, ma può essere letto come un insieme di processi profondamente attuali nelle nostre vite dis/orientate nelle quali la pandemia di Covid-19 si sta rivelando cartina di tornasole delle fragilità ecologiche dell’antropocene (Luraschi, 2020). In questo scenario, Laura è impegnata da più di venticinque anni a promuovere a livello europeo i metodi biografici per la ricerca sociale (Merrill & West, 2012), in particolare in educazione degli adulti, al fine di mostrare come prenderci cura delle nostre vite a partire dal livello micro delle storie di vita, passando per il livello meso “delle interazioni concrete dentro scenari e ambienti di apprendimento, come la scuola, la famiglia, il luogo di lavoro, la città…” (Formenti, 2012, pag. XXI) per arrivare al livello macro “nel quale sono all’opera i fattori strutturanti, come le appartenenze di classe, di genere, di etnia, i processi sociali, organizzativi culturali, che influenzano e determinano il campo delle possibilità” (Formenti, 2012, pag. XXI). Interpellare le dimensioni soggettive (livello micro) e quelle strutturali (livello macro) senza tralasciare quelle relazionali del livello meso, è a mio avviso la cifra epistemologica, etica e dell’attivismo ecologico e sistemico di Laura che la vede impegnata fin dalla sua fondazione nella rete Life History and Biography di ESREA, Società Europea per la Ricerca in Educazione degli Adulti (https://esrea.org).

Ecco come Laura, insieme ad Alan Bainbridge e Linden West coordinatori insieme a lei del network, presenta, scrivendone a sei mani, un’idea di ricerca biografica profondamente ecologica:

 

Fare ricerca biografica non è uno sforzo isolato, individuale, solipsistico ma è modellato da interazioni ecologiche più ampie – nelle famiglie, nelle scuole, nelle università, nelle comunità, nelle società e nelle reti – che sostengono o distruggono la speranza. La sostenibilità ha spesso a che fare con la creazione di una sufficiente speranza negli individui e nelle comunità costruita con il dialogo significativo e creando esperienze di convivenza abbastanza buone (Winnicott, 2020), attraverso le differenze. Siamo diventati più consapevoli, nei nostri incontri di ricerca, che raccontando storie di vita, o ascoltandole, si celebra la loro complessità, il disordine, la sfida ecologica, ma anche il loro ricco potenziale di apprendimento. Allo stesso tempo, siamo sempre più preoccupati per la rapida distruzione delle ecologie sostenibili, non solo naturali, fisiche e biologiche, ma anche psicologiche, economiche, relazionali, politiche, educative, culturali ed etiche. Stiamo vivendo in un mondo, precario, spaventoso, liquido (Bauman, 2011) alle prese con la pandemia di Covid-19 e crediamo che il nostro genere di ricerca possa sia documentare questa situazione, sia illuminare come le risorse di speranza possono essere create con modalità profonde ed esteticamente soddisfacenti. La ricerca biografica offre intuizioni, e anche indicazioni, per comprendere e trascendere il lato più oscuro della condizione umana, spesso ignorato o difeso, accanto alle sue ispirazioni.”

(Bainbridge, Formenti e West, 2021, pp. 1-2, mia traduzione)

Ora, queste parole ci raccomandano che la pratica è la chiave, che è il come raccontiamo le storie a poter fare la differenza per mettere in luce come tutti noi siamo irrimediabilmente coinvolti uno con l’altro nella ricerca del senso e, come questa ricerca possa essere agita provando a “tenere insieme mondi fino a questo momento tenuti disgiunti da una logica che procede per separazioni” (Mortari, 2001, pag. 57). In conclusione, la cifra della teoria della cura e della formazione di Laura può essere riassunta nella parola “com-posizione” (Formenti, 2009b, pag. 27).

  

 

La metafora formativa della com-posizione 

Chi come Laura e me fa ricerca nell’ambito delle narrazioni con un approccio sistemico-costruttivista, non può esimersi dal mettere in evidenza il suo ruolo d’insider (per il concetto di insiderness rimando il lettore a Merrill & West, 2012) e contemporaneamente di outsider nella ricerca poiché “non c’è una garanzia di verità e autenticità di una storia raccontata” (Formenti, 2017, pag. 254). Scrive così Laura, nella sua ultima monografia, a proposito della sua postura da insider e outsider nella ricerca a matrice femminista:

 

In termini di identità, le ricercatrici sono sempre anche insider di una cultura, di un’esperienza al femminile che andrà a intrecciarsi con quella delle intervistate. Il fatto che queste esperienze, e le relative cornici, siano diverse è un elemento di tutela della complessità, a patto che possa essere messo a tema, non rimosso come generalmente si fa.”

(Formenti, 2017, pp. 255-256)

 

Ma come fare ricerca, formazione e intervento cercando di tutelare la complessità? Laura negli anni ha costruito un metodo com-positivo (Formenti, 2009, 2017) che ha alla base l’idea della ricerca, della formazione e dell’intervento educativo, e più in generale di cura, “come azione composizionale e cooperativa, cioè di dare forma nel gesto dell’unire, del connettere, nella complementarità dialettica tra differenze e legami, tra molteplicità e unità” (Formenti, 2017, pag. 5). Da queste parole emerge dunque come le pratiche narrative abbiano assunto per lei “un’accezione collettiva, immaginativa ed estetica” (Rigamonti & Formenti, 2020, pag. 124). Laura negli anni ha dato forma a un modello operativo profondamente relazionale che si basa sulle idee dell’epistemologia ecologica “visto che siamo tutti mammiferi, e qualunque gioco di parole giochiamo, parliamo di relazioni” (Bateson & Bateson, 1989, pag. 57). Un metodo com-positivo da lei chiamato “La spirale della cura” (Formenti, 2009, 2017), un complesso di formazione cooperativa e di ricerca, sviluppato nel lavoro con educatori, pedagogisti, insegnanti, operatori sanitari e, come raccontato nei paragrafi precedenti anche con gli orientatori e le orientatrici. È proprio il metodo com-positivo, il più importante costrutto teorico e pratico che ho appreso da lei, e continuo a imparare insieme a lei. Un fare che si connette al pensare così che entrambe queste dimensioni concorrono nel costruire non una serie di strumenti, ma “una teoria incarnata” (Formenti, 2009, 2017).

Una teoria incarnata che ho visto in azione proprio qualche giorno fa in Bicocca quando, come sovente accadeva prima della pandemia da Covid-19 quando partecipavo alle lezioni universitarie tenute da Laura nel ruolo di tutor, sono tornata a vederla con il microfono in mano a muoversi tra i banchi di un’aula universitaria. In quest’occasione, Laura coordinava una tavola rotonda presso Università degli Studi di Milano Bicocca appunto per la rassegna di “BookCity Milano” (https://bookcitymilano.it/) dedicata a promuovere la pratica della lettura come evento collettivo e diffuso nel territorio. Partecipavo anche io alla tavola rotonda, insieme ai colleghi Andrea Prandin e Martino Negri e Fausta Orecchio, direttrice editoriale di una delle principali case editrici italiane di libri per bambini e ragazzi, per confrontarci sul ruolo degli albi illustrati nelle pratiche di educatori e educatrici, insegnanti e genitori.

In particolare, il mio ruolo era quello di proporre piccoli esercizi visivo-estetici per il pubblico, mentre i colleghi con una lunga esperienza, Andrea come autore di albi illustrati e formatore che usa questi piccoli capolavori nel lavoro con educatori e professionisti della cura, mentre Martino ricercatore in didattica della Letteratura per l’Infanzia, riflettevano sul linguaggio poetico-estetico degli albi illustrati che definirli “per bambini” è riduttivo in quanto attirano, seducono, gettano il lettore in una confusione generativa, lasciando tracce indelebili di comprensione profonda anche in noi adulti. Nello specifico l’incontro era dedicato a celebrare Love (Siff, 2019), libro disegnato da Gian Berto Vanni nel 1964 e pubblicato recentemente dalla casa editrice diretta da Fausta, un libro che è un’opera d’arte capace di accompagnare il lettore, colore dopo colore, taglio dopo taglio e buchi delle pagine, nell’esperienza di una bambina poco carina che ama fare cose dagli altri ritenute strane.

Giovedì mattina, Laura ha scelto di non sedersi dietro il tavolo di noi relatori, ma di sedersi nel pubblico. È da lì che, tra un intervento e l’altro, si alzava per arrivare al centro della sala, con in una mano il microfono e nell’altra il libro, e leggerci la storia. Qui, ancora una volta la voce profonda di Laura mi emoziona appena inizia a leggere…

 

 

C’era una volta…una bambina.

[…] Non era una bambina carina, e la gente non le diceva mai:

com’è graziosa!

 

Lowen A. Siff

 


Bibliografia