Riflessioni Sistemiche n° 25


Maestri e mentori.
Visioni sistemiche attraverso le generazioni

Attilio Maseri e la complessità.
Appunti in prospettiva sistemica su pensiero e pratiche di un cardiologo rivoluzionario


di Christian Pristipino

Cardiologo, Presidente dell’Associazione Italiana di Medicina e Sanità Sistemica,
Board della European Association of Systems Medicine

Il Professore Attilio Maseri con il Presidente Oscar Luigi Scalfaro
(Fonte: https://www.policlinicogemelli.it/news-eventi/un-tributo-al-professor-attilio-maseri/)

Sommario
Attilio Maseri ha fatto diverse scoperte cruciali che hanno già lasciato un’impronta decisiva nella cardiologia che conosciamo. In questo saggio si esplora per la prima volta la possibilità di formalizzare un suo pensiero unificato all’origine della loro specificità. Ben oltre le singole scoperte, emerge un cambiamento di cornice dell’intera medicina in chiave complessa e personalizzata con rilevanti conseguenze operative ancora da realizzare.

 

Parole chiave
Medicina personalizzata, Cardiologia, Complessità, Scienza dei sistemi, Epistemologia, Paradigma, Framework, Database, Open-learning, Devianti.

 

Summary
Attilio Maseri has made several crucial discoveries that have already decisively imprinted cardiology as we know it.  This essay explores for the first time the possibility of formalizing his unified thought underlying their specificity. Way beyond single discoveries, a new framework emerges with the potential of changing the approach of the whole medicine in a complex and personalized perspective with important practical consequences yet to come.

 

Keywords
Personalized medicine, Cardiology, Complexity, Systems sciences, Epistemology, Paradigm, Framework, Databases, Open-learning, Outliers.

 

 

“Se hai perso una chiave nel buio del giardino,

non la troverai sulla strada solo perché c’è la luce del lampione” 

(Proverbio Sufi)

 

Quando ho accettato l’invito di scrivere questo contributo, Attilio Maseri – uno dei maggiori innovatori in cardiologia e nel pensiero scientifico medico - era ancora vivo e ignoravo nel modo più assoluto che sarebbe scomparso il 3 settembre di quest’anno.

Nonostante il timore e tremore, già allora, avevo accolto con grande entusiasmo la proposta del direttore di Riflessioni Sistemiche perché consideravo come un privilegio poter tentare un inizio di lettura unificata del suo pensiero, come forma di riconoscenza e come opportunità interdisciplinare per la comunità sistemica italiana.

Oggi sono addolorato che lui non abbia potuto leggere queste righe, ma sono obbligato a riconoscere che senza la sua dipartita esse sarebbero state sicuramente diverse, probabilmente meno consapevoli dell’impatto di questa personalità non ordinaria. Così come solo nel momento della totalità di un’eclissi solare diventa visibile la grande corona di luce che sta intorno alla nostra stella, ho così potuto constatare che la sua scomparsa ha paradossalmente evidenziato la messe viva di una semina durata una vita intera. Con la stessa meraviglia del bambino cui si disvelano verità nuove, il suo lascito, infatti, è apparso essere ben più di teorie o riflessioni scientifiche scritte sulla carta, ma è stato uno modo di essere di chi ha avuto la fortuna di vivere giornalmente per anni al suo fianco in ospedale e nelle sale di ricerca.

 

 

Un approccio incarnato, individualmente e collettivamente 

Nonostante fosse stata preceduta da una lunga malattia con un sinistro quanto inconsueto silenzio da parte sua, la notizia della scomparsa ha colto di sorpresa tutti perché questo precursore sembrava vivere come uno appena sbarcato dal futuro.

Infatti, se la frase “il miglior modo di prevedere il futuro è costruirlo” sembra oggi essere stata pensata per lui, in realtà quando era vivo, Attilio Maseri dava l’impressione che, più che costruirlo, nel futuro ci fosse già stato e dovesse solo accompagnarci gli altri. Quindi uno che nel futuro ci abita, non può che sorprendere se muore.

Così, in un buon numero dei suoi allievi e collaboratori, da quelli della prima ora a quelli molto successivi, dall’Italia, Francia, USA, Australia, Inghilterra, ci siamo riuniti spontaneamente in una chat che ci ha aiutato a metabolizzare questo lutto inatteso. Lì, proprio nei messaggi che ci siamo scambiati, è apparso in filigrana il suo profilo che, oltre ad essere ricostruito dai ricordi di mille aneddoti e pensieri, è emerso nell’evidenza di un sorprendente processo di identificazione personale di moltissimi, ben al di là dell’ambito professionale e scientifico. Una delle eredità evocate più frequentemente è stato infatti il ribaltamento nello sguardo nella cura, nella scienza e nella cardiologia. Un cambiamento talmente profondo però da essere stato spesso traslato in un’esperienza individuale unificante, abbracciando dimensioni intime come le dinamiche esistenziali e identitarie. Uno di noi sulla chat: “Io posso solo dire che di lui mi è rimasta la voglia di pensiero laterale nella vita professionale e personale”. “Hai cambiato tutto, hai cambiato la faccia della cardiologia, hai cambiato me”, ha sintetizzato commossa un’altra di noi su Facebook. Queste frasi non sono di circostanza ma sono di persone reali in cui si è accesa, un giorno, la consapevolezza della complessità del reale in toto, quindi anche – con emozione – della propria relazione di senso con esso. Soprattutto quello che ha fatto la differenza è stata l’esperienza che in tale complessità è possibile intervenire con attento rigore e tanta immaginazione, con risultati tangibili e che hanno fatto la differenza scientifica e anche personale.

Questa consapevolezza, posso testimoniare, ha promosso maturazioni e fioriture personali, messo le basi per carriere di successo e anche spinto negli anni tante persone a scelte, talora forti, cambiando paese, interessi, frequentazioni e persino scopo della vita.

Ma cos’è che ha impattato così profondamente tante persone?

Si può dire che quello che ha realizzato Attilio Maseri non era un lavoro, o un approccio scientifico, ma un modo di essere, e lo proponeva come tale. Quello che si imparava rapidamente con lui infatti era la necessità di cambiare il proprio sguardo, in modo sorprendentemente profondo, per poter osservare la realtà oltre il pregiudizio o le semplificazioni utilitaristiche e narcisistiche.

Che l’assunzione di questa prospettiva fosse per lui fondamentale peraltro non era difficile da capire, perché veniva espresso in modo molto diretto, come quando lo incontrai per la prima volta da studente dell’ultimo anno di medicina all’inizio del 1992. Proveniente da Londra, lui aveva da poco assunto le sue funzioni al Policlinico Gemelli e io non frequentavo ancora il suo istituto di cardiologia. La sua fama lo precedeva e quindi gli chiesi un appuntamento per sapere come entrare nella sua scuola di specializzazione. Il cardiologo della casa reale di Inghilterra, che aveva già segnato la cardiologia, spesso unico italiano citato sui testi sacri della cardiologia mondiale e nel board delle più grandi riviste di medicina, non mi fece aspettare per incontrarmi.

Mi accolse con simpatia e non minore senso di sfida, dicendomi subito che solo i migliori potevano lavorare con lui. E i migliori dovevano provare di esserlo con il miglior curriculum ma soprattutto con la capacità di pensare in modo diverso, innovativo, incisivo e con grande rigore.

Non c’era scienza senza un “giusto” osservatore, un osservatore che in primis avesse chiare le priorità.  “A fare una ricerca su argomenti secondari o centrali, si fa la stessa fatica. Meglio e più utile quindi scegliere le domande importanti, a cui ancora non c’è risposta”.

Che non fosse una proposta banale, lo sottolineava lui stesso quando ricordava che “identificare le domande importanti è più difficile di disegnare una ricerca molto complessa” (Crea F, Braunwald E, Libby P, 2021). In effetti questa difficoltà è ancora oggi esemplificata dal fatto che la maggioranza delle ricerche fatte sono di tipo replicativo, o di scarsa innovazione, all’interno di vecchi paradigmi. Nella sua visione incarnata però, questa identificazione di priorità innovative si rendeva concreta anche a livello personale, dimensione che dimostrava con il suo vivere essere fortemente connessa a quelle scientifiche.  Come dire che un cambiamento scientifico o medico dovesse necessariamente passare dalle radici della persona che lo fa.  “Dovete decidere se volete essere o avere”, questo l’ultimatum gentile nella forma ma che ricorreva non meno perentoriamente nella sua attività di formatore. Ricordo che mi confortò in uno dei momenti più frustranti di una ricerca che stavamo facendo sullo spasmo coronarico: “Con la medicina potrai conformarti ad avere soddisfazioni economiche, ma una volta che le avrai ti annoierai. Invece la soddisfazione di aver scoperto le cause dell’infarto, di aiutare tanta gente per sempre e con un solo atto, è una soddisfazione che resterà”. Ben più che con le parole, lo testimoniava con l’esempio di una vita spesa senza misura per la ricerca, lui, figlio di una secolare e facoltosa famiglia di origine nobiliare, che avrebbe potuto passare una vita molto comoda, a vivere di rendita. Lui, che nel 1994 aveva resistito ai nervi, emozioni e alla perdita del senso che lo avrebbero spinto ad abbandonare il lavoro per ritirarsi nei suoi agi disperati dopo l’improvvisa morte del figlio di 32 anni e invece aveva continuato faticosamente ad incarnare il cambiamento che avrebbe voluto nel mondo. La sua identificazione di grandi priorità era inequivoca, visibile, magari non condivisa da alcuni, ma incontestabile.

In effetti, questa singolare connessione tra ciò che si è, come si pensa e ciò che si può vedere e quindi scoprire, era uno dei tratti più affascinanti che venivano assimilati quasi per osmosi, dal suo stesso modo di vivere quotidiano.  Scorrendo ancora una volta la chat dei suoi allievi e collaboratori di tanti anni, colpisce che la maggioranza abbia testimoniato gratitudine per l’evoluzione di ciascuno come persona, più che per le medaglie che Attilio Maseri aveva permesso di ottenere. Invece di fregiarsi di fondamentali scoperte, ci si concentrava invece sulle loro radici: il modo di guardare il mondo e agire la propria relazione con esso.

Una delle colleghe di maggior successo come ricercatrice, rimasta poi a lavorare all’università Cattolica, ha evidenziato come, ancora una volta, questo fosse stimolato dalla sua stessa postura, più che da spiegazioni: “Mi è rimasto moltissimo questo suo

modo di essere, di quell’aria che abbiamo respirato che ti entrava nei polmoni e diventava linfa vitale per tutte le cellule…”. Lei stessa ha ricordato come quando gli si portavano dati sperimentali, lui li leggesse in silenzio, spesso inclinando la testa di lato, per vederli da una prospettiva diversa persino fisicamente. Poi, con grande sconcerto di noi che portavamo il frutto del lavoro di giorni di elaborazioni e calcoli, senza proferire parole nel merito, prendeva i fogli e li riponeva in un cassetto, per farli decantare, aspettando che “parlassero”. “Se vogliamo saltare subito alle conclusioni, sarebbero troppo influenzate dai nostri preconcetti. Lasciamo lavorare i dati nel cassetto, poi li riprenderemo a mente fredda”. “Se vogliamo forzare i dati a giustificare la nostra teoria, la nostra visione, li perdiamo”. Io stesso posso testimoniare le innumerevoli volte che portando i dati organizzati, con grosso sacrificio, in grafici anche molto elaborati e che francamente mi sembravano davvero originali, lui dicesse spesso: “bello questo lavoro, adesso rifacciamolo tutto organizzando i dati in modo diverso”.

E giù a mostrarci sul primo foglio che aveva in mano, anche uno scontrino del bar, magari appoggiandosi a una balaustra delle scale che stava facendo di corsa due gradini alla volta, come voleva ricostruire il grafico ribaltando le prospettive di partenza, mettendo a fuoco le zone di ombra dei dati. Era come una stilettata… soprattutto pensando alle ore di lavoro passate e quelle che avrebbero dovute essere spese nuovamente per ricominciare l’analisi, spesso ripartendo da zero anche nelle stesse, interminabili, misurazioni. Eppure una stilettata curativa per garantire rigore e per consentire ai dati di “parlare” in altro modo, oltre le aspettative del ricercatore. “Bisogna sempre ricercare nelle zone di ombra del sapere, quelle poco frequentate dagli altri ricercatori, perché è lì che si annidano le cose grosse che non sono ancora state viste”.

Peraltro a questo sforzo di rigore metodologico nella generazione e lettura dei dati si associava una non minore determinazione a mantenerli liberi di essere riorganizzati, una volta sviscerate tutte le informazioni “divergenti” in essi contenute. Opponeva infatti una forte resistenza a quello che lui considerava un errore radicale: voler saltare a conclusioni, e soprattutto modelli, in maniera troppo affrettata e soprattutto astratta o pregiudiziale, spesso senza sufficiente aderenza a tutti i dati. Ricordo a tale proposito un episodio congressuale nella seconda metà degli anni ’90 proprio all’Università Cattolica che ha visto come protagonista una delle colleghe più brillanti del nostro gruppo, attualmente direttrice di un importante gruppo di ricerca all’estero. Alla presenza di alcune tra le principali autorità cardiologiche internazionali, che mai mancavano di essere invitate presso la nostra facoltà, lei, all’epoca specializzanda, aveva fatto una interessantissima relazione sui risultati di ricerche eseguite da lei e da altri sul ruolo dell’immunità nell’infarto miocardico. Aveva concluso con una possibile e personale visione di insieme del processo formulando ipotesi e indentificando le ricerche che avrebbero potuto chiarirle. A me la relazione era sembrata fondata, proiettata su una visione e soprattutto con un potenziale innovativo di cura. Attilio Maseri, dopo i complimenti per le ricerche e per lo sforzo di trovare una chiave unificante, non mancò di sottolineare pubblicamente che le conclusioni erano troppo perfettamente generalizzate, non lasciavano ombre, e che gli stessi dati avrebbero potuto essere organizzati in altri modelli molto diversi tenendo conto anche dei risultati che non sposavano l’idea di fondo. Concluse che innamorarsi di un’idea, soprattutto se propria e soprattutto se bella, è pericoloso perché si tenderà a voler forzare qualunque dato si ottenga a conformarsi a quel modello. Meglio quindi una sospensione di giudizio, per far emergere modelli quasi spontaneamente dalle convergenze di prove multiple, a diverse scale di osservazione, con diverse metodiche e prospettive, per poter trovare sempre la migliore conformazione che spieghi con coerenza tutti i possibili aspetti, anche quelli apparentemente contraddittori, di un fenomeno. Appare qui molto evidente come in filigrana il pensiero di Attilio Maseri si confrontasse in maniera operativa con la problematica costruttivista della metodologia e dell’epistemologia dell’approccio alla complessità. Rimanere aperti il più a lungo possibile a molteplici eventualità contemporaneamente, senza sposarne alcuna a priori, vuol dire essere coscienti che qualunque modello è una costruzione, soggettiva, di realtà intrecciate a più dimensioni. Questa incessante ricerca di molteplici potenziali organizzazioni della realtà, in quello che oggi potremmo definire un approccio open-learning, ottenuto attraverso la ripetizione del faticoso lavoro concreto di produzione ed elaborazione dei dati, è sicuramente uno dei maggiori lasciti iniettati nell’esperienza dei suoi collaboratori e allievi.

A proposito di modelli di open-learning, fedele al suo interesse per la prospettiva scientifica di Karl Popper, attribuiva un posto centrale al pensiero critico e all’errore nella costruzione dinamica, individuale e collettiva, di conoscenza. Ben lontano dal colpevolizzare l'evenienza dell’errore, ne stimolava invece l’emersione come fattore insostituibile di comprensione della realtà, sempre più complessa di quanto un singolo possa carpire. Anche questo aspetto era proposto in chiave esperienziale, più che teorica. Amava spesso infatti ricordare un episodio che lo aveva visto protagonista quando era un giovane fellow negli Stati Uniti negli anni ’60 alla Columbia University di New York. Fu infatti molto colpito quando dissentendo in maniera circostanziata dalle posizioni di André Cournand, all’epoca già insignito del premio Nobel per l’invenzione del cateterismo cardiaco, questi non solo gli diede pubblicamente ragione ma si diede da solo addirittura del “vecchio sciocco” (Crea F, Braunwald E, Libby P, 2021). Un evento peraltro molto simile a quello raccontato da Bernard Lown, un suo amico cardiologo, Nobel per la medicina, riguardante il suo maestro Samuel Levine, un altro gigante della cardiologia (Lown B, 2009). Da quel momento Attilio Maseri, andava chiedendo a tutti di formulare rigorose critiche in materia scientifica, anche sulle sue affermazioni, teorie o modelli. Anzi, spesso raccontava ad allievi e collaboratori i suoi errori interpretativi clinici o di ricerca, anche durante le lezioni in scuola di specializzazione, in modo che nessuno costruisse “santuari” indiscutibili, ma anche in modo che ciascuno potesse considerare i propri come opportunità di perfezionamento continuo di presupposti, approcci e modelli. Anche qui, la profondità di questo suo atteggiamento di apprendimento continuo sgorgava spontaneamente dal suo modo di essere anche al di fuori dell’accademia. Uno di noi testimoniava che, giocando a tennis, più che alle partite più spesso preferiva dedicare il poco tempo libero alle lezioni con un istruttore, cui chiedeva di essere molto critico per permettergli di migliorare ogni volta.

Per il resto era sempre alla ricerca di imparare nuovi sport che lo stimolassero maggiormente a sviluppare nuove capacità ed esperienze, evolvendo dallo sci allo snow-board, dall’attività subacquea al kitesurf, dalla corsa podistica alla mountain bike. Finanche al volo a vela, il cui corso aveva barattato con l’istruttore in cambio di uno stage di formazione all’università e di cui teneva fieramente una foto in volo rovesciato nel suo studio, accanto a quelle con il Papa, il Presidente della Repubblica e la famiglia reale d’Inghilterra. Il volo rovesciato, una vera metafora di tutto il suo atteggiamento nella vita!

Presi nel loro complesso, tutti questi elementi, suggeriscono che Maseri lavorasse attivamente sui principi generali della conoscenza e dell’apprendimento: un “imparare ad imparare”, tipico della scuola sistemica. Anche questo non è mancato di essere comunicato. Inutile dire infatti che l’attenzione al processo di apprendimento e di costruzione delle teorie con continue riorganizzazioni, disgregazioni e ricostituzione di nuovi costrutti, che derivavano da questo pensiero continuamente critico e divergente anche da se stesso, passando dalle innumerevoli ripetizioni di spesso noiose operazioni di investigazione, misura, calcolo e rappresentazione, alla fine percolavano nelle abitudini cognitive generali e hanno contribuito a formare nuove abitudini e nuovi approcci alla vita di ciascuno di noi. Il fatto che questa cornice generale sia stata accolta, metabolizzata e incarnata con gratitudine nel corpo sociale della maggioranza dei suoi allievi e collaboratori, dice poi qualcosa anche del tipo di pensiero, rizomatico, che è all’origine di questa diffusione.

 

Una squadra forte è la chiave per una vita gradevole e di successo” (Crea F, Braunwald E, Libby P, 2021), in questa sua frase è implicitamente racchiusa, ancora una volta, la prospettiva di natura radicalmente sistemica del suo posizionarsi. Non solo Attilio Maseri aveva intuito che la complessità della realtà poteva solo essere affrontata da molti punti di vista, in cooperazione tra di loro, ma ne percepiva la natura generativa essenziale anche a livello personale, specie - mi pare - dopo la scomparsa di figlio e moglie. Per costruire questa rete si dava totalmente. Tra due incontri con capi di stato, autorità della cardiologia, incontri internazionali, conferenze e impegni accademici, tutti venivano sempre ricevuti. La porta del suo ufficio era sempre aperta per tutti coloro che lavoravano con lui, i tempi di attesa irrisori, sempre massima la disponibilità a risolvere i problemi di qualunque natura o a discutere di idee. “Il mio compito” – diceva in un’epoca in cui gli specializzandi delle altre scuole erano più che altro sfruttati per compiti spesso burocratici– “è quello di lavorare per risolvervi i problemi e rimuovere gli inciampi perché abbiate il tempo di formarvi, pensare e studiare, un lusso a cui qualcuno deve rinunciare almeno in parte per consentire agli altri di farlo”. Anche casa sua era spesso aperta in momenti conviviali in cui offriva il vino delle sue terre e di sua produzione, e ai congressi in giro per il mondo ritagliava sempre del tempo per intrattenersi personalmente e gradevolmente con le persone con cui lavorava o aveva lavorato. Ma, al di là di questa disponibilità al team-building, quello che mi ha sempre colpito era una lotta continua ad andare oltre se stesso nelle relazioni. Apparteneva chiaramente a un mondo diverso di quello della maggioranza di noi. Essere nato in Friuli, in una famiglia di origini nobiliari che, a quanto lasciava intravvedere in rari momenti di confidenza intima, non aveva certo messo al primo posto il suo nutrimento affettivo-relazionale, unitamente a una educazione rigorosa, erano elementi che hanno contribuito a costruire una personalità elegante, principesca, ma austera e riservata, di un grande misura, mista a pudore – e forse difficoltà - riguardo alla manifestazione di empatia. Inoltre non lo facilitava dal punto di vista comunicativo il fatto di essere stato dotato dalla natura di una intelligenza chiaramente geniale, per quanto sia difficile usare questo termine tanto oggi è abusato. Potrebbe essere stata una proiezione, ma ho sempre avuto l’impressione di un grande sforzo quando non proprio di una lotta, nel tentativo di adottare un linguaggio e un argomentare che risultasse comprensibile agli altri. Eppure era una lotta che non cessava mai di portare avanti, a livello accademico e personale. E forse proprio questa difficoltà che lo rendeva alla fine così umano e molto più vicino a quelle di tutti gli altri.

Certamente, l’esigente unificazione della complessità della persona in una specie di “monachesimo” scientifico (non nel senso religioso ma etimologico greco μόνος, uno), congiungendo aspetti scientifici e personali, teoria e pratica, sguardo e azione, rigore metodologico e innovazione, osservatore e “realtà”, pazienza e innovazione, ha ovviamente creato difficoltà e resistenze a più di uno, spesso proiettate nel rifiuto anche delle sue stesse scoperte. Tuttavia, tra accoglimenti e respingimenti intellettuali e viscerali, tutto ciò prova che quello che è stato trasmesso era materia esperienziale, incarnata ben oltre concetti e teorie, che aveva impattato, non a pezzi, bensì olograficamente. Si è così materializzato nella chat un approccio comune che ci riuniva tutti pur nelle nostre grandi diversità professionali, di vita e di contesti: cardiologi clinici, ricercatori, universitari, ospedalieri, medici di forze armate, in Italia e all’estero. Nonostante spesso non ci conoscessimo neanche o solo molto superficialmente, è precisamente da questo momento che è nato, tra coloro che sono stati segnati dal suo insegnamento, un senso di singolare comunità cosciente dell’eredità comune incarnata.

 

 

La rivoluzione di paradigma 

Quello che ha reso credibile il modello maseriano, oltre alla sua natura incarnata e non solo gnostica, è soprattutto l’impatto concreto che ha avuto sugli orizzonti della scienza e della pratica medica. Coerentemente con la sua visione delle priorità, il centro del suo interesse è sempre stata la cardiopatia ischemica, che è la prima causa di malattia e morte al mondo. In questo ambito, non c’è stato settore in cui non abbia influenzato la conoscenza in modo illuminante e spesso ribaltante, grazie al suo sguardo laterale e al suo rigoroso metodo scientifico: dallo studio del flusso di sangue nelle arterie del cuore, al ruolo dei capillari, a quello dei restringimenti fissi e dinamici delle arterie coronarie di maggior calibro, dell’infiammazione, dell’immunità, della coagulazione e della trombosi, della psiche o del sistema nervoso autonomo.

 

Tuttavia in questa molteplicità di approcci, il libro iconico “Ischemic heart disease. A Rational basis for clinical practise and clinical research” da lui pubblicato nel 1995 raccoglie 30 anni di ricerche pionieristiche in un unico sguardo unificante dalla prospettiva complessa, tuttora non solo attuale ma ancora da esplorare completamente (Maseri A, 1995). Bisogna subito dire a questo proposito che Maseri non si è mai posto esplicitamente nell’alveo delle scienze della complessità. Non di meno, se c’è un elemento unificatore verso cui le sue ricerche convergono (o da cui derivano, o entrambi) sin dagli anni ’60 è che l’ischemia miocardica non è una condizione banale, lineare, elementare nel meccanicismo ma dinamica nell’intreccio di numerosi processi predisponenti e precipitanti connessi variabilmente nel tempo e nello spazio a diverse scale di osservazione, da quella molecolare, a quella cellulare, di organo, di sistemi di organi, a quella clinica e ambientale (Maseri A, 1995). In pratica si tratta, sebbene da lui non esplicitamente nominato come tale, di un sistema complesso, multidimensionale, dinamico e non deterministico, resistente alle semplificazioni. A questo titolo, Maseri dovrebbe essere considerato come uno dei massimi contributori delle scienze della complessità nell’ambito clinico e uno dei fondatori della medicina traslazionale in cardiologia. E’ da questa visione di fondo peraltro, che spinge a trovare collegamenti inimmaginabili con una visione classica, che sono scaturite tutte le scoperte rivoluzionarie che ha fatto in tutta la sua lunga carriera. In un impianto a dominanza deterministica e riduzionistica come quello della medicina contemporanea, questa innovazione è un cambiamento dirompente nel paradigma di base, con implicazioni che hanno come sviluppo inevitabile quello di cambiare il volto della medicina per come la conosciamo (Baumbach J, Schimdt HHHW, 2018). Tra le conseguenze possibili infatti possiamo ricordare che le malattie devono in questa prospettiva essere riclassificate perché fatte in base alle manifestazioni cliniche e non sui processi che le generano, quindi la maggioranza degli studi clinici dovrebbero essere rifatti sulla base delle nuove classificazioni. Inoltre le cure dovrebbero essere indirizzate alle cause di malattia invece che alle manifestazioni (Maseri A. 2000) e che, quindi, in molti casi potrebbero essere sufficienti medicine già approvate per altre indicazioni che riconoscano processi di base simili. A questo proposito Maseri spesso faceva una analogia, dicendo che si trattava di adottare in tutta la medicina la stessa prospettiva adottata per le anemie. Le anemie sono una riduzione della possibilità di trasportare ossigeno nel sangue dovute a problemi dei globuli rossi, e hanno manifestazioni cliniche simili nonostante le possibili cause siano molto diverse: dalle emorragie alle patologie di assorbimento del ferro, alla carenza di alcune vitamine, a malattie genetiche. Oggi la terapia prevede di intervenire sui processi che la causano, non si curano solo le sue manifestazioni. Il suo sguardo ci ha mostrato che è possibile farlo anche in cardiologia, sebbene in maniera molto più complessa.

Se è vero, come dice Kuhn (Kuhn TS, 1962), che le innovazioni scientifiche sono quelle che rompono i paradigmi pre-esistenti e non quelle che perfezionano il sapere granulare all’interno delle stesse cornici interpretative, il più profondo contributo di Attilio Maseri è quindi questa rivoluzione copernicana di paradigma, ben al di là della pur cruciale importanza delle singole scoperte specifiche che lo hanno reso famoso. Ed è precisamente per questo che invariabilmente ogni sua scoperta ha sempre trovato il contrasto di molti colleghi in Italia e all’estero. Immaginando il mondo scientifico cardiologico come un parlamento, il dogmatismo semplificatorio e autoreferenziale di certa accademia, che spesso ne ha rappresentato la maggioranza, lo ha sempre spinto sui banchi dell’opposizione perché veniva avvertito come una minaccia ad un potere fondato su un paradigma di cui lui dimostrava scientificamente la fallacia. Lo scontro in certi momenti fu molto duro ma, come ricordò lo stesso Maseri nella lettura magistrale tenuta al congresso della Società Italiana di Cardiologia nel 2005 per celebrare i 30 anni della sua dimostrazione dello spasmo coronarico come causa di ischemia cardiaca, la scienza sperimentale si afferma sempre. I grandi nomi della cardiologia dell’epoca che letteralmente deridevano la scoperta negli editoriali delle più grandi riviste mediche del mondo, oggi non li ricorda più nessuno mentre la scoperta ha cambiato la direzione alla cardiologia, per quanto all’epoca pubblicata su una rivista a impatto minore (Maseri A, et al. 1975). Proprio le vicende intorno a quella scoperta sono un esempio iconico, in quanto il paradigma diffuso all’epoca era che i vasi che nutrono il cuore, le arterie coronarie, fossero dei tubi fissi, come quelli da giardino, basandosi sul fatto che nelle autopsie nessuno aveva mai osservato uno spasmo, ovvero una forte contrazione delle cellule muscolari che ne compongono parte della parete. Per questo pensavano che la riduzione del flusso di sangue nel muscolo cardiaco potesse essere causata solo da un’ostruzione fisica fissa, come un deposito di colesterolo nella parete che si accumulava lentamente fino a diventare critica. In questo caso l’ischemia, e il dolore al petto che l’accompagna, dovrebbe però verificarsi sempre e invariabilmente quando il cuore si sforzava allo stesso livello. Tuttavia, alcuni pazienti con ischemia cardiaca riferivano in alcuni giorni dolore al petto a riposo o dopo poco cammino, e in altri giorni invece nessun dolore anche dopo sforzi importanti. L’interpretazione classica imputava questa percezione ad un errore del paziente, perché non rientrava nelle teorie dell’epoca. Maseri, invece non scartò un dato che metteva in crisi un modello e dando fiducia ai pazienti, al di fuori di schemi paternalistici, fece una serie di esperimenti che, sebbene molto contestati nell’immediato, dimostrarono invece in modo sempre meno discutibile che i pazienti dicevano il vero e che in alcuni giorni le arterie del cuore erano più ristrette di altri, a causa di uno spasmo coronarico transitorio e più o meno improvviso. Un dogma centrale era caduto, la semplificazione dei modelli precedenti era evaporata di fronte all’evidenza che la funzione era decisiva quanto l’anatomia, e che le arterie sono entità dinamiche. Dal quel momento si aprì una nuova visione della cardiologia che permise di introdurre nuovi farmaci che ancora oggi vengono prescritti in tutto il mondo per l’angina e di capire maggiormente anche i processi infartuali e di instabilità clinica (Pristipino C, et al. 2000).

Successivamente lo stesso approccio teso ad ampliare lo sguardo agli aspetti che non venivano spiegati dalle teorie vigenti, cercando collegamenti più ampi, gli ha consentito di fare scoperte specifiche altrettanto importanti e rivoluzionarie di quelle dello spasmo ma in settori molto diversi: il ruolo fondamentale della disfunzione dei capillari cardiaci nell’ischemia cardiaca (Pupita G, et al. 1990), prima aprioristicamente visti come vasi terminali senza alcun ruolo significativo, nonché quello dei processi sistemici (infiammatori e immunitari) nella genesi dell’infarto e nelle condizioni pre-infartuali, classicamente invece visti come unicamente fenomeni trombotici locali legato a una placca di aterosclerosi coronarica che si rompe (Liuzzo G, et al 1994; Buffon A, et al. 2002; Monaco C, et al 2005; Caligiuri G, et al. 2000).

Maseri stesso raccontava spesso questi episodi, non tanto per autoesaltarne la chiave epico-eroica e fuori dall’ordinario, quanto per cercare di trasferire l’approccio epistemologico che stava dietro il processo di scoperta, per proporre un cambio di paradigma della medicina. Tuttavia però questo è proprio ciò genera le più grandi resistenze con l’incessante ripetizione, pressoché identica nei decenni, di critiche superficiali e derisioni dopo ogni scoperta, come se la vicenda della dimostrazione dello spasmo non avessero insegnato nulla. Di fatto, solo oggi dopo 30 anni, il ruolo specifico del microcircolo e dell’infiammazione sono stati accettati solo in alcune implicazioni dalla comunità scientifica e clinica (Knuuti J et al 2020; Thygesen K, 2019; Ridker PM, 2017). Al di là dei numerosissimi premi e distinzioni che ha ricevuto nel corso della sua vita per le singole ricerche, rimane però la resistenza di fondo alle sue implicazioni più importanti, ovvero quelle trasformative della medicina.  Infatti, come ha apertamente esposto nel suo libro ancora molto attuale come impianto, le sue ricerche concorrono a un modello dinamico formale e scientificamente fondato ma non completo, quindi radicalmente innestato nei principi della complessità e sistemico, in cui l’ischemia cardiaca non è un processo solo di una coronaria, ma in cui partecipavano sistemi di tutto l’organismo, in una continua ricerca dinamica di equilibri, tra protezione e insulto, tra locale e generale, dalle molecole alla psiche, variabile da persona a persona (Maseri A, 1995).  Con questo Attilio Maseri rimane un uomo del futuro, ancora anni avanti rispetto al contesto odierno. Un anticipo che ha sempre mantenuto nel corso della sua lunga carriera, e mantiene ora anche dopo la sua scomparsa. 


 

Lo scopo: una medicina personalizzata, prima del tempo 

La rivoluzione che Attilio Maseri andava proponendo riguardo a epistemologia, metodologia, approccio, elementi chiave della cardiologia, non era un ossessivo esercizio della propria capacità geniale di vedere oltre, ma erano strumenti per ottenere un unico scopo: curare il singolo su rigorose basi scientifiche, formalizzando una medicina personalizzata basata su evidenze opportune.

In quella che veniva spesso letta come un’algida personalità iper-razionale, palpitava un cuore che teneva alle persone: “il nostro scopo non deve essere quello tanto di prolungare la vita delle persone a tutti costi, quanto garantire loro una buona vita. Non si può far vivere una persona come malata per farla morire sana”. Era la chiave di adattamento delle verità scientifiche alla storia e alla personalità di ciascuno. Un embrione del valore di quello che verrà formalizzato nelle medical humanities. Era singolare vederlo visitare e curare le persone, facendo prescrizioni e dando consigli, talora anche in contrasto con le evidenze scientifiche, con sbigottimento di noi allievi dell’epoca che venivamo bocciati se non facevamo delle prescrizioni scientificamente fondate.

Alle persone singole, è stata consacrata tutta la sua attività scientifica in un’era in cui la medicina aveva già fatto un balzo epistemologico fondamentale con l’introduzione degli studi randomizzati su grandi numeri di pazienti. Erano gli anni dell’alba della evidence-based medicine, che si opponeva, ottenendo importanti progressi nella riduzione della mortalità delle malattie, a quella che fu poi chiamata la “eminence-based medicine”, ovvero la medicina basata sull’ipse dixit di clinici con grande esperienza personale o sulla verosimiglianza di teorie dedotte da assunti quasi sempre arbitrari. Maseri riconosceva l’importanza fondamentale del metodo scientifico e statistico, anche su popolazioni molto ampie, necessariamente fatte di persone con caratteristiche biomediche molto diverse tra di loro. Esigeva da tutti noi una conoscenza approfondita e dettagliata di ciascuno di questi studi, e li metteva sicuramente alla base di ogni scelta terapeutica. Ma ne vedeva anche i limiti, se riferiti alla cura del singolo. Quando nessuno parlava di questi argomenti lui andava affermando che: “la medicina si comporta come un calzolaio che fa una sola taglia di scarpe, quella della media della popolazione, facendo andare con scarpe troppo large o troppo strette un numero inaccettabile di persone”. In fondo, ricordava, la cura dell’anemia da carenza di ferro è stata dimostrata con uno studio di pochissime persone identiche fra di loro riguardo al processo causale di malattia.

Maseri, dando valore all’osservazione che la maggioranza di persone con molti fattori di rischio per cardiopatia ischemica non sviluppavano mai un infarto nella vita e al contrario una percentuale importante di pazienti senza alcun fattore di rischio noto invece aveva un infarto, aveva capito che solo cambiando paradigma la medicina avrebbe potuto rispondere alla vocazione di curare al meglio ogni persona. La sua idea, sin dagli anni ’80, era quella di riclassificare le malattie in base ai processi che le causano, anticipando di almeno 30 anni i concetti alla base della medicina di precisione e la systems medicine. Per questo non ha mai generalizzato le sue scoperte in modo indebito: non aveva fatto a tempo a scoprire rivoluzionariamente che l’infiammazione era alla base di molti casi di infarto o di angina instabile, che era subito stato attirato da coloro che non presentavano questa caratteristica o comunque da coloro che deviavano dalla media (Cristell N, et al. 2011).

La sua attrattiva per le caratteristiche che facevano deviare il singolo dalla media, aveva una base valoriale ed etica intuitiva, perché volendo personalizzare le cure è a quelle che bisogna prestare attenzione. Tuttavia aveva anche una base scientifica ed epistemologica perché, nella complessità dei processi causali di una malattia, la media presenterà reti intrecciate di difficile soluzione e interpretazione. Invece, i devianti dalla media è verosimile che presentino dei processi estremizzati, dominanti, più semplici da individuare e da studiare nelle loro implicazioni, rendendo possibile nel paziente medio la valutazione del loro ruolo nell’intreccio con gli altri processi (Magnoni M, et al 2016). Per esemplificare il concetto ricorreva spesso al celebre quadro di Escher qui riportato, in cui gli estremi, i pesci e gli uccelli, sono le code della distribuzione gaussiana ovvero i devianti dalla media, che permettono di capire meglio le combinazioni più complesse al centro del dipinto.

M.C. Escher - Sky and water I - 1938
(Fonte: https://en.wikipedia.org/wiki/Sky_and_Water_I)

Infine lo studio dei devianti dalla media, consente di affrancarsi almeno in parte dalla necessità delle enormi capacità di calcolo oggi necessarie per elaborare i big data dei pazienti medi, dove verosimilmente non esiste un meccanismo chiaramente dominate sugli altri. Lo studio dei devianti rende, inoltre più facile identificare i fattori protettivi e quelli realmente causali in una fitta rete di relazioni di processo.

Per perseguire questo obiettivo, sin dal ’91, quando giunse all’Università Cattolica di Roma, realizzò un progetto per l’epoca inaudito: un database informatico in cui le informazioni cliniche, biologiche, di laboratorio, di ricerca e tutti gli esami strumentali di ciascun paziente venissero raccolti in rete per procedere alla creazione a volontà di nuovi gruppi di pazienti con caratteristiche comuni variabili. Anticipò così l’impianto degli studi di medicina personalizzata che solo nella seconda decade del 2000 hanno visto la luce. Per quanto la struttura fu utile per realizzare diverse ricerche, non ebbe però il successo principale che si aspettava, per ragioni essenzialmente tecnologiche (allora insufficienti), ma il nuovo paradigma era stato lanciato. Su questa spinta furono realizzati un progetto nazionale e internazionale di standardizzazione delle banche dati cardiologiche per i paesi del G8 guida italiana, premessa indispensabile per una raccolta dati differenziata (Pristipino C, et al; 2009) e la realizzazione nei primi anni 2000 del database nazionale della principale associazione cardiologica nazionale italiana, l’ANMCO, poi evoluta nella costruzione dei “minimal data set” di diverse patologie. Progetti solo molto più tardi esportati anche a livello della società europea di cardiologia.

Attualmente, tutti questi principi e queste prospettive, sono alla base dei progetti di medicina personalizzata che nel frattempo hanno acquisito priorità strategica a livello nazionale e internazionale.

 

 

Non-conclusioni e aperture 

Non sono certo che Attilio Maseri, che come visto non amava troppo le classificazioni, si sarebbe riconosciuto con un’etichetta di “sistemico” e, tantomeno, queste righe lo vogliono tirare per la giacchetta in questo senso. Ma proprio questo lo rende ancor più sistemico, perché l’elasticità e la coscienza dell’incompletezza intrinseca degli approcci, anche epistemici, è parte delle scienze della complessità, se mantenute in relazione tra di loro. Probabilmente alcuni suoi pensieri, principi e pratiche erano premesse di un approccio sistemico, e potrebbero in questo senso essere considerati “proto-sistemici”, altri più compiutamente tali. Certo è che nel 2014 è stato co-fondatore dell’ASSIMSS, l’Associazione Italiana di Medicina e Sanità Sistemica, di cui ha attivamente contribuito alla scrittura dello statuto e di cui ha voluto convintamente dare l’apertura nel primo congresso nel 2014 (Maseri A, 2014), poiché vi vedeva uno strumento per formare una massa critica di cambiamento cruciale in medicina.

Coerentemente con la sua visione, andando oltre le classificazioni e le etichette credo che questo primo tentativo di lettura del suo operato supporti l’idea di una sua postura generale di persona che opera consapevolmente nella complessità con metodologie coerenti a vari livelli.

Vista l’ampiezza e la profondità di impatto del suo operare, mi sembra chiaro che la riflessione approfondita intorno al suo pensiero e pratiche, possa da una parte aiutare il mondo medico e dall’altra quello più puramente sistemico. Il mondo medico aiutato a trovare alcune strade più realistiche di intervento sia teorico che concreto, dove il realismo è l’osservazione scientificamente rigorosa dei fenomeni nella loro complessità, senza rifiutarla. Il mondo delle scienze sistemiche a trovare obiettivi, settori e metodologie specifiche di azione nel mondo biomedico.

Al di là della gratitudine e doveroso riconoscimento che tutti noi sentiamo per lui, contribuire ciascuno nella misura della propria professionalità e competenze a completare la transizione della personalizzazione delle cure, focalizzando il nesso che unisce tutte le cose nel loro divenire, sarà il tributo maggiore che potremo fargli singolarmente e collettivamente, rendendo ancora operante la sua presenza viva e vitalizzante tra di noi.

 

 

Bibliografia