Riflessioni Sistemiche n° 26


Eredità e ispirazioni.
Incontri con persone straordinarie

Incontro con Mara Selvini
Una scoperta e una svolta di vita


di Silvana Quadrino

Psicologa, psicoterapeuta, counsellor didatta Istituto CHANGE,
Scuola di comunicazione e counselling sistemico narrativo

Foto di Thomas Malyska</a> da Pixabay

Sommario
Dall’incontro con il lavoro e la personalità di Mara Selvini, nel corso di un seminario a New York, alla scoperta del potenziale rivoluzionario dell’intervento sistemico. La formazione in una scuola di psicoterapia in cui lei non insegnò mai, ma in cui il suo insegnamento si è trasmesso comunque e ha ispirato molte delle mie scelte professionali.



Parole chiave
Milan approach, sistemica, terapia famigliare, paradosso, controparadosso, connotazione positiva, giochi famigliari, prescrizioni paradossali, counselling sistemico.



Summary
Beginning with Mara Selvini’s work and personality during a workshop in New York, towards the discovery of the rivolutionary potentional of the systemic intervention. The training activity in a school where she never taught, but where her lessons were handed on anyway, and they have inspired many of my professional choices.



Keywords
Milan approach, systemic, family therapy, paradox, counterparadox, positive connotation, family games, paradoxical prescription , systemic counselling.

  

 

Storia di un incontro 

Quando ricordiamo un incontro come un punto di svolta nella nostra vita, le possibilità sono due: o ci siamo innamorati, o abbiamo trovato in qualcuno la risposta a qualcosa – una insoddisfazione, un dubbio, un vuoto – che forse non era ancora chiaro neppure a noi stessi.

1977, New York. Sono negli Stati Uniti come moglie accompagnatrice del giovane ingegnere FIAT a quel tempo mio marito, nonché padre delle mie due bambine di 5 e 8 anni, in trasferta per 8 mesi negli States insieme ad altri giovani ingegneri italiani debitamente accompagnati. Noi signore saremmo a tutti gli effetti Desperate Housewives, relegate in un sobborgo residenziale fra barbecues della domenica e merende quotidiane con i bambini. Mi salvo da questa triste sorte perché sono anch’io in trasferta ufficiale: ho ottenuto dal servizio di NPI dove lavoro di trasformare l’aspettativa per motivi famigliari in un permesso per motivi di studio. Userò il tempo per visitare i centri di salute mentale, i sevizi territoriali socio sanitari e per frequentare qualche seminario. Con il mio lavoro di psicologa dell’età evolutiva sono in crisi già da un po’: quello che faccio, quello che ho imparato a fare nei tre anni di specializzazione in psicoterapia clinica e negli anni di tirocinio in clinica di NPI, quello che mi viene chiesto di fare dalla mia caposervizio e dalla Direttrice della Clinica, mi sembra sempre meno utile e sensato. Non mi sembra affatto che risponda a ciò che mi sento chiedere, implicitamente o esplicitamente. Ad esempio, dalla mamma affannata ed esausta, che ha dovuto trascinare il figlio autistico su e giù dagli autobus per arrivare all’appuntamento con me, che ha affrontato gli sguardi di rimprovero o di commiserazione degli altri passeggeri e ora mi interroga, con gli occhi e con un timido gesto della mano, mentre esco dalla stanza della terapia con il suo piccolo Riccardo che ripete monotonamente le sue parole-frase. C’è un “come sta andando” in quello sguardo e in quel gesto, ma mi hanno insegnato che non devo rispondere per non “inquinare” la terapia. Oppure dalle insegnanti frustrate, che non capiscono proprio il perchè di quelli che vengono chiamati “inserimenti” di bambini problematici – andavano così bene i centri psicopedagogici! – e soprattutto mi chiedono cosa fare con quei bambini, e con gli altri alunni, che non li sopportano, si spaventano, che chiedono di cambiare classe. Io posso solo comunicare una diagnosi, sperando che sia sufficientemente grave da giustificare la richiesta di una insegnante di “sostegno” che per qualche ora le alleggerirà dalla presenza di quel bambino ingestibile. Ma è troppo poco: la frustrazione, l’impotenza, l’esasperazione circolano, dalle insegnanti ai genitori e dai genitori al bambino. E io che ci faccio, lì in mezzo? Cosa so, cosa posso fare? Quando incontrerò per la prima volta Mara le riconoscerò, quelle che lei definiva richieste per “pazienti non richiedenti”, su cui anche lei da tempo aveva cominciato a interrogarsi, proprio perché insoddisfatta del modello psicoanalitico che non prendeva in esame tutte le situazioni in cui ad essere motivata al cambiamento non è una persona ma “altri” che vorrebbero che quella persona cambiasse.

  Richieste a cui non sapevo dare risposta mi arrivavano sempre più spesso anche dalle mamme di ragazzine troppo magre, che avevano cominciato in quegli anni ad affacciarsi ai servizi di NPI: “non mangia più, dottoressa, il pediatra dice che è una cosa nervosa, le ha detto che se continua così la mandiamo in ospedale e lì sì che la faranno mangiare per forza anche con le flebo”. La ragazzina mi guarda e vedo la rabbia e la disperazione che non riesce a esprimere se non in quel modo, rifiutandosi di mangiare; ma cosa succederà quando sarà bloccata in un letto di ospedale con una flebo nel braccio e la minaccia “o ricominci a mangiare normalmente o da qui non esci”? Da ex adolescente problematica intuisco – o ricordo? - che qualcosa accade non “a “quei bambini, a quelle ragazzine, ma fra loro e gli altri. Da pedagogista vedo che fra bambini con diagnosi simili e i loro genitori accadono cose diverse: Riccardo esce borbottando fra sé le sue parole frasi e sfugge la mano della mamma; Massimo invece cerca subito il contatto battendo ritmicamente la mano sulla coscia di sua madre, e lei risponde battendogli sulla spalla allo stesso ritmo, e sorride. Mi viene da pensare che c’è qualcosa di appreso in quei comportamenti: nonostante le sue difficoltà, Massimo è “in contatto” con la sua mamma, e la sua mamma accoglie il suo modo di entrare in contatto con lei. Come è potuto succedere? Cosa impedisce che questo accada anche fra Riccardo e la sua mamma o il suo papà? Cosa si potrebbe fare per far nascere qualcosa di simile fra altri genitori e altri bambini?

 

 

Se il campo di osservazione si sposta 

New York. Fra i nomi dei relatori del seminario a cui ho deciso di iscrivermi – non solo per sfuggire per un giorno alle micidiali merende fra mamme italiane in trasferta negli States – c’è un nome italiano: Mara Palazzoli Selvini. Immigrata? No, il programma la indica come fondatrice di un “Centro per lo studio della famiglia di Milano”

 Anche gli altri relatori, del resto, vengono indicati come appartenenti a centri di terapia della famiglia di diverse località degli Stati Uniti. Sono incuriosita: cosa potrà significare lavorare con le famiglie? in che modo, con quale metodo?

Sono, anche, disorientata: quello che mi colpisce fin dalle prime relazioni è che proprio a Mara Selvini e al “Milan approach” fanno riferimento quasi tutti i relatori. Non dovrei conoscerla anch’io? Dove si nasconde questo Centro per lo studio della Famiglia di cui (vergogna!!) io, italiana, non ho mai sentito parlare? I loro riferimenti mi trovano impreparata: termini come sistema famigliare, paradosso, paziente designato, prescrizioni di fine seduta, rituali famigliari non fanno parte del mio lessico, ma del loro sì. Riuscirò a capirci qualcosa?

Quando prende la parola Mara il disorientamento non diminuisce, anzi. Quello che descrive parlando del nuovo approccio che caratterizza la scuola di Milano è esattamente ciò che vedo quando Riccardo o Massimo incontrano le loro mamme, quando fra una ragazza anoressica e i suoi genitori scattano quegli sguardi duri, ostinati, ostili: una interazione predefinita, un copione invariabile. Ma nelle sue descrizioni la trama di quel copione si svela improvvisamente, ciò che accade assume un senso a cui non avevo mai pensato. Attraverso le sue parole quello che definisce sistema famigliare prende vita, diventa visibile: perché il campo di osservazione si è spostato. Mi accorgo che non lo vedevo, prima, ma vederlo così di colpo è piuttosto spiazzante.

Una volta accettata, l’idea fondamentale che ogni problema umano è di natura interpersonale e coinvolge immancabilmente diverse persone implica uno spostamento del campo di osservazione dall’individuo a sistemi sempre più ampi di relazioni – scriveva qualche anno prima la Selvini (Mara Selvini Palazzoli, 1975)  Acquistava via via sempre maggiore chiarezza, in particolare, il fatto che ciò che spinge il paziente a comportarsi in un modo particolare non è qualcosa che primariamente accade dentro di lui ….. Se l’osservazione viene spostata a più di una persona e si abbandona il modello medico, allora i problemi psichiatrici diventano problemi di disturbi di transazioni” (cit. in Mara Selvini Palazzoli, 2006, pag. 202).

 

 

Curiosità 

Era il suo vanto quello di avere sostituito al termine “anoressia nervosa”, che evocava una causa organica del disturbo, il più significativo “anoressia mentale” che richiamava al disagio del mondo mentale della paziente anoressica: in sostanza all’origine psichica del disturbo. E proprio il mondo mentale della pazienti anoressiche aveva acceso la sua curiosità, come possibile spiegazione di un comportamento altrimenti inspiegabile: come racconterà, con la vivacità espressiva che la caratterizzava, nel documentario Risonanze fra vita e professione (Testo in Matteo Selvini 2016), parlando del suo contatto con le prime pazienti anoressiche, quando frequentava la specialità in Medicina interna con l’obiettivo di diventare ricercatrice di laboratorio:

 

Il mio direttore della clinica vedeva per la prima volta la prima anoressica entrata in clinica, non ne aveva mai viste neanche lui.  Io non sapevo assolutamente niente di psicologia, ma quando il professore veniva su e parlava di ipofisi abbiamo cominciato a litigare. Perché gli ho detto: ma senta direttore, queste ragazze erano bellissime, adesso sono dei mostri, quando lei entra dovrebbe vederle così: “professore, guardi come sono ridotta, mi salvi!” Le hanno mai domandato qualche cosa? Mai! perché sono contente! Allora non dobbiamo cercare di capire altro: questo è psichico, eh!”

 

E’ la curiosità per ciò che rende possibile quel disperato sciopero della fame, per quello che la paziente cerca ostinatamente di far succedere fino a morirne, che la porta ad abbandonare la medicina interna per occuparsi di psichiatria e dedicarsi al lavoro con quelle pazienti. La stessa curiosità la porterà poi a mettere in discussione il modello psicoanalitico su cui si aveva basato inizialmente il suo lavoro: l’analisi del “mondo interno” della paziente non le sembrava sufficiente a dare risposta a quella nuova domanda: non “perché”, ma “a che scopo”. Il campo di quella battaglia senza esclusione di colpi non può che essere il sistema famigliare, bloccato in quello che sembrava essere “l’unico adattamento possibile di un dato soggetto a un dato tipo di funzionamento famigliare” (Mara Selvini Palazzoli, 2006, pag. 210).

Di questo parla Mara, in quel giugno del 1977, mentre io cerco di tenere a bada la vertigine sistemica in cui mi sta trascinando. Parla di sfide alle regole disfunzionali che né la paziente né la sua famiglia riescono a cambiare. Parla di funzionalità del comportamento sintomatico che, paradossalmente, permette alla famiglia di mantenere la sua omeostasi. Parla di interventi controparadossali come grimaldello per sbloccare quella omeostasi letale e far emergere modalità più funzionali. Non è secondaria, in quella prima fascinazione che l’intervento di Mara stava producendo in me, l’appassionata convinzione con cui parlava del nuovo approccio. Capirò solo più tardi quanto fosse ancora vivo il dibattito sulla possibilità di conciliare la visione psicodinamica, che era stata la base della formazione personale e del lavoro psicoterapeutico sia per lei che per Boscolo, Cecchin e Prata, gli altri membri dell’équipe di Milano, con il pensiero sistemico su cui stavano costruendo il loro metodo. La conclusione a cui il gruppo era arrivato a metà degli anni ’70 era che non ci fosse conciliazione possibile: che si trattava di inventare qualcosa di radicalmente nuovo, sia nel setting che nel metodo di conduzione dei colloqui. Ed era di quella novità

che lei parlava, con un entusiasmo che mi stava contagiando.

 

 

Metodo 

E’ indispensabile che il terapeuta lavori con l’intera famiglia.

E’ indispensabile lavorare in coppia, preferibilmente in coppia uomo-donna.

E’ indispensabile lavorare in équipe, per consentire la presenza di terapeuti attivi e terapeuti osservatori.

E’ indispensabile una separazione fra il sistema provvisorio famiglia- terapeuti attivi e i terapeuti osservatori: questo si ottiene utilizzando uno specchio unidirezionale, dietro il quale gli altri terapeuti osservano l’interazione e se notano che “i terapeuti vengono disorientati o confusi dalle manovre della famiglia, bussano alla porta chiamando uno o l’altro dei terapeuti in camera di osservazione”, Mara Selvini Palazzoli, 2003, pag. 13) dove a essere esaminata sarà appunto l’interazione di quel sistema provvisorio.

E’ indispensabile che l’equipe abbia la possibilità di riesaminare a lungo la seduta, che viene videoregistrata.

Mentre Mara descrive la basi del metodo di Milano compare in me anche una certa irritazione: ma questa signora ce li ha presenti i servizi di territorio? Quello di cui mi sta parlando – e che mi affascina - non è alla fine soltanto un elegante intervento di élite, riservato a pochi fortunati che se lo possono permettere? E gli altri? E noi, psicologi di trincea?

 L’ideologia di quegli anni è forte, ma ha anch’essa, almeno per me, un effetto paradossale: devo capirlo, questo metodo, e poi renderlo utilizzabile anche per noi sfigati terapeuti di famiglie sfigate, i cui membri non vedremo sicuramente mai tutti insieme nel nostro studio (studio… insomma… un ex negozio adibito a ufficio condiviso con le assistenti sociali della psichiatria adulti, con tutta la privacy consentita da una parete di compensato e sicuramente non compatibile con uno specchio unidirezionale o una telecamera, figuriamoci con il lavoro in èquipe…) ma che si confrontano con le stesse sofferenze, le stesse battaglie perdute e con la stessa impossibilità di abbandonare il campo di battaglia.

 Mi concentro sul metodo, mettendo da parte l’irritazione ideologica. Ma non è mica facile capire: c’è un vero capovolgimento del setting, e del ruolo del terapeuta; una rivoluzione insomma. Poche sedute, dieci (dieci???) (Mara Selvini Palazzoli 2003, pag. 14). Concordate talvolta con un rituale molto teatrale, in cui il capofamiglia consegna al terapeuta un assegno o l’equivalente del pagamento delle dieci sedute che viene riposto (teatralmente) in cassaforte “perché se faremo meno sedute vi restituirò il di più”. Quel rituale sperimentale venne poi presto abbandonato, ma in quel momento coglievo il

significato strategico di quel gesto, e cominciavo a percepire il posizionamento sfidante con cui Mara intendeva la relazione terapeutica: sottrarsi al potere di guaritori che la famiglia disfunzionale ci concede per poi sottrarcelo con la sua capacità di non guarire, rispondere al paradosso, che è alla base del comportamento sintomatico come garanzia dell’omeostasi famigliare, con un controparadosso che riconsegna alla famiglia e al paziente il potere di cambiare.

La famiglia di cui parla nel suo intervento quel giorno è una famiglia disperata per i comportamenti della figlia ventenne: esce di notte, rientra in condizioni disastrose, sporca, ubriaca, spesso con tracce di rapporti sessuali violenti. Descrive i genitori, composti e quasi amimici mentre raccontano tutto ciò, alternandosi nella descrizione come in un testo teatrale. Descrive la sorellina tredicenne, che i genitori non volevano portare in seduta (ma pensate che sia il caso? Con le cose che dovremo dire…) con la gonnellina blu bene aggiustata sulle ginocchia e i gambaletti di cotone bianco ben tirati sulle gambe. Descrive la contraddizione fra la riprovazione ben controllata con cui i genitori parlano della figlia e il loro monotono ripetere, quasi come un ritornello, “con tutto il bene che le vogliamo”; e il silenzio ostinato della paziente designata, Ilaria.

 “Non dobbiamo chiederci perchè Ilaria si comporta a quel modo. Dobbiamo chiederci a cosa serve il suo comportamento” ci dice con calore Mara Selvini. 

Mi sembra di riuscire a capire qualcosa di più: il concetto di sintomo come sacrificio. L’intervento paradossale che loda e valorizza quel sacrificio. Le domande circolari, che chiamano in causa tutti i membri della famiglia. La prescrizione di fine seduta che ingiunge di non modificare nulla fino alla prossima seduta, anche se mantenere quei comportamenti è estremamente pericoloso per Ilaria, doloroso per i genitori e disorientante per la sorellina, che non sa se può permettersi di capire ciò che sta succedendo o fingere di non saperlo, come sembra che le chiedano i suoi genitori. In quella prescrizione tutti i membri della famiglia vengono riconosciuti e inclusi nella descrizione di ciò che accade e della sofferenza che ne deriva. Intuisco la portata di quella rivoluzione copernicana della terapia ma mi è chiaro che alla sua base c’è ben altro che affascinanti esercizi paradossali e controparadossali.

Appena il convegno finisce mi precipito in libreria alla ricerca dei libri di Mara. Ma trovo anche Watzlawick, Bateson, Haley… E mi si apre un mondo!

 

 

Da un convegno a una scuola 

Scateno amiche e amici italiani alla ricerca di informazioni su questo misterioso Centro per lo Studio della Famiglia (no, non potevo cercarle su google, allora!) e qualcuno mi dice che il Centro propone anche un corso di psicoterapia della famiglia. Sono alle prese con una decisione importante per la mia vita: come proseguire la mia formazione. Il triennio di specializzazione in psicologia clinica, il lavoro di tirocinante “volontaria” in Clinica Universitaria di NPI che mi permette di accedere gratuitamente alla formazione e alla supervisione con una psicoterapeuta della Tavistock Clinic non mi danno quello che cerco. Solo che non lo so ancora bene, quello che cerco. Potrebbe essere questo?

 

La scuola c’è. Appena aperta e ahimé già chiusa, almeno per ora: il primo anno di corso

inizierà a gennaio, quando sarò appena tornata in Italia, ma è già al completo. Come mi accade spesso, basta quell’impedimento a convincermi che è proprio lì che voglio andare; e subito. Comincio a stressare la segreteria finchè salta fuori un posto per me. E vvvai!

Ci sono altri impedimenti: il costo; la mia vita di mamma di due bambine, lavoratrice con pochi soldi, orari pienissimi e nessun aiuto; lo scetticismo dei famigliari (ma chi te lo fa fare? Tanto mica ti aumentano lo stipendio, poi). E, non ultima, la scoperta che il tempo dedicato a quel tipo di formazione non verrà considerato come permesso di studio dal Servizio da cui dipendo, come accade invece per chi si sta formando come psicoterapeuta “serio” (leggi psicodinamico) e può usufruire del permesso retribuito anche per le ore di viaggio. Dovrò togliere quelle ore dalle ferie.

Sia come sia, eccomi in Via Leopardi, a Milano. Pochi ricordi: la sala con il grande tavolo di legno lucido intorno a cui siamo seduti, un grande quadro alla parete di cui ricordo soltanto il fascino simbolico, i miei compagni di corso. Molti di loro si conoscono, alcuni sono stati allievi di Mara Selvini alla Scuola di Specializzazione in Psicologia dell’Università Cattolica di Milano. Uno, scoprirò, è suo figlio Matteo. Scoprirò anche che alcuni di loro hanno collaborato a una ricerca e pubblicato un libro che diventerà la mia bibbia nel mio lavoro come psicologa di territorio, e poi nella ricerca della via del counselling: Il mago smagato (Mara Selvini Palazzoli 1976).

Non era fra i docenti, Mara: era già in corso quella che sarebbe poi diventata la spaccatura del gruppo, fra l’impegno nella ricerca, che era ciò che voleva Mara, e quello per la formazione, su cui Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin si stavano impegnando.  Ma si può essere un “maestro” anche se non ci si colloca dietro una cattedra: per Mara, credo, la posizione di chi “sa e insegna” era troppo lontana dalla sua infinita curiosità, alimentata dalla convinzione di “non avere ancora capito nulla”, come diceva a Franco Basaglia in quegli anni, quando lui insisteva perché partecipasse ai grandi cambiamenti della riforma psichiatrica:

“Devi essere con noi” le scriveva.  “Ma se non ho ancora capito nulla, cosa vuoi che venga a fare…” rispondeva lei. E non era falsa modestia: quello che la animava era la voglia instancabile di ricerca, la stessa che le aveva fatto sognare da ragazza un futuro da archeologa, e poi di ricercatrice, che l’aveva fatta litigare con il suo Direttore a proposito di ragazze anoressiche.

Della scuola ricordo  il grande impatto delle lezioni di Boscolo e Cecchin, la lettura di Watzlawick e di Bateson, le nostre domande, i commenti su quelle letture; le discussioni sui casi in corso, che finalmente mi rendevano visibile lo straordinario impianto metodologico su cui si basava la conduzione di ogni seduta, la funzione del’équipe, l’importanza della revisione critica di ogni seduta, di ogni azione dei terapeuti; la ricerca costante del “cos’altro” non abbiamo visto, cosa non abbiamo capito. . La trama delle domande circolari, che rivelavano all’improvviso un gioco nascosto e che lasciavano senza parole la famiglia, e anche noi allievi.

Mara la ricordo in quei nastri registrati che rivedevamo insieme ai docenti, e poi nelle sedute a cui assistevamo dietro lo specchio, ed è un ricordo vivissimo.

Non sarò mai come lei. Era la sola cosa che mi veniva da pensare, mentre la vedevo districarsi dalle trame invischianti di una famiglia che ripeteva e ripeteva lo stesso copione, con un’uscita spiazzante, con una domanda irriverente: Quando è che avete deciso di essere tutti infelici per non lasciare che Lucia sia l’unica ad essere infelice? Cosa ci guadagna il papà a permettere a mamma e Luigi (il figlio sedicenne) di continuare il loro idillio trattandolo come un povero idiota? Noi te lo dobbiamo chiedere perché io e i miei colleghi non riusciamo a capire: a chi stai dedicando la tua morte, perché che stai morendo lo sai meglio di tutti noi, vero? Qui parlava a una ragazza anoressica ridotta veramente in fin di vita, che arrivava da Genova con la famiglia, avvolta in strati di maglioni e coperte per trattenere almeno un po’ di calore nel suo corpo ridotto allo stremo. Lo ricordo ancora, il lungo contatto oculare fra la ragazza e Mara e poi le lacrime su quel viso che era un teschio. L’inizio della resa, la fine della battaglia.

Non ci riuscirò mai. Intanto non avrò mai un’équipe come questa, ma soprattutto non saprò mai essere così autentica nell’essere strategica. Gli interventi erano sempre concordati in équipe, a volte con lunghe discussioni; ma quando Mara faceva il suo intervento nelle sue parole c’era il calore della convinzione; c’era la sua capacità di essere intensamente “nel” sistema famigliare senza essere dalla parte di nessuno. Ricordatevi, ci diceva al termine delle sedute, nessun membro della famiglia deve uscire dalla stanza di terapia a testa bassa. Era il principio su cui fu poi sviluppato l’articolo fondamentale “Ipotizzazione, circolarità, neutralità”, pubblicato nel 1980 (Mara Selvini Palazzoli, 1980) ma che io ricordo distribuito a noi allievi forse l’anno prima, ancora caldo di fotocopiatrice. Non essere dalla parte di nessuno, non cedere alla logica vittima-colpevole, restituire a ciascun membro della famiglia, nei propri interventi, il riconoscimento della sua fatica nel mantenere il gioco omeostatico e della impossibilità di abbandonare quel compito senza speranza. Quell’atteggiamento mentale è il fondamento indispensabile dell’intervento di connotazione positiva, che non può essere credibile se il terapeuta non percepisce profondamente la sofferenza di ciascuno dei membri della famiglia, bloccato con tutti gli altri nella trappola dell’omeostasi, e non esprime a ciascuno con convinzione la propria capacità di vedere quella sofferenza.

Cercavo di trasferire negli interventi individuali quella modalità di vedere le regole, i copioni, i giochi dei sistemi famigliari di cui il paziente era parte, di uscire dalla domanda “perché accade questo” per sostituirla con la domanda “a cosa serve”; di rileggere la storia di vittima che i pazienti mi portavano trasformandola in una storia di sacrificio, o di compito impossibile accettato e mai abbandonato. Convocare una famiglia al completo non era solo impossibile, era vietato! Conservo ancora gli ordini di servizio perentori e minacciosi che mi arrivavano quando osavo convocare i genitori di un bambino in terapia per ampliare il campo di osservazione, per coinvolgerli nel tentativo di cambiare le regole rigide e improduttive che spesso impediscono alle

famiglie di trovare equilibri più sostenibili nella relazione con un figlio con gravi difficoltà. Ero, eravamo, noi psicologi di territorio, esploratori clandestini delle possibilità di quelle terapie sistemiche individuali che sarebbero poi state sdoganate ufficialmente soltanto nel 1996 dal libro fondamentale di Boscolo e Bertrando, Terapia

sistemica individuale. Ai convegni non ne parlavamo: ne parlavamo fra noi, ci scambiavamo riflessioni e consigli su come lavorare, su come trasferire quanto stavamo apprendendo nel corso di terapia famigliare nel nostro nuovo modo di fare terapie individuali.

 

 

Apprendimenti 

Ho finito il corso nel 1981. Mi sono trovata ad essere una delle pochissime psicoterapeute della famiglia in Piemonte, con tanto entusiasmo e tante incertezze. Cosa avevo imparato da Mara Selvini in quegli anni? Se è stata una maestra (lo è stata) cosa hanno prodotto i suoi insegnamenti nella mia vita professionale?

Quello che mi aveva colpita fin da quel giorno di giugno a New York era la sua capacità di non essere mai soddisfatta. Il suo modo di porsi nei confronti delle prime pazienti anoressiche si basava sulla convinzione che “non se ne sapeva nulla”, che era possibile provare a cercare di capirne di più, ma senza mai accontentarsi di quello che sembrava di avere capito. Il metodo di lavoro di cui parlava non era qualcosa di definitivamente ben costruito che si poteva apprendere e applicare così com’era, bensì un percorso di “apprendimento per tentativo ed errore”, che prevede l’accettazione dell’incertezza e anche della possibilità di errore nel lavoro terapeutico.

Nel  capitolo V di Paradosso e controparadosso (Mara Selvini Palazzoli pag. 43) si parla senza esitazione degli errori in terapia famigliare come di “ una componente essenziale di quel processo di apprendimento che è la terapia della famiglia”: è la capacità di vederli, gli errori, e di non persistere nella strada disfunzionale, che permette al terapeuta di non “innamorarsi” delle proprie ipotesi, di essere pronto a cambiare strada, e di attivare, proprio con questa modalità flessibile e aperta al cambiamento, un processo di  deuteroapprendimento per la famiglia. Che differenza potente rispetto alla fiducia cieca nella verità dell’interpretazione dei comportamenti e dei pensieri del paziente che mi era stata insegnata in precedenza! Dalla insoddisfazione, dalla curiosità, dal coraggio del cambiamento, che attraverso il suo esempio avevo imparato ad accettare e ad utilizzare anche nel mio percorso professionale, nacque pochi anni dopo la mia ricerca di “qualcos’altro” che permettesse a chi incontrava persone o famiglie nei contesti non terapeutici di dare risposte capaci di tenere conto del funzionamento del sistema famigliare, di intervenire in modo non antiomeostatico, di facilitare la ricerca di nuovi equilibri in caso di malattia, di cambiamenti imprevisti, di perdite improvvise, senza scimmiottare l’intervento delle psicologo: di proporre insomma il counselling sistemico come intervento nei contesti sanitari, educativi, sociali. La previsione che mi accompagnava ogni volta che osservavo i suoi interventi in terapia, non sarò mai come

lei, si è avverata: perché così deve essere. Un vero maestro non produce imitatori ma prosecutori di cammino. La via strategica alla terapia, che Mara ha portato avanti con le sue ricerche, con la sua scuola e con i suoi libri  (Mara Selvini Palazzoli 1988) dopo la scissione del gruppo fondatore del Centro di Milano, si è rivelata presto troppo lontana da quello che cercavo di fare (o che ero in grado di fare) nei miei contesti di lavoro, e

poco utilizzabile nella ricerca di un fondamento teorico e metodologico del counselling sistemico. Ma è al suo stile sicuro e intensamente convinto che mi ispiro in terapia quando utilizzo una connotazione positiva, quando propongo al paziente o alla famiglia una nuova lettura della loro storia, una rinarrazione in cui vittime e colpevoli sono scomparsi, o in cui si riconosce a tutti la fatica di mantenere regole che sembra non si possano cambiare.

  La ricchezza creativa del suo modo di costruire domande sistemiche è ciò a cui mi ispiro quando cerco di far scoprire ai medici, agli infermieri, agli insegnanti, ai futuri counsellor la straordinaria forza di cambiamento che può avere una domanda ben fatta. La sua convinzione che, lavorando all’interno di sistemi organizzativi che richiedono un intervento per risolvere una situazione critica bisogna “ utilizzare la richiesta di intervento per lavorare in vista di un obiettivo diverso da quello esplicitamente richiesto (risolvere il caso) nonché da quello sostanzialmente atteso dai membri del sistema (mantenere l’omeostasi)” (Mara Selvini Palazzoli e altri, 1976,  pag. 66)  è stata la chiave per scoprire e sperimentare le potenzialità  del counselling sistemico indiretto nella scuola e nelle organizzazioni.

Ma credo anche di avere imparato, forse anche a partire da alcuni punti comuni fra la sua storia personale e la mia (punti comuni che ho scoperto solo più avanti) a credere come lei nelle mie intuizioni e nella possibilità di far accadere quello che ancora non sta accadendo; a non cedere all’imposizione del “si è sempre fatto così”, alla svalutazione del nuovo.

Gli attacchi a chi utilizzava l’approccio sistemico alla fine degli anni ’70 erano basati su questo: svalutazione (lavorate solo sul sintomo, non fate che spostarlo, anche se momentaneamente scompare ricomparirà in altra forma); banalizzazione (insomma in sostanza la colpa di tutto è della famiglia) , accuse autovalidanti (se  non lavori sul “profondo” non stai facendo terapia, perché la terapia lavora sul profondo).

La strada tracciata da Mara è una strada di cambiamenti, non di autovalidazioni compiaciute. Come scrive Pietro Barbetta nell’introduzione alla riedizione di Paradosso e controparadosso del 2003 “la ricerca di Mara Selvini e del suo gruppo è sempre stata aperta al cambiamento, alla riformulazione di nuove teorie. Non si è mai chiusa in un modello statico” (pag. X) E più avanti “Personalmente credo che si tratti di un crinale: questo libro …. è l’inizio di gran parte delle prospettive terapeutiche degli ultimi 25 anni” (pag XI)

 Mi piace considerare il metodo del counselling sistemico narrativo che ho sviluppato all’interno dell’Istituto CHANGE con Giorgio Bert, Mauro Doglio, Manuela Olia, Milena Sorrenti e Roberta Ravizza come uno dei frutti dell’insegnamento di Mara e del gruppo storico di Milano degli anni ’70. Nelle basi teoriche, nelle componenti metodologiche, e nella ostinazione con cui ne sosteniamo l’importanza nonostante le svalutazioni, le accuse e le banalizzazioni: l’insegnamento di Mara è stato davvero per me l’inizio di una nuova prospettiva nell’intervento di aiuto, e un invito a proseguire la ricerca, con curiosità e determinazione.

 

 

Bibliografia