Riflessioni Sistemiche n° 26


Eredità e ispirazioni.
Incontri con persone straordinarie

Rizomi: molteplicità di connessioni


di Enrico Castelli Gattinara

insegnante, saggista, filosofo

Foto di Andreas da Pixabay

Sommario
La parola-concetto di rizoma, proposta da Gilles Deleuze, ha influenzato tutto il mio percorso di ricerca soprattutto perché rappresentava, nella mia interpretazione, un sistema di connessioni a aperture molteplici, senza gerarchie. Questo mi ha permesso di lavorare sempre sui confini interdisciplinari e transdisciplinari, lavorando su rapporti e relazioni complesse più che su schemi e categorie.


Parole chiave
Rizoma, Deleuze, sistema, connessioni, aperture, tempo, storia, scienza, epistemologia.


Summary
The word-concept of rhizome, proposed by Gilles Deleuze, influenced my entire research path above all because it represented, in my interpretation, a system of connections with multiple entries and without hierarchies. This has allowed me to work on interdisciplinary and transdisciplinary boundaries, so that relationships and complexity were in my approach more important than schemes and categories.


Keywords
Rhizome, Deleuze, system, connections, apertures, time, history, science, epistemology.

 

 

Era il 1978 quando in una piccola libreria del centro di Roma ho comprato un libricino di poco più di 70 pagine dal titolo strano, Rizoma, firmato da due autori che in quegli anni di contestazione partecipata erano diventati un punto di riferimento, Gilles Deleuze e Felix Guattari.

A me in realtà interessava più Deleuze che Guattari, perché era un filosofo ed io avevo da poco cominciato a studiare in quella facoltà così ricca di promesse. Non ancora ventenne, avevo l’entusiasmo, la passione e la follia di voler pensare controcorrente e di oppormi ad ogni forma di potere, quale che fosse. Quelle pagine mi hanno aperto un orizzonte, mi hanno appassionato, mi hanno fatto capire che era possibile pensare altrimenti persino le cose serie, serissime che stavo studiando per gli esami che mi attendevano. Ne sono rimasto subito affascinato e le ho sentite profondamente mie, come quando si entra immediatamente in sintonia con qualcosa o qualcuno, senza filtri, senza sforzo, senza maschere.

La critica del potere aveva per me assunto l’aspetto di una critica delle verticalità gerarchizzate, delle architetture fisse, dei sistemi chiusi e strutturati secondo ordini che andavano dal meno al più, dal basso verso l’alto, dall’infimo al sublime.

Gli studenti uscivano da una scuola in cui avevano spiegato la Divina Commedia di Dante come un viaggio di ascesa e di purificazione, dove erano stati assillati con letture manzoniane impregnate di pietismo beghino e dove si censuravano i versi espliciti di Saffo o di Catullo. Io ho avuto la fortuna di aver frequentato un liceo diverso, sperimentale, assolutamente utopistico e fuori dal comune, dove il lavoro collettivo e la discussione fra pari veniva prima di ogni cosa. Così, una volta entrato all’università, volevo capire meglio cosa significasse “comunità” e mi sono ritrovato a vivere un movimento studentesco e giovanile dove questa parola veniva vissuta prima ancora che teorizzata. Me ne piaceva l’intima complessità, la multiformità eterogenea e il disordinato antidogmatismo. Ecco perché la lettura di quelle pagine mi è parsa subito illuminante, come se avesse espresso con grande chiarezza proprio ciò di cui avevo bisogno in quel periodo della mia vita.

Cos’era? Molto semplicemente – come ho capito tanti anni dopo – ciò che cercavo era la relazione. Non quella dell’amicizia e dell’amore, che pure erano urgenti come per ogni adolescente, ma la relazione come dimensione dell’essere, il mondo e la vita come connessione, sistema di rapporti senza fine e senza soluzioni di continuità.

Certo, sapevo bene già allora che il conflitto è anche lui un tipo di rapporto. Leggevo gli scritti di Michel Foucault con grande avidità, mentre studiavo Heidegger che andava sempre più di moda. Ma mi mancava qualcosa: una chiave per capire ed esprimere quello che stavo vivendo col corpo e con la mente insieme a tutti quelli che avevo intorno, con cui condividevo dubbi e certezze in discussioni infinite portate avanti con una passione che non avrei mai più ritrovato. Vivevo qualcosa e desideravo comprenderlo al meglio, ma mi mancava la possibilità di rappresentarmelo per bene davanti. Rizoma è stato questo, per me. Il tassello mancante che stavo cercando. La chiave con cui interpretare quello che stavo vivendo, in quella fase della mia esistenza, per me e per gli altri.

La porta che mi si è aperta ha inaugurato per me un nuovo modo di dire e pensare le cose. Non importa se poi, nei decenni successivi, altre letture, nuove riflessioni e le esperienze della vita mi hanno portato altrove. Le chiavi aprono porte che inaugurano nuovi spazi, attraverso le quali magari non si passerà mai più. Restano importanti per questo. Io poi le avrei recuperato, a modo mio, certo, ma sempre in sintonia col senso profondo che riconoscevo in quel termine.

Intorno a me vedevo e vivevo una realtà sfaccettata che mal si adattava alle ideologie del bianco e nero, del con noi o contro di noi, delle grandi dicotomie fra le quali, preponderante, quella fra la ragione e gli istinti, il conscio e l’inconscio, arte e scienza. Certo, queste ideologie avevano un che di confortante e di rassicurante, indicavano una via, davano solidi punti di partenza e di arrivo. Però nella pratica, nella vita vissuta, constatavo che le cose si rivelavano sempre assai più complesse e articolate, difficili da incasellare e interpretare secondo gli schemi forniti.

Sin dagli inizi dei miei studi universitari – compresa la scelta stessa di studiare filosofia – ero alla ricerca di significati molteplici per pensare la realtà nella sua complessità, senza semplificazioni o riduzioni. È qualcosa che mi ha accompagnato poi per tutto il corso dei miei lavori e su cui ancora si concentrano i miei sforzi sia di studioso che di essere umano. C’era e c’è una bellezza travolgente intorno e dentro di noi che si lasciava schematizzare a fatica nei sistemi filosofici che conoscevo. Questo mi ha sempre impedito di aderire anima e corpo a un sistema di riferimento, a un’ideologia, a una corrente di pensiero.

La lettura di quel libretto mi ha aperto un orizzonte. Mi ha fatto capire che era possibile cambiare tutto senza rinunciare a nulla, sottraendosi alla logica delle opposizioni, del sì o no, del giusto e dello sbagliato.

“Rizoma” dava un nome a questo mio bisogno e “molteplicità” era il concetto che lo incarnava.

Nel corso degli anni successivi la spregiudicata allegria e la provocazione con la quale Deleuze e Guattari avevano proposto il loro approccio si sono rapidamente stemperate, il mondo è cambiato, lo spirito di rivolta si è spento. Io, subito dopo la laurea, ho vinto una borsa di studio che avevo scelto e provato apposta per trasferirmi a Parigi e seguire le lezioni di quelli che volevo diventassero i miei maestri. Foucault, Deleuze e Lyotard erano fra i miei punti di riferimento, ma anche gli storici, eredi delle Annales d’histoire économique et sociale che lì si era sviluppata, e poi l’epistemologia di Bachelard e la storia delle scienze di Canguilhem, che influenzavano profondamente le opere di Faucault e Michel Serres, anche lui a Parigi.

È così che ho cominciato a seguire i corsi di questi diversi studiosi, preparando la mia tesi di dottorato in epistemologia e storia delle scienze, col grande rammarico per la morte prematura di Foucault e il pensionamento di Canguilhem. Nel frattempo, formavo in me piano piano un insieme di riferimenti teorici e di approcci critici che mi avrebbero accompagnato per il resto della vita. Riconoscevo cosa mi piaceva e cosa no negli scritti e nelle lezioni che seguivo con grande passione. In particolare quelle di Deleuze, cui chiesi persino di farmi da direttore di tesi (ma anche quelle di Lyotard, con il quale intrapresi anche una collaborazione e un bello scambio intellettuale).

Deleuze tuttavia dopo un breve scambio epistolare, mi inviò una lettera in cui si scusava di non poter dirigere il mio lavoro, perché già ammalato. È così che mi lasciai guidare nel mio lavoro di tesi da un eruditissimo e rigorosissimo storico delle scienze che dirigeva il Centre Alexandre Koyré (di storia delle scienze), al quale resterò sempre grato per la disciplina e il rigore critico che mi ha insegnato e col quale ha severamente controllato la mia ricerca (sui rapporti fra storia ed epistemologia nella Francia della prima metà del XX secolo). Si chiamava Ernest Coumet, ed era sconcertato, ma anche interessato, dal mio approccio filosofico molto particolare e assai poco “dogmatico”.

Un approccio che infatti risentiva profondamente della mia formazione eteroclita, letteraria e filosofica insieme, che aveva trovato nella metafora concettuale del rizoma un’ispirazione che non sarebbe mai tramontata, e che mi permetteva una grande libertà di pensiero nell’indagare in modo originale i soggetti della mia tesi.

Rizoma, per Deleuze (e Guattari, ovviamente, ma con quest’ultimo ho auto sempre rapporti molto saltuari di cui ricordo solo un’imbarazzata cena a casa sua con alcuni amici), significa altro modo di pensare le cose.

Questa alterità mi accompagnava nel lavoro di tesi, dove provavo a combinarla con il rigore della storia delle scienze e dell’epistemologia che in Francia, allora, risentiva molto sia dell’approccio bachelardiano filtrato da Canguilhem e dai suoi allievi, sia dello strutturalismo, sia dello storicismo erudito.

Frequentare insieme i seminari molto tecnici di storia delle scienze al Centre Koyré, nell’austera sede di rue de Richelieu all’Hôtel de Nevers, vicino alla sede storica della Biblioteca nazionale, sia le lezioni di Deleuze e Lyotard a Paris VIII, l’università “libera” a Saint Dénis, mi permetteva di vivere rizomaticamente quella mia particolare avventura intellettuale, senza chiudermi in nessuna categorizzazione, scuola di pensiero o affiliazione.

Il trait d’union era costituito da Bachelard, che mi aveva affascinato e incuriosito già durante i miei studi universitari romani. Foucault aveva scritto esplicitamente che era da considerare uno dei riferimenti principali dell’epistemologia alla francese, così lontana da quella anglosassone, e se ne riteneva un allievo per l’interposta persona di Canguilhem. Anche Serres lo sosteneva. Deleuze era un amico caro di Foucault, suo ammiratore della prima ora e col quale sentiva una profonda affinità intellettuale. Di conseguenza, sentivo che in qualche modo non era così aberrante il fatto di cercare un approccio che mi permettesse di metterne insieme quelle diverse prospettive.

Dovevo però rinunciare alla rigida separazione delle scuole di pensiero, dei metodi, delle pratiche di ricerca che dividevano anche fisicamente, negli spazi stessi in cui si esercitavano, i vari problemi e metodi di riflessione filosofica. Deleuze mi aveva fatto implicitamente capire che il mio lavoro sui rapporti fra epistemologia, storia e storia delle scienze non erano molto nel suo cuore. Coumet mi chiedeva invece di essere serio e rigoroso, di non tracimare troppo nella filosofia, di rispettare “il metodo” della storia delle scienze e di un’epistemologia ben strutturata come quella delle matematiche.

Io però ero attratto anche dalla teoria delle catastrofi di René Thom, dalla semiotica matematica di Petitot, dal metodo e la complessità di Morin, dalle teorie dissipative e dalla non linearità utilizzate da Ilya Prigogine e Isabelle Stengers (con la quale ero diventato amico). Mi affascinavano, fuori dell’ambiente francese, i libri di Gregory Bateson e Fritjof Capra. Insomma, non riuscivo a seguire un filone unico, perché volevo restare aperto alle suggestioni e agli stimoli che mi arrivavano da orizzonti anche molto differenti fra loro.

Rizoma era la parola-concetto che rispondeva di più a quello che stavo facendo e diventando nel mio percorso intellettuale. Ecco perché continuava a convincermi. Volevo tracciare linee d’unione e di relazione fra metodi, pensieri e problematiche differenti. Volevo trovare rapporti e accostamenti nascosti, tracciando sentieri diversi nell’intrico della realtà. La topologia studiata e utilizzata da Thom e Petitot permetteva di osare, di cambiare punti di vista, di mettere vicine cose che apparentemente sarebbero sembrate senza rapporto in un normale spazio euclideo. La fisica quantistica studiava e “spiegava” relazioni inaudite fra particelle che si trovavano anche a distanze incredibili fra loro. Deleuze non esitava a usare i nuovi concetti-problemi della matematica e della fisica per la sua filosofia. Stengers lo faceva per l’epistemologia. Bateson per l’antropologia (e l’epistemologia anche lui).

Trovare scritto l’invito a cercare di moltiplicare le linee di fuga, a scegliere la linea piuttosto che il punto, era come trovare conferma di ciò che ancora solo intuivo. Il libretto Rizoma si concludeva con una serie di slogan, fra cui appunto questi: “Non siate mai uno, né multiplo, siate delle molteplicità! Fate la linea, mai il punto!”. E siccome avevo studiato e apprezzato molto anche la scuola di Francoforte, per cui non bisognava mai abdicare alla critica, fosse questa persino la critica della critica, mi rendevo conto che non potevo accettare nessuno slogan alla cieca: magari poteva darsi la possibilità di fare sia linee che punti!

Deleuze e Guattari opponevano il rizoma alla radice, all’albero dal fusto unico; io volevo salvare la foresta, amavo percorrere i boschi, molteplicità inesauribile di vegetazione e fauna, non volevo rinunciare agli alberi. Però gli alberi, in effetti, erano assai ben conosciuti, e avevano spesso rappresentato la genealogia di pensieri e situazioni, concetti e filosofie, mentre nessuno aveva pensato l’alterità del rizoma applicandolo alla filosofia.

Non volevo quindi schierarmi definitivamente obbedendo allo slogan, ma volevo comunque capire, perché percepivo la fertilità di quell’idea. Idea di connessione più che di struttura, di rapporto senza sottomissione, di ordine non lineare più che di gerarchia.

Deleuze spiegava che l’orizzontalità del rizoma si opponeva alla verticalità del sistema-albero, che dalle radici si alza nel fusto per allargarsi poi nei rami. L’epistemologia botanica, ancora molto euclidea e permeata di verticalità, fa sì che il rizoma sia definito “un paradosso vegetale” (così faceva Jacqueline Risset, nell’introduzione).

Questo però vale solo se si pensa alla vegetazione come determinata dalla verticalità, mentre quel mondo è assai più diversificato, molteplice, indeterminato, pieno di aspetti polimorfi e indefinibili come i funghi o i licheni. E i rizomi, appunto.

Al di là di ogni slogan, che troppo spesso ricade nel dualismo oppositivo e fondamentalmente conflittuale, Deleuze e Guattari sapevano benissimo che la loro proposta era di altro tipo. Il rizoma infatti non è “il contrario” della radice, perché è esso stesso una specie di radice, ha delle radici, nutre e propaga la pianta.

Alla base del significato del termine c’è la connessione. Il rizoma è una struttura che connette, avrei detto; però dovevo imparare a non utilizzare la parola “struttura”, perché implicava già una gerarchia e un sistema di potere, come insegnava Foucault. E in effetti lo strutturalismo era troppo schierato per la sincronia rispetto alla diacronia, mentre io ero immerso in studi storici per cui la diacronia era essenziale, anche se da ripensare in termini non più unilineari e progressivi (su questo gli storici, in quegli anni, stavano elaborando idee e pratiche molto interessanti per me, sulla scia dell’esperienza francese della rivista Annales. Economie, Sociétés, Civilisations e italiana con la microstoria).

Deleuze proponeva di utilizzare il termine di linea: rizoma come linea di connessione, anzi come insieme di linee. Sistema che connette, concatenamento disseminativo di intrecci reali, possibili, virtuali. Il libro stesso lo era, come gli autori non esitavano a rivendicare: “Un libro non ha oggetto né soggetto, è fatto di materie diversamente plasmate, di date e di velocità molto diverse […]. In un libro come in ogni altra cosa, vi sono linee di articolazione o di segmentalità, strati, territorialità; ma anche linee di fuga” (Deleuze, Guattari, 1978, pag. 20). Per me era sempre stato così, leggendo libri.

Strumenti di suggestione per elaborare i miei pensieri, per scoprire nuove possibilità, per trovare nuove strade: nessun libro – lo pensavo e lo penso ancora – è una verità da seguire, ma sempre un’occasione per pensare e rielaborare.

Rizoma quindi come una delle chiavi di lettura, non come l’unica chiave possibile. Un sistema più che una struttura. Infatti “le piante a radice, o a radice secondaria, possono essere rizomorfe per altri aspetti: si tratta di stabilire se la botanica, nella sua specificità, non sia interamente rizomorfica. Gli stessi animali lo sono”, come ad esempio i topi, come branco, o i terriers. “Il rizoma in se stesso ha forme molto diverse, a partire dalla sua estensione superficiale ramificata in ogni senso, fino alle concrezioni in bulbi e tuberi” (idem, pag. 27).

Il rizoma non ha una direzione predeterminata e non è neppure necessariamente a sviluppo orizzontale, perché ne esistono di diagonali e persino di verticali. Una delle sue caratteristiche principali, sia come concetto che come realtà botanica, è la connessione. Data la sua particolare organizzazione, ogni punto può essere collegato con qualsiasi altro punto. A differenza dell’albero, che fissa un punto e su quello, si pianta salendo dalla radice verso l’alto, tramite il fusto, il rizoma non ha direzioni né gerarchia. Non ha un ordine preciso e prevedibile. Non stabilisce linee di demarcazione radicali, ma collega tutto con tutto diffondendosi come la gramigna, che non a caso è rizomatica. Il metodo che suggerisce permette di analizzare qualcosa solo “decentrandolo su altre dimensioni e altri registri” (idem, pag. 29). Ha più il carattere dell’eterogeneità che quello dell’uniformità.

Deleuze faceva l’esempio del linguaggio in un certo territorio: “Non vi è lingua-madre, ma presa di potere da parte di una lingua dominante all’interno di una molteplicità politica. La lingua si stabilizza intorno ad una parrocchia, ad un vescovato, ad una capitale. Essa fa bulbo. Si evolve per steli e flussi sotterranei, lungo le valli fluviali o lungo le linee ferroviarie, si sposta a macchia d’olio” (idem).

Diventa una molteplicità. Né soggetto, né oggetto, non è né Uno né Multiplo. “Le molteplicità sono rizomatiche e denunciano le semi-molteplicità arborescenti. Niente unità che serva da asse nell’oggetto, né che si divida nel soggetto. Niente unità, non fosse altro che per abortire nell’oggetto per ‘ritornare’ nel soggetto […]. Una molteplicità [ha] solo determinazioni, grandezze, dimensioni che non possono crescere senza che essa cambi natura […]. Nel rizoma non esistono punti e posizioni simili a quelle che si trovano in una struttura, un albero, una radice. Non vi sono che linee. Quando Glenn Gould accelera l’esecuzione di un pezzo […] trasforma i punti musicali in linee, fa proliferare l’insieme” (idem, pag. 30). Non ci saranno quindi unità di misura, ma soltanto unità o molteplicità di misure. Non ci sono prese di potere, perché ogni presa di potere trasforma in unità quella molteplicità, la struttura gerarchicamente, la soggettivizza. La molteplicità è invece decentrata, instabile, “piano di consistenza a dimensioni crescenti in relazione al numero di connessioni che su di esso si stabiliscono”. Le realtà della storia che stavo studiando e i metodi che si moltiplicavano per renderne conto mi rivelavano avere proprio questo genere di complessità.

I rizomi infatti sono sistemi aperti e mai chiusi. Le loro linee si frangono per demoltiplicarsi, intrecciarsi, estendersi. “Vi è rottura, nel rizoma, ogni volta che delle linee segmentali esplodono in una linea di fuga, ma la linea di fuga fa parte del rizoma.

Queste linee non smettono di rinviarsi l’una all’altra. Ragion per cui non può mai darsi un dualismo o una dicotomia, anche sotto la forma rudimentale del bene e del male” (idem, pag. 33).

L’apertura del sistema ne permette un altro carattere fondamentale, la cui valenza concettuale – per me che studiavo l’operare degli storici – era importantissima: il divenire. Il rizoma è un essere sempre in divenire, non sta mai fermo, connette e si sviluppa ovunque sia temporalmente che spazialmente. Genera uno spazio atipico, topologicamente aperto, dinamico.

Se ne può fare la carta, spiegava Deleuze, mai il calco. Una carta a entrate multiple, mai definitivamente determinabili. Essendo sistema che connette, può mettere insieme realtà anche estremamente eterogenee. Questo lo avevo letto anche in Bateson. Il rapporto fra la vespa e l’orchidea non è di mimetismo reciproco, l’orchidea non imita la vespa per attrarla, ma fanno sistema insieme, senza che l’una domini l’altra. La loro relazione fa sistema, la vespa diventa orchidea tanto quanto l’orchidea diventa vespa.

La relazione domina la struttura, ma nel senso che la struttura è fatta di relazioni che si strutturano e si ristrutturano di volta in volta secondo un sistema di connessioni multiple. Così la cartografia di questo sistema ad accessi anch’essi multipli impedisce le dicotomie, pur integrandole in sé.

Mi piaceva trovare queste linee d’incontro fra Deleuze e Bateson e ne avrei fatto tesoro. Espressioni simili mi apparivano subito molto batesoniane: “Non è peculiare di un rizoma l’attraversare radici, il confondersi talvolta con esse? […] Una molteplicità non possiede i suoi strati dove si radicano unificazioni […]?” (idem, pag. 41). Il rizoma accoglie, si mescola e rimescola, resta aperto: non divide ma appunto connette. “In seno a un albero, nel cavo di una radice o alla biforcazione di un ramo, può formarsi un nuovo rizoma” (pag. 45). L’esempio letterario più avvincente, da questo punto di vista, è Kafka, dove “un avvenimento microscopico sovverte l’equilibrio del potere locale”.

Io trovavo adattissimo a questo assunto anche i lavori dei microstorici italiani, che provavano a moltiplicare i punti di vista possibili su fenomeni umani di cui si pensava aver compreso e conosciuto già tutto, mettendone in luce i rapporti intrinseci di potere, le esclusioni e le omissioni e riportando a galla un mondo vastissimo e diversificato di percezioni, vissuti, eventi, realtà, emozioni, idee, credenze, socialità ignorate se non esplicitamente negate.

I microstorici italiani fra la fine degli anni ’70 e gli ’80 avevano nelle loro pratiche aperto entrate multiple alla storia, permettendo una proliferazione di punti di vista prima inimmaginabili. Lo studio degli “avvenimenti microscopici” assumeva una concettualità rizomatica, ma non per questo casuale, anarchica o imprecisa. L’epistemologia di questa storiografia – che sarebbe diventato il campo specifico delle mie ricerche mature e del mio insegnamento – poteva nutrirsi dell’apertura concettuale e sistematica che l’idea di rizoma mi stava mostrando. La storia economica e sociale, che pur tanto aveva cambiato nel “metodo” degli studi storici in generale, non bastava più. La microstoria non capovolgeva le gerarchie né rinunciava ai significati e ai significanti generali, ma apriva nuovi orizzonti nelle pratiche reali d’esistenza, spesso irriducibili alle grandi classificazioni, alle ideologie e alle schematizzazioni.

La società non dominava gli individui più di quanto gli individui riuscissero comunque a sfuggirne le regole ferree, il linguaggio e i controlli. Individuo e società formavano insomma un sistema aperto a entrate cangianti e moltiplicative, mai fisso una volta per tutte: era questo a rendere la storia così proteiforme e interessante ai miei occhi. Perché così leggevo allora e leggo ancora oggi la vita: una molteplicità mai chiusa in se stessa, dove le forme di disseminazione e propagazione implicano sia le radici che i rizomi. Questo lo ritrovavo anche nella storia delle scienze e nell’epistemologia, nelle forme dell’epistemologia storica e della storia epistemologica che a partire dagli anni ’80 si stava sviluppando in Europa e in America.

Il fatto che il rizoma, nell’ottica deleuziana, collegasse “un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi” e che in virtù della sua eterogeneità (e delle sue capacità di eterogenesi) ciascuno dei suoi tratti  non rimandasse “necessariamente a dei tratti dello stesso genere” mettendo in gioco “regimi di segni molto differenti e anche stati di non-segni” (idem, pag. 55), permetteva di comprendere come fosse stato possibile che un mugnaio friulano del primo XVI secolo, processato per eresia, avesse una propria cosmogonia dove confluivano cultura alta e dominante con saperi popolari, credenze personali e interpretazioni inconsuete che rimescolavano idee e convinzioni di cui nobiltà, clero e borghesia intellettuale si pensava avessero il monopolio.

L’esempio di quel mugnaio, reso famoso da uno studio straordinario dello storico Carlo Ginzburg, si accompagnava ad altri numerosi esempi di comunità, pensieri, culture e situazioni che rimettevano in discussione le gerarchie culturali stabilite dagli studi storici sino ad allora. Ma per me quel campo aperto dalla microstoria – a differenza dai microstorici più rigorosi, come il maestro e amico Giovanni Levi col quale avevo una grande affinità intellettuale, ma che mal sopportava e mal sopporta ancora le mie divagazioni filosofiche deleuziane – apriva la possibilità di accostamenti insospettati, di influenze e reciprocità fra situazioni che si credevano del tutto isolate fra loro, e che invece rivelavano connessioni che la rigida divisione disciplinare rendeva inconcepibili.

L’idea di rizoma mi permise allora di aprire la mia mente ai territori di confine fra le culture e i saperi, alla possibilità di trovare legami e rapporti in ambiti apparentemente del tutto estranei fra loro e di sciogliere alcuni nodi interpretativi che un dualismo a oltranza non permetteva di comprendere, primo fra tutti quello di Gaston Bachelard, epistemologo di giorno e indagatore dell’immaginario poetico di notte, come diceva lui stesso.

La traccia del mio lavoro di studioso si apriva alla legittimità di domande che cercavano rapporti fra scienza e poesia, fra estetica ed epistemologia, fra storia, filosofia delle scienze e storia delle scienze. Gli scienziati più rigorosi non usano forse metafore per parlare dei risultati delle loro ricerche, come aveva fatto notare anche Th. S. Kuhn, oltre a Bachelard? I pittori non utilizzavano e studiavano a fondo la matematica e la geometria per legittimare le loro scelte rappresentative (tanto nel Rinascimento quanto in epoca contemporanea)? La storia ricostruita di certi fenomeni e situazioni non era stata forse influenzata dai concetti e dalle categorie usate per interpretarli?

Mettere insieme, accostare elementi eterogenei, era una procedura che potevo ben definire rizomatica. L’aveva fatto anche il grande Aby Warburg nella sua biblioteca. Non era una procedura inventata da Deleuze. Era una pratica teorica che richiedeva coraggio, certamente, ma che esisteva e apriva orizzonti.

Il tempo del rizoma non è un tempo unico, perché ogni connessione stabilisce il suo tempo; ma questo, per chi s’interessava alle differenze di scala negli studi storici, permetteva di sottrarsi al dominio di una temporalità data una volta per tutte. La nostra vita personale, nelle società che viviamo, non è dominata da un’unica temporalità omogenea, riconoscibile e costante. La storia è una molteplicità di storie differenti. Chi la studia deve sapere che esistono sempre più punti di vista da cui studiarla e capirla. Non esiste un unico sistema di riferimento, anche se per secoli siamo stati indotti a pensarlo. L’universo stesso sembra allora più simile a un rizoma che a un albero.

Ecco cosa ha condizionato fortemente il mio modo di studiare e scrivere di epistemologia, storia e storia delle scienze, implicandovi le mie ricerche sull’arte in tutte le sue declinazioni e i miei ragionamenti sull’estetica. Mai avrei pensato di venirne così profondamene influenzato, quando, a neppure vent’anni, ho letto una frase del genere: “Il rizoma è un sistema acentrico, non gerarchico e non significante, senza Generale, senza memoria organizzata o automa centrale, unicamente definito da una circolazione di stati” (idem, pag. 56). Eppure oggi che mi si chiede di riflettere su questo mio percorso devo riconoscerlo. La parola-valigia – per dirla alla Wittgenstein – che avevo letto sul titolo di quel libricino, “rizoma”, mi ha aperto la mente e mi ha permesso di trovare la mia strada. L’ho usata, l’ho tradita, l’ho piegata a ciò che piano piano stavo diventando; ma mi rendo conto che ancora adesso resta per me ricca di significati.

A modo loro, Deleuze e Guattari mi avevano legittimato a usarla come chiave per guidarmi anche ben oltre le loro stesse intenzioni. “In un libro – scrivevano verso la fine – non c’è niente da capire, ma molto di cui servirsi. Niente da interpretare né da significare, ma molto da sperimentare”. Per questo, anche se più d’uno di coloro che mi hanno letto hanno nel corso degli anni storto il naso, ho voluto leggere sempre con critica libertà e senza timore autori che amavo accostare, usare e intrecciare fra loro.

 

 

Bibliografia 

Deleuze G., Guattari F., 1978. Rizoma, Pratiche, Parma.