Riflessioni Sistemiche n° 27


Decostruendo miti e pregiudizi del nostro tempo

Dalla scissione al legame:
un passaggio di paradigma profetizzato dalla tradizione nonviolenta


di Gabriella Falcicchio

Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Foto di stokpic da da Pixabay

Sommario
La tradizione nonviolenta annovera personalità molto diverse tra loro, che hanno sviluppato i propri “esperimenti con la verità” in luoghi geografici e culturali diversi. Un filo conduttore li unisce: aver colto, con sguardo profetico, il valore del legame come categoria relazionale, sociale, organizzativa, euristica in un mondo – sia culturale che politico – strutturato da millenni sulla scissione, sui dualismi, sulla competizione.


Parole chiave
Nonviolenza; cooperazione; legami; mutuo appoggio; epistemologia ecologica.


Summary
The nonviolent tradition includes very different personalities, who have developed their own "experiments with the truth" in different geographical and cultural places. A common thread unites them: having grasped, with a prophetic gaze, the value of the bond as a relational, social, organizational, heuristic category in a world – both cultural and political – structured for millennia on division, dualisms, competition.


Keywords
Nonviolence; cooperation; bondings; mutual support; ecological epistemology.



Per millenni, l’impianto culturale occidentale si è retto su quella che, in altri luoghi, ho voluto chiamare Weltanschauung della scissione (Falcicchio G., 2020, pp. 21-59). La filosofia greca ha espresso una tradizione di pensiero esemplare da questo punto di vista: si pensi all’idea di polemos quale forza motrice del divenire interno all’essere; alla dialettica come andamento del pensiero e del discorso (il logos); alla divisione tra la mera e fragile opinione, la doxa e il solido pensiero scientifico, l’episteme; tra svegli e dormienti, tra mondo dell’esperienza (ovvero il corpo e i suoi accidenti) e mondo delle idee (incorporeo e necessario). Su questi e altri fondamenti, passando poi attraverso l’impalcatura religiosa medievale, è stata edificata una visione del mondo che trova consacrazione nei dualismi della modernità scientifica e nella distinzione cartesiana tra

res extensa e res cogitans. La realtà è spaccata e fatta di sostanze diverse, la materia e la mente, e si struttura in forma piramidale, con ai vertici coloro (maschi adulti cristiani bianchi sani abbienti…) che detengono la pienezza delle funzioni della mente e, di conseguenza, il potere sociale e politico. Dalla repubblica platonica dei filosofi al sapere-potere baconiano, passando attraverso il principio politico per antonomasia, il romano divide et impera, e l’idea di poter disporre a proprio piacimento del creato in quanto esseri superiori a tutti gli altri (in un equivoco penoso del dettato biblico), l’eredità di millenni di cultura occidentale giunge tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo a una sorta di bivio: da un lato il positivismo, coniugandosi con la seconda rivoluzione industriale, l’ascesa del capitalismo, il darwinismo sociale, vive la sua apoteosi scientista, l’esaltazione del progresso, l’entusiasmo modernista insieme alle spinte colonialiste e imperialiste e ai nazionalismi, dall’altro quell’edificio imponente che veniva or ora edificato cominciava allo stesso tempo a sgretolarsi con l’affacciarsi di nuove visioni filosofiche ed epistemologie.

Non è un caso che nello stesso passaggio storico si affermi, in modo totalmente nuovo rispetto al passato, la nonviolenza, intesa come metodo di lotta. Nonostante infatti sia innegabile che buona parte della cultura occidentale si muova sui presupposti sopra accennati, possiamo affermare che, in parallelo, in modo più silenzioso e talora carsico, l’umanità (a varie latitudini) sia stata attraversata anche da idee, aspirazioni, afflati di segno diverso rispetto a quello dialettico, dualistico, “polemico”. Si pensi all’ahimsa buddista, induista e jainista nel contesto orientale; alla regola d’oro del “non fare all’altro quel che non vuoi sia fatto a te”; all’amore cristiano per il prossimo e all’affacciarsi dell’esperienza e dell’idea di intimità nella vita relazionale (Jullien F., 2014). E se la parola “pace” risulta molto controversa, contraddittoria, variamente interpretata nel corso dei millenni, sarebbe interessante – ed è un lavoro da costruire – esplorare la genesi e la genealogia di quella che solo tra XIX e XX secolo si afferma come “azione nonviolenta” o satyagraha. Sia dentro questa genesi, sia contemporaneamente all’affacciarsi della nonviolenza che Giuliano Pontara chiama “dottrinale” (Pontara G., 2006), si rintracciano semi e germogli di nonviolenza anche in visioni, teorie, dottrine che non si denominano in modo esplicito come nonviolente:

 

“si può scoprire che molte tesi sostenute nell’ambito di un ‘pensiero nonviolento’ o di una ‘dottrina nonviolenta’, o di un ‘discorso della nonviolenza’ sono comuni ad altri pensieri, ad altre dottrine, ad altri discorsi, e magari anche meglio sviluppate in essi” (Pontara G., 2008, pag. 2).  

 

La nascita della nonviolenza in quanto metodo d’azione sociale e politica, dunque, è recentissima, possiamo attribuirle appena 150 anni. La tesi che qui si intende sostenere è che il pensiero e la persuasione che animano la tradizione nonviolenta smontano i costrutti culturali della violenta aggressività tanto epistemica che etico-politica dominanti in occidente, fondati sul dualismo come struttura dell’essere, su un’idea di società gerarchicamente strutturata e sulla guerra come motore della storia.

 

Quando i romani coniano il divide et impera, da geni dell’arte militare quali erano, traducono in parole, per la prima volta e in modo efficace come era loro proprio, l’espressione più violenta del potere. Il potere di un popolo sull’altro, di una classe sociale sulle altre, di un capo su una collettività si esercita più efficacemente se il bersaglio è frammentato. Popolazioni disperse su territori molto vasti, interruzione delle comunicazioni, avvelenamento dei corsi d’acqua (che sono arterie di congiunzione, oltre che fonte di sostentamento) e loro deviazione, norme che spezzettano le identità e le trattano in modo diseguale creando conflitti (un tipico modo di procedere del colonialismo) e un’infinità di azioni sono state compiute nella storia per piegare il fronte nemico o gli avversari politici o anche solo i popoli che abitavano territori da conquistare. Rompere i legami sociali è la strategia vincente se si vuole asservire un gruppo, che, una volta slegato, non è più un gruppo, ovvero non è più un’entità superiore alla somma delle sue parti, con dinamiche sue proprie che lo rendono forte. È vincente soprattutto se vi si aggiungono elementi di malessere che generino conflitto interno, forme di competizione per l’accaparramento di risorse o diritti, per cariche politiche, o anche solo per il pane. Questo modo di gestire la cosa pubblica, così ben teorizzato da Machiavelli molti secoli dopo, si poggia su un analogo modo di pensare la realtà, da cui scaturiscono i modi dell’azione nella, sulla, contro le forme della realtà. Il divide et impera è stato anche principio gnoseologico: si può conoscere la realtà se la si separa, così la si può governare con la mente. Ma è il governo di un pensiero rispettoso quello che frantuma l’essere? C’è un implicito che giace al fondo: che la realtà vada governata, che gli umani possano controllarla, averla sotto il proprio dominio: col pensiero e con le azioni.

C’è quindi da fare una precisazione: i dualismi propri della nostra cultura non introducono solo cesure (tra essere e non essere, tra mente e corpo, tra opinione e scienza, tra svegli e dormienti) tra entità di pari livello o dignità. Sarebbe ingenuo e bisognerebbe smettere di crederlo. Nella storia del pensiero occidentale, sia nell’antichità sia, molto di più, con l’aggancio cristiano (e in ogni caso con il prevalere di una certa filosofia e teologia cristiana), i dualismi si sono accompagnati con la gerarchizzazione degli elementi. La doxa non è solo distinta dall’episteme, ma il suo essere distinguibile, discriminabile apre la strada a considerarla inferiore all’episteme. Sui dormienti, è lapalissiano, grava lo stesso giudizio di inferiorità. Il corpo, la vile cartesiana res extensa non è solo altra sostanza dalla res cogitans, ma è espressione imperfetta, difettosa, vile dell’essere. È in virtù di questa inferiorità che Cartesio può affermare che il dolore del cavallo non è niente di più che lo stridere di un ingranaggio: il cavallo non possiede pensiero (cosa falsa), ergo a chi interessa il dolore del cavallo?

Persino i 5 sensi sono messi in gerarchia e – guarda che caso – i maggiori pensatori dell’occidente additano il tatto (che è il senso del legame) come il più misero e degradato modo di accesso al mondo, a differenza della vista (che è il più astratto e mentalistico dei sensi, oggi in vertiginosa ipertrofia).

Poter stabilire un migliore e un peggiore, un alto e un basso (su questo tema del basso vile in rapporto con cioè che è in alto ed è nobile, mi sono divertita a dissertare in Falcicchio G., 2016), introdurre cioè scale maggiore-minore e migliore-peggiore permette di degradare a indegni di considerazione o meritevoli di briciole, sia sul piano conoscitivo che etico-politico, aspetti della realtà, entità o esseri viventi che in virtù del loro statuto inferiore possono essere depredati, devastati, saccheggiati, sterminati, o abbandonati al loro destino senza fornire alcun aiuto da una inerte (colpevole, interessata) indifferenza.

L’esempio più facile da riportare alla memoria è la deumanizzazione degli ebrei (e non solo) operata dal nazismo. Ma i colonialismi e gli imperialismi si sono sempre nutriti di forme di deumanizzazione (si pensi alla schiavitù dei neri o alla discriminazione verso i nativi) in cui l’altro non solo è altra cosa rispetto a me, ma anche altra cosa inferiore.

Del resto, per restare dentro la cultura occidentale, l’inferiorizzazione delle donne si è poggiata sull’idea che maschi e femmine fossero esseri radicalmente distinti e sull’insignificanza delle seconde ha trovato agio la millenaria indifferenza (quando non repulsione e disgusto) e la scarsa attenzione (ancora ben riscontrabile) verso la fisiologia femminile nella ricerca medica e farmacologica.

La logica dualistica si è saldata solidamente con il pensiero razionalistico grazie al presupposto che è più corretto e offre maggiore chiarezza analizzare le parti separandole e inserendole dentro categorie ben precise (si pensi all’autopsia) e ha costruito le basi della razionalità industriale della seconda modernità, schierando le parti non una accanto alle altre, ma una davanti all’altra, aprendo la strada al fronteggiamento, alla tenzone, alla modalità retorica che la cultura dualistica ha espresso meglio di ogni altra: la dialettica. Di fatto una guerra verbale a dimostrare la propria ragione contro l’avversario, non a caso usata nell’agone (giustappunto) giudiziario e politico.

Il discorso sarebbe lunghissimo e scopriremmo che ogni piega del pensiero occidentale è imbevuta di questa logica, che porta con sé elementi intrinsecamente distruttivi. Quel che qui si intende sostenere non è una posizione giudicante e di condanna, è ovvio: la storia umana ha prodotto questo e lo ha fatto massicciamente. Piuttosto vogliamo vedere anche l’altro versante del pensiero e dell’azione umana, quello non distruttivo, quello che minoritario per molto tempo oggi viene alla luce attraverso molteplici canali di emersione. Uno di questi è stata la tradizione nonviolenta, che affonda le sue radici più remote in millenni di spiritualità.

 

La parola ahimsa ha una storia plurimillenaria e un fondamento spirituale religioso. Gandhi, che, attraverso un percorso meno lineare di quel che comunemente si pensa, giunge a riscoprire il valore della sua formazione religiosa familiare dopo i viaggi in Inghilterra, conosce a fondo il senso dell’ahimsa, il mezzo per raggiungere il fine che è la verità, il satya:

 

“Questa è la via dell’ahimsa. Essa comporta continue sofferenze e l’uso di una pazienza infinita. […] Così passo a passo noi impariamo a sviluppare un’amicizia universale; comprendiamo la grandezza di Dio, ossia della Verità. La nostra pace spirituale aumenta malgrado le sofferenze; diveniamo più coraggiosi e più intraprendenti; comprendiamo più chiaramente la differenza tra ciò che è duraturo e ciò che non lo è; impariamo a distinguere tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Il nostro orgoglio scompare e diventiamo umili. Il nostro attaccamento alle cose mondane diminuisce e diminuisce giorno per giorno il male che è in noi” (Gandhi M.K., 1996, pag. 35).

 

Nell’ahimsa c’è tutta la profondità spirituale che anima l’intenzione dell’agire. Quando però Gandhi si trova a coordinare le rivendicazioni dei neri, non solo indiani né solo africani, contro le discriminazioni dei bianchi in Sudafrica, comprende che è necessaria una parola nuova per descrivere il nascente metodo di lotta nonviolento. L’inglese proponeva le locuzioni civil disobedience e passive resistance, ma non erano sufficienti a descrivere la scelta di lottare in modo tanto attivo quanto non distruttivo nei confronti dell’oppressore. Inoltre Gandhi intuisce, con molti decenni di anticipo sulla riflessione postcoloniale (o di Paulo Freire, che su questo costruirà tutta la sua pedagogia), che non è possibile usare lo strumento linguistico dell’oppressore per descrivere la lotta di liberazione degli oppressi: bisogna coniare una parola nuova (Manara, 2007; 2008; Falcicchio G., 2022), che sarà satyagraha.

Siamo all’inizio del ‘900, Gandhi stesso, nell’autobiografia in cui narra le vicende intercorse fino al 1921, definisce il suo percorso “la storia dei miei esperimenti con la verità”, evidenziandone due aspetti: da un lato, il metodo che lo sta rendendo famoso in tutto il mondo non è ben definito, sta nascendo in quel momento e tanti aspetti ancora sono in discussione; dall’altro, esso resterà sempre sperimentale, cioè aperto e creativo e inventivo nella sua essenza, antidogmatico, problematico, critico.

In Italia a portare il pensiero gandhiano e a svilupparne uno originalissimo è Aldo Capitini. Un pensiero che va riscoperto per la sua fecondità etico-pratica e la capacità di attivare cambiamenti radicali in chi lo incontra (Capitini A, 1959; 1969; 2022). La nonviolenza capitiniana si incentra sulla compresenza dei morti e dei viventi, ovvero sull’idea (da esperire concretamente per poterne sentire la verità, più che da capire con l’intelletto) dell’abbraccio corale di tutti gli esseri venuti alla vita. Questo abbraccio è inteso sia come orizzonte escatologico, come realizzazione ultima della storia e oltre la storia, sia come pratica che dà inizio subito alla realtà futura: l’azione nonviolenta apre un varco nella storia. Vivere la compresenza significa innanzitutto prendere contezza, accertare (attraverso il vissuto diretto e personale dell’apertura al tu) l’intima struttura della realtà, che è – diremmo noi oggi – relazionale, ecosistemica, ecologica. Capitini utilizza termini diversi: ci dice che la compresenza è l’infinita cooperazione di tutti gli esseri alla produzione del valore. Ci dice che, in ogni momento, in ogni luogo, anche senza esserne coscienti, tutti gli esseri collaborano infinitamente a creare quanto di buono, di bello, di giusto esiste nel mondo, tutti, nessuno escluso. La potenza di questo immenso, permanente atto corale è tale da trasformare la realtà, anzi di tramutarla, ovvero cambiarne le strutture intime. Una volta compresa la verità della compresenza, l’azione nonviolenta (declinata in nonuccisione, nonmenzogna e noncollaborazione) sarà la conseguente pratica che nutre la compresenza, le dà ossigeno, la carbura, di modo che la realtà limitata di oggi si incammini festosamente verso la realtà liberata.

Da questo nucleo potentissimo, si irradiano tutti i rami della proposta nonviolenta capitiniana (e possiamo a buon diritto sostenere che, con un lessico diverso e declinazioni diverse in base alle epoche e ai contesti, elaborazioni simili sono state proposte anche dalle altre voci della nonviolenza): si fa strada quella che altrove ho chiamato la Weltanschauung del legame. È in virtù del legame di cooperazione tra i Tutti che è possibile ripensare radicalmente il conflitto in modo non distruttivo, e l’avversario non più come nemico da distruggere; è possibile aprirsi alla frontiera più problematica, oggi più che mai in primo piano, ovvero la collaborazione con gli esseri nonumani, animali, piante, finanche microbi (e Capitini intuisce che il futuro avrebbe portato la cooperazione anche con questi esseri, come sta accadendo!) per la sopravvivenza del Pianeta; è possibile ripensare i rapporti sociali in chiave orizzontale e policentrica; l’economia nei termini di sarvodaya, il benessere di tutti, attraverso la “semplicità volontaria” (Gregg R.B., 2012; 2018); la città come articolazione di centri autogestiti di esercizio omnicratico (Capitini A., 1969), ovvero del potere di tutti, del potere dal basso e del controllo dal basso.

 

Da questo punto di vista, Capitini, uomo orientato alla pratica e pensatore mai perso nella teorizzazione, avvia con successo l’esperienza dei C.O.S., i Centri di Orientamento Sociale, forse una delle esperienze più significative di democrazia partecipativa dell’immediato dopo guerra:

 

Questi C.O.S. sono libere assemblee dove tutti possono intervenire e parlare («ascoltare e parlare» ne è il motto) di problemi amministrativi cittadini e nazionali, e di problemi sociali, politici, ideologici, culturali, tecnici, religiosi. Il fatto che si discuta insieme di amministrazione e di idee è, credo, profondamente significativo contro ogni atteggiamento esclusivamente culturale o contro ogni altro limitatamente concreto: nell’un modo e nell’altro si migliora l’amministrazione, l’educazione, la consapevolezza della realtà, ci si «orienta»” (Capitini A., 1995, pag. 6).

 

I C.O.S. vengono creati a ridosso della liberazione, nel 1944, quando a Perugia si ritrova con intellettuali antifascisti, partigiani, molti giovani e giovanissimi, persone del popolo e lo stato diffuso è di profondo disorientamento, soprattutto tra i giovani. Appare necessario non abbandonarli e aggiungere ai partiti un organo che comprendesse tutti, ascoltasse tutti. L’idea che anima i C.O.S. è orizzontale, vede cioè la partecipazione attiva di tutti, senza una leadership, senza alcuna figura di capo; nelle assemblee si intende discutere insieme, far emergere esigenze e bisogni, renderli più chiari e concreti con il dibattito, non insegnare. Nello stesso tempo i C.O.S. offrivano cultura, lezioni, formazione (per esempio corsi di inglese), aprono biblioteche, sale di lettura, promuovono conferenze e seminari. Sono centri effervescenti che si moltiplicano, si autofinanziano, elaborano proposte per le elezioni. L’esperienza si conclude nell’arco di qualche anno, Capitini stesso ne fa un bilancio non felice, sia per la fatica di avviare le singole realtà, sia per mancanza di persone che vi si dedichino in modo sistematico in funzione, diremmo oggi, di facilitatori. Tuttavia, quei quattro anni sono ricchissimi e di questi andrebbero studiati molti aspetti che hanno la brillantezza delle cose che nascono, in questo caso il fulgore, che abbiamo disperso, della democrazia che nasce. Di questa bellezza, Capitini dà atto nella sua narrazione:

 

[…] ogni inaugurazione di C.O.S. è bella, e bella quanto più nella provincia, nei luoghi lontani dalle città. Questo popolo di borghigiani e di contadini che viene convocato liberamente senza differenze di condizioni sociali e di fede […], e vede che non solo gli uomini, ma le donne, i ragazzi, possono intervenire e parlare, cioè esprimere in presenza a tutti, e ad uno che considerano più istruito, i loro bisogni pratici, i loro suggerimenti, i loro piani, le loro proteste contro irregolarità e prepotenze; e far domande a chi sanno che non prepara tranelli al popolo sulla situazione politica, economica, sociale; questo vedersi l’un l’altro lì nella riunione generale con i propri modi singolari di esprimersi, e come scoprirsi collettività, quest’aria di fiducia che circola, sono cose grandi […](Capitini A., 1995, pag. 13).

 

Si tratta di un’esperienza di enorme portata che vale la pena conoscere, approfondire e – mutatis mutandis – riproporre. Non ci si meraviglia che Aldo Capitini e Danilo Dolci abbiano nutrito una lunga e profonda amicizia (Capitini A., Dolci D., 2008), in virtù della quale non solo comprendiamo quanto affini fossero i loro animi e intenti, ma anche quanto dell’esperienza dei C.O.S. sia potuto transitare nel metodo maieutico che Dolci usa nelle sue attività educative e formative, con i bambini e con tutta la cittadinanza, attività sempre “politiche” nel senso più nobile e significativo che possiede questo aggettivo.

Del resto, se Capitini rileva la difficoltà di “accendere” la cittadinanza assopita da 20 anni di dittatura e disabituata a prendere in mano la gestione della propria esistenza civica e collettiva, per altri versi difficoltà analoghe si riscontrano anche oggi, in cui l’assopimento e il disinteresse verso la politica non dipende dalla mano violenta del totalitarismo, ma da altri fattori, come il ripiegamento nel privato favorito dai dispositivi elettronici, dall’accelerazione dei tempi quotidiani fino alla saturazione delle 24 ore giornaliere, da una generalizzata indifferenza e senso di impotenza rispetto alle dinamiche globali, percepite come lontane e gestite da burattinai occulti. Nella nostra contemporaneità, insidiosa perché liquida, più difficile da decrittare nei suoi dispositivi di potere, la tradizione nonviolenta offre un insieme di pratiche individuali e collettive, metodi di lotta, stili di vita e idee che in buona parte ribaltano la tradizione culturale dominante in occidente da millenni e, anche in virtù del suo procedere aperto e inventivo, possono sgretolare un impianto sociale violentemente aggressivo e distruttivo in forme molto più subdole. Lo può fare eleggendo il legame quale perno ontologico, gnoseologico-epistemologico, etico e politico di un’era nuova che possiamo costruire insieme, tutti, ora.

Lo fa con intuizioni che oggi possiamo chiamare profetiche, visto che dai punti più disparati delle scienze anche hard, giungono scoperte e conoscenze che disegnano una realtà – che è sempre realtà vivente, Gaia (Lovelock J., 2021) – animata dalla legge della cooperazione, della sinergia, della simbiosi, di quello che Kropoktin chiama “mutuo appoggio” come legge intima del vivente (Kropoktin P.A., 2020). Parole come, ad esempio, superorganismo, simbiogenesi (Margulis L., 1998), coevoluzione (Chiechi L.M., 2018), microbiota, micelio (Stamets P., 2011), biofilia (Wilson E.O., 2021; Barbiero G., Berto R., 2016; Barbiero, Falcicchio 2015), epigenetica, psiconeuroendocrinoimmunologia (Bottaccioli F., 2014), sono alcune delle parole nuove per dire la compresenza e arrivano dalla scienza. Ci raccontano di una realtà fatta di infiniti ecosistemi in permanente e dinamica relazione tra loro, in cui l’interdipendenza è radicale e per questo vanno riviste le eredità culturali che riceviamo dal passato. Per molto, troppo tempo, ci siamo pensati staccati e superiori agli altri esseri, in perenne lotta, conflitto e guerra per una sopravvivenza, che oggi è minacciata proprio dal più aggressivo dei predatori, e che dipende dalla sinergia di tutti. Grazie al world wide web ci è divenuta familiare da qualche decennio la metafora della rete e, anche per questo tramite, siamo più pronti a riconoscere nell’immagine del reticolato dendritico la rappresentazione più veritiera della realtà: lo ritroviamo nelle strutture neurali e sinaptiche, come nell’immensa rete fungina che consente al wood wide web di esistere, crescere e mantenersi in salute. Sulla potente connessione che è la simbiosi si incardina la sorprendente teoria di Lynn Margulis, che si spinge audacemente fino a formulare l’ipotesi che essa sia parte integrante della genesi della cellula eucariotica. La scoperta del microbiota trascina via – e forse non ci si è ancora ben resi conto della sua portata rivoluzionaria – il tradizionale concetto di identità individuale per riformularla in chiave cogentemente ecosistemica: l’io è un io collettivo e non possiamo più far finta di niente. La PNEI e l’epigenetica aprono scenari entusiasmanti nello studio della fisiologia e hanno un ruolo chiave in alcuni processi delicatissimi, come la nascita. Del resto proprio il XX secolo è stato anche il secolo nel quale è maturata una coscienza tutta nuova della forza dei legami madre-cucciolo e viene coniato il termine bonding per indicare l’innamoramento della madre verso la sua creatura alla base del legame che fa da piattaforma di tutti i legami (Klaus M.H., Kennell J.H., Klaus P.H., 1998).

La solidità di quel legame deriva innanzitutto dal riconoscimento della sua importanza come chiave di volta di una buona nascita e di una buona vita, in termini di salute fisica, psichica e relazionale a lungo termine per chi nasce e per chi dà alla luce, ovvero per l’intera collettività. Rispettare la nascita e proteggere il legame si traduce nel non disturbare il delicatissimo processo del mettere al mondo e tra tutti gli atti di rispetto, il più importante è non separare precocemente madre e figlio (Falcicchio G. et al, 2014). Non scindere, ma tenere uniti.

Siamo tornati al punto di partenza, al superamento della Weltanschauung della scissione per andare verso la Weltanschauung del legame. In questo passaggio, che richiederà ancora molta strada, il pensiero e le sperimentazioni nonviolente hanno anticipato la sensibilità che oggi si fa strada, che preme per zampillare nella storia umana e diventare un fiume ampio e fecondo, sia sul piano dei saperi che delle realizzazioni. A loro volta le scoperte che vengono da molteplici settori scientifici possono oggi sostenere e avvalorare quelle che nella tradizione nonviolenta sono state intuizioni di matrice spirituale e filosofica. Insieme, nonviolenza e scienze al servizio dei viventi possono sgretolare il millenario edificio costruito sulla violenza e dare spazio a un mondo radicalmente rinnovato. 

 

 

Bibliografia