Riflessioni Sistemiche n° 27


Decostruendo miti e pregiudizi del nostro tempo

L’importante è che si sia tutti d’accordo


di Laura Formenti

Pedagogista e psicoterapeuta, Università degli Studi di Milano Bicocca

Sommario
Nell’articolo rifletto sul principio dell’accordo come fondamento del lavoro di gruppo e della vita collettiva. Se visto come la condivisione di pensieri situati dentro le teste degli individui (mentalismo), volta a produrre un’idea unitaria da porre a fondamento dell’azione (razionalismo), l’accordo diventa un pregiudizio fondato su premesse epistemologiche che impediscono la comunicazione creativa e il ben-essere ecosistemico.


Parole chiave
narrazioni dominanti, premesse abituali, errori epistemologici, conversazioni, gestione coordinata del significato.


Summary
In the paper I reflect on the principle of agreement as a fundament of teamwork and collective life. If seen as sharing thoughts contained in individuals’ minds (mentalism), in order to create a unitary idea that will found action (rationalism), agreement becomes a prejudice based on epistemologic assumptions that hinder creative communication and ecosystemic well-being.  


Keywords
dominant narratives, premises of habit, epistemological errors, conversations, Coordinated Management of Meaning (CMM).

 


Ciao Sergio, ho in mente un titolo: "Lo so già": croci e delizie del senso comune. Ma se qualcuno ha già scelto questo oggetto di lavoro posso cambiare: ne ho in mente un po'!

Ciao Laura, in pratica vorresti fare un lavoro meta. Un lavoro sulla nascita, mantenimento e consolidamento di un costrutto o premessa culturale descrivendo come tossico il rigido e acritico attaccamento ad un qualsivoglia costrutto/premessa. Ho capito bene? Un abbraccio. Sergio 

Si, anche lavorando sulla tensione tra bisogno di stabilità e apertura al nuovo. Omeostasi e morfogenesi. Come dire: ogni veleno ha anche delle proprietà curative. Vorrei lavorare su processi diversi che appartengono allo stesso pattern: naturalizzazione, normalizzazione, meccanismi di difesa à la Freud... e l'occidentale medio di Bateson of course. Cosa dici? Può andare bene per quello che avete in mente?

 

 

Premessa 

La conversazione sopra riportata riguarda proprio la scrittura del presente articolo, allora ancora in fase ideativa. In questo scambio di messaggi, che potremmo intitolare “Laura prende accordi con Sergio sulla scrittura del suo pezzo”, due esseri umani cercano di coordinare i significati di un’azione futura che li vede coinvolti. Quante di queste conversazioni abbiamo ogni giorno? Che cosa fanno alle nostre vite? Quali premesse usiamo nel comunicare e quali di queste premesse possono pregiudicare la relazione o il suo esito?

Inizialmente volevo lavorare su quella sensazione di sapere che da un lato ci è necessaria pensare e comunicare, ma dall’altro preclude la curiosità e ostacola l’ascolto sistemico. Un problema che mi perseguita e che mio figlio a undici anni sintetizzava meravigliosamente: “Tu pensi di essere intelligente solo perché insegni all’università”. Avevo un bel difendermi, ma in fondo sapevo che aveva ragione: nell’esperienza occidentale, la conoscenza è impartita come un sapere e non come un non sapere. Più studi e più viene nutrita la tua hybris e l’arroganza intellettuale. Come sarebbe il mondo se i programmi scolastici e universitari elencassero quello che non saprai come esito del percorso formativo? Lo so già va oltre la tracotanza intellettuale e riguarda tutt*, è tutto quello che non viene mai/più messo in discussione: le premesse abituali, il senso comune, la visione del mondo, i valori…

Avevo già il titolo - "Lo so già": croci e delizie del senso comune - croci perché la mancanza di curiosità – si sa - uccise la gatta sistemica. Delizie perché il senso comune ci appaga e ci salva, come non mancava di sottolineare Gianfranco Cecchin: se devi prendere l’autobus ti conviene pensare in modo lineare.

Mi sono chiesta come mai non riuscivo a stare nel compito affidatomi: scegliere un pregiudizio e uno soltanto. Forse perché i pregiudizi sono come le ciliegie: uno tira l’altro, sono concatenati e formano collane e strutture a livelli diversi. Mi risulta difficile occuparmi di un pregiudizio senza guardare all’insieme e al contesto che li nutre. Mi sembra allora utile, come premessa all’articolo, differenziare le narrazioni dominanti, i pregiudizi e le premesse epistemologiche errate: le prime descrivono una parte di realtà (e sono problematiche quando lo fanno in modo univoco ed egemone), i secondi prescrivono come descrivere una parte di realtà, le terze prescrivono modi di stare nella realtà. Tre ordini di pensiero diversi – livelli logici dell’apprendimento e della comunicazione - che entrano continuamente in gioco mentre scrivo questo articolo, complicandomi la vita notevolmente.



Insegnare la pedagogia della famiglia 

Nei miei corsi di Pedagogia della famiglia e di Consulenza familiare, dove formo educatrici ed educatori professionali e pedagogist*, sfido innanzitutto le narrazioni dominanti, i discorsi egemoni e le master stories che plasmano le idee di senso comune sulla famiglia, la genitorialità, l’educazione, l’identità, i ruoli e così via. Il mio obiettivo iniziale è sfidare le certezze, mostrare come, nelle nostre descrizioni della “realtà familiare”, intervengono a livello micro, meso e macro processi di naturalizzazione (“le donne sono biologicamente votate alla cura”), normalizzazione (“un bambino ha bisogno di una mamma e di un papà”), stereotipizzazione (“i minori stranieri sono vulnerabili”), stigma (“un papà carcerato non può essere un buon genitore”), e così via. Sembra assurdo che nel terzo millennio si debbano ancora mettere in discussione certi cliché, ma le narrazioni egemoni sono molto efficaci, ci fanno sentire “a posto”, nel giusto. “Tutti” la pensano così.

Le narrazioni dominanti hanno sempre una portata culturale, anche quando appartengono a un gruppo specifico; si pensi alle storie saturate dal problema di Michael White (1992): una famiglia o coppia descrive la sua realtà unicamente in riferimento a quel problema o sintomo, unico, specifico della loro situazione, ma il pregiudizio secondo cui esiste un problema, la cui definizione chiara e certa consente la soluzione, va oltre la vita del singolo o del suo sistema prossimale. Narrazioni dominanti e pregiudizi vanno a braccetto e sono fondati a loro volta su premesse epistemologiche errate (Cronen, 2017): mentalizzazione, colpevolizzazione, rappresentazionismo, causalità lineare e così via.

Tutte queste categorie sono definite in blocco “pregiudizi” da Cecchin et al. (1997), cioè quelle idee che inconsapevolmente usiamo per pensare, che stanno alla base dei nostri ragionamenti. Faccio fatica a comunicare ai miei studenti e studentesse, soprattutto all’inizio dei corsi, la differenza tra il pregiudizio cecchiniano, un’idea ampia e metaforica, volutamente imprecisa, e i “pregiudizi” e “stereotipi” di cui trattano la sociologia e la psicologia sociale. Ad esempio, le rappresentazioni della buona madre, la famiglia vulnerabile, multiproblematica o negligente, la violenza domestica come azione perpetrata dall’uomo sulla donna non sono tecnicamente dei “pregiudizi” sul piano della ricerca sociale, in quanto oggetti di ricerca fondati su osservazioni, statistiche, evidenze. Lo diventano quando li usiamo in una conversazione – ad esempio tra professionisti - per “essere tutti d’accordo” o – come amo dire spesso – “come clave sulla testa della gente”. Perché clave? Perché vedo un atto di potere nell’attribuire a una persona o gruppo le caratteristiche di cui sopra, un gesto epistemico che è anche politico. Come diceva Latour: non ci basta vincere, vogliamo anche avere ragione! Per comprendere il pregiudizio sistemico dobbiamo smettere di pensare in modo illuminista: i pregiudizi non sono “cose”, sono materia conversazionale, come dirò più avanti.

È a questo punto che diventa cruciale chiederci: quali tipi di conversazioni generiamo,

tra professionisti, che rinforzano i pregiudizi oppure li sfidano? Come impariamo a trattare i pregiudizi in modo che continuino a esserci utili per pensare e agire in modo adattivo e non distruttivo? Quali processi trasformativi vogliamo o possiamo introdurre nel nostro modo abituale di comunicare? Nasce così l’idea di indagare “il pregiudizio dell’accordo”, come premessa indiscussa e fortemente limitante del lavoro educativo, un “dover essere” che impedisce di valorizzare fino in fondo le differenze, il conflitto e i dilemmi disorientanti nei gruppi umani. Perché bisogna andare tutti d’accordo, altrimenti…

 

 

Una pedagogia riflessiva e critica per educatori ed educatrici in erba 

Durante i miei corsi creo gruppi di lavoro e li invito a realizzare compiti complessi (ad es. un progetto di ricerca, una rilettura di storie di casi, immaginare un intervento, progettare uno spazio per le famiglie, ecc.). Non si tratta di esercitazioni guidate, non c’è la risposta giusta, il modello da applicare: i compiti complessi si avvicinano alla realtà con il loro portato di incertezza e indefinitezza. Sappiamo di dover fare qualcosa ma non ci viene detto esattamente cosa, né come. Quello che comunico fin dall’inizio del corso è l’obiettivo generale, cioè sviluppare competenze riflessive sistemiche, le “4C”: collaborazione, creatività, curiosità e criticità. L’esperienza di accompagnare questi gruppi nei loro apprendimenti può essere esaltante ma anche frustrante; nonostante il grande impegno dei/delle partecipanti, il processo è funestato dalla ricerca a tutti i costi dell’accordo, dal senso comune, il conflitto viene fermato sul nascere, gli “elementi di disturbo” che non si allineano vengono emarginati o si chiamano fuori.

Talvolta mi accorgo che a farne le spese è la qualità del lavoro: tutte le competenze riflessive sopra citate, per fiorire, hanno bisogno di gruppi eterogenei e di far tesoro delle differenze generative.

Nei casi estremi, l’accordo – sonno della ragione! - genera mostri. Come quell’anno che un gruppo di studentesse entusiaste presentò in aula il modello sistemico d’intervento con la famiglia come “la ricerca del lieto fine: proprio come nelle fiabe, tutti vissero felici e contenti!”. Quando chiesi loro di raccontare il processo di lavoro, la risposta fu unanime: abbiamo lavorato benissimo, è stato facile trovare l’accordo! Nella maggior parte dei casi, invece, l’esito è più sfumato e mi ritrovo a maneggiare un prodotto scolastico, ben agghindato e con tutti i contenuti che deve avere, ma con la vaga sensazione che si sia arrivati troppo velocemente e in modo indolore a un risultato scontato. Non sarà un mio pregiudizio che senza conflitto non si va in profondità, non c’è creatività né tanto meno criticità?

Come interpretare questo problema e come rispondervi? Invece di lanciarmi in letture psico-sociologiche sui limiti e i problemi delle nuove generazioni (come vorrebbe il discorso egemone in questo scorcio di secolo), penso che una riflessione sulle premesse

epistemologiche errate possa illuminare questi processi. Partirei dal mettere in discussione la connotazione positiva che accompagna la parola “accordo”; non mi riferisco al significato denotativo della parola ma al suo uso e agli effetti che produce. L’accordo viene reificato quando si pensa al linguaggio come denotativo: qualcosa che esiste là fuori corrisponde alla parola usata, quindi si tratta di dotarsi di strumenti per comprendere quando c’è e quando non c’è. Nella definizione Treccani online, il primo tra i significati è la “concordia, armonia di sentimenti” (un oggetto molto scivoloso da operazionalizzare), ma c’è anche (secondo significato) la condivisione di una scelta: “seguire un determinato comportamento nel reciproco interesse, per raggiungere un fine comune o per compiere insieme un’azione o un’impresa” (questo sembra più semplice da individuare). Qui c’è il presupposto dell’azione deliberata, del gioco tra parti in interazione e dei loro potenziali conflitti: in effetti si parla di accordo anche alla fine di un contenzioso. Accordo quindi come esito (sofferto) e non come premessa. Come “fare cose insieme” e non “avere le stesse idee”: ci avviciniamo alla lettura pragmatica e sistemica.

Possiamo allora leggere l’accordo come il (problematico e da problematizzare) con-senso che si produce continuamente nel divenire delle interazioni, attraverso pratiche di coordin-azione; uso il corsivo e il trattino come promemoria per trattare queste due parole con rispetto e ricordarmi che il senso comune rischia di trascinarle nello stesso pregiudizio dell’accordo, ma nella sistemica prendono connotazioni diverse, spiazzanti. La comunicazione umana avviene nel dominio linguistico “che appare ad un osservatore come dominio di coordinazioni consensuali di azioni o di distinzioni in un ambiente” (Maturana H. 1993, pag. 82). L’osservatore può descrivere queste interazioni in termini semantici, mettendole in relazione con le conseguenze: in altri termini, osservandone gli effetti nel contesto e non le intenzioni dei parlanti. Anche quando siamo in disaccordo sulla definizione della realtà, stiamo coordinando le nostre azioni a un altro livello. Un unico concetto – dis/accordo – può diventare il token per la complementarità cibernetica, che celebra la complessità di questo oggetto misterioso.

 

 


Esplorare i pregiudizi 

Nella formazione dei professionisti dell’educazione trovo utile esplorare i pregiudizi insiti nelle narrazioni di senso comune, per spiazzarci e invitarci tutti alla curiosità. Per cercare sistematicamente il dis/accordo. Ad esempio, cerchiamo in rete le rappresentazioni della famiglia nucleare (papà, mamma e due figli maschio e femmina, tutti bianchi, belli, ricchi e sorridenti?!). Analizziamo i discorsi di politici ed esperti sulla cosiddetta “famiglia tradizionale”. Usiamo la de-costruzione: Chi l’ha detto? Sulla base di quali dati e osservazioni? Quali premesse implica?

Come docente mi preme fornire “la canna da pesca e non il pesce”, ovvero insegnare un metodo per accorgersi dei vincoli che usiamo quando pensiamo. Provo a generare nuove abitudini mentali attraverso dispositivi abduttivi e riflessivi (Formenti L., 2012, 2013; Formenti L., Luraschi S. e Rigamonti A., 2017; Formenti L. e Jorio F., 2019; Rigamonti A. e Formenti L., 2020) per portare l’attenzione su come ciascuno costruisce ed è costruito dal senso comune: non solo i processi di trivializzazione, naturalizzazione, normalizzazione, colpevolizzazione cui ho accennato sopra, ma anche meccanismi di difesa sul piano più biografico, miti e copioni della propria famiglia che continuiamo a usare anche quando diventano obsoleti o palesemente falsi. L'occidentale medio di Bateson ci fa compagnia, perché siamo parte di una società millenaria che ha fatto propria una certa ontologia ed epistemologia, per quanto in evoluzione.

I pregiudizi sono “utili, inutili e dannosi”, non in base al loro contenuto ma alle azioni che rendono possibili: utili sono i pregiudizi che aprono possibilità (che aumentano la quantità di scelte possibili, direbbe von Foerster), inutili e dannosi sono quelli che confermano il noto, definiscono e inchiodano. Per prendercene cura possiamo introdurre altri pregiudizi “riequilibranti”, ad esempio opposti a quelli vigenti. Caro studente o studentessa, pensi che esista qualcosa là fuori che si chiama “la buona madre”? Pensi di sapere che cosa deve fare per dimostrare di esserlo? Credi che il tuo ruolo sia insegnarglielo? Allora, invito a lezione le mammedimerda per un dibattito sul loro progetto di “ri-educazione online” tramite la filosofia del pinguinismo. Il nostro immaginario è saturato dalle rappresentazioni mediatiche della famiglia? E allora proviamo ad analizzare scene dalle più gettonate serie di Netflix e giocare a ribaltare la tesi del regista.

Provocare, iniziare conversazioni impreviste, generare conflitti o sfruttare quelli che si presentano è un modo per insegnare a pensare diversamente. Ma devo affidarmi ai gruppi (ho troppi studenti per poter dare a ciascuno un feed-back personalizzato): come far sì che le conversazioni all’interno del gruppo mantengano un elevato livello di criticità? Che ci sia una pratica costante di de-costruzione delle premesse e non lo sciropposo scivolamento dentro l’accordo? Una mia frase ricorrente è “cercate un rompiscatole: i rompiscatole ci salvano la vita”.  Ridono, mi guardano increduli. Ma so quel che faccio. Su 15 gruppi, ogni anno ce ne sono almeno 10 che colludono, che arrivano tutti felici alla fine del corso con un’idea perfetta (Cecchin G., Apolloni T., 2003), ben confezionata e greve di premesse epistemologiche errate!

 

 

L’imprevisto, la paura del pregiudizio e l’osservatore

A un certo punto mi accorgo che il corso deraglia rispetto ai propri contenuti disciplinari e curricolari, per suscitare (almeno in alcun*) interrogativi più ampi e profondi. Tutto viene messo in discussione, con un senso notevole di vertigine. “Prof, mi sono iscritta a questo corso perché volevo imparare qualcosa sulla famiglia, ma adesso non sono più sicura di niente!”. Bene, stiamo disimparando!

A dire il vero la prima reazione è la paura dei pregiudizi: “Oddio! Se la mia mente non può funzionare liberamente è un guaio”. Il discorso dominante ci insegna che dovremmo essere pensatori liberi. Il discorso sul pregiudizio è carico di pregiudizi moralistici (e qui un bel reflexive loop ci porta dritti dentro il paradosso senza passare dal Via!). Che cosa significa per la mente umana “funzionare liberamente”? Che paradosso! Usiamo il linguaggio, uno strumento pieno di vincoli. Conversiamo con altri viventi e non (si pensi agli autori dei libri che leggiamo, alle cui idee ci affidiamo) e diventiamo vincoli per loro e loro per noi. Dove sta allora la nostra libertà? Il pregiudizio, ci ha insegnato tra gli altri Gianfranco Cecchin (Cecchin G., Lane G., Ray N.A., 1997), non è eliminabile. Non ha molto senso nemmeno averne paura, visto che appartiene a quei meccanismi di “economia della mente” cui fa riferimento Bateson nel trattare di abitudini e di apprendere ad apprendere:

“il risparmio sta proprio nel non riesaminare o riscoprire le premesse di un’abitudine ogni volta che di tale abitudine ci serviamo. Si può dire che queste premesse sono in parte ‘inconsce’, oppure, se si vuole, che si è presa l’abitudine di non esaminarle” (Bateson G., 1976, pag. 297).

E allora, per piacere, basta pregiudizi sul pregiudizio! Proviamo invece ad abbracciarlo e poi lasciarlo andare, come facciamo con i pensieri in una seduta di meditazione. I pregiudizi non sono altro che proposizioni astratte dotate di una “costante di verità”. Non mordono, non sporcano, se ben educati. Devono avere un carattere astratto, dice Bateson, perché possano possedere “un grado di verità generale e ripetitivo”. L’esempio che fa è illuminante: “c’è aria intorno alle narici” (nota pag. 298); questo pregiudizio, mediamente vero per l’essere umano, ci permette di godere della funzionalità meravigliosa dei riflessi automatici che controllano la respirazione. Non così per la focena, che non può dare per scontata la proposizione astratta di cui sopra perché nel suo contesto di vita l’aria non sempre c’è. Fin qui, ciò che succede nel dominio di esistenza biologica, direbbe Maturana (1993). Il dialogo tra Bateson e Maturana, su questo tema, è generativo e chiarificatore: il dominio biologico e quello linguistico non possono essere ridotti l’uno all’altro, ma si toccano. Se hai una crisi di panico vai in fame d’aria, ma puoi dire al tuo corpo di svuotare completamente i polmoni e vedere l’effetto che fa.

Il pregiudizio, per gli umani, fiorisce e si trasforma nel dominio linguistico, nell’azione intenzionale: la sua formulazione può essere enunciata, modificata e rivista grazie al linguaggio che apre possibilità impensate, rendendoci enormemente adattivi. Sul piano biologico, i pregiudizi sono strutturali, ovvero dipendono da come siamo costruiti. Ad esempio, siamo incapaci di “distinguere empiricamente illusione, allucinazione e percezione” (Maturana H., 1993, pag. 20). Gli esperimenti sulla percezione mostrano molti esempi di esperienze percettive “false” (per così dire, pregiudiziali) che non riusciamo a correggere nemmeno quando sappiamo che sono errate (il classico esempio del bollo verde che ti accompagna per un po’ dopo aver guardato una luce rossa – reminiscenza della mia adolescenza in camera oscura: per quanto sbattessi gli occhi non c’era nulla che potessi fare per ridurre il tempo di decadimento di quello strano fantasma).

Non si tratta qui di un limite della nostra conoscenza, qualcosa che si possa correggere con la consapevolezza. Ma forse con il movimento sì. Prendo ispirazione dall’esperienza del e con il corpo, che esattamente come la mente apprende e si adatta; alcuni pregiudizi corporei evolvono con l’esperienza: il modo in cui ci sediamo, ci alziamo da terra o afferriamo un oggetto contiene la nostra storia e con essa diversi pregiudizi appresi, come ho imparato grazie a Silvia Luraschi (2021) e alla sua interpretazione pedagogica del metodo Feldenkrais. Mettere intenzionalmente il corpo in movimento e ascoltare ciò che accade rende il movimento stesso più libero, piacevole ed elegante. Ci fa stare bene. Accade lo stesso con i pregiudizi della mente: non cercare di bloccarli, ma agirli intenzionalmente, fino al loro limite, in un contesto esplorativo, rende il pensiero più fluido.

Per riuscirci, dobbiamo mettere in dubbio “la validità ontologica della nozione di oggettività nello spiegare il fenomeno della conoscenza” (Maturana H., 1993, pag. 21). Rinunciare all’oggettività, all’abitudine di pensiero per cui la cognizione è uno specchio della realtà. La sistemica ci ha abituati a interrogarci sulle proprietà dell’osservatore, a interrogare i rapporti tra conoscenza e linguaggio, tra pregiudizio e comunicazione, ovvero tra pregiudizio e coordin-azioni. Lo scopo del pregiudizio è economizzare sulle interazioni: non ti chiedo che cosa pensi, presumo di saperlo già.

Nel dominio della comunicazione tra mammiferi, scrive Bateson, le proposizioni che descrivono le interazioni (ovvero le nostre idee su cosa stiamo facendo, le storie che raccontiamo sulle nostre relazioni) sono intrecciate alle interazioni stesse, dipendono da esse. Concetti come dipendenza, amore, educazione sono “descrizioni verbalmente codificate di strutture immanenti nella combinazione dei messaggi scambiati” (Bateson G., 1976, pag. 298). Per questo siamo “impacciati”, “non siamo in grado di pensare correttamente, e talvolta è salutare ricordarci che siamo mammiferi” (pag. 298).

Per inciso: Bateson sta ragionando, in questi passaggi, sul doppio vincolo e sulla “sindrome transcontestuale”: “si può indurre in un mammifero un acuto senso di sofferenza e disagio, se lo si mette in condizione di sbagliare circa le regole che danno significato a un rapporto importante con un altro mammifero”; a certe condizioni, ciò “può favorire la creatività” (pag. 301, corsivo nel testo). Che la pedagogia critica sia la costruzione di doppi legami generativi?

Un problema da superare è l’abitudine, ma un altro è la hybris, quell’atteggiamento di arroganza epistemologica che porta alle “idee perfette” (Cecchin G., Apolloni T., 2003), che ingabbiano il flusso del pensiero, la creatività umana e la possibilità dell’incontro con l’altro. L’altro porta pregiudizio nel suo essere irrimediabilmente altro. L’altro dentro di noi, pure. Se vogliamo comunicare, dei pregiudizi non possiamo fare a meno.

Lo scopo allora non è liberarci dei pregiudizi, ma chiedersi di chi sono, che cosa ce ne facciamo nella relazione con l’altro, che cosa succede quando vengono nominati. Il dis/accordo diventa l’antidoto. Non è solo un rapporto tra sé e sé: diventare consapevole dei miei pregiudizi, guardarli, analizzarli, scoprire come si sono installati, verificare i loro effetti pragmatici sulla mia vita… Ritengo molto più utile e formativo spostare la domanda nello spazio sociale: come funzionano i nostri pregiudizi nella relazione, nella comunicazione e quindi nel mettere in movimento nuovi pensieri nelle nostre convers-azioni e coordin-azioni?


 

«Noi comunichiamo, quindi io penso» 

Mi viene in aiuto Cronen (2017) e la teoria della gestione coordinata del significato (CMM). Il pensiero sistemico sfida le premesse epistemologiche dell’illuminismo e del razionalismo Cartesiano – «cogito ergo sum» - pur riconoscendone il valore (il progresso tecnologico, la libertà di pensiero, i diritti umani hanno radici profonde nel pensiero occidentale, come anche Bateson non manca di riconoscere - il problema è lo squilibrio, la dis-connessione, la finalità cosciente).

Nel senso comune, il ragionamento è nella mente individuale. Per la sistemica, il pensiero nasce e si trasforma attraverso l’azione congiunta, è insieme individuale e sociale.

La sistemica ci invita a cambiare i nostri modi scontati di pensare il pensare. Cronen (2017) esplora le premesse errate della prospettiva illuminista-razionalista:

 

L’illuminismo è radicato dentro di noi, ma quando viene usato per leggere la vita umana è banalizzante e riduttivo. Il linguaggio e il pensiero si trasformano attraverso le relazioni interpersonali: impariamo dai nostri simili a comunicare nel modo umano e sviluppiamo le connessioni cerebrali necessarie. Il pensiero – sostiene Cronen - è una conquista neuro-sociale. Quindi è il comunicare a costruire il linguaggio e il pensiero, non viceversa.

Come uso queste idee nel mio insegnamento? Portando l’attenzione sugli scambi, su ciò che accade qui e ora. Superare la centratura sul singolo e sulla lettura intrapsichica (l’approccio centrato sulla persona comporta un pregiudizio e una narrazione egemone, che premia l’individualismo), ma anche la fascinazione per i contenuti del discorso, per la semantica e per il significato denotativo delle parole. Svelare il coordinamento di significati e di azioni mettendo in movimento le parti del sistema con intenzione, come facciamo nel Feldenkrais, attivando un processo di ricerca incessante, incompleto, aperto, che genera illuminazioni e significati temporanei, sempre in costruzione, embricati nel loro stesso divenire.

La prospettiva sistemica si basa sulla comunicazione; è nel comunicare che si generano le idee, le emozioni, i modi di osservare, perfino di ricordare. Formiamo sistemi di terzo ordine – famiglie, équipe, gruppi – che generano nel flusso dell’azione interdipendente le proprie regole (l’accoppiamento strutturale di Maturana), grazie alla capacità responsiva propria di ogni mammifero e alla reciprocità, che non richiede accordo ma coordin-azione tra diversi. Ovvero: abbiamo idee e posizioni diverse, ma siamo nella stessa barca. Qualsiasi azione metteremo in atto mostrerà una doppia coerenza sistemica (con il singolo e con il gruppo), anche nel dis/accordo, anche quando produrrà effetti non auspicati. Anche la disgregazione è espressione della coerenza sistemica.

 

 

Storie di dis/accordi generativi 

Diventa molto interessante, a questo punto, praticare in gruppo l’arte del dis/accordo generando conversazioni e interazioni trasformative. Si possono usare il role playing e il reflecting team (Dugmore et al., 2018) per imparare a inter-agire e osservare con lenti sistemiche, riflettere su chi dice cosa e come, prestare attenzione al linguaggio che rivela le premesse epistemologiche dei parlanti, identificare e nominare le narrazioni dominanti, i pregiudizi e le premesse erronee.

Adattando alcuni esempi proposti da Cronen (2017), ho creato delle vignette di situazioni proprie del lavoro educativo, da simulare in aula e decostruire creando dis/accordo, non per “superare” premesse lineari (un altro pregiudizio, quello del superamento, che mi piacerebbe smontare), ma per riequilibrarle e ricomporle con visioni alternative, multiple. La descrizione doppia di Bateson non è un invito ad abbandonare la ragione razionale, ma ad armonizzarla con le ragioni del cuore. Per aiutare il gruppo, si può chiedere a qualcuno di giocare il ruolo del rompiscatole.

Ad esempio:

Durante una riunione d’équipe simulata: «Questa famiglia è disfunzionale. La madre sta boicottando il nostro lavoro, dobbiamo impedirglielo»

Chi parla usa una premessa illuminista: la centratura sulla madre (individualismo), per di più etichettata come causa del problema (linearità causale). Il suggerimento è che per risolvere il problema si deve agire sulla donna, convincerla a comportarsi diversamente (a dire il vero la strategia proposta sembra ancora più brutale: una sorta di “placcaggio morale” della signora). Sono tutti d’accordo. Che cosa farà o dirà il rompiscatole?

Ad esempio, potrebbe introdurre una punteggiatura alternativa ponendo domande impreviste a partire da altre premesse: Questa donna sta dicendoci qualcosa: in che modo il suo messaggio si connette con le nostre posizioni? E con quelle della famiglia? Non è che forse ci sta aiutando, in qualche modo? Che cos’è che non stiamo vedendo?

L’educatore domiciliare alla sua coordinatrice: «Questi genitori hanno delle idee assolutamente sbagliate sul figlio. Come faccio a far loro capire che sbagliano? Che cosa posso fare perché loro mi ascoltino?»

La premessa di questo operatore è il mentalismo: il comportamento nasce dalle idee che le persone hanno nella testa. Cambiare le idee è la strada per cambiare i comportamenti. Quindi bisogna convincere le persone, tramite le parole, a comportarsi in modo corretto (ovviamente, secondo la nostra prospettiva). La sua coordinatrice (una vera rompiscatole!) gli propone un altro sguardo: “Se la metti così sembrano dei poveretti senza speranza. Ma sono sopravvissuti fino a oggi, come hanno fatto? Forse stanno proteggendo qualcosa o qualcuno. Forse un’idea. Glielo hai chiesto?”

Cronen (2017) propone il concetto di “speranza” per sottolineare che nella comunicazione è sempre implicita un’idea di futuro, un desiderio di qualcosa che prefiguriamo come “buono” per noi. Qual è la speranza di questi genitori? Anche la curiosità di Cecchin rappresenta il professionista come qualcuno che prova a vedere oltre, ad attribuire all’altro caratteristiche, pensieri e comportamenti imprevisti, inediti.

Matteo, 8 anni, dice all’operatore di Spazio Neutro: «Sono proprio stanco di vedere i miei genitori che litigano continuamente. Il papà dice che la mamma «rompe», lei dice che ogni volta che dovrebbe occuparsi di me lui gioca alla playstation o si mette a fare dei lavoretti. Chi ha ragione? Chi è la causa del problema? Entrambi sono scontenti, allora perché continuano a farlo?»

Spazio Neutro è un servizio a rischio: se il disaccordo è connotato negativamente, c’è il pericolo di voler cercare l’accordo a tutti i costi, a spese della coerenza sistemica. Anche

gli utenti seguono premesse errate: per Matteo capire chi ha ragione significa raggiungere l’armonia, comprendersi. La speranza è che si possa stare bene insieme, se si va d’accordo. Non è quello che pensiamo tutti, in un mondo ideale e moralmente giusto?

Chi lavora con coppie ad alta conflittualità sa che non basta chiarirsi per andare d’accordo. Come portare tutti verso il ben-essere? I genitori di Matteo hanno cornici (speranze) diverse: il papà massimizza il presente e pensa che vivere la quotidianità senza troppo stress sia un buon modo di prendersi cura della relazione qui e ora con Matteo; la mamma dà più importanza alla sicurezza a lungo termine: educazione, cura del cibo, valori, impegni extrascolastici. Il disaccordo si è cristallizzato e polarizzato, facendo soffrire tutti.

La ricerca del compromesso non è utile in questi casi, secondo Cronen, perché tradirebbe la speranza – la cornice di senso – di entrambi i genitori; la speranza è legata all’identità, alla biografia, ma anche alla relazione di coppia: c’è stato un tempo in cui la differenza tra i due genitori ha generato amore, prima di cristallizzarsi e polarizzarsi nel conflitto. Come direbbe Marianella Sclavi (2003), hanno entrambi ragione perché partono da premesse diverse. Potrebbe allora essere utile creare una terza cornice, un contesto di ordine più elevato che riconosca le due prospettive senza volerle annullare l’una nell’altra. Il dis/accordo diventa la soluzione.

L’equipe educativa discute di come posizionarsi verso la richiesta accorata di Matteo: come condividerla con i genitori per evidenziare gli effetti pragmatici, sul figlio, dello schema di recriminazione reciproca. Si tratta anche di chiedere quanto si sentono rappresentati nel racconto del figlio. L’idea non è biasimare i genitori per essere in conflitto e spingerli a un accordo forzato, ma valorizzare entrambi per quello che stanno cercando di fare e commentare il lavoro di squadra che stanno facendo occupandosi entrambi del futuro di Matteo. In fondo, il bilanciamento tra presente e futuro, gioco e regole, libertà ed educazione è il tipo di dilemma con cui tutti i genitori prima o poi hanno a che fare. Questa strategia di “normalizzazione” può preludere a individuare insieme qualche azione che sia piacevole per tutti, al di là del loro accordo o disaccordo.

I disaccordi sono sempre leggibili come una dimostrazione d’interesse, di impegno verso il bene. Le domande sul futuro – invece delle recriminazioni sul passato o critiche reciproche sul presente - potrebbero aiutare ad aprire nuove possibilità.

L’equipe sistemica gioca il suo dis/accordo con il sistema, ovvero una postura che contempla sia l’essere in disaccordo sia la possibilità, a un altro livello, di agire in modo coordinato. La conversazione in corso con Matteo e i suoi genitori, così come all’interno dell’equipe, lavora sulla coordinazione dei significati, ovvero sul con-senso, che non è collusione né appiattimento, ma prendersi cura della molteplicità del senso e dei sensi (c’è una parte consistente di lavoro fatta attraverso i corpi e il gioco, ma non l’approfondisco in questa sede). La conversazione non contempla solo parole, ma azioni che aprono in direzioni nuove.


 

Conclusioni 

Sono partita dal desiderio di confutare l’idea che si debba andare tutti d’accordo. Che l’accordo sia più desiderabile del disaccordo, ma soprattutto che sia strumentale al raggiungimento della felicità. Mi rendo conto che ci metto del mio, in questa ricerca: il rimpianto per battaglie non fatte, la tristezza per indignazioni non espresse. Rispondere al potere non è facile. Il problema è il “dover essere”, è la collusione con il discorso dominante, non l’idea in sé dell’accordo come sensazione di presenza, di connessione con l’altro, tra dentro e fuori, tra prima e dopo. Penso che il dover essere d’accordo sia un’idea tossica, che mina alla base le possibilità del dialogo critico, della democrazia stessa. Una narrativa dominante che, in quanto tale, intossica la nostra mente e il nostro stare al mondo e rende il mondo ingiusto e brutale. Chi non ha questo pregiudizio viene etichettato come un rompiscatole cinico, brutto e cattivo (se è una donna, anche un po’ strega). Premiati saranno coloro che ce l’hanno: i buoni, i collusi, i mediatori, gli ubbidienti, i tolleranti, gli indifferenti.

La comunicazione solidale, il rispetto dell’altro e il ben-essere ecosistemico non coincidono con l’“andare tutti d’accordo”, ma con l’azione dinamica delle differenze, nel riconoscimento dell’altro, di sé e del sistema di cui tutti facciamo parte. La visione sistemica ci aiuta, guardando alla questione dal punto di vista della comunicazione – come ho cercato di argomentare. Nell’ambito educativo, si tratta di scegliere se vogliamo essere educatori ed educatrici collusi con il potere e con i discorsi egemoni, dei normalizzatori, oppure educatori ed educatrici critici, capaci di sfidare l’ovvio e di nominare “l’assurdo che è nel mondo”, come scriveva Danilo Dolci. Aiutando anche altri a esprimere il loro disaccordo.

Nel dizionario online Treccani ci sono altri significati della parola che sopra non ho citato: in grammatica, in musica, nell’uso dei colori, l’accordo suggerisce l’accostamento armonico e proporzionato tra parti diverse. Equilibrio, sintonia, armonia sono le qualità richiamate. Qualità rare. Qualità che nemmeno l’arte contemporanea, ormai, persegue più con molta convinzione.


 

Bibliografia 

 

 

Sitografia