Riflessioni Sistemiche n° 26


Eredità e ispirazioni.
Incontri con persone straordinarie

(In) una vita da scienziato


di Vincenzo Artale

(Associato ISMAR-CNR, già Dirigente di Ricerca ENEA e Professore a contratto, Dipartimento di Fisica,
Università Tor Vergata, Roma)

Foto di Mario da Pixabay

Sommario
Come si arriva alla decisione di fare lo scienziato: è una scelta consapevole, si nasce o si diventa scienziato? Oppure tale scelta, può essere stata il frutto inconsapevole di un variegato intreccio di incontri casuali e/o voluti con altri scienziati o protagonisti della cultura più o meno noti, quindi non solo scienziati di professione? Esiste un filo sottile e invisibile che collega la nostra storia personale e la passione per la scienza?

In questo breve testo tracceremo l’identikit di alcune figure chiavi e ciò che li connette inconsapevolmente, che hanno determinato la mia scelta di occuparmi di ricerca sul cambiamento climatico e di oceani, sottolineando non solo il loro ruolo scientifico e culturale, ma anche quello sociale e politico che direttamente e/o indirettamente hanno svolto negli ultimi 50 anni.

Il caso regna sovrano si potrebbe dire.

 

Parole chiavi
Storia della scienza, ecologia e crisi ecologica, cambiamenti climatici.

 

Summary
How do you arrive at the decision to be a scientist: is it a conscious choice, are you born or become a scientist? Or could this choice have been the unconscious fruit of a variegated intertwining of casual and / or deliberate encounters with other more or less well-known cultural actors or protagonists, so not only does it require to be a scientist? Is there a thin and invisible thread that connects our personal history and the passion for science?

In this short text we will outline the identikit of some key persons and what unknowingly connects them, who have determined my choice to deal with research on climate change and oceans, underlining not only their scientific and cultural role, but also their social and political one that directly and / or indirectly they have played in the last 50 years.

Chance reigns supreme, one might say.

 

Keywords
History of science, ecology, ecological crisis, climate change.


 

Introduzione

Nella vita ho fatto lo scienziato, forse questa parola è troppo impegnativa, mi sento più a mio agio nel definirmi un ricercatore. Mi occupo di cambiamenti climatici, analizzati con gli occhi e gli strumenti di un fisico e come tutti i fisici, ama svelare le leggi della natura, ma con una passione in più che capirete alla fine, sempre se nel frattempo non vi sarete così annoiati da non arrivare fino in fondo a codesto testo.

Ho qui sul tavolo alcuni libri che ho scelto per tracciare il mio percorso di crescita culturale e scientifica, dietro i quali ci celano gli “educatori culturali” o i maestri “invisibili”, come li definisce Letizia Battaglia, che lo hanno determinato. Quindi non i miei libri preferiti ma quelli che hanno determinato una svolta nella mia vita professionale e personale. Parlerò di libri, persone ed incontri determinati dal caso, ma che sono stati significativi nel mio percorso personale delineando una linea di pensiero. Con il termine caso si intende qualcosa che ci accade indipendentemente dalla nostra volontà, ma è veramente così? oppure “…Le cas c’est le vie, l’esistenza (di un uomo) si fissa all’incrocio di molte circostanze e il progetto della ragione non totalizza l’esperienza, che la conoscenza intenzionale è sempre attraversata anche da altre forze, non regolabili da alcuna norma, così come la vita è attraversata dal suo contrario, la morte.” (Bonito Oliva A., 2022).

In epoca come quella che stiamo vivendo, dove tutto è regolato dal virtuale e da una conoscenza dematerializzata, immagino quanto possa sembrare strano ad un giovane di oggi, immaginare che ci sia stato un tempo in cui la pubblicazione di un libro poteva avere la capacità di catalizzare il dibattito intellettuale per settimane, anche al di fuori delle mura degli ambienti accademici.

Libri, appunto come L’Ape e l’architetto di Cini e colleghi del 1976, I limiti dello sviluppo del Club di Roma di Aurelio Peccei: di questa ho proprio la prima edizione del 1972, di cinquant’anni fa; poi su questa pila scombinata di libri che mi circonda, vedo anche l’Ulisse di Joyce ed ancora la Rivoluzione Sessuale di Wilhelm Reich (1936), vi ricordate lo psichiatra dell’orgone blue.

Al primo colpo d’occhio, sembrano tutti libri buttati sul tavolo a cavolo, dopo averli scelti dalla libreria dietro le mie spalle ad occhi chiusi, un nonsense casuale di cultura eterogenea.

Eppure, no, essi hanno un senso e proverò a spiegarlo, a raccontarlo, andando indietro nel tempo, molto tempo indietro all’origine della nascita della cultura su cui è cresciuta la generazione dei baby boomer, come mi definisce mio figlio, accusandomi di essere il detentore, insieme ai miei pari, di privilegi sociali ed economici, che le nuove generazioni, i millennials, si sentono di non potere più sperare di possedere. Una generazione, la mia, che, tuttavia, nel bene e nel male, ha prodotto quello che è la società di oggi.

A tale riguardo mi ha colpito la risposta che Letizia Battaglia, grandissima fotografa ed intellettuale, purtroppo recentemente scomparsa, ha dato ad Antonio Gnoli alla domanda su quanto La sua vita fosse stata per certi versi incredibile, che ci azzecca parecchio a quanto detto sopra:” … ma solo in parte è dipeso da me. Se fossi nata a Bergamo o nella provincia del Nord molto probabilmente non sarei stata la persona che sono diventata. Siamo il risultato della casualità e del desiderio di trovare il nostro sé. Mi è sempre piaciuta la cultura. Ho letto tanto anche per curiosità e per non sentirmi spiazzata. Ho conosciuto Pound a Venezia, ho letto l’Ulisse di Joyce, ho fotografato Pasolini. Ho avuto dei maestri che ho chiamato “invisibili”. (Letizia Battaglia, 2022).

Ecco quest’ultima citazione mi infonde il giusto coraggio per raccontare alcuni aspetti di vita personale.

 

  

Adolescenza e conoscenza 

Sono un meridionale, terzo di quattro figli, i primi dieci anni della mia vita li ho trascorsi nell’isola maggiore del Mar Mediterraneo, la quale, come diceva Vincenzo Consolo, la si ama di più quando ci si allontana da essa, ma come una molla per troppo tempo sotto stress, alla fine con il passare del tempo il pensiero si rilassa (o si spezza) riportando i tuoi pensieri li dove i tuoi principi razionali si fondono con i sogni, gli odori e le visioni della nascita. È illuminate, a riguardo, il pensiero di Consolo: Passeggiare non è sinonimo di vagare a caso, come un flâneur nelle vie di una moderna metropoli, ma significa innanzitutto tornare sui propri passi. Poiché la Sicilia passeggiata non è la stessa cosa di una passeggiata in Sicilia. I passi, non importa fino a che punto reali o immaginari, sono quelli di un viandante, che decide la direzione durante il suo cammino, un percorso a ritroso nel tempo e nello spazio, dove la meta coincide con il punto di partenza. Non si tratta infatti di un viaggio di scoperta, e nemmeno di esplorazione, ma è posto sotto il segno del nostos, del ritorno.”  (Consolo V., 2021”)

La mia è stata una famiglia esule, e quindi anch’io esule, per scelta e non per necessità, senza le valige di cartone, ma sempre ferito a causa delle radici strappate bruscamente dal luogo di nascita.

L’infanzia trascorsa tra la ricerca della socialità ed il rifugio nell’etica cristiana per la necessità di trovare un fine morale per la vita che iniziava. Un’etica desiderata ed inconsciamente agognata più per innato istinto che razionalmente pianificata.

Questo saggio è l’occasione per riflettere e sottolineare l’importanza che ha avuto su di me, immagino anche per tutti gli adolescenti, questo caotico periodo di formazione giovanile e nello specifico in quella più strettamente scientifica. È un’esperienza nuova, vediamo che cosa esce fuori e citando Kafka:” le vie nascono dal percorrerle”

L’approccio religioso alla vita viene subitaneamente frantumato dagli eventi storici, siamo nel ’68, ma soprattutto ancora una volta da un libro, l’Ulisse di Joyce (1920);  quello che ricordo è un trauma, lo leggevo per inerzia senza essere ben cosciente del contesto letterario in cui si poneva questo libro e sulla sua collocazione nella storia letteraria, ma ero attratto dalla scosse continue che mi produceva, dalle immagini che mi affioravano dal profondo, il tutto in un contesto di assoluta verginità e di vuoto intellettuale.

Solo dopo tanti anni mi resi conto che questo libro costitutiva un pilastro della cultura occidentale.

Un altro trauma, sempre in età adolescenziale, è avvenuto con l’incontro con Wilhelm Reich, ed in particolare con il suo testo più famoso e traumatico La rivoluzione sessuale (1936), provocato dalle mie insegnanti, si tra i miei maestri più importanti, alle scuole superiori, sono state delle insegnanti donne, quelle che prima di tutte/i hanno dato sostanza ai mio desiderio di conoscenza e di una formazione intellettuale meno precaria e conformista e soprattutto di emancipazione consapevole dal mio ruolo di studente-maschio. Infatti, ho frequentato un Istituto tecnico e negli anni ’60, era una scuola solo maschile.

Tra queste educatrici invisibili ne cito una in particolare, Alma Sabatini, la mia insegnante di lingua inglese, anche perché sempre per eventi casuali, è l’unica che ho continuato a frequentare fino a quando, purtroppo, non è morta prematuramente in un terribile incidente stradale.

Alma Sabatini è stata una notissima attivista femminista impegnata in molte lotte per i diritti civili sin dagli anni ‘60. Essa ha dato dei fondamentali contributi al movimento femminile anche in termini legislativi, per esempio all’inizio degli anni Ottanta si spese nella campagna per la legge di iniziativa popolare contro la violenza sessuale, portando il suo contributo di analisi degli insulti e del linguaggio sessuale. Pagando spesso in prima persona anche fisicamente: fu picchiata e ferita dalla polizia durante un sit-in a Roma, peraltro autorizzato. Potete immaginare quanto cose ci potrebbe dire oggi sullo stalking via social.

Nel 1984 venne chiamata a far parte della neoistituita Commissione per la parità tra uomo e donna della Presidenza del Consiglio dei ministri, che avviò una poderosa ricerca sulla parità tra i sessi nella lingua, nei mass media e nelle istituzioni scolastiche.

Il paradosso di questa prima forma di educazione e formazione intellettuale, intensa, antimaschilista e femminista, è avvenuta, come già accennato sopra, all’interno di un Istituto Tecnico Industriale, allora proibito alle donne. Soprattutto le mie insegnati di allora ci abituavano all’incontro ed ai lavori di gruppo che svolgevamo anche al di fuori delle attività scolastiche, come i gruppi reichiani, composti da insegnanti e studenti. Non tutti gli studenti partecipavano, ma molti si, incluso me ovviamente. Nella mia esperienza è stato importantissimo il ruolo svolto da miei insegnati come guida, attivazione e concretizzazione delle mie passioni culturali, morali, politiche e vorrei aggiungere anche emotive.

Proprio un’altra straordinaria insegnante di Chimica che purtroppo non ho più avuto occasione d’incontrare, era quella più impegnata nei gruppi reichiani; ed io insieme altri mie compagni ci riunivamo, sotto al sua guida, per discutere ed approfondire i rapporti relazionali complessi che si instaurano all’interno di una classe, inclusi i docenti, analizzando gli aspetti conflittuali emozionali ed  educandoci  a saperli gestire in modo da evitare di incappare nella soluzione più semplice, ossia quella repressiva ed autoritaria. 

Per la prima volta mi resi conto quanto era rilevante, al fine del raggiungimento di un obbiettivo di crescita umana e culturale dello studente, il contesto psicologico e relazionale tra tutti gli attori in campo e della competenza necessaria che gli insegnanti devono avere per riuscire a gestire un sistema così complesso.

Il frutto di quei lavori di gruppo a mio avviso è ancora oggi valido, ossia il sistema di apprendimento collettivo o di una classe, funziona solo se si inserisce in essa, in modo attivo e biunivoco l’insegnante stesso, decostruendo la sua figura precostruita. In seguito, questo allenamento adolescenziale all’incontro mi è stato molto utile nella gestione di gruppi di lavoro in ambito scientifico.

Non è un caso che allora si discuteva molto di Wilhelm Reich, uno degli psicoanalisti allievi di Freud e uno dei primi che ha riflettuto sulla complessità dei rapporti umani e sull’indissolubile connessione tra corpo, mente e psiche.  Reich dava molta importanza al ruolo del corpo ed è un aspetto comportamentale che tutti noi sottostimiamo spesso anche banalmente durante delle riunioni di lavoro e non solo quelle scientifiche. Il corpo parla più delle parole. Questo modello psicologico ma anche filosofico può essere considerato la base delle moderne psicoterapie corporee.  Attualmente l’evoluzione del suo pensiero è molto interessante, cercando la relazione con altri modelli e scuole, ma anche esplicita le connessioni con i sistemi di pensiero scientifici e con le discipline che contribuiscono ad uno sguardo complesso e articolato sull’essere umano. Sono molto interessanti queste nuove tendenze che tendono a trovare principalmente una relazione tra Reich, Freud e Jung, senza ovviamente trascurare altri padri e madri del pensiero psicoanalitico, ma anche alla filosofia, alle neuroscienze, alla psichiatria e alla nuova fisica all’interno di un quadro, forse troppo di moda, della complessità dell’essere umano.

 

 

I limiti dello Sviluppo 

Interrompo bruscamente la descrizione della mia evoluzione e formazione adolescenziale, principalmente per evitare di farmi trascinare in un autobiografismo improduttivo e pietoso, secondariamente non avendo neanche lontanamente le doti letterarie di un Joyce, non sono capace di narrare, come invece fa lui in Dedalus (un libro che consiglio di leggere a tutti quelli che soffrono di mal d’adolescenza), tutti i momenti di transizione della coscienza di un giovane (forse un futuro scienziato?) in cui l’infanzia viene narrata attraverso momenti, discontinui e incostanti, con un lessico evocativo in cui ognuno ritrova le sensazioni primordiali della propria infanzia e della nascita.

Esattamente quello che ho provato a fare (malamente) nelle pagine precedenti, ho evocato a me cose che oggi appaiono più sogni sognati che realtà vissute.

Con il pionieristico Report I limiti dello sviluppo (1972), ecco che entriamo nel cuore di questo saggio e in quel contesto scientifico che preannuncia quello che sarà il mio lavoro futuro.

Questo libro è noto a tutti perché costituisce il primo rapporto che in modo scientifico ed autorevole, sviluppato, su richiesta del Club di Roma, all’interno di uno dei più prestigiosi istituti scientifici al mondo come l’IMT di Boston, ammoniva l’umanità dei rischi economici-ambientali che stava correndo.

Con 30 milioni di copie vendute in trenta diverse traduzioni si trattò del più grande successo editoriale di sempre nella letteratura sull'ambiente e l'ecologia.

Gli autori del Report erano Dennis L. Meadows (coordinatore), sua moglie biofisica Donella H. Meadows, il Norvegese Jorgen Randers, esperto in management e William W. Behrens III, esso fu progettato per divulgare i risultati ad un pubblico più ampio possibile. Questa era una prima rilevante, come vedremo, novità per un rapporto molto tecnico.

Soffermiamoci su gli aspetti forse meno noti, ma fondamentali per comprendere perché questo rapporto costituisce un altro trauma negli studi sul rapporto tra crescita economica, ambiente e giustizia sociale. È interessante sottolineare che il rapporto prendeva in considerazione il mondo come un unico sistema; quindi, i cambiamenti climatici non sono espressamente presi in considerazione se non in termini di pollutions e la CO2 è una di questi. Corre l’obbligo di notare che questo approccio, che oggi lo potremmo definire un approccio sistemico, non è nuovo, forse per la prima volta, in epoca post galileiana, ne troviamo ampia contezza nell’opera omnia in 5 volumi, Il Cosmo (Cosmos) del 1845, di un gigante della scienza come von Humboldt, nella quale cercò di racchiudere tutto quello che si sapeva a quel tempo sul nostro pianeta e sui complessi legami fra vivente e non vivente (Provenzale A., 2021).

L’uscita di questo libro innescò anche da un punto di vista politico un dibattito molto divisivo, simile a quello che osserviamo oggi sui cambiamenti climatici; il rapporto fu cacciato di essere stato pensato, scritto e sviluppato da “profeti di sventura”. Su questo tema torneremo dopo.

In questo saggio mi interessa discutere soprattutto gli elementi scientifici e politici del rapporto e perché debba essere considerato il turning point sul modo di pensare il problema dell’ecologia ambientale. Scorriamo velocemente la storia del rapporto.

Il Club di Roma si riunì per la prima volta nell'aprile del 1968 nell'Accademia dei Lincei a Roma (Meadows et al., 1972). Era un'organizzazione informale, costituita da una trentina di persone tra scienziati, economisti, umanisti, industriali, provenienti da dieci paesi diversi. L'incontro fu sollecitato e organizzato da Aurelio Peccei, imprenditore e manager di FIAT e Olivetti, per avviare una riflessione sui principali problemi che affliggono l'umanità su scala globale. L'obiettivo era di valutare i limiti delle risorse naturali che la terra poteva fornire e di capire quali conseguenze ci sarebbero stato a breve e lungo periodo, per l'umanità. Ma la parte sicuramente maggiormente innovativa, su cui mi soffermerò a lungo, data la sua rilevanza con le problematiche ambientali di oggi, è l’uso massiccio di modelli di previsione. Questa metodologia non era ancora nella mente di Peccei né dei suoi colleghi, la scoperta avvenne quasi per caso, quando Peccei incontrò uno scienziato dell’MIT Jay Wright Forrester, fautore di un approccio modellistico per simulare il comportamento dei sistemi sociali. Negli anni 60, i modelli di Forrester erano già molto avanzati. Sulla base di un metodo di calcolo completamente nuovo che Forrester aveva denominato “dinamica dei sistemi”, i modelli erano in grado di tenere conto del modo in cui le molte variabili di un sistema complesso interagissero fra loro e cambiassero nel tempo. Peccei e colleghi furono illuminati da questo incontro e commissionarono a Forrester e al suo gruppo di ricerca di simulare il futuro dell'umanità per un lasso di tempo di più di un secolo, fino al 2100 (vedi Figura 1 e 2).

Figura 1

Figura 2

In Figura 1 la prima bozza del modello realizzato durante l’incontro tra Forrester e Peccei: è interessante il confronto con Horrendogramma di Bretherton del Sistema Terra di molti decenni dopo di Figura 2. È evidente quello che li accomuna: l’estrema complessità e l’elevato numero di gradi di libertà di cui tener conto nella rappresentazione di un qualunque sistema dinamico come quello terrestre e quanto arduo possa essere interconnettere a questo l’evoluzione, altrettanto complessa, dei sistemi economici e sociali. In estrema sintesi I limiti dello sviluppo aveva la pretesa, in parte realizzata, di rappresentare l’evoluzione di un Sistema dei Sistemi. L’eredità di questo approccio, oggi lo possiamo rintracciare non tanto nei Report dell’IPCC, ma a mio avviso, soprattutto negli studi di Rockstrom e colleghi (2008, 2009), i quali hanno identificato nove Planetary boundaries all’interno dei quali l’umanità deve agire con cautela allo scopo di non raggiungere i tipping point (i punti di non ritorno) del sistema climatico. Un tema che affronterò in un saggio a parte (Lenton T.M. et al., 2007; Hughes T.P. et al., 2013; Lenton T.M. et al., 2019).

 

 

La dinamica dei sistemi di Forrester ha fornito risultati che hanno dimostrato che Malthus era un ottimista (Lahart et al., 2008). Ben lontana dal raggiungimento dei limiti della crescita e rimanere lì, come aveva immaginato Malthus, la civiltà umana stava superando i limiti e continuava a crescere, solo per collassare malamente in seguito. Il problema non era solo quello di una distribuzione equa delle risorse disponibili, ma di evitare il collasso di tutta la civiltà umana. I calcoli mostravano che era possibile, ma ciò richiedeva l'arresto della crescita economica. Era una cosa che nessuno, allora come adesso, poteva nemmeno immaginare di fare.

Molti anni prima di incontrare Peccei, il lavoro di Forrester era focalizzato nella realizzazione di strumenti tecnologici quali servomeccanismi e calcoli digitali per la gestione di sistemi organizzativi complessi in ambito industriale e militare e fu uno dei primi, negli anni ’50, a sviluppare sistemi di calcolo per la simulazione in tempo reale di un sistema dinamico complesso come un aeroplano e quindi in settori molto lontani da quelli ambientali. Oggi diremmo che era un genio dell’informatica applicata ai sistemi complessi. Già nel 1956 aveva maturato una nuova visione nell’organizzazione del sistema economico ed industriale attraverso dei modelli dinamici connettendo insieme la cibernetica, la teoria dei sistemi e la ricerca operativa.

Vala la pena citare, utilissimi ancora oggi, i principi guida allora veramente rivoluzionari che lo guidavano nella costruzione dei suoi modelli. Questi principi furono espressi in dettaglio  per la prima volta in un libro sulla Dinamica Industriale , in cui dimostrava che per una modellazione efficace dei sistemi complessi occorre tenere conto di quattro principali fattori:  la struttura del sistema è guidata da fattori e comportamenti controintuitivi, la struttura implica relazioni non lineari, la simulazione al computer è necessaria per esplorare il suo comportamento e  infine l'applicazione delle tre idee precedenti devono essere sintetizzate in un modello, il quale fornisce ai manager, in modo rigoroso e pragmatico, uno strumento indispensabile per migliorare la progettazione dell’organizzazione industriale (Forrester  J.W.,1961, 1968b,c, 1971b).

Mi soffermerei sul secondo principio, quello della non linearità del sistema, a quel tempo non era di moda parlare di sistemi caotici non predicibili, e ad eccezione del modello preda-predatore di Lotka-Volterra (Cencini M. et al., 2021), tutti i modelli di ricerca operativa, di economia o di sistemi dinamici erano dominati da teorie lineari, per il semplice motivo che era possibile risolverli analiticamente. Ma la competenza informatica di Forrester e quindi la sua abilità nello sviluppo di linguaggi di programmazione (e.g. SIMPLE e DYNAMO due tra i suoi prodotti più noti) ed l’uso efficiente dei computers e delle memorie (una delle sue prime scoperte riguardava proprio questo aspetto) gli permise di risolvere numericamente le equazioni non lineari che descrivevano la struttura dei sistemi che stava studiando che fondamentalmente negli anni ’50 e ’60 erano quelli di ottimizzazione della produzione e distribuzione delle merci.

Negli anni successivi in collaborazione con l’ex sindaco di Boston applicò la stessa metodologia e gli stessi principi per la gestione degli enormi problemi delle città (Megacity). Una nota curiosa, Will Wright, molti decenni dopo, nel creare il video-game SimCity si inspirò proprio agli studi di Forester sull’Urban Dynamics (Forrester J.W., 1969). 

A questo punto è chiaro il motivo per cui Peccei rimase affascinato da Forrester: si realizzava una sintesi tra l’obiettivo visionario di Peccei e lo strumento innovativo di Forrester per realizzarlo.

Nel 1970 Forrester insieme con il suo studente di dottorato, Dennis Meadows, svilupparono un modello che riusciva a catturare i feedback non lineari tra crescita della popolazione, risorse naturali, inquinamento (inclusa la CO2 anche se allora non era considerata cruciale come ai nostri giorni), agricoltura e produzione industriale, investimenti di capitale e qualità della vita. I risultati di questo lavoro sono pubblicati nel libro pubblicato nel 1971 World Dynamics e successivamente nel più famoso Report “I limiti dello sviluppo” da cui siamo partiti (Forrester J.W., 1971; Meadows D.L. et al.,1974).

Come accennato sopra sia i libri di Forrester che il report sono stati non solo rifiutati, ma attivamente demonizzati. La leggenda delle “previsioni sbagliate” dello studio è stata creata e si è diffusa così tanto che è ancora largamente creduta. Tuttavia, la rivoluzione intellettuale costituita dalla Dinamica dei Sistemi non è mai morta completamente ed oggi la modellazione del mondo sta tornando (Lane, D.C. e Sterman, J. D., 2011; Steffen W. Et al., 2018).

I Limiti dello Sviluppo è stato il primo studio a esplorare i possibili impatti della crescente impronta ecologica della crescita della popolazione, delle attività umane e dei suoi impatti fisici sul nostro pianeta finito da una prospettiva sistemica. Gli autori hanno avvertito che se le tendenze di crescita della popolazione, dell’industrializzazione, dell’uso delle risorse e dell’inquinamento fossero continuate senza sosta, ad un certo punto nei prossimi cento anni, avremmo raggiunto, e quindi superato, la capacità di carico della Terra. Nell’ultimo mezzo secolo, i risultati di I Limiti dello Sviluppo si sono rivelati straordinariamente accurati (Simmons M.R., 2000; Meadows D.H. et al., 1992, 2004).

Sicuramente l'ultimo capitolo di I limiti dello Sviluppo è quello che allora ha destato maggiori contrasti il quale prospettava la fattibilità di uno stato di equilibrio tra popolazione ed economia. Lo stato di equilibrio non è sinonimo di stagnazione. Tutte le attività umane che non implichino lo spreco di risorse non rinnovabili e che non comportino degrado ambientale potrebbero continuare a crescere indefinitamente. Anche lo sviluppo tecnologico potrebbe progredire. Ogni incremento di produttività non potrebbe essere tradotto in un aumento della produzione, perché questa dovrebbe rimanere costante. Il progresso tecnologico potrebbe così riflettersi in una riduzione del lavoro richiesto, ovvero in una maggiore disponibilità di tempo libero (Meadows et al., 1972; Congeduti V., 2012).

A partire dal momento della sua pubblicazione, I Limiti dello Sviluppo attirò su di sé numerose critiche, la più ricorrente delle quali era quella di aver predetto l'esaurimento delle risorse e il conseguente collasso economico entro la fine del XX secolo. Predizioni poi rivelatesi false alla prova dei fatti. Nel giro di due decenni, il volume cominciò a essere citato come esempio di letteratura catastrofista e scientificamente inattendibile.

Come evidenziato già in precedenza, lo scopo del gruppo di scienziati del MIT non era quello di mettere capo a predizioni esatte, ma di offrire gli strumenti per riuscire a comprendere il comportamento del sistema economico mondiale. In un certo senso il modello World3, evoluzione del modello World di Forrester (Forrester J.W., 1971a), serviva più a spiegare che a prevedere, o meglio, l'utilità delle simulazioni impiegate consisteva nel loro potere esplicativo delle dinamiche reali, piuttosto che nella loro puntualità nel definire scenari futuri ad alta risoluzione. C'è un passaggio del rapporto che è particolarmente eloquente al riguardo e che merita di essere citato nella sua interezza, a difesa dei suoi autori (Congeduti V., 2012).

 

"Va esplicitamente notato come tale studio sia una 'predizione' solo in senso assai ristretto. I diagrammi che verranno illustrati più avanti riportano i valori delle grandezze in esame (popolazione mondiale, capitale, ecc.) per un intervallo di tempo che si estende dal 1900 al 2100: questo non vuol dire però che in un certo anno futuro tali grandezze assumeranno proprio il valore indicato dai diagrammi, i quali valgono solamente per indicare le tendenze di fondo del sistema. Per chiarire con un esempio, consideriamo una palla che viene scagliata verso l'alto: possiamo affermare con sicurezza che essa continuerà a salire con velocità decrescente e a un certo punto si fermerà, per poi invertire la direzione e cominciare a scendere con velocità crescente, fino a toccare terra. Sappiamo cioè che essa non potrà continuare a salire indefinitamente, né potrà entrare in orbita attorno alla Terra o compiere una serie di giri nell'aria prima di ricadere". (Meadows et al., 1972)

 

Oggi, a distanza di cinquant’ anni, è evidente l'attualità delle questioni sollevate in quel rapporto. Con il senno di poi, sosteneva nel 2000 lo studioso di economia energetica Matthew Simmons, “the Club of Rome turned out to be right. We simply wasted 30 important years by ignoring this work”.

Quest’anno, nel commemorare il 50esimo anniversario del Rapporto la co-presidente del Club di Roma, l’attivista e scienziata sudafricana Mamphela Ramphele, ha detto che

Se la pandemia di Covid-19 ci ha insegnato qualcosa, è che siamo interconnessi e interdipendenti e parte di un’ampia rete di vita. Il benessere per alcuni è benessere per nessuno. La pandemia ha reso esplicito che noi come comunità globale dobbiamo trasformare radicalmente le nostre relazioni reciproche per garantire un pianeta sano. Il 50esimo anniversario di The Limits to Growth è un’opportunità per tutti noi di impegnarci a diventare migliori nell’essere buoni antenati”.

Un’altra co-presidente del Club di Roma, Sandrine Dixson-Declève, presidente dell’Expert Group on Economic and Societal Impact of Research & Innovation (ESIR) della Commissione europea, aggiunge: «The Limits to Growth è stato un campanello d’allarme, ma abbiamo premuto il pulsante snooze. Di conseguenza, ora ci troviamo di fronte alle più grandi sfide del nostro tempo, inclusi i cambiamenti climatici, una pandemia globale e un conflitto internazionale. La nostra missione deve essere quella di pensare in modo diverso, di applicare i nostri cervelli, i nostri cuori e le nostre anime per co-progettare il futuro alternativo che vogliamo. Dobbiamo introdurre le dinamiche dei sistemi, come hanno fatto gli autori di The Limits to Growth 50 anni fa, per catalizzare approcci sistemici ai complessi problemi che l’umanità deve affrontare, incorporati nei nostri sistemi economici, politici, naturali e sociali» (in https://www.clubofrome.org/).

Discorsi saggi, ma che sembrano vuoti mentre in Ucraina, Yeman, Siria, Myanmar e in altri centosessanta angoli dimenticati del mondo gli esseri umani proseguono in quello che è il più tragico superamento dei limiti dello sviluppo e dei limiti umani: la guerra. Una guerra che, premendo il pulsante sbagliato, potrebbe portare l’umanità a un’estinzione rapidissima e alla fine della civiltà umana e di qualsiasi sviluppo.

È interessante come la prestigiosa rivista Nature in un editoriale (Editorial, Nature, 2022), è già interessante dal titolo: Limits to growth? It’s time to end a 50-year argument Researchers must resolve a dispute on the best way to use and care for Earth’s resources, fa mea culpa a quanto scritto molti decenni addietro (vedi Nature 236, 47–49; 1972).: «Cinquant’anni fa, in questo mese, il team del System Dynamics group del Massachusetts Institute of Technology lanciava un chiaro messaggio al mondo: la continua crescita economica e demografica avrebbe esaurito le risorse della Terra e avrebbe portato al collasso economico globale entro il 2070. Questa scoperta proveniva dal loro libro di 200 pagine The Limits to Growth, uno dei primi studi di modellizzazione per prevedere gli impatti ambientali e sociali dell’industrializzazione. Per il suo tempo, quella era una previsione scioccante e non è andata bene. Nature definì lo studio “un altro soffio del giorno del giudizio”. Era quasi un’eresia, anche nei circoli di ricerca, suggerire che alcune delle basi della civiltà industriale – l’estrazione del carbone, la produzione di acciaio, la trivellazione del petrolio e l’irrorazione dei raccolti con fertilizzanti – potessero causare danni permanenti. I leader della ricerca accettavano il fatto che l’industria inquinava l’aria e l’acqua, ma hanno considerato tale danno reversibile. Anche coloro che si erano formati in un’era pre-informatica erano scettici nei confronti della modellazione e sostenevano che la tecnologia sarebbe venuta in soccorso del pianeta».

Lo scetticismo era così diffuso che la zoologa Solly Zuckerman, ex consigliere scientifico capo del governo del Regno Unito, dichiarò: «Qualunque cosa i computer possano dire sul futuro, non c’è nulla nel passato che dia credito all’idea che l’ingegnosità umana non possa aggirare nel tempo le difficoltà umane materiali».

L’ingegnosità umana mal gestita ci ha portato a vivere in un mondo in guerra e che sta già superando i confini dei limiti planetari delle risorse. E quelle in atto sono guerre per le risorse sempre più scarse. L’ingegnosità umana ci ha portato al disastro climatico che la stessa ingegnosità umana potrebbe evitare, ma della quale alla geopolitica impazzita e al business as usual che la ispira e se ne serve, non sembra importare più nulla.

Tuttavia, l’editoriale di Nature, ci incoraggia per quanto riguarda la capacità della comunità scientifica di far comprendere ad economisti e politici quel che i Limiti dello sviluppo mostravano già 50 anni fa: «Dopotutto, I limiti dello Sviluppo ha ispirato sia le comunità della crescita green che quelle post-crescita, ed entrambe sono state influenzate in modo simile dal primo studio sui confini planetari, che ha tentato di definire i limiti per i processi biofisici che determinano la capacità di autoregolazione della Terra. Le opportunità di cooperazione sono imminenti. Alla fine di gennaio, l’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services ha annunciato un ampio studio sulle cause della perdita di biodiversità, compreso il ruolo dei sistemi economici» (…). L’editoriale infine conclude «Un’altra opportunità è un’imminente revisione delle regole per ciò che viene misurato in PIL. Queste saranno concordate dai principali statistici dei Paesi e organizzati attraverso le Nazioni Unite e dovrebbero essere finalizzati nel 2025. Per la prima volta, gli statistici si chiedono come la sostenibilità e il benessere potrebbero essere più allineati al PIL.  Sia i sostenitori della post-crescita che quelli della crescita green hanno prospettive preziose. La ricerca può essere territoriale: nuove comunità emergono a volte a causa di disaccordi nei diversi campi. Ma gli scienziati della crescita green e della post-crescita devono vedere il quadro più ampio. In questo momento, entrambi stanno articolando visioni diverse per i responsabili politici e c’è il rischio che questo ritarderà l’azione. Nel 1972 c’era ancora tempo per dibattere e meno sull’urgenza di agire. Ora, il mondo sta finendo il tempo».

 

 

L'Ape e L’architetto 

Nei capitoli precedenti ho sottolineato volutamente le personalità specifiche di Peccei e di Forrester, due protagonisti della scienza tra di loro contrastanti, almeno così mi immagino, personalmente non li ho mai incontrati né conosciuti in modo approfondito. La prima personalità, quella di Peccei, motivata da una forte carica etico morale e quindi desiderosa di allarmare il mondo dei rischi per l’umanità nell’uso indiscriminato e disuguale delle risorse ambientali, l’altra, quella di Forrester, tutta proiettata allo sviluppo, sempre geniale, delle tecnologie e soprattutto una personalità dotata di una profonda capacità visionaria nell’immaginare il funzionamento dei sistemi complessi, non importa se industriale o umano, se per un uso militare o sociale.

Forse non è un caso se il rapporto è stato coordinato da suo studente e non da lui, anzi lui non compare per niente tra gli autori del libro. Infatti, tra gli autori del rapporto quella che ha continuato a svolgere un ruolo attivo fino alla sua morte, avvenuta nel 2001, è stata Donella Meadows, quella più ottimista e motivata da obiettivi scientifici ed etici.

Quest’ultima considerazione mi da l’opportunità di introdurre l’altro libro, cruciale per la formazione di uno scienziato consapevole del proprio ruolo contradittorio nella società odierna e con quest’ultimo chiudo il percorso concettuale intrapreso con questo saggio (Figura 3).

L’Ape e l’Architetto esce nel 1976, pochi anni dopo la pubblicazione dei I Limiti della Sviluppo, per i tipi di Feltrinelli, i cui autori sono quattro fisici teorici dell’istituto di Fisica dell’Università Sapienza di Roma: Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo de Maria e Giovanni Jona-Lasinio; un libro che continua a destare interesse; infatti, l’editore Bicocca – Franco Angeli ha pubblicato una nuova edizione del libro nel 2011 ed una seconda ristampa nel 2021.

Un libro che mi coinvolge moltissimo perché tutti e quattro gli autori sono stati miei insegnanti nel periodo in cui ero uno studente di Fisica ed in particolare ad uno di loro, Jona-Lasinio, sono particolarmente grato per avermi indirizzato agli studi riguardante i fluidi geofisici, di cui continuo ad occuparmi fino ad oggi. Il libro riflette il clima fervido che allora si respirava dentro e fuori la Facoltà di Fisica, nello svolgimento delle lezioni si parlava di ciò che il libro esprime in modo formale, ma è indimenticabile il modo di presentare i nuovi temi scientifici che emergevano in tutti i rami della fisica ed in particolare in quelli di fluidodinamica e meccanica statistica che maggiormente attraevano la mia attenzione, spessissimo tratti dalla letteratura scientifica russa, indimenticabile il testi di Landau e Lifchitz, tutti allora rigorosamente in francese (l’inglese era la lingua del capitalismo!). Per cui non sorprende più di tanto il sottotitolo del libro “Paradigmi scientifici e materialismo storico”.

Anche questo fu un libro molto contestato, e con esso tutti gli autori, in particolare Marcello Cini che Giorgio Bocca arrivò a definire come uno dei “cattivi maestri” della sinistra italiana.

Nelle pagine del libro i quattro fisici si concentrano sulle dinamiche attraverso le quali la società plasma la scienza, e analizzano in che modo in grembo a società diversamente organizzate possano nascere progressi scientifici differenti. “Entra in crisi” scrive Cini “la concezione che considera la scienza e la tecnica strumenti neutrali di progresso della società, indipendentemente dai rapporti sociali”. Anche in questo caso il libro anticipava i tempi introducendo concetti che oggi riteniamo totalmente acquisiti anche in ambito accademico. Mentre nel 1976 tesi di questo tipo erano considerate provocatorie. Contro L’Ape e L’architetto si scagliano così anche penne importanti come Lucio Colletti dalle pagine de L’Espresso e Giovanni Berlinguer da quelle di Repubblica.

Tra i vari obiettivi del libro, gli autori si soffermano principalmente su quello della demistificazione della non neutralità della scienza. Il titolo dell’opera, un’azzeccata citazione del Capitale, ne riassume in questo senso perfettamente lo spirito e testimonia quello che era il punto chiave nell’analisi proposta: una forte critica, da sinistra, allo scientismo. Ovvero a quella tendenza intellettuale, forte anche nelle teorie marxiane, di

considerare le scienze naturali e i loro metodi di investigazione come veri in assoluto, uno specchio neutro della realtà. Scriveva Marx: “L’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore, è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nell’idea del lavoratore [...]. Egli realizza [...] il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare e al quale deve subordinare la sua volontà.” (Il Capitale, libro I)

Nella mente di Cini e compagni l’architetto è quindi lo scienziato che, a differenza dell’ape dotata del suo istinto animale, realizza un proprio scopo, perfettamente conosciuto o quanto meno conoscibile, rintracciabile prima ancora della sua realizzazione. E, rimanendo nella metafora, è allora la società il “committente” del lavoro dell’architetto/scienziato. La scienza non dev’essere più vista, insomma, come la semplice ricerca di una verità assoluta.  Essa è piuttosto il risultato di un tentativo di “costruire un insieme di relazioni astratte che si accordino non soltanto con l’osservazione e la tecnica, ma anche con la pratica, i valori e le interpretazioni dominanti”. In parole povere, che lo si voglia o no, è indissolubile il legame tra la crescita della conoscenza scientifica e il tipo di società all’interno della quale essa si sviluppa e i meccanismi di produzione e i rapporti sociali della società stessa (De Giuli, 2012).

Il libro nasce in un contesto culturale molto fervido, iniziato nel dopoguerra, sui temi dei rapporti tra scienza e società, in particolare per mano di autori come Popper, Lakatos e in particolare di Thomas S. Kuhn (1922-1996), i cui testi spesso ne discutevamo a lezione di Meccanica quantistica con lo stesso Cini.  In particolare, il libro di Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), ha introdotto una nuova visione dello sviluppo scientifico descritto attraverso rotture di paradigmi: “Quando mutano i paradigmi, il mondo stesso cambia con essi. Guidati da un nuovo paradigma, gli scienziati adottano nuovi strumenti e guardano in nuove direzioni. Ma il fatto ancora più importante è che, durante le rivoluzioni, gli scienziati vedono cose nuove e diverse anche guardando con gli strumenti tradizionali nella stessa direzione in cui avevano guardato prima. È quasi come se la comunità degli specialisti fosse stata improvvisamente trasportata su un altro pianeta dove gli oggetti familiari fossero visti sotto una luce differente e venissero accostati a oggetti insoliti”.

Il merito maggiore del libro è aver contestato l’approccio positivista alla scienza e il sistema di produzione scientifica, svelandone i meccanismi di funzionamento. La riflessione sulla non neutralità della scienza, nel libro, ha il pregio, tra gli altri, di riuscire a guardare oltre i confini nazionali e assumere così un respiro ampio su questioni tanto fondamentali, come appunto gli studi di Kuhn sopra accennati.


 

Conclusioni 

In questo breve saggio ho voluto descrivere alcuni tratti di un percorso della mia vita personale intrecciata con quella professionale e scientifica senza mai entrare nel merito di essa, ma solo analizzando cosa l’ha ispirata, attraverso la descrizione di alcuni libri e personaggi determinanti nella mia vita di scienziato.

Figura 3. MAPPA CONCETTUALE del saggio in cui si sintetizzano le connessioni tra tutti autori ed i loro libri e la complessità del pensiero umano e scientifico.

In realtà più che di percorso si è trattato di impegnarsi nello svelare, come stessi su un lettino di uno psicanalista, i varchi di un labirinto che volta per volta il caso apparentemente aveva determinato, ma soprattutto ho voluto sottolineare quanto siano stati rilevanti gli influssi della storia, quella con S maiuscola, in cui ho vissuto e su cui il labirinto inevitabilmente galleggiava, nel determinare la traiettoria del cammino.

Il mio percorso all’interno del labirinto, i cui segreti sono ignoti, per la gran parte, anche a me stesso, è intramezzato da tante pietre miliari, costituite da libri e dalle idee che da essi traggono contezza o da maestri invisibili, spesso cattivi maestri o da altro ancora come le fondamentali esperienze collettive.

Mi sono soffermato in particolare su un libro, I limiti dello Sviluppo, perché è quello che mi ha permesso di connetterlo alla mia carriera di scienziato, ma questo non significa che tutto il resto non era altrettanto importante; infatti, quello che ho cercato di evidenziare più volte è che dietro una grande scoperta scientifica si nasconde una rete di complesse interazioni tra culture (scientifiche) diverse, più tali interazioni sono alimentate da una cultura “larga”  (da Joyce a Peccei) maggiore è la probabilità che  le scoperte scientifiche siano innovative, traumatiche e rivoluzionarie.

In tale senso ho cercato di svelare il filo neanche troppo nascosto che connette tutti gli oggetti descritti ed è quello che ho definito “trauma”, nel senso di transizione brusca da un paradigma ad un altro: il mondo non era più lo stesso dopo il passaggio di quell’evento, dopo quell’accadimento. Non so quantizzare quanto sia stato traumatico quello specifico evento per gli altri, ma sicuramente è stato importante per me e per il mio percorso di scienziato ed intellettuale, ed alla fine forse tutto ciò mi ha dato gli strumenti per trovare il “nostro sé”, come dice Letizia Battaglia.

Infine, per concludere, penso che la passione in più, come l’ho definita all’inizio del saggio, che hanno tutti gli scienziati è guardare oltre, avere una visione di lungo periodo, senza farsi ingannare dal presente e dalle contingenze apparentemente ineludibili e avere il coraggio di affrontare tutte le conseguenze dei traumi che le nostre scoperte possano generare.


 

Bibliografia 

 

  

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