Riflessioni Sistemiche n° 26


Eredità e ispirazioni.
Incontri con persone straordinarie

Tra diversamente simili.
Quarant’anni di dialogo tra un genetista ecoevoluzionista militante e una filosofa della biologia
femminista-ambientalista


di Elena Gagliasso


Dip. di Filosofia, Università La Sapienza, Roma.
elena.gagliasso@uniroma1.it

Foto di NoName_13 da Pixabay

Sommario
La pratica di relazione tra due intellettuali (un biologo evoluzionista e un’epistemologa) è presentata con le sue caratteristiche di messa in comune di differenze, per formazione professionale, generazione, esperienze esistenziali, e di similarità per orientamento ideale e politico, visione del ruolo della scienza nella società, passione teorica e storica per la biologia evoluzionista, l’ecologia, l’ambientalismo, per il rapporto tra metodologie e condivisione sociale della ricerca. Una tale ininterrotta dialettica ha permesso di creare situazioni collettive di ricerca estesa, dibattiti, libri e di cementare un’amicizia profonda che trascende la stessa durata della vita.

 

Parole chiave
Maestra, mentore, pratiche di relazione, evoluzionismo, ecologia, ambientalismo

 

Summary
The relationship practice between two intellectuals (an evolutionary biologist and an epistemologist) is presented with its characteristics of sharing differences, for their professional training, generation, existential experiences, and similarity for their ideal and political orientation, vision of the role of science in society, theoretical and historical passion for evolutionary biology, ecology, environmentalism, for the relationship between methodologies and social sharing of research. Such an uninterrupted dialectic has made it possible to create collective situations of extended research, debates, books and and rooted a deep friendship that transcends the very span of life.

 

Keywords
Teacher, mentoring, relationship practices, evolutionism, ecology, environmentalism


  

1.     Una Maestra e nessun mentor 

In un presente che fino a quel momento era l’identico a sé del microquotidiano bambino, l’incontro con la figura che spalanca gli orizzonti e fa conoscere potenzialità impreviste della propria mente e del fare nel mondo - prefigurando ulteriori simili doni per il futuro - in questi termini, radicali, fu per me l’incontro-rivelazione, incarnato da un’unica irripetibile persona: la Maestra. La maestra Filomena De Gregorio alla scuola elementare Ermenegildo Pistelli a Roma.

Ci sono esperienze ed emozioni precoci di cui solo dopo molti anni si coglie l’imprinting evolutivamente straordinario. Eppure, con maggiore o minore partecipazione e consapevolezza, per tutti (ancor più per tutte come mostra la disperazione delle ragazze deprivate della scuola nei Paesi a teocrazia islamica) chi ti ha messo in mano, e nel modo giusto, il segreto di saper leggere e scrivere ha di fatto aperto una Stargate su mondi e universi al cui confronto qualsiasi innovazione d’impatto degli attuali Metaversi multimediali è solo un ulteriore piccolo passo.

Chi, giovane, insegna oggi alle elementari per la sua prima volta lo avverte nettamente di essere testimone (officiante?) di un piccolo miracolo. Ma il suono che fa l’erba che cresce non è clamoroso, e per i più non merita particolari onori. Così quando si dice Maestro non è a questi fondatori di civiltà e cultura che si pensa, non a coloro che ogni mattina girano tra i banchi di una classe, tra le piccole persone nuove, alfabetizzando e spiegando in quel tempo pregnante in cui il seme del futuro in ciascuna di loro si radica per costruire, a seconda, cittadini del mondo oppure sudditi del potere. Ben note le altre più auliche accezioni di ‘Maestro’, dall’artista famoso, al direttore d’orchestra, all’archistar, al couturier, al grande regista, personaggi di spicco, ma solo una società immemore e inconsapevole può anteporre questi ‘maestri’ alla maestra o al maestro elementari.

Mentre quindi, come forse per molti, la mia maestra mi resta architrave della vita, di ‘mentori’, se per mentore s’intende quella figura professionale di supporto, indirizzo e sostegno nella carriera che si può incontrare da giovani, invece non ne trovo. Un mentore si finalizza su di te, ti ‘coltiva’, e nessuno mi coltivò espressamente. Tuttavia il lieve disagio retrospettivo nel non rintracciare una tale figura va osservato nel dettaglio perché ha esiti interessanti. Da un lato, sul piano personale, porta a riconoscere una pratica di libertà esplorativa, autocostitutiva, e indirettamente quindi ad una gratitudine sui generis verso chi non supportandoti in modo istituzionalmente finalizzato ha reso possibile l’indipendenza nella ricerca. Dall’altro lato, entrando nelle sfumature di questo concetto, occorre un’analisi delle sue migrazioni di senso.

Il significato di ‘mentore’ copre infatti un campo oggi piuttosto strumentale e finalizzato, utilitaristico, inteso paternalisticamente come rapporto discendente: da-a. Il mentore è diventato mentor, e tanto più – analogamente a coach – non ne viene tradotta la declinazione del verbo ormai sostantivata, il mentoring, quale assistenza armata di pacchetti preconfezionati di conoscenze specifiche e interattive dal duplice fine: allenare-istruire e al contempo motivare soggetti meno esperti. In ciò più simile appunto a un allenatore che a un docente: “esortando comportamenti positivi e proattivi” (corsivo mio) ci dice quel grande termometro, anche del senso comune, che è il dizionario di Wikipedia. Ciò che inferiamo, proprio dalla sostantivazione anglizzata, mentor, in sostituzione di ‘mentore’, e che va di pari passo con la funzione verbale del mentoring, sembra così spia della finalizzazione produttivistica (‘proattiva’ appunto) del suo uso attuale, lontana dall’ormai desueto mentore come ‘precettore’.

Come slittamento di significato deriva da una sua progressiva cattura nel campo del management. È un transito che lo carica di significati impliciti, siglati da presupposti ideologici nascosti. Un mentor capace svolge perlopiù attività di formazione aziendale efficace, affianca esperti ai novizi, offre guideline, ‘fidelizza’ e prefigura upgrading. Previene e stempera conflittualità, inibisce critiche e paternalisticamente integra nel sistema d’appartenenza. Traslato ulteriormente poi il mentoring si rivolge a clienti attivi e compartecipati di qualunque impresa.

Volutamente questi anglismi non sono tradotti. Anzi, accrescendosi la loro diffusione utilitaristica, tali parole perdono il corsivo, a quel punto diventano tasselli intraducibili, pena il dissolversi dell’alone di efficienza, muscolarità e certezze innovative che li connota.

Nel mio caso un combinato che dispose una grande maestra e nessun mentor, quali contingenze e insieme conseguenze vincolanti, agì come premessa di libertà.

 

 

2.  Incroci di ricerca e pratiche di relazione 

Partendo da ricerche trasversali e connettive, anche liberamente extra-accademiche, capita di incrociare tangenzialmente dei propri simili sul terreno degli stili di ricerca, e a volte anche stili esistenziali, nel mondo delle idee e delle pratiche di vita.

Negli anni anni’80, quelli della mia formazione, segnati dall’incomunicabilità tra le filosofie analitiche e quelle continentali sono anche esistite delle possibilità di dialogo, a volte offerte da scienziati dal respiro filosofico (ricordo tra i tanti, Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, Henry Atlan, Steven e Hilary Rose, Evelyn Fox-Keller). La filosofia della scienza in questi casi aveva un respiro più vasto delle regole del metodo, aveva punti di contatto con fenomenologie, filosofie politiche e critica del sociale, e si delineava una nuova epistemologia, ibridata con la sociologia delle scienze (al plurale) e con interpretazioni sistemiche dei processi. Meno asettica del canone, ci lasciava osare domande sulle specificità delle scienze del mondo vivente. E si trattava per alcuni di noi della ricerca di una filosofia della biologia dalle peculiarità metodologiche ibride: processuali e sistemiche, affiancata da un’ulteriore ibridazione, quella con la storia del pensiero evoluzionista e con il mondo dei valori insito nella ricerca sul bios. La bioetica, partendo da altre domande, sarebbe nata successivamente, mentre l’epistemologia francese così attenta all’unione del metodo con la storia, da un Bachelard a un Canguilhem, allo stesso Foucault qui da noi non attecchiva, se non, per quest’ultimo, sul piano della filosofia politica (Gagliasso, 2019).

Faccio cenno a questa sommaria cartografia perché è su questi crinali che si potevano incontrare delle figure, viste oggi a distanza, per me ispiratrici. Non certo ‘dedicate’ a me secondo la relazione duale, di paternage che l’idea di ‘mentore’ include, ma euristiche e stimolanti in modi indiretti e reticolari, che idealmente autorizzavano la legittimità di criticare i molti clichè scientisti sottesi dalla filosofia della scienza classica.

Stava allora crescendo, soprattutto in area anglosassone una nuova generazione di biologi e biologhe evoluzionisti, di storici, storiche e artefici delle trasformazioni della biologia dal nuovo spessore teorico, in una sorta di terza ondata delle teorie evolutive. Quella che si formava, dopo la prima del post-darwinismo d’inizio secolo XX e la seconda della Teoria Sintetica degli anni ’50, sarebbe stata nota come Pluralismo darwiniano o Sintesi Estesa (Pigliucci, Müller, 2010). Molte delle questioni inevase e collegate all’ecologia sistemica nascente sfidavano il paradigma selezionista stretto e il geneticismo centrato sul dogma centrale del Dna come invariante. Inoltre i riflessi filosofici e culturali delle sfaccettature dell’evoluzionismo ‘esteso’, così come il passaggio dalle teorie sistemiche classiche a quelle dei processi evolutivi complessi (Gagliasso, 2010) erano un’affascinante sfida aperta. Altrettanto lo erano le nuove forme di naturalizzazioni della filosofia – sia quelle riduzioniste che antiriduzioniste su cui ci si sentiva chiamati a prender posizione e fare chiarezza. Il pilastro metodologico del rapporto circolare tra spiegazione e previsione non era più così scontato, come scienza e la biologia era impastata anche di metodologia della storia e il tema della probabilità e del caso in biologia apriva a quello dell’incertezza costitutiva dei fenomeni della complessità biologica.

Richard Lewontin, Richard Levins, Steven J. Gould, Steven e Hilary Rose, Conrad H. Waddington, Eva Jablonka, Evelyn Fox Keller, Jean Gayon, Donna Haraway, Niels Eldredge, per nominarne solo alcuni tra i maggiori erano, o erano stati qualche anno prima, come nel caso di Waddington, Lerner e Simpson, tra gli apripista. In comune tutti questi biologi avevano anche un tratto in comune significativo: elaboravano un pensiero critico rispetto alla ‘Tavola Alta’ della biologia (Eldredge, 1995) ed erano politicamente impegnati nel campo progressista della sinistra anglosassone (alcuni di loro avevano costituito il gruppo di Science for the People che avrebbe avuto risonanza anche da noi). Ciò me li rendeva quasi affettivamente sintonici per consonanza di ideali.

Con alcuni sarei entrata in contatto più o meno a distanza, solo tardivamente in modo diretto, realizzando quella straordinaria agnizione di un tuo simile (si parva licet) ispirante per intenti e idee.

Se però stringo il focus su esperienze di vita concreta, restando in Italia, e cerco qui la presenza di un dialogo reale e continuativo su tali confini tra filosofia, storia, epistemologia critica e ricerca della biologia evolutiva e dell’ecosistemica, è qui che ritrovo in tutto il suo spessore l’ininterrotto ragionare tra me, filosofa delle scienze del vivente con pochi interessanti scienziati critici e dalle vive curiosità filosofiche.

In particolare un fisico come Marcello Cini e un biologo come Marcello Buiatti, estranei al mainstream dell’epistemologia istituzionalizzata, critici di molti risvolti delle loro stesse discipline, non certo funzionali all’upgrading accademico, ma dallo spessore intellettuale ed esistenziale potente, furono incontri che segnano. Non maestri né mentori, ma incontri forieri di relazioni durature. Che non finiranno, come presenza stabile nella vita nemmeno nel tempo che avanza dopo la loro scomparsa.

Mi soffermo qui sul secondo, il genetista ed ecologo Marcello Buiatti con cui per più di quarant’anni s’è interagito con un dialogo ininterrotto e appassionato tra ricerca, paesaggi esistenziali e politiche ambientaliste.

  

 

3.  Un biologo critico radicato nel futuro 

Incontro di persona Buiatti all’Istituto Gramsci di Firenze nell’autunno del 1980, perché aveva scelto di presentare uno dei primissimi nostri libri. Un libro di giovani quasi sconosciuti nel mondo accademico che parlavano di non neutralità delle categorie biologiche incarnate da alcuni concetti cruciali come ‘specie’, ‘razza’, ‘istinto’, spie di un rapporto tra nominazione e connotazioni ideologiche implicite (Continenza, Di Siena, Ferracin, Gagliasso, 1980).

 In gioco fin da subito una similarità politica, esistenziale, di sentimenti, interessi e di visioni del mondo, modulata sulla diversità dei nostri caratteri, delle diverse formazioni professionali e, allora, sullo scarto generazionale. Una similarità variegata da differenze costitutive che non sfociavano in divergenze ma in arricchimento e che sarebbe continuata lungo tutta la vita.

Tra una filosofa della biologia già implicata sui temi della non neutralità della scienza, orientata nella sua visione del mondo dal femminismo e schierata con l’ambientalismo allora nascente anche in Italia, e un genetista sperimentale del mondo vegetale (esperto quindi nella complessità del genoma come sistema complesso e non come stringa di informazioni in codice), evoluzionista dalla profonda cultura storica e promotore (in tempi ancora di rigorismo selezionista) di un orizzonte darwiniano pluralista, uomo impegnato nella militanza politica marxista e insieme critico del totalitarismo del mondo sovietico: aveva lavorato con i genetisti cubani nella Cuba di Fidel Castro e con biologi della Left anglosassone come Waddington e Lerner, interagendo con i gruppi di Science for the People.

Con il fisico teorico della non neutralità della scienza, Marcello Cini, divennero rispettosamente amici per convergenze ideali, come raccontano ciascuno in merito all’altro (Cini, 2013; Buiatti, 2015) e nei nostri incontri anche informali a tre, circolarmente, ci si ‘istruiva’ tra filosofia, epistemologia critica, ecologia sistemica, teorie della complessità e biologia ecoevolutiva e si portavano avanti battaglie culturali e di politica scientifica. Si era creato lungo gli anni un affiatamento a tre che coinvolgeva anche altre colleghe filosofe, pochi fisici con Cini e qualche biologo e, naturalmente vari nostri allievi delle diverse appartenenze accademiche. In questa temperie fiorivano facilmente iniziative di ricerca e di comunicazione scientifica, come nel caso di due Centri di ricerca: Resviva (il Centro Interuniversitario di Ricerche Epistemologiche e Storiche sulle Scienze del Vivente) e il Cerms (il Centro di Ricerche in Metodologie delle Scienza dell’Università della Sapienza).

Un dialogare ininterrotto spesso informale in occasioni pubbliche più strutturato negli incontri per convegni o nella partecipazione a libri collettanei. Ma anche avventuroso, in spedizioni da ‘intellettuali scalzi’ con gli insegnanti delle scuole dell’Anisn per varie province italiane affamate di cultura e di critica politica, o nella comune frequentazione del Circolo Gregory Bateson, per noi tre luogo del cuore e della mente e zona franca per reinventare rapporti tra scienza e cultura attraverso un’antropologia ed epistemologia batesoniana eterodossa.

Ma voglio tornare sull’esperienza dei Centri universitari di ricerca, Resviva e Cirms, fondati inizialmente in modo estemporaneo, come semplici luoghi di studio e dialettica interdisciplinare, lungo i decenni sono poi cresciuti diventando punti di coagulo di molti studiosi, hanno promosso convegni e libri, e sono stati palestra per nuove generazioni di ricercatori. Il Cerms faceva capo a Cini e al mondo dei fisici e matematici (e fino a una decina di anni fa ha continuato ad essere attivo sotto la guida di Rosanna Memoli). Il Centro Resviva (www.resviva.com) di cui Buiatti fu tra i fondatori e per anni Presidente, esiste ancora e si va riattualizzando. Era nato nel 1993 nella Facoltà di Filosofia della Sapienza con la sfida di far dialogare linguaggi lontani di epistemologhe, storiche della scienza come Barbara Continenza, Giulio Barsanti, Carmela Morabito, Silvia Caianiello, di biologi come Buiatti stesso, Saverio Forestiero, Guido Modiano o Francesco Amaldi e di neuroscienziati come Aldo Fasolo, Umberto Di Porzio, Paolo Bazzicalupo, nonché personaggi del calibro di Pietro Omodeo, Vittorio Somenzi, Silvano Tagliagambe, e in seguito era stato arricchito da giovani ricercatori in crescita, oggi docenti sparsi per varie università italiane e europee.

In alcuni sabati del mese ci si riuniva nell’ “auletta” di Villa Mirafiori con interminabili discussioni su autori in quel momento storico cruciali come Ilya Prigogine, Isabelle Stengers, Gerard Edelman, Steven J. Gould, o su temi storici ed epistemici tra biologia e cultura dei XIX e XX secoli. Incontri da cui si usciva ogni volta un poco cambiati (Gagliasso, 2013). Si proseguiva al tavolo di un’osteria a San Lorenzo prima dei vari treni di ritorno, per Pisa, Firenze, Napoli, Torino. In quel crogiolo si interfacciavano lessici e linguaggi diversi intorno a un problema comune, transdisciplinare, e certi lanci di tematiche di Marcello Buiatti, retrospettivamente, li si può cogliere come antesignani di quello che avrebbe poi sviluppato la ricerca attuale in biologia ed ecologia. Fin dall’opera che lo aveva fatto conoscere anche al di fuori delle cerchie ristrette dei biologi, Lo stato vivente della materia (Buiatti, 2000), questo genetista-ecologista parlava al futuro. L’epigenetica, la biodiversità tra specie connesse, tra eucarioti e procarioti, piante e insetti, i diversi darwinismi ‘dimenticati’, ovvero il Darwin attento ai vincoli di struttura: la correlazione delle parti (Buiatti, 2013), i livelli plurali delle unità di selezione nested (dal gene all’ecosistema biotico), la necessità di superare le antinomie della Teoria Sintetica dell’evoluzione (Buiatti, 2008), di raccordare la selezione con l’autorganizzazione (Buiatti, 2008a), attentamente critico delle applicazioni dell’ingegneria genetica in agronomia e dagli interessi economici da sottesi da questa innovazione tecnologica (Buiatti, 2001): tutti temi su cui proprio negli ultimi anni pullulano le ricerche più avanzate e i dibattiti più caldi. Ma soprattutto una visione del mondo vivente alla luce del ruolo della contingenza casuale nell’evoluzione come stringa di storia (consonante in ciò con un suo simile per tanti aspetti come il paleontologo Steven J. Gould), che necessita di strumenti teorici rivisitati e comparati con quelli delle scienze esatte, un campo che negli ultimi anni della sua vita avrebbe esplorato a lungo con un altro suo grande amico, il matematico di Parigi, Giuseppe Longo (Buiatti, Longo, 2013).

 

  

4.  Una presenza-assenza per sempre 

Buiatti era scienziato ‘militante’ non solo per una lettura complessiva del mondo e della ricerca fortemente critica delle regole onnipervasive del profitto capitalista. Questo ‘sfondo’ si precisava in una forma di attenzione peculiare a gran parte dell’ambientalismo originario italiano, legato alla salute sul lavoro in fabbrica. Contemporaneamente l’allarme sul futuro della vivibilità del pianeta per le generazioni a venire e per i ‘dannati della Terra’ dal punto di vista climatico cominciava a entrare nell’attenzione dei più importanti Protocolli climatici. Questi si basavano sulle prime modellizzazioni delle ricadute differenziali della devastazione ambientale: a seconda delle distribuzioni geografiche dei popoli più svantaggiati e degli impatti sui ceti sociali più poveri anche negli emisferi ricchi. Già nel 1987, con l’illuminata Presidente della Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo di allora, Gro Harlem Brutland, alla luce di un Our Common future, (Brutland, 1987), era stata introdotta una locuzione-guida segnatamente ecologica e insieme ‘politica’ quale pietra miliare per le linee di futura governance del sistema economico e produttivo mondiale alla luce del rischio ambientale: ‘sostenibilità e giustizia climatica’ (Nespor, 2020).

Una temperie legata al cambiamento prodotto dall’impatto antropico che implicava anche la difesa della biodiversità organica nel suo complesso, con troppe specie incamminate verso la Sesta Estinzione sia per sottrazione climatica di ambienti vivibili, sia per omologazioni produttivistiche artificiali di alcune a spese delle restanti (Buiatti, 2001, 2007).  Così il suo “benevolo disordine della vita” era antitetico nelle sue analisi critiche al sistema finanziario dei brevetti, di quelli che spiegava come ‘cespugli brevettuali’ (Buiatti, 2006). Analisi lucida e divenuta di amara attualità ultimamente, in una fase drammatica della lunga dialettica tra profitto ed evoluzione biologica: quella in cui l’avidità delle grandi aziende farmaceutiche proprietarie dei vaccini anti-covid è in parte responsabile delle continue mutazioni e delle ondate di ritorno pandemiche che si irraggiano da parti dell’Africa deprivate di questa copertura (Campanella, 2020).

Proprio la biodiversità, Il benevolo disordine della vita (Buiatti, 2004) era fulcro del suo pensiero e articolava gran parte del nostro dialogare, piegandosi velocemente alle sue applicazioni anche storico-sociali. Mescolamento, ibridazione, meticciato, e dunque nel nostro caso multiculturalità, tra culture e genti diverse oltre che tra colture e vegetazioni erano temi sempre più cruciali per entrambi.

Nacque su questi intrecci così, proprio dalla sua ispirazione, la stesura del Manifesto degli scienziati antirazzisti firmato tra noi da figure come Guido Barbujani, Enrico Alleva, Rita Levi Montalcini Francesco Remotti, Flavia Zucco. Lo si presentò grazie alla Regione Toscana l’11 luglio 2008 nella Tenuta di San Rossore, là dove nel luglio del 1938 era stato firmato il fascista Manifesto della Razza e di cui rappresentava la definitiva risposta scientifica, la falsificazione, punto per punto ai dieci articoli degli estensori fascisti di allora (vedi: https://www.meltingpot.org/2008/10/manifesto-degli-scienziati-antirazzisti-2008/). 

Poi, fin negli ultimissimi anni della vita finché ha potuto, da ex-bambino sopravvissuto nascosto alle persecuzioni naziste, ha testimoniato nelle scuole nel Giorno della Memoria, coltivando sempre il rapporto con il mondo dei ragazzi delle scuole, degli insegnanti illuminati, convinto com’era – anche lui – che al vertice dell’insegnamento stanno sempre le scuole elementari (Danesi, 2013).

Il fatto che negli anni ’90 si andasse profilando la necessità di una filosofia della biologia italiana alla luce dell’evoluzionismo, della nuova genomica e delle teorie sistemiche e che questa integrasse via via la nascente filosofia dell’ecologia sistemica, ci permise di lavorare sulle caratteristiche specifiche dell’epistemologia delle scienze del vivente, in coerenza con quanto avveniva negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia.

Buiatti da giovane aveva lavorato con formidabili apripista per questi nuovi settori, oltrechè con Michael Lerner, il grande teorico dimenticato dell’omeostasi genetica, con Mooto Kimura, padre del neutralismo genico, e a Pavia aveva studiato con scienziati fondamentalmente antiriduzionisti, come Adriano Buzzatti Traverso padre della genetica italiana, formatore negli anni ’50 anche di genetisti di popolazione del calibro di Luca Cavalli Sforza, aveva dialogato con Giuseppe Montalenti che dal dopoguerra gettava le basi per lo sfondo teorico di corroborazione della rinascita dell’evoluzionismo, alfiere della diffusione di Darwin in Italia, e conosceva bene il grande naturalista, zoologo e storico della biologia Pietro Omodeo, cui sarà legato da affetto e stima per tutta la vita.

Proprio Omodeo, a 103 anni, ha voluto essere tra il pubblico della Gypsoteca a Pisa il 13 maggio scorso nella giornata dedicata alla memoria del suo amico ‘giovane’ Marcello Buiatti che ci aveva lasciati il 29 ottobre 2020, in pieno lockdown pandemico. Quel giorno, organizzato con sua moglie e il figlio Marco, con i suoi più cari amici della Fondazione Toscana e con il nostro amico filosofo Maurizio Alfonso Iacono, si sono volute intrecciare attraverso numerose relazioni e testimonianze la dimensione scientifica così sui generis della sua ricerca con quella della militanza politica e ambientalista (si rimanda per la registrazione della giornata a “Marcello Buiatti: un eredità per il futuro. Fondazione Toscana sostenibile, www.ftsnet.it e ad alcuni interventi della giornata raccolti nel numero 2/ 2002 – giugno, della rivista Naturalmente Scienza).

In quel maggio già l’invasione dell’Ukraina con la catastrofe umana, ecologica, geopolitica ed energetica che avrebbe comportato si stava dispiegando in pieno. L’Europa annaspava priva di una reale visione nonostante l’apparente compattezza reattiva. Il Covid, il conflitto militare, le incombenti carestie di paesi Sud che ne derivano sembrano incrementarsi circolarmente: in quei giorni riemergevano qui, nel nostro presente, stilemi umani di epoche barbariche, spezzoni di storia europea rimossi, insieme ad anticipazioni e distopie di minacce belliche globali, ‘ibride’, virtuali e post-moderne, mentre si cominciavano ad individuare in filigrana gli interessi collusi e sotterranei delle due metà di mondo che tiravano i fili della guerra.

Ricordare, proprio in questa temperie, il modo di Marcello Buiatti di essere scienziato, ma anche di essere umano, sensibile a ogni abuso e prevaricazione, critico dei totalitarismi e dello sfrenato neoliberismo finanziario (come diceva: ‘la finanza virtuale contro le vite reali’) era quel giorno a Pisa insieme confortante e lacerante.

Era confortante per il calore che affratellava così tanti di noi presenti, e ci faceva toccare con mano la responsabilità del gesto simbolico e performativo di farlo entrare a tutto campo nella Storia, con la limpidezza di giudizio che porta il commiato, ma era lacerante per la ragion stessa della giornata: la percezione ancor più netta della perdita irrimediabile della persona viva.

Un’assenza resa più acuta proprio a causa di un presente così perturbato, proprio quando sulla catastrofe che si addensa in questo Occidente – e si ripercuote su tutto il mondo – avremmo voluto poterci confrontare, come tante volte in passato sui tanti altri eventi di questo scampolo di storia che ci è dato vivere.

Non con un ‘maestro’, né con un mentore, ma con quel vero compagno di strada con cui la dialettica sul mondo e su noi stessi nel mondo non cessava mai. E che in modi interiorizzati, in fondo forse continua per sempre: come un lascito.

 

 

Bibliografia

 

 

 

Sitografia