Riflessioni Sistemiche n° 27


Decostruendo miti e pregiudizi del nostro tempo

Transizione impossibile


di Sergio Ferraris

Giornalista scientifico, Direttore di QualEnergia e Nextville.it

Immagine generata con Stablediffusion

Sommario
La transizione ecologica è il tentativo, in via di fallimento, di unire un modello di sviluppo tradizionale e insostenibile con le crisi incipienti dovute ai limiti del Pianeta. Si è partiti da un’illusione nella ricerca delle soluzioni ai problemi ambientali per approdare alla creazione di nuovi mercati predatori.


Parole chiave
clima, transizione ecologica, capitalismo, mercato, sostenibilità.


Summary
The ecological transition is the failing attempt to unite a traditional and unsustainable development model with incipient crises related to the limits of the planet. It started from an illusion in the search for solutions to environmental problems but ended up in the creation of new predatory markets.


Keywords
climate, ecological transition, capitalism, market, sustainability.


Transizione ecologica. Si tratta di una missione destinata al fallimento, ma è senza dubbio interessante analizzare perché questo concetto goda di tanto successo e come mai lo si consideri attuabile. Si tratta di un concetto che, prendendo parzialmente atto dei limiti planetari descritti dal rapporto del Club di Roma del 1972 “I limiti dello Sviluppo”, prevede nella sostanza il passaggio da una società umana inquinante e predatoria, come quella odierna, a una che contenga una buona dose di sostenibilità, ambientale, sociale ed economica, come nella definizione di sviluppo sostenibile che fu coniata per la prima volta dal Rapporto Brutland nel 1987. Il rapporto della Commissione mondiale sull'ambiente e lo sviluppo (WCED), “Our Common Future”, soffre di un notevole deficit della parte relativa all’analisi economica. In realtà questo è un limite generale dell'ambientalismo, tranne rare eccezioni. Limite sul quale è necessario fare più di una riflessione. L'ambientalismo infatti, nato negli ultimi anni

dell'800 sulla base della conservazione e della tutela della natura, è stato per decenni retaggio della borghesia più arretrata e conservatrice spesso contrapposta alla borghesia industrialista, motore delle rivoluzioni industriali. Questa radice è ancora presente in alcuni settori dell’ambientalismo, nonostante sia passato più di un secolo, e la si vede, per esempio, nella contrapposizione tra fonti energetiche rinnovabili e paesaggio, denominatore che ancora oggi spesso condiziona l’azione di alcune forze ambientaliste.

L’ambientalismo scientifico è nato dopo il secondo conflitto mondiale, in parziale coniugazione con l’economia, frutto anche del suddetto Rapporto del Club di Roma. Esso aprì la via a un ambientalismo che iniziò a utilizzare scienze e tecnologie a supporto delle proprie analisi, senza però superare il profondo solco scavato nelle dinamiche sociali dal sostanziale ignorarsi a vicenda tra i movimenti sociali, che hanno percorso tutto il ‘900, e quelli per la protezione dell’ambiente che hanno interessato, anche se con impatto inferiore rispetto ai primi, l’immediato dopoguerra fino agli anni ottanta e sono stati appannaggio, questi ultimi, dei ceti medio alti. Due mondi che raramente si sono incontrati, quello dei movimenti sociali e quello degli ecologisti, e hanno perfino avuto due visioni molto differenti del futuro.

 

 

Sintomi evidenti 

Di ciò troviamo due sintomi troviamo negli anni settanta. Il primo è la creazione della prima comunità energetica d’Europa nata in Danimarca nel 1974 con l’incredibile, ancora oggi, realizzazione collettiva da zero di una pala eolica da 2 MWe – è ancora in funzione a distanza di 45 anni e per lungo tempo è stata la più potente del Mondo. L’iniziativa partì dagli insegnanti e studenti di un istituto tecnico Twind a Ulfborg, e fu realizzata con fini “politici”, ossia per la volontà di opporsi alla scelta del nucleare da parte della Danimarca. Una scelta di campo sociale, non ecologica.

Il secondo sintomo riguarda il nucleare: si tratta dell’opposizione all’energia atomica da parte dei movimenti di sociali permeata di contenuti derivati dal pacifismo – negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni – e dalla critica di stampo marxista agli strumenti di produzione capitalistici dei quali il nucleare era visto come la massima evoluzione, con la sua verticalità assoluta e l’impossibilità a essere gestito nella fase dell’”espropriazione dei mezzi di produzione” da parte del proletariato. Siamo qui nei primi anni settanta, prima degli incidenti di Three Mile Island (1979) e di Chernobyl (1986), epoca in cui persino una rivista come National Geographic, attenta all’ambiente, anche se mai critica in maniera radicale verso il sistema capitalistico, imputava al nucleare esclusivamente l’inquinamento termico dei fiumi. Un impatto che oggi farebbe sorridere.

Le prime critiche al modello di sviluppo predatorio arrivarono dall’evidenza dei danni della chimica, sempre più massicciamente impiegata sia nelle produzioni, sia in agricoltura. La chimica, infatti, è la protagonista della rivoluzione verde, con l’uso massiccio di fertilizzanti, pesticidi e combustibili fossili, che ha permesso d’attenuare l’impatto della fame e della denutrizione. Ciò ha dato luogo a una crescita esponenziale della popolazione, aumenta dai 2,5 miliardi del 1950 ai 7,9 del 2021, passando per i 5 miliardi di persone del 1987. Ed è esattamente l’impatto della chimica sugli ecosistemi a gettare le prime basi di una critica con la pubblicazione di “Primavera silenziosa” con il quale Rachel Carson portò, nel 1962, per la prima volta alla ribalta le conseguenze della chimica sull’ambiente.

 

 

Ozono bucato 

Bisogna, però, attendere la fine degli anni settanta per arrivare ad incontrare ciò che è alla radice dell’illusione della transizione ecologica: il buco nello strato d’ozono. La scoperta del fenomeno della lesione dello strato di ozono della stratosfera, con la comparsa di un “buco” stagionale sulle regioni polari, è del 1974 a opera degli scienziati Frank Sherwood Rowland e Josè Mario Molina. L’allarme fu immediato visto che il sottile strato d’ozono ferma la quasi totalità delle radiazioni ultraviolette, UV-B e UV-C, e cioè quelle che danneggiano la specie umana, causando gravi danni agli occhi, tumori alla pelle e danni al sistema immunitario. I responsabili di ciò furono identificati rapidamente, erano i CFC, gas a base di cloro usati in maniera massiccia nella refrigerazione e nel condizionamento d’aria, due settori in enorme sviluppo in quegli anni. Nel 1987, a soli 13 anni di distanza dalla scoperta venne firmato il Protocollo di Montreal che prevede il bando globale dei CFC: entrò in vigore nel 1989 ed è stato revisionato ben cinque volte nel decennio successivo.  I CFC furono effettivamente banditi e il Segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan alcuni anni dopo disse a proposito del Protocollo di Montreal: «Si tratta d’un esempio di cooperazione internazionale eccezionale, probabilmente quello di maggior successo», mentre l’allora Presidente statunitense Ronald Regan sottolineò che il protocollo era: «un risultato monumentale della scienza e della diplomazia» e il Senato degli Stati Uniti lo ratificò all'unanimità.

Ed effettivamente la velocità di reazione di tutte le nazioni del Pianeta nella ricerca di una soluzione innovativa a un problema che coinvolgeva in modo capillare l’intera società globale, con risvolti “pesanti” sul fronte economico ed industriale, induceva a un grande ottimismo. Per la prima volta un problema ecologico di portata planetaria veniva risolto, nonostante le forti resistenze sia del settore della refrigerazione e sia di nazioni in via di sviluppo come era allora la Cina, e a farlo era la “diplomazia ecologica”.

A seguire l’anno dopo, per la precisione il 23 giugno 1988, veniva al pettine la questione dei cambiamenti climatici, fenomeni noti da decenni. Infatti il primo articolo, a firma di Francis Molena, sull’effetto serra dovuto all’aumento della concentrazione della CO2 in atmosfera a causa dei combustibili fossili, era uscito già nel 1912 e su un magazine di massa come Popular Mechanism. La questione nell’88 divenne attuale con la relazione del climatologo della Nasa, Jim Hansen al Senato degli Stati Uniti. Dall’inizio del decennio, in realtà, sia negli ambienti scientifici, sia in quelli politici il cambiamento climatico aveva destato non poche preoccupazioni e infatti le Nazioni Unite proprio nel 1988 istituirono l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) per studiare i cambiamenti climatici. Nel giro di quattro anni s’arriva al summit di Rio de Janeiro del 1992, nel quale sembra che la “diplomazia ecologica” possa mettere a punto politiche radicali per le soluzioni ai problemi ambientali. Ben 154 paesi firmano la United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC), la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che entra in vigore con la ratifica delle prime 50 nazioni nel 1994. Subito dopo nel 1995 a Berlino si parte con le Conferenze delle Parti (COP), mentre nel 1997 alla fine della COP 3 di Kyoto viene siglato il Protocollo di Kyoto. Esso contiene al suo interno un accordo vincolante di riduzione delle emissioni climalteranti del 5,2% al 2012 che riguarda i paesi sviluppati, il tutto sulla base delle emissioni del 1990. Nel 2005, con la ratifica della Russia, il Protocollo di Kyoto entra in vigore, ma i grandi assenti sono gli Stati Uniti.

Si arriva così alla COP 15 del 2009 di Copenaghen, dove gli Stati Uniti, guidati da Barak Obama al suo primo anno di presidenza, fanno letteralmente saltare il banco del Protocollo di Kyoto, che non sarà “rianimato” nemmeno nel tentativo fatto a COP 18 nel 2012 a Doha: qui, all’opposizione degli Stati Uniti s’accodano anche India e Cina –nel frattempo diventati grandi emettitori di CO2 - Nuova Zelanda, Giappone, Canada e Russia. Dopo 17 anni le lancette dell’orologio climatico tornano al punto di partenza, ma non la concentrazione di CO2 in atmosfera che dal 1995 al 2012 è passata da 361 a 400 parti per milione, superando proprio quell’anno la soglia psicologica dei 400 punti. I 300 punti erano stati raggiunti nel 1915 e i 400 sono un valore mai toccato prima nei tre milioni d’anni precedenti. Successivamente per trovare un accordo s’abbassa, e non di poco, l’asticella e nel 2015 a Parigi alla fine di COP 21 viene messo a punto un meccanismo volontario d’emissione dove i paesi si danno degli obiettivi da aggiornare periodicamente e che hanno come unico vincolo l’impossibilità di revisione al ribasso. Si fissa l’obiettivo dei 2°C di aumento al 2100 e preferibilmente 1.5°C, ma solo per accontentare gli stati insulari dell’Oceano Pacifico. Dalla versione finale spariscono persino le percentuali di riduzione intermedie delle emissioni e gli obiettivi temporali. L’accordo viene definito “un successo” semplicemente perché, a distanza di venti anni dalla prima COP, raccoglie la firma di tutti i 191 stati del Pianeta. Ma è un accordo che negli anni seguenti non porta a risultati tangibili nemmeno a livello embrionale. Se nel 2015 sono stati emessi 35,56 miliardi di tonnellate di CO2, nel 2021 siamo arrivati a 37,12 miliardi di tonnellate di CO2, con il 2020 che ha visto emissioni per 35,26 miliardi di tonnellate di CO2 nonostante il lock down planetario e una diminuzione del Pil mondiale del 5,8%. Se serviva una prova circa le difficoltà nell’opera di diminuzione delle emissioni climalteranti il 2020 l’ha servita su un piatto d’argento.

 

Lo slancio degli anni ’80 del protocollo di Montreal sui CFC e la corsa dell’ultimo decennio del secolo scorso sul clima si sono quindi arrestati. E la conclusione della COP 27 del 2022 lo ratifica. Se si prende, infatti, nel documento finale il primo punto del capitolo sulla mitigazione, la prima cosa alla quale si pensa è all'errore di calcolo. Eccolo: «Recognizes that limiting global warming to 1.5 °C requires rapid, deep and sustained reductions in global greenhouse gas emissions of 43 per cent by 2030 relative to the 2019 level». In pratica se uno degli scopi della COP 27 era quello di "tenere in vita" l'obiettivo degli 1,5°C al 2100, c'è da dire che questa dichiarazione, nella sua assoluta impossibilità di essere realizzata, assomiglia molto all'accanimento terapeutico verso un paziente con un encefalogramma piatto. E i dati ci dicono esattamente l'opposto rispetto alla dichiarazione. Il 2022 si è chiuso, infatti, con un aumento delle emissioni dell'1%, mentre per avere una pur piccola diminuzione, c'è voluta la pandemia globale. Nel 2020, infatti, la riduzione di emissioni climalteranti è stata del 6,4% con 2,8 miliardi in meno di CO2 immessi nell'atmosfera. Un conto salato visto che c'è costato il 5,2% di Pil mondiale. Chiunque conosca il settore energetico e il settore manifatturiero, quindi, si può rendere conto di quanto sia irrealizzabile l'obiettivo 1,5°C. I cicli energetici e industriali, che sono definiti in base all'obsolescenza materiale ed economica degli impianti, infatti, sono tra i 15 e i 25 anni; e non esistendo, oggi, l'obsolescenza climatica, appare chiaro che le quantità e i tempi della dichiarazione sono reali, in quanto fissati dalla scienza, ma sono altrettanto irraggiungibile appena ci si allarga al contesto del reale.

E come se non bastasse il documento finale di COP 27 alla voce “energia” recita: «Emphasizes the urgent need for immediate, deep, rapid and sustained reductions in global greenhouse gas emissions by Parties across all applicable sectors, including through increase in low-emission and renewable energy, just energy transition partnerships and other cooperative actions». Tutto giusto e condivisibile se non fosse per l'attributo "low-emission". Si tratta di un aggettivo che contiene letteralmente un universo di produzione energetica fossile. Fissate a 100, per esempio, le emissioni del carbone, qualsiasi fonte sia al di sotto di questa soglia diventa "low-emission" e quindi, secondo la COP, "funzionale" alla decarbonizzazione. Esattamente come è successo per l'inserimento del metano fossile all'interno della tassonomia europea.

E dalla COP 27 specificano: «Stresses the importance of enhancing a clean energy mix, including low-emission and renewable energy, at all levels as part of diversifying energy mixes and systems, in line with national circumstances and recognizing the need for support towards just transitions». Quindi massima apertura ai diversi mix energetici, cosa che consente a paesi come l'Italia, (ma in pole position troviamo anche la Germania), di avviare e utilizzare riserve di fonti fossili "low-emission" come, nel nostro caso, quelle dello scarso gas naturale presente nel Mar Adriatico con l'alibi della decarbonizzazione.

Appare chiaro quindi che le soluzioni per la decarbonizzazione necessarie per la lotta ai cambiamenti climatici non riescono a passare dalle COP così come sono strutturate, giacché è molto facile per gli Stati che hanno le proprie economie basate sui fossili tenere in ostaggio negoziati basati sul consenso, come quelli climatici, minacciando di far saltare tutto se i fossili sono anche solo menzionati per nome. Un delegato dell'Arabia Saudita durante la COP 27 ha dichiarato al The Guardian: «Non dovremmo prendere di mira le fonti di energia. Dovremmo concentrarci sulle emissioni. Non dovremmo menzionare i combustibili fossili». Ecco quindi spiegato il motivo per il quale il documento finale di COP 27 si è allineato a tutti quelli precedenti non citando, ancora una volta, i combustibili fossili.

 

 

Riforma impossibile 

Dal punto di vista del clima, che è un ottimo osservatorio generale, in quanto rappresenta la cartina di tornasole di tutta l’attività umana, appare chiaro che questo sistema globale non è riformabile, come invece si vorrebbe con la “transizione ecologica”. Il 91% dell'economia del Pianeta continua a utilizzare le risorse naturali in modo assolutamente insostenibile. Il tasso di riciclo della materia è del 9%, mentre l'utilizzo delle energie d'origine fossile è dell'81%, era l’87% nel 1970. Nell'uso dei materiali l’approccio lineare "take-make-toss" (prendere-fare-buttare) prevale nel grande sistema dell'economia planetaria per varie ragioni. La prima è quella dell'economicità delle filiere dei materiali: nelle odierne forme consolidate esse hanno raggiunto elevate economie di scala, ovviamente non tenendo conto dei danni ambientali. Sono insomma estremamente efficienti in termini strettamente economici, molto proficue sul fronte economico di breve periodo. E non è poco.

La seconda ragione è legata all'inerzia dei cicli industriali che per loro natura hanno un periodo di rinnovamento spesso intorno al quarto di secolo. La terza ragione è rappresentata dalle inerzie sociali e politiche nell'affrontare il problema della sostenibilità. Ha un grande ruolo anche il rafforzamento delle diversità nella distribuzione del reddito e della ricchezza, la cui forbice «è tornata a essere simile a quella del 1914» (Thomas Piketty, 2016). E c’è un fatto molto significativo: in tutte le nazioni del mondo i dati relativi al Pil pro-capite con quelli delle emissioni pro-capite. A emissioni basse corrisponde un Pil pro-capite basso e viceversa.

 

 

Circolo vizioso 

La politica, quindi, "frena" il necessario processo di trasformazione, influendo sulle dinamiche sociali che a loro volta, nel loro complesso, chiedono alla politica stessa di frenare su alcune questioni, come è successo nel caso del "Mouvement des gilets jaunes" in Francia; o in Italia, con l'opposizione alla scadenza europea del 2035 che prevede la messa al bando dei motori endotermici. Nel frattempo alcune parti delle società europee invece incalzano la politica con azioni avanzate e originali, quali quelle dei movimenti climatici britannici che hanno "saldato" le proteste climatiche a quelle contro i rincari energetici. Esempi quest’ultimi che però non raggiungono la massa critica necessaria se messi a confronto con l’insieme generale del corpo elettorale. Rimane distante la tensione sul fronte dell’ecologia degli anni ottanta e novanta del secolo scorso alla quale corrispondeva un’altrettanta tensione sociale internazionale, nonostante le due avessero pochi punti di saldatura. All’epoca erano alla ribalta movimenti globali che trovavano la massima espressione nel World Social Forum, nelle riunioni di Seattle o nella protesta al G8 di Genova. Oggi, con la crisi climatica che incalza, la critica sociale sembra essere sparita dall’orizzonte, mentre il capitale tenta la conservazione e la promozione di se stesso attraverso la transizione ecologica che appare sempre più come il tentativo di conservare, se non di potenziare, il sistema sociale odierno, e di continuare a drenare valore dai corpi sociali grazie a una serie d’ “inediti” contenuti ecologici. Essi appaiono però limitati e limitanti, proprio perché inseriti a pieno titolo in un contesto alieno alla crisi ecologica come quello del Capitale, e perché sono divenuti parte strutturale del sistema economico odierno.

 

 

Contenuti funzionali 

Il primo di questi è il concetto di condivisione. In sé si tratta di un aspetto che ha un enorme valore, teorico, sul piano della sostenibilità perché presuppone l’utilizzo di un bene in condivisione con altri, limitandone il numero generale, facilitandone la manutenzione, aumentandone la durata del ciclo di vita e consentendo risparmi o redditi aggiuntivi per i possessori degli oggetti stessi. Una saldatura, teorica, tra ecologia – meno oggetti che durano più a lungo – con il sociale rappresentato dai vantaggi economici, su vari livelli per l’utenza.

E infatti circa una decina d’anni fa l’economia della condivisione, innestata su un filone storico del pensiero ecologico che affonda le proprie radici nel concetto stesso di comunità, fu salutata con positività. Uber che consente di creare un reddito aggiuntivo a chi possiede un’autovettura rendendo in generale meno indispensabile il possesso di un veicolo privato, Air B&B che permette l’affitto breve di una stanza o un appartamento, per arrivare alle varie metodologie di noleggio degli oggetti, il “Product as a service”, nei quali l’oggetto stesso viene fornito come un servizio, ragione per la quale non è necessaria la proprietà, sono stati visti come un superamento degli ostacoli alla sostenibilità in generale. Il problema è che questa visione non ha fatto i conti con gli aspetti sociali e politici di questi servizi che, se innestati in un’economia capitalistica, hanno un solo e unico scopo: drenare valore dai corpi sociali con continuità, come è successo e sta succedendo. Creando oltretutto vincoli di dipendenza economica, sociale e politica.

Il “Product as a service” è una delle nuove frontiere del capitalismo che vale la pena analizzare nel dettaglio. La base della creazione di valore rimane quella della produzione manifatturiera, ossia, la prima “estorsione” del valore dai corpi sociali è e rimane il “plusvalore”, oggi “amplificato” da una serie di distorsioni cognitive verso il cittadino consumatore che sono più forti che mai. Un esempio di ciò è l’affermarsi del sistema del “fast fashion” con il quale grandi produttori globali di abbigliamento arrivano a proporre 24 collezioni e 10 mila modelli l’anno. Cosa che induce l’obsolescenza psicologica rapida nei consumatori, producendo un consumo eccessivo di risorse e tonnellate di rifiuti non riciclabili. E molti oggetti stanno prendendo entrambe le strade, sia quella dell’obsolescenza programmata – materiale e psicologica – sia quella dell’unire il consumo immateriale, il servizio, all’oggetto stesso. Si tratta di una logica capitalistica che è stata permessa dall’affinarsi delle tecnologie legata alla raccolta dei dati, la vera frontiera dell’accumulazione polarizzata del valore. Ma è sul concetto del green, distorto, che troviamo gli esempi più chiari di ciò che sono, e saranno, le dinamiche del capitale.


 

Lavoro senza prezzo 

Prendiamo il campo degli imballaggi e dei conseguenti “rifiuti”. Oggi l’imballaggio possiede diverse funzioni quali, la comunicazione e il marketing, l’aumento della vita di scaffale del prodotto, la riduzione degli scarti alimentari e la prevenzione delle infezioni alimentari. Il problema è come è organizzata la catena del valore intorno all’imballaggio. Vediamola. In primo luogo l’imballaggio, sul quale il consumatore ha poche possibilità di scelta, viene da lui pagato due volte.

La prima volta perché il prezzo totale del prodotto incorpora il costo materiale e quello del contributo per il riciclo. Poi, appena l’oggetto arriva in mano al consumatore, l’imballaggio diventa un rifiuto per il cui smaltimento si paga. Per di più spesso il cittadino lavora gratis a fare la raccolta differenziata mentre in tutte le fasi a valle del riciclo la materia prima- seconda riacquista un valore di mercato. Appare chiaro seguendo con attenzione questa filiera che una fase cruciale come la selezione dei rifiuti fatta dai cittadini, con l’aumento di valore del materiale conseguente, venga eseguita a costo zero. Anzi. Il cittadino paga l’imballaggio per ben quattro volte – materialmente, con il contributo per il riciclo, con il lavoro di selezione e con la tariffa rifiuti – ottenendo in cambio una “soddisfazione” etica. E questo è solo un esempio di ciò che sta accadendo sul fronte della green economy e dell’economia circolare.

Questa logica, inoltre, sta migrando a settori ben più ampi grazie alle possibilità di gestione in maniera massiccia dei dati. Oltre ai casi di Uber e AirB&B, infatti, il valore sta “cambiando pelle”: il capitale, lungi dall’abbandonare il modello della manifattura ci sta affiancando quello della gestione digitale che sta assumendo dinamiche autonome, pervasive e bidirezionali a livello economico. Vediamole. Da una ventina d’anni il “consumo digitale” ossia di beni e servizi dematerializzati sta aumentando con livelli di crescita esponenziali – una caratteristica peculiare della quale il capitale ha un enorme bisogno – creando anche nuovi bisogni. Il Web, nato nei nell’ultima decade del secolo scorso con lo scopo di rendere accessibili e gestibili le informazioni a grandi masse, con una creazione ribaltata rispetto alle filiere dell’informazione e della cultura precedenti è diventato in pochi anni un luogo di selezione, catalogazione e discriminazione sociale, travestito da cornucopia dell’abbondanza informativa. Algoritmi, impostazioni dei portali e App per i cellulari, oggi sono realizzati solo ed esclusivamente per indirizzare comportamenti informativi, politici, sociali e culturali allo scopo di drenare valore anche e soprattutto dai comportamenti “ecologici”. Questi sono stati portati alla ribalta informativa non per un vero sviluppo di una coscienza ecologica, magari sulla base della crisi climatica, ma per aprire un ulteriore campo dell’accumulazione capitalistica di valore che di essa garantisca la sostenibilità sul breve e medio periodo. A testimonianza di ciò abbiamo l’analisi delle dinamiche climatiche di cui sopra.

 

  

Mobilità ed energia 

E due ulteriori esempi di ciò sono la mobilità sostenibile e le fonti rinnovabili distribuite. Entrambe queste due tipologie di sviluppo sostenibile, che sono, sia chiaro, indispensabili, sono guidate da strategie legate agli sviluppi e alla creazione di mercati “complementari” a quelli della manifattura. La mobilità sostenibile coniuga entrambi gli aspetti. In Europa stiamo vedendo l’accelerazione sui veicoli elettrici, molti costruttori hanno annunciato uno sviluppo esponenziale di questi veicoli in meno di dieci anni anche grazie allo stimolo drastico di Bruxelles che ha messo al bando la vendita di nuove autovetture a propulsione endotermica al 2035. è un’occasione industriale ghiotta giacché si tratta di un ricambio "obbligato" dell'intero parco auto europeo: 267,46 milioni di auto endotermiche (le elettriche sono oggi lo 0,2% del totale, circa 500 mila). Oltretutto con utili elevati, visto che ormai molti produttori europei fabbricano auto endotermiche ed elettriche sugli stessi pianali e nelle stesse linee di montaggio, con costi ottimizzati, ma con i prezzi al consumatore dell'elettrico che sono praticamente il doppio, rispetto al termico. Il ricambio totale del parco auto europeo costerebbe circa 8.000 miliardi di euro interamente a carico dei cittadini. Un ulteriore drenaggio di valore a carico dei corpi sociali, per degli oggetti, le autovetture elettriche, che oltretutto avranno un ciclo di vita inferiore ai dieci anni. La scelta dei paesi Ocse rispetto alle autovetture elettriche, infatti, è quella di incorporare le batterie in maniera "granitica" nelle auto, rendendone costosa e difficile la sostituzione e favorendo, di fatto, l'obsolescenza programmata dell'intera autovettura, in base alla più breve vita delle batterie stesse. Non tutti stanno facendo questa scelta. La Cina che sta puntando da tempo, specialmente per i veicoli commerciali, allo swapping, ossia al cambio, del pacco batterie, durante le operazioni di “ricarica” del mezzo elettrico, con tutta una serie di vantaggi pratici, economici e ambientali. L’operazione di “rifornimento” in questa maniera avviene in meno di una decina di minuti, alla pari dei mezzi endotermici, e si trasportano solo le batterie necessarie poiché sono modulari e possono essere tarate in base alla percorrenza, risparmiando peso ed energia. Le batterie sono sempre al 100% dell’efficienza visto che la loro gestione è esterna e la sostituzione delle celle guaste è molto più semplice. La ricarica delle batterie avviene inoltre con i giusti tempi garantendone una vita ottimale, ne è assicurato il riciclo a fine vita che è nell’interesse di chi “affitta” la batteria con la carica elettrica, e il recuperare valore dai materiali. Infine le batterie collegate alla stazione di ricarica possono offrire servizi di rete che di solito sono garantiti dalle fonti fossili, creando un’ulteriore linea di business per chi gestisce le batterie. Uno scenario questo che ha un solo difetto: l’auto elettrica così diventa “eterna”. I mezzi elettrici, infatti, sono estremamente più semplici di quelli endotermici e, batterie a parte, necessitano di una manutenzione molto ridotta. Un dato. Le parti in movimento soggette a usura di un’auto endotermica sono oltre mille, quelle di un’auto elettrica non superano i trenta elementi. 

Chiaro quindi che l’auto elettrica, al netto delle batterie, può di fatto bloccare il mercato una volta arrivati al 100% di sostituzione dell’endotermico, ed è questa la ragione per la quale, ignorando l’approccio generale alla sostenibilità, tutte le case automobilistiche puntano su modelli di autovetture nelle quali le batterie sono “incastonate” in maniera ferrea.

L’auto elettrica, inoltre, sarà al centro di altri due nuovi mercati gestiti dall’alto. Il primo è quello dei servizi di rete che un’auto elettrica può offrire al sistema elettrico di trasmissione/distribuzione per compensare i picchi e le intermittenze delle fonti rinnovabili. A un’autovettura allacciata alla stazione di ricarica privata – domestica o aziendale – può arrivare la richiesta di fornire temporaneamente un 10-15% dell’elettricità immagazzinata, per poi ricaricare successivamente quando la rete non ha più queste necessità. Il processo, con l’avvento delle reti intelligenti gestite dal digitale sarà totalmente automatizzato, senza la necessità di interventi da parte del proprietario dell’autovettura e sarà molto comune visto che le autovetture in media rimangono ferme per 23 ore al giorno. Un’autovettura con batterie da 70 kW in un anno può fornire servizi di rete per circa 1.500 euro che le utility elettriche sarebbero disposte a remunerare al proprietario dell’autovettura per un terzo del valore. Tradotto: trasformo i servizi di rete – che oggi sono fatti di centrali e combustibile, spese che per gli operatori elettrici sono una partita di giro visto che poi questi costi sono ribaltati in bolletta – in un nuovo mercato. I servizi di rete saranno sempre a carico del cittadino, ma la loro generazione produrrà valore, che oggi non esiste per le utilities, solo per il fatto di poter gestire la rete e i dati.


 

Elettroni al mercato 

E l’elettrificazione generale rappresenta un nuovo mercato che sarà per forza pervasivo. Sul fronte dell’energia fino a oggi la generazione di dati era scarsa. Il fatto che per il riscaldamento domestico si usi il gas, per la mobilità il carburante, confinava la generazione dei dati sull’utenza alla sola elettricità che era per la gran parte marginale, ma la convergenza sull’elettricità renderà centrale e soprattutto vincolante la generazione dei dati relativi al suo utilizzo. Infatti volendo evitare di generare dati è possibile cancellarsi dai social network, oppure usare solo browser in incognito, email e cellulari analogici, o ancora rinunciare a elettrodomestici appartenenti alle reti dell’Internet of Things, funzionanti con le nuove reti 5G. Sarà invece impossibile rinunciare alle forniture energetiche elettriche grazie alle quali saranno comunque tracciate le nostre abitudini domestiche e di viaggio o spostamenti. Il prezzo marginale dell’elettricità, con l’introduzione delle rinnovabili, infatti, sarà sempre più tendente allo zero e il vero asset di business per le utility elettriche saranno i dati. Non è un caso, infatti, che una delle più grandi utility europee del settore, E.On, abbia ceduto i propri impianti di produzione elettrica, compresi quelli rinnovabili, per concentrarsi sulle attività che riguardano le reti di distribuzione, con particolare attenzione ai nuovi servizi ad alto contenuto digitale. (G.B. Zorzoli, 2021). Si tratta di un mercato, quello della gestione digitale dell’energia che può, da un lato, essere utile alla decarbonizzazione visto che il sistema energetico con il digitale può guadagnare punti in termini d’efficienza, ma che di sicuro diventa un vincolo circa i modelli di mercato possibili. C’è il rischio, infatti, che si passi da un modello centralizzato della distribuzione energetica come quello fossile, a un modello alternativo di generazione distribuita gestito però attraverso una struttura informatica opaca che punta alla centralizzazione degli scopi, lascia a chi genera da fonti rinnovabili le briciole del basso costo degli elettroni, e si incamera il grosso del valore rappresentato dai byte. Con un’aggravante. Si tratta di un modello che non possiede alternative. Non è possibile, infatti, privarsi dell’energia.

 

 

Mercati molteplici 

L’elenco delle battaglie che il capitale sta conducendo per aprire nuovi mercati, con l’etichetta della transizione ecologica, potrebbe essere molto lungo. In pratica ne è investito ogni segmento della vita degli individui. E oggi, come abbiamo visto, non esistono più limiti – geografici, temporali e di risorse – nel tentativo di superare i limiti dei mercati, limiti finora imposti dal Pianeta stesso. Si vanno inventando nuovi mercati immateriali che sono comunque basati su asimmetrie di fondo, nella distribuzione della ricchezza, nell’accesso alle reti, nella distribuzione dei contenuti, nel possesso dei dati, disparità che si aggiungono a quelle classiche nell’accesso alle risorse materiali. Si tratta di un fronte che potrebbe richiamare transizioni del passato recente, ma che ha delle caratteristiche inedite, per la profondità delle trasformazioni in corso e soprattutto per il carattere monodirezionale dei processi che sono tutti tesi in maniera monocorde all’accumulazione. L’accumulazione è il denominatore unico che s’osserva anche e soprattutto della transizione ecologica che, come abbiamo visto, trova il proprio limite nelle emissioni di CO2. La fisica, la sua seconda legge della termodinamica è “severa maestra” – si potrebbe dire parafrasando il titolo del romanzo “La Luna è una severa maestra” di Robert A. Heinlein che tratta appunto di risorse – e i nodi vengono al pettine.

Le battaglie per i nuovi mercati immateriali della transizione ecologica hanno anche bisogno di un’informazione tarata su una narrazione specifica, che da un lato esalti la necessità di questa transizione, mentre dall’altro lato rassicuri e non spaventi i mercati e i consumatori. E sotto a questo profilo è interessante capire cosa stia capitando sul fronte della comunicazione e dell’informazione sulle questioni ecologiche. Da un lato, per quanto riguarda il clima, è sempre attivo il versante del seminare dubbi, come esprime bene nel suo volume Mercanti di dubbi, la storica Naomi Oreskes. Ma sono in sviluppo nuove strategie che stanno allarmando anche gli scienziati del clima.

 

 

Marketing ecologico 

Nel gennaio 2020 circa 450 climatologi hanno chiesto alle principali società pubblicitarie e di pubbliche relazioni d'abbandonare i clienti attivi nel campo fossile per fermare la disinformazione circa i cambiamenti climatici. «Come scienziati che studiano e comunicano il cambiamento climatico, ci troviamo costantemente di fronte a una sfida impari: superare gli sforzi di pubblicitari delle società che operano nei combustibili fossili, che cercano di offuscare o minimizzare i nostri dati e i rischi posti dalla crisi climatica», hanno scritto gli scienziati nella lettera, alla quale nessuno dei soggetti interessati ha risposto. E un’altra bordata ben più pesante è arrivata nella primavera del 2022 in occasione della pubblicazione del capitolo finale del VI Rapporto del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC). «Alcuni leader di Governo e imprenditori dicono una cosa ma ne fanno un'altra. In poche parole, stanno mentendo. E i risultati saranno catastrofici», ha affermato nell'introdurre il report Antònio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. E nel testo l'IPCC è molto chiara: l'industria della pubblicità e delle pubbliche relazioni ha grandi e precise responsabilità sulla disinformazione climatica. Primo: le aziende dei combustibili fossili stanno seminando dubbi, nel pubblico e nei decisori politici, al fine d'impedire azioni concrete sul clima.  Secondo: usano la propria potenza mediatica per scaricare la responsabilità dei cambiamenti climatici sugli individui, anziché su aziende e politica. «La pubblicità aziendale e le strategie di costruzione dei marchi tentano di deviare dalla responsabilità aziendale a quella verso gli individui. La mitigazione del cambiamento climatico è inquadrata in modo univoco attraverso la scelta dei prodotti e del consumo, evitando informazioni sull'azione collettiva della politica», si legge a chiare lettere nel report. E così si crea un mercato fatto di consumatori individuali che acquisteranno servizi green anche grazie alla leva del senso di colpa. E poi troviamo anche i servizi di decarbonizzazione congeniali alla transizione energetica, intesa come adattamento conservativo degli asset esistenti.

Un esempio chiaro di ciò è l'iniziativa "One Trillion Trees" lanciata nel 2020 anche dal World Economic Forum (si faccia bene attenzione alla fonte d’origine) che propone di piantare un trilione d'alberi (1.000 miliardi) da qui al 2030, cifra che dovrebbe permettere, secondo il ricercatore Tom Crowther, il sequestro di 8 anni d'emissioni di CO2. Si tratta di un progetto che è stato "sposato" dalle aziende fossili perché consente attraverso il "sequestro" delle emissioni di continuare a emettere, ma che ha due limiti. Il primo è che molti ricercatori mettono in dubbio la validità del sistema di sequestro della CO2 visto che potrebbe in caso d'incendi e di siccità essere rimessa in atmosfera, mentre il secondo è di semplice ordine matematico. 1.000 miliardi sono una cifra enorme e il ritmo di piantumazione avrebbe dovuto essere di 4.000 alberi al secondo, dal 2020 al 2030. Cosa che non è successa. La precedente campagna creata dalle Nazioni Unite "The Billion Tree Campaign", per esempio, lanciata nel 2007 al 2021 ha visto la piantumazione di “soli” 14 miliardi di alberi, in 14 anni. Il contesto informativo “favorevole”, del resto, è sempre stato una condizione essenziale per lo sviluppo dei mercati anche e soprattutto per quelli basati su nuovi contesti, come quelli afferenti alla transizione ecologica.

 

 

Bibliografia