Riflessioni Sistemiche n° 26


Eredità e ispirazioni.
Incontri con persone straordinarie

Alcune cose che ho imparato da Giorgio Bert


di Mauro Doglio


Istituto Change

Foto di Jordy Meow da Pixabay

Sommario
Questo articolo presenta la figura di Giorgio Bert attraverso alcuni concetti che hanno caratterizzato il suo lavoro e il suo insegnamento. Cerco anche di sottolineare l’importanza che ha avuto per la mia formazione il fatto di averlo conosciuto e di aver lavorato per molti anni al suo fianco.

 

Parole Chiave
Conversazione, Counselling, Potere, Narrazione, Piacere, Retorica.

 

Summary
This paper presents the figure of Giorgio Bert through some of the concepts that characterized his work and teaching. I also try to emphasize the importance to my own education of having known him and worked alongside him for many years.

 

Keywords
Conversation, Counselling, Power, Narration, Pleasure, Rhetoric.


 

Giorgio Bert ci ha lasciato nel gennaio di quest’anno. Per ricordarlo ho scelto alcune parole che in qualche modo lo rappresentano e a cui Giorgio mi ha aiutato a dare un senso più grande e più ricco di quello che avevano prima di conoscerlo. Vorrei che questo scritto valesse come un saluto e un ringraziamento per tutto quello che ha insegnato a me e alle tante persone che ha incontrato nella sua vita.

 

 

Conversazione 

Pensando a Giorgio Bert la prima cosa che mi viene in mente è la sua conversazione: due cose la caratterizzavano: la vastità dell’orizzonte che si apriva davanti all’interlocutore e lo spiazzamento che spesso produceva. Ho conosciuto poche persone che avessero una cultura ampia come quella di Giorgio, il sapere per lui era uno spazio vasto e interamente percorribile, non limitato da confini disciplinari. Nella sua mente abitavano fianco a fianco Montaigne e Schubert, La farmacopea medievale e Giorgio Gaber, Chateaubriand e Rodolfo il Glabro. Ogni volta che parlavo con lui mi portavo a casa una bibliografia. Ma, e questo è ancora più importante, spesso restavo anche spiazzato perché una sua frase, un collegamento tra concetti, alle volte anche solo una sua battuta, era andata a sollecitare, e magari a intaccare, qualche certezza che pensavo (o magari non sapevo) di avere. In effetti per lui la conversazione era il modello rispetto al quale avremmo dovuto pensare tutta la cultura: uno scambio agile, ricco, molte volte divertente, attraverso il quale si imparano cose e si impara a conoscersi.

Le modalità che utilizzava nelle conversazioni (lo ricordo seduto sul divano nella sua casa a Pecetto torinese, mentre parlando accarezzava il suo cane che non si allontanava mai da lui) erano anche quelle che utilizzava quando discutevamo insieme su questioni riguardanti il lavoro. L’immagine che mi viene in mente per spiegare questo processo è quella richiamata spesso quando di parla di Norbert Wiener, Wiener sosteneva che la creatività fosse legata al movimento, per cui si metteva a pensare di fronte ad una tenda mossa dal vento oppure nei pressi dell’acqua corrente. Giorgio era capace di produrre negli interlocutori lo stesso movimento. Avendo avuto la fortuna di lavorare per molti anni al suo fianco all’Istituto Change, la scuola di comunicazione e counseling che aveva fondato insieme alla sua compagna Silvana Quadrino, spesso mi sono trovato a progettare eventi formativi insieme a lui. Ricordo che, se qualcuno di noi proponeva di riutilizzare un’idea che si era rivelata efficace in un’occasione precedente, lui sbuffava e diceva più o meno così: “Che noia… inventiamoci qualcosa di nuovo…”. Giorgio manteneva la mia mente e quella di tutti noi in un movimento continuo, ci chiedeva di ripensare, rivedere, riprogettare. Impegnativo, certo, ma vivificante.

 

 

Verità, retorica e counselling 

Ho conosciuto Giorgio durante un convegno sulla verità. Mi aveva colpito perché in quell’occasione parlò di retorica, che era proprio ciò che stavo studiando a quel tempo. Appena finito il convegno mi precipitai a dirgli quanto le sue parole mi avevano entusiasmato e poche sere dopo ero a cena con lui e Silvana a discutere, tra gli altri innumerevoli argomenti, anche di counselling. Giorgio mi spiegò che avevano dato vita ad una scuola, l’Istituto Change, che aveva l’obiettivo di portare la cultura della comunicazione tra i professionisti, specialmente quelli impegnati nelle relazioni di aiuto, e di formare dei counsellor attraverso un percorso triennale. Secondo lui la retorica era una radice ineludibile del counselling: fu una rivelazione che ancora oggi dà i suoi frutti. Già a quel tempo, e stiamo parlando degli anni novanta del secolo scorso, Giorgio e Silvana avevano chiaro che il counselling poteva e doveva emanciparsi dalla dipendenza dalla psicologia, e che le discipline umanistiche fossero i suoi elementi costitutivi essenziali. Penso che Change sia stata la prima scuola di counselling in Italia ad introdurre un seminario di retorica tra i suoi insegnamenti. Ma la retorica non era utile solo per ripensare il counselling, gli sembrava uno strumento importante anche per sostenere il lavoro dei professionisti, ricordo un numero monografico della rivista Janus sul quale Giorgio pubblicò un articolo (ora disponibile presso le edizioni Change in un testo dal titolo Retorica e medicina) in cui tra l’altro scriveva “Eppure oggi cominciamo a renderci conto che termini come “retorico” o “sofistico”, spesso tuttora usati in modo negativo se non ingiurioso, avevano ed hanno una profonda dignità allorché, dalle astrazioni romantiche o scientifiche ingenue, si passi al mondo così come ce lo troviamo davanti, fatto di creature viventi e di esseri umani interagenti.”  (Bert 2013, pag. 13)

La retorica era per lui lo spazio comunicativo in cui si giocano, nel bene e nel male, le possibilità di comprensione tra le persone e le relazioni di potere; andava quindi studiata a fondo dai professionisti, non certo per usarla a scopi di dominio, ma per impiegarla a favore dei pazienti e degli utenti negli interventi di cura e di aiuto.

 

 

Cinema 

Giorgio amava il cinema, anche in questo campo aveva una vastissima cultura che gli permetteva di individuare facilmente scene collegabili ai diversi argomenti di insegnamento e anche di raccogliere e commentare una nutrita serie di film utili per riflettere sulla medicina (Bert 2004). Usava spessissimo i film nella formazione e stimolava noi a fare altrettanto. Le sequenze a quel tempo venivano ‘tagliate’ e ‘incollate’ dalle videocassette e quando si andava in giro per l’Italia a tenere i corsi ci si portava dietro un borsone pieno di quei parallelepidedi di cui oggi si è quasi persa la memoria. Ricordo le sequenze de La casa dei nostri sogni, con Cary Grant e Myrna Loy che usavamo per far riflettere sul modo in cui si danno le informazioni, oppure Il pranzo di Babette, che proiettava interamente per introdurre i corsi sulla narrazione.

 

 

Editoria 

Quando Giorgio e Silvana mi spiegarono il loro progetto, Giorgio volle specificare che l’Istituto Change, nella loro idea, non doveva essere solo una scuola professionalizzante, ma un centro di cultura e un luogo per elaborare pensiero. Per questo ad un certo punto decidemmo di fondare una casa editrice: le Edizioni Change.  Giorgio aveva pensato a due collane: Gli “incroci” e Le “finestre”. Ne ‘Gli incroci’ avrebbero trovato posto i testi più impegnativi e ponderosi, scritti da noi o da altri (e mi piace in questa sede ricordare che abbiamo pubblicato, tra gli altri, due libri di Marcello Sala); ‘Le finestre’ invece, più agili e maneggevoli, avrebbero rappresentato soprattutto delle esplorazioni in campi nuovi o non particolarmente battuti. Ci propose anche di pubblicare una rivista: ‘La parola e la cura’, di cui gestiva interamente il progetto, scegliendo con cura le immagini e i testi (citazioni, poesie) che accompagnavano gli articoli. In un libro che raccoglie diversi dei suoi articoli scritti per la rivista, Giorgio la presenta così “Ho diretto per dieci anni una rivista intitolata La parola e la cura; si trattava di un semestrale a tema, nel senso che in ogni numero i collaboratori studiavano da molteplici punti di vista momenti ed eventi della vita: la nascita, la morte, il genere, lo straniero, la verità, la scienza, il dubbio…” (Bert 2017, pag. VII)

La rivista (ora pubblicata in formato digitale) è un laboratorio di pensiero, un modo di incrociare gli sguardi su una molteplicità di temi rilevanti, di approfondire teoricamente concetti complessi, di mettere in comune esperienze professionali svolte in campi diversi. Molti degli autori che avevano collaborato ai diversi numeri partecipavano poi al convegno annuale che Change organizza a maggio.

Un’iniziativa di cui sono particolarmente grato a Giorgio è di avere curato la pubblicazione presso le Edizioni Change di un testo dello psichiatra George Engel dal titolo Il modello medico biopsicosociale (Engel 2007). Questo importante scritto mi ha aiutato a comprende meglio come la sistemica sia una risorsa imprescindibile per i professionisti in ambito sanitario e, in generale, in tutte le relazioni di aiuto dove si rischi di cadere nella trappola del riduzionismo.


 

Potere 

Una cosa che ricordo molto bene di quella che fu la nostra ultima conversazione prima del suo ricovero in ospedale è che mi parlò del potere; mi raccomandò di tenerne conto in un testo che stavo scrivendo. Penso che la questione del potere fosse una specie di stella polare del suo pensiero. Giorgio era estremamente sensibile al modo in cui il potere era gestito nelle istituzioni, vedeva con chiarezza le strutture relazionali del dominio in tutte le sue declinazioni. Mi ha sempre colpito per la sua potenza illuminante questo brano che aveva scritto nel 1978 per un libro collettaneo sulla medicina scolastica di cui era il curatore “Per i bambini, da sempre, tutto viene deciso da altri, per il loro bene, s’intende. La società ha deciso di volta in volta che era bene che lavorassero nelle miniere e male che si masturbassero; che potevano (e possono) morire assai più degli adulti; che non hanno sesso né problemi sessuali; che la loro educazione può essere, a seconda delle mode e delle necessità economiche, rigida fino alle frustate o apparentemente permissiva, e così via. I bambini devono fidarsi dei genitori, degli insegnanti, dei medici, degli adulti in genere, i quali è bensì vero che pensano le cose più contraddittorie, ma pensano sempre per il loro meglio.”  (Bert 1978, pag. 19)

Non a caso quindi in diverse parti della sua opera compaiono riferimenti alle relazioni di potere e ai modi di opposizione. Mentre scriveva Medicina narrativa (Bert 2007) Giorgio ci parlava spesso delle storie dominanti e delle controstorie, ovvero narrazioni capaci di identificare e rifiutare gli aspetti delle storie dominanti che stanno alla base dell’oppressione. Da lui abbiamo imparato l’enorme potere delle narrazioni e anche come questo potere possa essere utilizzato sia in funzione del dominio, sia in funzione liberatoria.

Del resto, già il suo primo libro Il medico immaginario e il malato per forza (pubblicato per la prima volta nel 1974 e recentemente ristampato da Durango Edizioni) era centrato su questo tema. Il libro nasce grazie al sodalizio di Giorgio con Giulio Maccacaro, che allora dirigeva per le edizioni Feltrinelli la collana ‘Medicina e potere’. Maccacaro, medico e biologo, che aveva partecipato alla resistenza e aveva poi fondato Medicina democratica e il Movimento di lotta per la salute, propugnava un’idea di medicina radicalmente nuova che suscitava in molte persone entusiasmi e speranze; Giorgio si inserì in quel movimento scrivendo un libro che ancora oggi stimola riflessioni e muove ad agire (si veda la bella postfazione di Alessandro Rinaldi alla nuova edizione). A leggerlo ora si resta colpiti nel vedere come alcuni concetti, che allora apparivano fortemente rivoluzionari ed erano dai più considerati eversivi, oggi siano acquisiti (almeno teoricamente) dal sistema sanitario, per esempio l’idea che il malato non debba essere considerato come un minore, come “un bambino bisognoso di affettuosa indulgenza o come un oggetto di esperimenti”.  E aggiunge: “Non si vuole dire qui naturalmente che il malato non vada mai contestato, anzi, poiché esso va trattato appunto come ogni altra persona, può capitare di dover anche seriamente discutere le sue posizioni. Questa discussione dovrebbe però svilupparsi in un rapporto interpersonale di “uguaglianza contrattuale”, in cui risulti evidente che la malattia viene discussa e curata, se così si può dire, “insieme”. La comprensione da parte del malato della situazione deve essere completa, “da adulto”, proprio perché la sua collaborazione alla terapia sia tale e non semplice accettazione. Il soggetto deve poter discutere il suo stato di malato e le sue obiezioni vanno accolte, non motivate come “anomalie” del comportamento legate alla malattia e magari curate con psicofarmaci” (Bert 2018, pag. 82).

Sono parole che, in modi diversi, Giorgio ha ripetuto per tutto il resto della sua vita. Le ha ripetute a noi mentre cercavamo di definire gli obiettivi dei nostri interventi formativi, le ha ripetute ai medici sul territorio, al personale dei reparti di ospedale, agli infermieri, agli specialisti, in innumerevoli convegni, incontri, discussioni; dovunque insomma, e ogni volta che fosse possibile.

 

 

Medicina narrativa 

Uno dei libri più importanti pubblicati da Giorgio negli ultimi anni è stato senz’altro Medicina narrativa (Bert 2007). La medicina narrativa rappresentava per Giorgio l’occasione di sintetizzare le riflessioni di una vita nel campo della comunicazione, annodando insieme tutti gli aspetti per lui rilevanti della relazione di cura; come le questioni relative al potere e la possibilità di ‘dare parola’ a chi normalmente non ce l’ha. Credo inoltre che sentisse il bisogno di intervenire sul tema perché riteneva che fosse necessario puntualizzare alcuni aspetti di questo concetto. È molto facile, infatti, entusiasmarsi per la medicina narrativa: è un’idea stimolante e ‘alla moda’, ma, all’atto pratico, è molto difficile dire esattamente in cosa consista e come si faccia a praticarla.

Giorgio in questo senso aveva le idee molto chiare: raccogliere narrazioni dei pazienti o testi scritti da medici che raccontano e riflettono sulle loro esperienze, pur essendo di grandissima importanza, non rappresenta il cuore della medicina narrativa; per lui la questione fondamentale era che si strutturasse un dialogo tra i curanti e il paziente, che il paziente e i famigliari avessero voce nello strutturarsi della storia della cura. La parola che Giorgio ha forse ripetuto più spesso negli ultimi anni è polifonia: per lui è necessario che le narrazioni siano caratterizzate da molte voci che devono incontrarsi armoniosamente, come in una conversazione ben condotta.

L’idea di medicina narrativa gli permetteva di mettere ancora in luce, come aveva fatto fin dagli inizi, il rischio di usare il potere della medicina contro e sopra le persone che devono essere curate; e gli permetteva anche di individuare strumenti efficaci per costruire un vero dialogo. Per lui la medicina narrativa non era una disciplina, ma un atteggiamento mentale basato sull’idea che il medico, come un antropologo, deve esplorare un mondo: il mondo del paziente, e deve farlo basandosi su una sana curiosità, un grande rispetto e la massima chiarezza degli obiettivi professionali. In altre parole la narrazione non deve essere fine a sé stessa, ma inserirsi sensatamente e utilmente nel processo di cura. In questo modo veniva garantito il perfetto allineamento tra medicina basata sull’evidenza e medicina basata sulla narrazione.

Il concetto più importante che ho imparato dalla sua riflessione su questo tema è quello di cura. Nella comunicazione quotidiana, di solito, quando pensiamo alla cura in ambito sanitario quello che viene in mente è l’applicazione di uno o più dispositivi medici ad una situazione di sofferenza, diciamo infatti: “sto facendo una cura con il tal farmaco”, o “mi hanno curato con la fisioterapia”, o ancora “la cura che mi hanno dato funziona, sto molto meglio”. Quello che Giorgio cercava di rendere visibile era un’altra definizione di cura come il punto di incontro tra i dispositivi medici e l’esistenza delle persone. Insisteva molto sul fatto che “Il mondo del malato è completamente diverso da quello del medico ed è a quest’ultimo completamente sconosciuto. Quando il medico dà un nome alla malattia (ad esempio, ipertensione, diabete, artrosi) ha in mente con chiarezza il quadro clinico corrispondente, gli interventi necessari, la terapia, la prognosi. Il paziente invece colloca queste diagnosi nella sua storia personale e nella sua cultura: ne risulta che il diabete o l’ipertensione di cui parla il medico sono assolutamente diversi dal diabete o dall’ipertensione del malato; il fatto che portino lo stesso nome diventa addirittura un fattore confusivo.” (Bert 2007, pag. 9)

Ma per arrivare lì, al punto in cui le conoscenze e la tecnologia della medicina sono veramente utili al paziente, è necessario che il ‘mondo della medicina’ e il ‘mondo della vita’ dei pazienti e dei famigliari trovino un terreno comune; e perché ciò avvenga il curante deve agire comunicativamente in un modo appropriato, per cui Giorgio poteva indicare chiaramente che “Il solo modo di far quadrare la malattia dei libri di testo (che è un concetto astratto e probabilistico) con quella che abbiamo definito la malattia come problema individuale è quello di esplorare l’universo di significati che costituisce il mondo dell’altro.” (Bert 2007, pag. 15)

 

 

Narrazione 

La narrazione per Giorgio non si limitava però all’ambito medico, riteneva infatti che gli strumenti narrativi fossero essenziali per tutti i professionisti che lavorano nelle relazioni di cura, e in particolare per i counselor. La sua riflessione si articolava in particolare su questi temi: come narrare di sé e come aiutare gli altri a narrare. Aveva lavorato moltissimo, sia all’interno del percorso di Change, sia negli interventi formativi con i professionisti, sull’importanza di raccontarsi e aveva sperimentato in quest’ambito diverse tecniche di scrittura, in senso lato, autobiografica. Ricordo i bellissimi Haiku che i nostri corsisti producevano a partire dalle sue sollecitazioni, oppure il lavoro sulle leggende famigliari, oggi in parte raccolti nella ‘finestra’ Modi inusuali per dire di sé (Bert 2004).

Un altro aspetto su cui aveva insistito molto era l’importanza di apprendere ad analizzare le narrazioni in termini di relazione; sosteneva che “Per costruire una relazione di cura, il professionista deve essere in grado non solo di leggere e di interpretare le narrazioni dell’altro, ma anche soprattutto di evocarle, di guidarle, di concluderle.” (Bert 2008)

Una competenza fondamentale del professionista che ascolta le storie è saper aiutare la narrazione a svilupparsi, ma non in modo ondivago e spontaneo; perché si realizzi un intervento di aiuto basato sulla narrazione, la narrazione dell’altro deve essere guidata in modo che il professionista, attraverso di essa, possa procedere nel processo di aiuto. Giorgio vedeva anche molto bene il rischio di restare invischiati nelle narrazioni, proprie o altrui, e aveva riflettuto su come evitare questa trappola; in una ‘finestra’ che significativamente porta il sottotitolo Come non farsi intrappolare nelle cornici narrative scrive “È frequente infatti che la persona che ci porta un suo problema lo esponga in maniera tale da trascinarci all’interno della sua cornice narrativa. La capacità di ascolto di un professionista deve permettergli di non restare intrappolato in quella cornice, ma anche di non tenersene rigorosamente e costantemente all’esterno […] Una autentica capacità di ascolto deve permettere di entrare e di uscire da quello spazio narrativo quando lo decidiamo noi: è questa abilità che ci mette in grado di aiutare una persona invischiata nella sua narrazione dominante.” (Bert 2009)

Giorgio stesso scriveva romanzi, in particolare libri gialli, di cui era tra l’altro grande lettore. Mi ricordo ancora con emozione, quando uscì L’Affaire Montbazon, la presentazione che feci con Mariolina Bongiovanni Bertini, sua cara amica, ancora nella vecchia sede di Via Madama Cristina. Ma il suo libro che amo di più è senz’altro Come foto sbiadite; il magistrale ritratto di due sue zie che, a partire dai diari e dalle lettere rimaste, rinascono nella sua narrazione così piene di passione, umanità e bellezza che è difficile non innamorarsene (Bert 1998).

 

 

Filosofia 

Giorgio sapeva come pochi altri collegare i concetti teorici alla pratica della comunicazione professionale. Il suo modo di pensare era una continua sollecitazione a rendere viva e attuale la teoria e anche a trasformarla in azioni concrete. Dagli atti del convegno di cui ho raccontato sopra, quello sulla verità, fu tratto un libro dal titolo Verità e rappresentazione (Istituto Change 1997). Nel suo testo introduttivo Giorgio utilizzava una metafora medica per spiegare come spesso ci si trovi a guardare solo in una direzione, come se fossimo impediti a muovere la testa dall’artrosi cervicale. Al termine del suo testo inserisce un riferimento che dà profondità filosofica alla metafora: “In realtà noi non possiamo passare al paziente niente di nostro, possiamo solo aiutarlo a trasformarsi da dogmatico in scettico. Questa osservazione mi piace molto perché il termine “scettico”, etimologicamente, discende da un verbo greco che significa “scruto”, “mi guardo intorno”. E calza proprio a pennello, perché noi dobbiamo far sì che quell’individuo con l’artrosi cervicale che guarda solo davanti a sé, impari a guardarsi intorno, poco o pochissimo, ma a guardarsi intorno. Dobbiamo far sì che capisca che la sua non è l’unica verità, che ce ne sono almeno due, forse anche tre. È già una grande conquista credere che non ci sia un’unica verità, perché allora forse non sono tutti pazzi, forse non sono tutti cattivi. Allora forse la realtà può essere descritta in un altro modo da quello che a lui sembrava immodificabile.” (Istituto Change 1997, pag. 20).  

Oltre agli scettici, a cui era molto affezionato, c’erano alcuni altri filosofi che tornavano spesso nei suoi ragionamenti; prima di tutto l’immancabile Montaigne, che era per lui una risorsa infinita di temi e idee; ricordo poi le discussioni sul concetto di cura in Heidegger (che, in odore di nazismo, non era certo il suo preferito), Husserl, del quale lo interessava molto il concetto di Mondo della vita, Nietsche, Martha Nussbaum, Martin Buber, Adriana Cavarero.

 

 

Bateson 

Nel 1996 uscì il libro La stupidità non è necessaria, di Rosalba Conserva (ricordo ancora il paginone del manifesto dove venne recensito). E ricordo il pomeriggio a casa di Giorgio e Silvana in cui ne discutevamo; ad un certo punto Giorgio mi disse: “Hai voglia di andare a Roma a conoscere Rosalba?”. Fu l’inizio di una storia molto felice che dura tutt’ora, che mi ha portato ad incontrare e poi a partecipare al Circolo Bateson e che mi ha arricchito immensamente sia come persona sia come studioso.

Pensandoci, trovo che Giorgio avesse qualche cosa di simile a Bateson; c’è una frase nel film di Nora Bateson An Ecology of Mind, quando  lei spiega il modo che aveva suo padre di osservare le cose, che mi richiama il processo mentale di Giorgio, per lui uno sguardo su un oggetto non era mai sufficiente, ne aggiungeva un altro, e poi un altro e poi lo cambiava ancora, e ancora…

 


Piacere 

Un tema su cui Giorgio tornava spesso era quello del piacere. Il piacere rappresentava per lui un’importate possibilità di arricchire il nostro mondo e riteneva che esso fosse perseguibile in tutte le situazioni della vita; citava spesso l’episodio di un soldato tedesco a Stalingrado che ascolta l’Appassionata di Beethoven suonata da un camerata su un piccolo pianoforte miracolosamente intatto nel mezzo della distruzione. “Sono convinto che il piacere implichi un uso volontario del corpo e della mente, e possa essere controllato, ricercato, ampliato, rintracciato in qualsiasi contesto: esso ha a che fare con la volontà, con la curiosità, con la disponibilità, doti queste che possono persistere nelle situazioni più estreme. […] Questa attività implica un continuo arricchimento delle proprie capacità cognitive e percettive, un cambiamento costante.” (Bert 2017, pag. 139 e 143)

Si era particolarmente occupato del piacere delle persone malate. Riteneva, suffragando questa tesi con precisi riferimenti scientifici, che il piacere sia curativo, che aiuti a guarire; sosteneva l’importanza di dare ai malati del cibo appetitoso e gradevole e ripeteva che “il piacere è salute”.

Non a caso Giorgio e Silvana sono stati tra i fondatori di Slow Food e devo dire che spesso, quando ci capitava di essere invitati a cena a casa loro o se Giorgio proponeva un ristorante dove pranzare in occasione di un convegno, l’esperienza del piacere nel gustare atmosfera, cibi e bevande era certa.


 

Bibliografia