Riflessioni Sistemiche n° 25


Maestri e mentori.
Visioni sistemiche attraverso le generazioni

Il maestro e il processo cui ha dato origine


di Umberta Telfener

Psicologa - Psicoterapeuta sistemica
Didatta CMTF

Sommario
Questo articolo racconta la relazione con l’epistemologo Heinz von Foerster e i suoi insegnamenti: la cibernetica di secondo ordine, l’auto-organizzazione dei sistemi, la ricorsività/riflessività, il movimento come primum movens per la conoscenza, la scelta costruttivista e l’atteggiamento etico che ne deriva, l’imprevedibilità delle situazioni e degli umani… Soprattutto l’insegnamento a stupirsi della vita e dei suoi accadimenti e a provare gratitudine per tutto ciò che accade.

 

Parole chiave
cibernetica di secondo ordine, auto-organizzazione, ricorsività/riflessività, costruttivismo, valori eigen, cambiamento, gratitudine, sorpresa, rispetto.

 

Summary
This article reports the special relationship with the epistemologist Heinz von Foerster and the teachings that have emerged from our friendly intense relationship: second order cybernetics, systems self-organization, recursion/reflexivity, movement as the necessary movement for knowledge, the constructivist choice and the ethical attitude that derives from it, the unpredictability of situations and humans ... Above all the proposal to be amazed by life and its events and to feel gratitude for everything that happens.

 

Keywords
second order cybernetics, self-organization, recursion / reflexivity, constructivism, eigen-values, change, gratitude, surprise, respect.

 

 

Vorrei raccontarvi il mio rapporto d’amicizia e di apprendimento con colui che tra gli altri mi ha permesso di approfondire il pensiero e la prassi sistemica, che si fonda sul dialogo e su una particolare attenzione alle relazioni; con colui che ha contribuito – ancora di più - ad insegnarmi a stare al mondo.

Intendo parlare del mio rapporto con Heinz von Foerster, nato a Vienna nel 1911, invitato negli Stati Uniti da Warren McCulloch - neurofisiologo a Harvard, incuriosito della sua tesi quantistica sulla memoria -, editor delle Macy Conferences insieme a Margareth Mead e con lei inventore del concetto di “sistemica di secondo ordine”, nonché responsabile del Biological Computer Laboratory ad Urbana per l’Università dell’Illinois (1958-1975).

E’ lui che mi ha aiutato a considerare la sistemica come un modo di osservare, un atteggiamento conoscitivo, perché nell’ottica sistemica i concetti e le posizioni si embricano attraverso la mutua definizione di sé e dell’altro. Il rapporto con lui, prima a distanza attraverso i suoi scritti poi personale, mi ha permesso di sviluppare occhi riflessivi - mai contenti di un livello solo di osservazione - e una prassi di secondo ordine. Mi ha permesso di avere un atteggiamento di meraviglia verso la vita che non mi ha più abbandonato: “Il modo in cui guardiamo e poi vediamo determina come le cose ci appariranno – soleva dirmi – espandi le tue lenti, allargale. Rinuncia al concetto di ostacolo, distraiti dal tuo ombelico” (comunicazione personale).

Ho conosciuto Heinz di persona la prima volta a Milano nel 1980, quando è venuto per La sfida della complessità, conferenze organizzate da Mauro Ceruti e Gianluca Bocchi da cui è nato l’omonimo libro (1980). Aveva una fame vorace di vita, di stimoli, di cibo; si saziava subito per poi tornare a cercare. Mi ricordo che assieme a lui e Mauro Ceruti abbiamo girato per la città tardi nella notte in cerca di un bar aperto, per il suo spuntino improrogabile. Ho stretto la relazione con lui a Modena ad un congresso organizzato da due colleghi sistemici, Bassoli e Mariotti nel 1985 “Teoria e prassi, un ponte necessario”. Parlava col suo accento germanico in maniera definita e assertiva – chiarissima - e cercava di spiegarci il falsificazionismo di Popper, insistendo sulla necessità di mettere sempre in discussione le premesse: “Quando la strada è bagnata, non necessariamente ha piovuto…”. La traduttrice oltre a trasporre in italiano ha commentato su quello che von Foerster ci stava dicendo, dichiarando “errata” questa sua affermazione. Mi sono spazientita e ho chiesto di tradurre io. Detto fatto, sono diventata la traduttrice di Heinz in Italia. Ci riconoscevamo: anch’io con un accento germanico quando parlo inglese, anch’io definita, organizzata, forse un po’ rigida.

Mi ricordo che dopo il seminario siamo andati a parlare in un bar in città. Mi ha chiesto di me, mi ha raccontato di sua moglie May a Pescadero, della casa costruita assieme al figlio con le loro mani, dei cerbiatti che arrivavano al tramonto a chiedere compagnia e cibo, del Biological Computer Laboratory in Urbana, Illinois - da lui diretto - in cui aveva accolto menti pensanti e persone innovative e fuori dal coro, tra cui Varela e Maturana - già allora miei idoli - anche una ballerina israeliana che studiava il movimento. Ricordo ancora la sensazione di partnership e costruzione che condividevo con Heinz ogni volta che costruiva ponti immaginifici di pura potenzialità. Proprio in quell’occasione mi ha insegnato la differenza tra prima cibernetica e seconda, tra cibernetica di primo e di secondo ordine. Si tratta infatti di quattro concetti diversi: la prima cibernetica studia i sistemi pensati come tendenti all’equilibrio, entità stabili che tendono allo status quo, all’omeostasi; la seconda cibernetica si interessa ai sistemi pensati in evoluzione, occupandosi delle tendenze contemporaneamente morfostatiche e morfogenetiche e delle fluttuazioni; la cibernetica di primo ordine è l’euristica complessa e circolare applicabile a qualsiasi problema (analisi delle relazioni e delle retroazioni); la cibernetica di secondo ordine vede l’osservatore parte del processo: perde la posizione esterna e neutrale ed entra nella ricorsività delle emergenze.

Mi ha permesso di comprendere qualcosa su cui stavo scervellandomi: l’attenzione al sistema osservante che include l’osservatore, la cibernetica di secondo ordine che lo include inderogabilmente, che fa dell’incontro il punto focale per superare le identità separate, spostando il focus sul pattern che connette il sistema consulente al sistema committente. Lo fa attraverso un processo che mette in atto sia spinte verso la stabilità che verso l’evoluzione. Mi ha aiutato a considerarmi come catalizzatore e partecipante attivo di un sistema chiuso che si auto-organizza e opera costantemente su se stesso in maniera ricorsiva. Cosa significa?  Che non osserviamo oggetti e stati d’animo al di fuori di noi stessi, privilegiamo le configurazioni che uniscono il sistema che incontriamo a noi stessi, mettendo in atto una prassi in cui applichiamo lo stesso operatore logico a più livelli di osservazione, in modo da computare (cum = insieme; putare = contemplare; contemplare le cose insieme) la relazione tra il soggetto osservatore, ciò che viene osservato e l’emergenza del processo stesso. La cognizione, secondo von Foerster (1987) è un’operazione di computo, di descrizioni della realtà: 

La freccia che torna indietro suggerisce una ricorsività infinita di descrizioni di descrizioni. Questa seconda formula ha il vantaggio di eliminare una delle parole ‘ambigue’, la parola “realtà”. Possiamo anche suggerire che l’idea di computo di descrizioni non sia niente di più che un computo, da cui:

Un’operazione di secondo ordine. Propongo di interpretare i processi cognitivi come processi recursivi di infinite computazioni (von Foerster H., 1987, pp. 222, 223).” Come sostiene Harries-Jones (1995), la ricorsività ha luogo quando gli accadimenti entrano e rientrano nell’universo che viene descritto, intricandosi con esso. In terapia riflettiamo sulle nostre riflessioni, analizziamo le categorie utilizzate per fare diagnosi, comprendiamo la nostra e altrui comprensione e possiamo metterla in discussione.

 

Un dominio autoreferenziale in cui i significati e le relazioni non acquisiscono un senso generalizzato ma acquistano un significato speciale per le persone implicate, senso basato sul processo in atto.

Ho cominciato a comprendere le implicazioni dell’introduzione dell’osservatore nel contesto, la perdita dell’oggettività, il pericolo di ragionare in termini di “verità”. Così tanto era contrario alla “verità” che in un’intervista che gli ho fatto per il glossario a compendio del suo libro Sistemi che osservano del 1984, che ho curato nella versione italiana assieme a Mauro Ceruti (1987), ha definito la verità “L’invenzione di un bugiardo”.

 

Nel tempo mi ha insegnato il concetto di riflessività: il soggetto – e nel mio caso il professionista della salute mentale - non contempla oggetti, materia, territorio ma è interessato alle regole di composizione, privilegia i processi di secondo ordine, mappe di mappe, punteggiature di punteggiature, retroazioni delle retroazioni. Analizza quindi le categorie che ha usato per fare una diagnosi e interviene per cambiare le usuali modalità di cambiamento di un sistema; analizza la forma del dialogo, le aspettative, le emergenze: “La comunicazione diventa un fenomeno sociale solo quando i suoi partecipanti riconoscono e costruiscono nella loro comprensione della comunicazione la comprensione della comprensione di quelli con cui comunicano.” (von Foerster H., 1980). Questa frase e molte altre dimostrano l’attenzione sociale di von Foerster alla comunità partecipata. Da qui la necessità di un contratto definito con coloro che ci portano una domanda e la costruzione di un setting sicuro e non giudicante di collaborazione e indagine; da qui la necessità di occuparsi della complementarietà dei posizionamenti, permettendo che ogni definizione ne definisca e rappresenti un’altra.

In tal senso fu ironica l’esclusione nei confronti di von Foerster operata da parte dei costruzionisti sociali, che lo consideravano tutto concentrato sul mentale, mettendo al bando sia lui che gli altri costruttivisti quali Maturana e Varela. I costruzionisti sociali si definirono infatti come i “veri” detentori del costruzionismo, offrendo spiegazioni sociali e definizioni linguistiche condivise. Una guerra che Minuchin definisce “tra cugini”, cui noi della scuola di Milano non abbiamo partecipato, ritenendo che fosse poco sistemica e che solo l’integrazione di aspetti sociali, biologici e cognitivi rispetta la complessità insita nel processo di conoscenza. Come Scuola di Milano abbiamo anche preso le distanze dal linguaggio (Barbetta P., Telfener U., 2021; Barbetta P., Cavagnis M.E., Krause B., Telfener U., in press).

 

Tornando ai miei incontri con Heinz, metteva sempre in guardia dal pensiero astratto, dal fatto che la sensazione non sia sufficiente per la percezione. Citava Poincaré, matematico dell’ottocento, per sottolineare come la costruzione della percezione fosse contingente con il processo di cambiare le proprie sensazioni attraverso il movimento del proprio corpo: il movimento è il primus movens per conoscere, la conoscenza scaturisce dall’azione, sosteneva come già Piaget e Bateson e poi in maniera indiretta anche Maturana. L’azione costituisce il punto di partenza da dove il soggetto conoscente e l’oggetto da conoscere, dapprima indistinti, vanno progressivamente differenziandosi; fare una distinzione diventa il primo passo, perché ogni apprendimento è un’azione. Le sensazioni sono necessarie ma non sufficienti, la costruzione della percezione è contingente col processo di cambiare le proprie sensazioni - ci dice – attraverso il movimento del proprio corpo, correlando questi cambi di sensazione con movimenti volontari. L’interattività diventa la danza emergente. Questa corporeità basata sul movimento l’ho recuperata teoricamente più tardi: la consapevolezza che il corpo ricorda cose che noi non ricordiamo e per cui non troviamo le parole e che vada ingaggiato in terapia per accedere a ricordi e sensazioni mi ha portato a utilizzare attivamente il corpo in terapia, a fare e far fare. In più di un articolo con Pietro Barbetta (2020, 2021) parlo della necessità di accedere alle trame dei nostri pazienti che a volte non hanno le parole per raccontarle.

L’uso del corpo offre la possibilità di accedervi, spinge le persone ad inventare/accostarsi a nuovi copioni per aumentare i gradienti di libertà. Potremmo parlare di una vera e propria svolta corporale della scuola di Milano, di esperienze incorpate come conoscenze pre-concettuali dalle quali possono emergere narrazioni interessanti. Mi riferisco al coinvolgimento dei corpi negli accadimenti sociali da cui emergono altre forme di comprensione.

Heinz dichiarava il suo costruttivismo come una danza interattiva e sociale, la sua scelta epistemologica come ineluttabile; ciascuno deve compiere questa scelta “metafisica” coerente con se stessi, scegliere la lente attraverso la quale osservare. Il costruttivismo era coerente con lui e assecondava la sua natura e la sua personalità, il suo vivere in un processo di costante fluire.  Sosteneva che questa scelta implicasse un atteggiamento etico: “possiamo immaginare un mondo esterno e separato da noi sul quale interveniamo, un mondo dei sistemi osservati. Possiamo alternativamente immaginare di partecipare ad un mondo in cui l’attore agisce su se stesso perché è incluso nell’organizzazione del mondo stesso. Saltare da un modo di pensare all’altro ha come conseguenza un salto nelle fondamenta epistemologiche dell’etica.” (von Foerster H., 1990). Etica che deve essere manifesta ma non esplicita per non cadere nel moralismo e lo diventa attraverso le preferenze personali di ciascun soggetto, attraverso la visione del mondo scelta, l’uso del linguaggio impiegato che determinano la visione e la partecipazione al mondo. L’etica per Heinz diventa il dominio in cui siamo noi che ci assumiamo la responsabilità per le nostre decisioni (“L’opposto di necessità non è possibilità, l’opposto di necessità è scelta”): “Ogni volta che agisco nel qui e ora non solo cambio io ma cambia anche l’universo. Questa posizione lega il soggetto con le sue azioni in maniera inseparabile a tutti gli altri, stabilisce quindi un prerequisito fondamentale per l’etica.” (von Foerster H., 1990).  Come Bateson anche von Foerster predicava l’ineluttabilità di una presa di posizione epistemologica, come lui è caduto nella reificazione di un’epistemologia “migliore” del realismo predicato dal circolo di Vienna e dal pensiero dominante, come Bateson - che parlava dell’epistemologia sistemica come la posizione privilegiata e più coerente con la complessità del mondo attuale - anche Heinz chiedeva implicitamente di fare una scelta sistemica e costruttivista: “L’oggettività è usata come uscita d’emergenza per coloro che desiderano oscurare la loro libertà di scelta e sfuggire alla responsabilità delle loro decisioni. Rimuovere l’osservatore da ciò che osserva lo libera dalla responsabilità di ciò che fa: viene così ridotto ad un ruolo passivo ma oggettivo di macchina, un semplice registratore del processo che ha luogo al suo interno e all’esterno. Nel costruttivismo ci è restituita la libertà di affrontare una qualsiasi situazione e con essa ci viene anche restituita la nostra responsabilità. L’etica diviene implicita, la responsabilità esplicita.” (von Foerster H., 1973). Come il grande collega sistemico considerava concetti come mente, memoria, volontà utili principi esplicativi.

Inneggiava alla libertà, ma anche alla gioia di vivere e alla gratitudine per tutto ciò che accade. Mi è rimasta impressa una cena a Padova con Andrea Mosconi e Pio Peruzzi, era il 1997, ha parlato con noi di collusione: “Se si lascia operare un sistema chiuso in maniera ricorsiva sui suoi risultati esso, prima o poi, convergerà verso un comportamento eigen, stabile (punto fisso, attrattore) che si manifesta nel sistema attraverso i rituali osservati, il linguaggio parlato, i costumi mantenuti” (appunti personali).  I valori eigen acquisiscono la forma che emerge dallo scambio ricorsivo dei partecipanti di una situazione sociale. Possiamo considerare un sistema chiuso una famiglia, i partecipanti ad una rete sociale, un’organizzazione, un’istituzione, arriveranno a relazioni eigen, che si ripetono nel tempo e che si manifestano attraverso lo scambio ripetuto nel tempo; il dialogo diventa lo strumento per uscire dall’autoreferenza in quanto introduce differenze: “Come questo avvenga è inconoscibile, ma il fatto che avvenga dipende dal nostro farlo insieme in un dialogo ricorsivo.” Quando una visione del mondo diventa dominante emerge come valore eigen tra tutte le altre e diventa quella più riconosciuta, cui si viene invitati ad aderire. Anche i nostri clienti arrivano a noi portando una storia coerente, organizzata attorno ad alcuni attrattori, ad alcune idee o scene cardine, condivise e comuni, che abbiamo chiamato isomorfismi, pattern che si ripetono a diversi ordini di ricorsività e nei quali anche noi rischiamo di cadere, colludendo inesorabilmente. Da qui le riflessioni sui rischi del lavoro Istituzionale che vede persone con epistemologie e credenze diverse operare in un ambiente gerarchico e verticistico che rischia di reificare il disagio mentale quasi come collante dell’identità di gruppo.

Considerando gli umani come macchine non banali, si soffermava sulla loro imprevedibilità in quanto dipendenti dalla storia e dall’indeterminabilità analitica degli eventi: “che la causalità determini il flusso degli eventi nell’universo è una delle credenze centrali della nostra cultura occidentale. Si crede che se potessimo comprendere le leggi della natura potremmo capire il mondo… con le spiegazioni desideriamo stabilire dei nessi tra un evento e un altro evento” (in Telfener U., Casadio L., 2003). Gli umani sono da lui considerati inaspettati, le situazioni imprevedibili e le scelte indecidibili. “Come facciamo ad accettare questa quantità minima di conoscenze ed evitare questo oceano di ignoranza?” si domandava, sostenendo che l’umano in divenire non ha inventato altro che teorie ingenue per spiegare le proprie facoltà e non apprezza a sufficienza la meravigliosa macchina dell’Universo che lo comprende. L’umano si meraviglia, si inasprisce o si arrovella solo quando questo non funziona secondo le sue aspettative, raramente ammette la sua profonda ignoranza di fronte al proprio senso della conoscenza. “Va ripensata un’epistemologia, una teoria della conoscenza, che sia conscia della vastità della nostra ignoranza, un’epistemologia che emerga come punta di un iceberg, consapevole della sua condizione fluttuante.” - sosteneva (von Foerster H., 1981). Prendere in considerazione la possibilità della propria ignoranza nel dominio clinico implica falsificare la teoria che vede il professionista come esperto, capace di leggere ogni situazione e di trovare risposte per ogni evento. Le domande diventano stimoli per entrare nel dialogo di un dominio comune ed uscire dall’autoreferenzialità, per ingaggiarci in interazioni partecipate stimolate dalle domande che permettono di entrare in un dominio comune e costruire nuove trame, un racconto polifonico.

Abbiamo iniziato una conversazione che non si è interrotta fino alla sua morte nell’ottobre del 2002. Mi inviava articoli, bigliettini istoriati e svolazzanti, mi ha insegnato e supervisionato, mi ha raccontato aneddoti e non mi ha fatto mai sentire sola. Mi apprezzava come sua biografa, come orecchio per le sue storie e mi voleva bene, come Heinz sapeva voler bene, con attenzione ed entusiasmo, donando di sé aneddoti e la sua comprensione del mondo. Quando insieme ad Alessandro di Laschenal abbiamo però tentato di scrivere un lavoro tratto da una sua conferenza (col suo permesso naturalmente) il nostro sforzo non gli è piaciuto “troppo lineare, troppo chiaro, non vola”. Quando ho deciso di scrivere con Luca Casadio il dizionario sulla complessità (uscito postumo nel 2003) si è invece offerto di supervisionarlo; è venuto più di una volta a Roma e ci ‘faceva le bucce’ con severità e pazienza, spiegando, narrando aneddoti, facendo proposte. Voleva che scrivessimo un lavoro che facesse pensare, che non offrisse risposte, che desse di ogni concetto più di una definizione, per spingere il lettore ad andare oltre se stesso. Il dizionario, che lui ha voluto costruito come un ipertesto, raccoglieva le parole più dense del pensiero sistemico e proponeva la sistemica come atteggiamento conoscitivo: “Se scegli di dividere fai scienza, se invece ti occupi della complementarietà allora puoi entrare in un paradigma sistemico, in modo che una logica rappresenti l’altra e che in ognuna si specchi l’embricazione, la complementarietà. In questo modo ognuna delle due modalità rappresenta e definisce l’altra. – scrive nell’introduzione al nostro libro – Già la Teoria Generale dei sistemi si era posta come obiettivo quello di non suddividere ma di collegare le osservazioni, gli eventi tra loro e considerarli in coro.(…) Per parlare di scienza, di arte o anche del tempo, il soggetto si trova di fronte a una scelta; può usare il modello scientifico con il suo modo di organizzare i dati, può anche scegliere la prassi sistemica che si fonda sul dialogo, su una modalità tipica di attenzione alle relazioni umane che restituisce la scienza al suo dominio originario, al dialogo umano. Non è necessario scegliere l’uno o l’altro approccio; possiamo utilizzare contemporaneamente le due logiche per avere una maggiore profondità di campo.” (Telfener U., Casadio L., 2003).

Era un uomo che adorava avere un pubblico, era ironico, adattabile, elegante, sempre positivo; seguendo Maturana, sosteneva che l’amore dovrebbe essere l’emozione che fonda il sociale in quanto include l’accettazione dell’altro, l’attenzione, la convivenza, la collaborazione e il rispetto. Pensava fuori dal coro e sfidava ciò che uno diceva. Privilegiava il cambiamento, sosteneva che ciascun umano fosse in costante divenire. “Se vuoi essere te stesso, cambia!” ingiungeva a chi lo affiancava, spingendomi come clinica a fare ipotesi evolutive, a favorire l’apertura a molteplici possibilità, l’ampliamento delle alternative, la fiducia nei sistemi. Mi è capitato che stesse dietro lo specchio unidirezionale a guardare il processo terapeutico, non capendo le parole che venivano scambiate, uscendo dalla stanza lo trovavo entusiasta di ciò che aveva visto succedere: sosteneva che come terapeuti mettessimo in atto un processo epistemologico, spingendo le persone ad inventarsi, facendo domande imprevedibili e non scontate per cui gli altri erano obbligati a uscire dai soliti copioni e diventare poeti. Mi spingeva a entrare nell’emotività condivisa perché è il livello emotivo che permette alle persone di cambiare: cura il cuore - mi diceva – insegna in seduta la fiducia e abbandona il controllo.

Sono andata a trovarlo negli Stati Uniti più di una volta, ho conosciuto i suoi due figli (il terzo era morto), sono andata negli USA invitata da lui ad una Gordon Conference, l’ho raggiunto a Parigi quando il sindaco gli ha dato le chiavi della città, l’ho raggiunto a Sant Gallen (febbraio 1987) per una conferenza organizzata dall’amico Gilbert Probst sulla cibernetica applicata, dove ho conosciuto Gordon Pask e incontrato di nuovo Ernst von Glasersfeld e altri cibernetici. Ogni volta che lo incontravo comprendevo qualcosa di più sulla teoria dei sistemi e sul vivere. Ogni volta accettavo di più la mia ignoranza e affinavo l’ironia. Non a caso parlava costantemente degli umani come indeterminabili, in costante divenire, organizzati da almeno un punto cieco.

In maniera coerente con gli insegnamenti di von Foerster è possibile pensare a una pratica clinica “sensibile”, pensata come una serie di azioni armoniose, coerenti con le intenzioni epistemologiche. Sto riferendomi ad una prassi consapevole delle premesse epistemologiche, sempre attenta a mettere in discussione le premesse, desiderosa di co-costruire azioni comuni e un linguaggio condiviso all’interno di un contesto relazionale di consultazione in cui il professionista propone senza diventare l’esperto. Un contesto in cui aumentiamo il numero di scelte per i nostri utenti anziché limitare il numero delle possibilità. Bianciardi sostiene che “La differenza di fondo è tra il pensare che ci sia un ‘qualcosa’ che precede la relazione e che poi si manifesta (nel comportamento, nel sintomo, nella relazione), e l’accettare il fatto che ciò che precede la relazione nel qui ed ora è, sempre e solo, un universo di possibilità: le molteplici possibilità che tutti noi abbiamo di proporci nella relazione.” (Bianciardi M., Telfener U., 2014).

 

Riflettere su ciò che facciamo, come abbiamo deciso di fare ciò che abbiamo fatto, quale realtà emerge dalle nostre scelte e come agire in rapporto all’altro, porta l’operatore a una serie di azioni che intendo sottolineare:

 

o   Mostrare rispetto, la capacità di sentirsi curiosi verso la storia idiosincratica dell’altro

o   Lavorare oltre le regole a priori, non seguire percorsi usuali, cercare soluzioni nuove

o   Essere consapevoli di far parte del mondo del paziente e parte del mondo delle possibili soluzioni, non pensarsi separati dal mondo dell’altro, non considerarsi un osservatore esterno e non considerare il mondo indipendente da noi

o   Curare la propria competenza, prestare attenzione alle categorie che utilizziamo

o   Monitorare la propria posizione all’interno del sistema in modo da ottenere ciò che si desidera nella relazione terapeutica che deve confermare tutti i partecipanti

o   Essere capaci di assumersi la responsabilità del processo, responsabilità della costruzione che emerge, dell’evoluzione e della creazione della co-creazione

o   Essere capaci di assumersi la responsabilità anche per se stessi come clinici: training e formazione continua da una parte, auto-protezione dei propri bisogni, di uno spazio privato. Responsabilità verso gli altri per quello che facciamo, responsabilità verso noi stessi per chi siamo e continuiamo a diventare.

 

Sono diventata una professionista responsabile delle mie azioni, consapevole della necessità di scegliere rispetto a decisioni che sono per principio indecidibili, attenta alle operazioni sulle operazioni che metto in atto e ai loro feedback, attenta a linguaggio e azioni, una professionista che agisce su se stessa perché inclusa nel sistema, che tenta di aumentare il numero di scelte per sé e per gli altri, che considera ciascuno libero di agire verso il futuro che desidera, che valorizza l’eterarchia computazionale nei valori, nelle scelte, nel modo di vivere. Quando si è arrivati al punto in cui l’azione diventa spontanea, fare e far fare in terapia non consistono nel cercare di ottenere un certo scopo ma nella capacità di perturbare la danza con cui le persone sono arrivate a chiedere aiuto, si tratta della capacità di entrare nella relazione con l’altro, di coglierne l’essenza, della capacità di seguire nell’azione la via della minima resistenza, come l’acqua che scorre e il vento che agita gli alberi.

Mi accorgo in questo momento scrivendo questo breve saggio che i temi d’interesse che ho perseguito per tutta la vita nei miei studi - la ricorsività, la collusione e il rischio del rischio iatrogeno, l’evolutività del processo terapeutico e i suoi blocchi - derivano tutti dagli insegnamenti del mio maestro e amico. Mi ha influenzato molto questo umano in costante divenire, energico, positivo, curioso, sempre attento ad inglobare ogni nuovo stimolo, pronto ad esplorare alternative e a proporre nuove risposte a vecchi problemi. Un uomo irriverente e profondamente etico.

Grazie Heinz.

 

 

 

Bibliografia