Riflessioni Sistemiche n° 27


Decostruendo miti e pregiudizi del nostro tempo

Ambientalismo Scientifico e Complessità


di Walter Ganapini

Honorary Member, Scientific Committee, European Environment Agency

Sommario
L’Antropocene ha generato una Crisi Climatica irreversibile che può portare a rischio di estinzione la nostra specie. Occorre una Transizione Ecologica allo Sviluppo Sostenibile, come indicano l’Enciclica ‘Laudato Sì’, l’Accordo COP21 di Parigi e la ‘Agenda 2030’ delle Nazioni Unite, ‘cassetta degli attrezzi’ per curare il Pianeta malato. Serve una nuova stagione di ambientalismo scientifico di radicalità, competenza, progettualità forti per vincere la sfida “come governare sistemi complessi in regime di incertezza e di scarsità di tempo”


Parole chiave
Limite, Complessità, Transizione, Economia Circolare, BioEconomia.


Summary
The Anthropocene caused an irreversible Climate Crisis potentially leading to the Mankind extinction risk, that could be avoided only through an Ecological Transition path towards a Sustainable Development as requested by the ‘Laudato Sì’, the ‘Paris Agreement’, the U.N. Agenda 2030. To face the challenge ‘how to manage complexity in an uncertainty’s and time burden’s regime’, a new season of a radical and solution oriented Scientific Environmentalism is needed. 


Keywords

Limit, Complexity, Transition, Circular Economy, BioBased Economy.



Viviamo la fase finale dell’Antropocene, ‘Era breve’ entro la quale l’agire antropico è pervenuto a modificare in modo irreversibile equilibri che da sempre regolavano il nostro rapporto con la natura nella ‘casa comune Terra’ prima che da ‘ecosistema’ la mutassimo ad ‘antropoecosistema’.Ci compete ora tentare di evitare l’esito ‘estinzione della specie umana’ che la scienza ritiene di non potere escludere già solo alla luce della evoluzione della già irreversibile Crisi Climatica, cui si interconnettono le altre tre crisi sistemiche in atto: pandemica, finanziaria-industriale, bellica. Devastante nel generare tali crisi è stato l’effetto del pervicace impegno dell’ultraliberista ‘scuola di Chicago’ nel conculcare nell’immaginario collettivo, fino a renderla percezione dominante, la subcultura secondo cui l’economia può essere rappresentata attraverso la seguente formula lineare: 

 

Materia Prima + Capitale + Lavoro + Tecnologia = Merce.

 

Secondo tale lettura, si doveva aderire all’idea di una continua crescita del consumo di risorse per produrre beni e servizi capaci di soddisfare la bulimia da sfrenato consumismo materialistico indotta in persone da considerarsi, come ci insegnò Bauman, solo come meri ‘consumatori’. 

Si operò per cancellare dalla coscienza comune, così, la nozione di ‘Limite’ sin lì a tutti evidente, di generazione in generazione, quando la Fisica come scienza e la sedimentazione di esperienze umane di vita da sempre ci parlavano di una Terra sistema reale ‘finito’, ‘casa comune’ che per definizione non può disporre di risorse inesauribili. Aria e suolo non sono illimitatamente disponibili in quantità e qualità, parametro, quest’ultimo, che determina la finitezza anche dell’accesso alla matrice acqua, per quanto risorsa ciclica. 

La consapevolezza della esauribilità qualitativa, prima ancora che quantitativa, delle risorse ambientali, se utilizzate nei modi e nei tempi tipici del modello dissipativo dominante, si nutriva anche di un altrettanto cruciale insegnamento della Fisica: in un sistema reale non si dà alcuna trasformazione (materia/energia, materia/materia) con rendimento 1 e dunque da ognuno di tali processi si genera entropia a carico del sistema in forma di emissioni (solide, liquide, gassose) di cui non si trova traccia nella equazione lineare sopra citata. 

Ce lo confermò l’analisi ‘Limiti alla Crescita’ che il Club di Roma di Aurelio Peccei  commissionò al System Dynamics Group dei coniugi Meadows al MIT nel ’72: stante la comprovata inefficacia dei modelli analitici settoriali non utili a risanare i guasti ambientali in essere e soprattutto incapaci di fornire alcun allarme preventivo, venendo meno al ruolo di previsione del rischio tipico di una scienza eticamente responsabile, lo studio analizzò l’andamento degli indicatori demografici, dei consumi di energia e di risorse naturali da parte del Nord del mondo, evidenziando una impennata quasi esponenziale di queste ultime curve a causa del modello di vita consumistico dominante, con  costi ambientali già descritti a metà '60 da Rachel Carson in 'Silent Spring'. 

Non auspicavamo questo scenario quando avemmo la ventura di misurarci, dopo le ‘due culture’ e lo iato specialismo/generalismo, con la sfida della ‘cultura della complessità’, dopo il ‘Il caso e la necessità’ di Jacques Monod. 

Riflessioni cruciali emergevano anche dalla critica della meccanica deterministica newtoniana da parte di Prigogine - fisico-chimico della termodinamica degli stati stocastici e probabilistici dove non si danno relazioni lineari ‘causa/effetto’ - cui si associavano Fritjof Capra ed Ervin Laszlo, e dai contributi di Edgar Morin, che criticava il metodo cartesiano postulando il ricorso all'analisi sistemica per leggere sistemi

complessi; prezioso anche il contributo di Joel De Rosnay, che nel ‘74 pubblicò "II Macroscopio", la cui premessa recitava “nel tempo gli uomini hanno inventato il

microscopio per osservare e comprendere l'infinitamente piccolo, il telescopio per comprendere l'infinitamente lontano ed oggi necessitano del macroscopio, per leggere l'infinitamente complesso”, carattere strutturale della società moderna (De Rosnay J., 1993)

Iniziava ad evidenziarsi come esito prevedibile del modello dissipativo un Cambiamento Climatico causato da un riscaldamento globale che modificava sistemi naturali quali circolazione oceanica, livello del mare, ciclo dell’acqua, ciclo del Carbonio e dei nutrienti, qualità dell’aria, produttività e struttura degli ecosistemi naturali, produttività di terreni agricoli, praterie, foreste, distribuzione geografica, comportamento, abbondanza e sopravvivenza di specie animali e vegetali, inclusi vettori ed ospiti delle malattie dell’uomo. 

Risultava palese come ciò avrebbe modificato frequenza ed intensità di fenomeni estremi quali ondate di caldo e di freddo, siccità, alluvioni, fenomeni che avrebbero generato, ove non mitigati da forti cambiamenti negli stili di vita, di produzione e di consumo, conseguenze gravi in primo luogo sugli insediamenti antropici.

Sapevamo come degrado ambientale e crisi energetica fossero due fra i tanti segnali attesi di crisi strutturale delle società industriali avanzate, incapaci di fare fronte alle condizioni ed alle esigenze nuove create dalla loro stessa evoluzione. 

Secondo l’autorevole ‘WorldWatch Institute’, persone e comunità destinate a convivere con le criticità generate da quel modello di sviluppo avrebbero dovuto essere educate a gestire l’intrinseca nozione di rischio, per definire il quale Lester Brown coniò il termine di “catastrofi innaturali”. Iniziammo a ricercare, all'interfaccia tra scienza e politica, come cambiare paradigma dal "fatti consistenti - valori deboli" al "deboli fatti/deboli segnali scientifici - forti valori pubblici", da cui derivò il "Vorsorge-prinzip" inserito nella legge tedesca nel 1984, 'Principio di Precauzione' atto a moderare potenti "vested interests" in gioco e umana resistenza conservativa.                     

Iniziavamo ad avere chiaro come gli effetti e l’impatto del modello prevalente di sviluppo fossero assoggettati alla ‘Legge dei rendimenti decrescenti’, per cui il costo sociale per ripararne i danni e perseguire il ripristino degli ecosistemi in logica di solidarietà diacronica sarebbe risultato di gran lunga superiore agli ingenti profitti privati generati a favore di pochi.                                

Era già molto forte in noi - convinti praticanti del metodo dell’ambientalismo scientifico - la valenza etica dell’agire locale e globale per lasciare a chi sarebbe venuto dopo di noi un mondo vivibile, nella necessaria accezione di solidarietà diacronica che i Nativi americani sintetizzavano in "abbiamo ricevuto questa terra in prestito dai nostri figli".

In Italia, la riflessione sul rapporto Etica/Ambiente si radicò a inizi ’90, discutendo di come, per il filosofo morale, fosse difficile prendere in considerazione le nozioni di solidarietà diacronica e di equità intergenerazionale come postulate da noi ambientalisti, essendo non esistenti gli enti/soggetti portatori di diritto ad un ambiente salubre ed a risorse accessibili (e certamente limitate), cioè le future generazioni. 

Non potevamo non concordare con Aguesse quando affermava “Alcuni ecologi preferiscono continuare le loro ricerche senza tener conto di quest'uomo invadente, che viene considerato come un nuovo “regno", in aggiunta ai regni minerale, vegetale e animale…l'uomo, che è un mammifero, non sfugge alle leggi della natura e lo sviluppo delle sue popolazioni presenta un parallelismo assai netto con quello che si osserva in altre specie animali….questo fatto implica automaticamente che l'ecologia non sia più una branca della storia naturale, ma che debbano rientrare nel suo campo di investigazione anche discipline assai diverse, come il diritto, l'economia, la sociologia…” (Aguesse P., 1980). 

Queste elaborazioni ci portarono ad assumere l’analisi sistemica come unica metodologia capace di reggere la sfida epocale del ‘comprendere e governare la complessità in regime di incertezza’ nel contesto di un modello sociale finalizzato a massimizzare consumi di massa e profitti per pochi attraverso una globalizzazione deregolata, fino all'acme della prima citata induzione al consumismo sfrenato e dell’idolatria di un mercato che libero non è, volutamente privato di ogni normazione degli ‘animal spirits’ e tale da causare insopportabili e crescenti disuguaglianze.

Il percorso per giungere a sperimentare e validare la metodologia che definiamo ‘Analisi sistemica’ è stato lungo e difficile; ancora oggi non se ne può dare per acquisita una univoca definizione.

Al riguardo, nel 1980 scrivevo:

 

“Il popolamento degli ambienti terrestri da parte di flora e fauna, così come noi li osserviamo oggi, è il risultato di una lenta evoluzione che ha portato alla selezione delle specie meglio adattate, che non evolvono indipendentemente le une dalle altre, ma che anzi interagiscono in modo complesso tra di loro, tanto che spesso si può parlare di coevoluzione.

Analogamente, gli organismi e l'ambiente evolvono in dipendenza reciproca. 

L'unità strutturale e funzionale che costituisce l’ecosistema evolve in modo paragonabile a quello delle forme viventi stesse, passando da strutture semplici a strutture sempre più complesse, mantenendo, anzi accrescendo, la coesistenza e l'abbondanza relativa delle specie in virtù di processi di autoregolazione equivalenti ai meccanismi di omeostasi che assicurano, a livello degli organismi, il coordinamento delle funzioni ed il mantenimento di uno stato di equilibrio. 

La tendenza evolutiva degli ecosistemi a passare da una struttura semplice ad una più complessa si traduce in una successione nel tempo di flore e faune, in accordo con la progressiva trasformazione che queste ultime inducono nell'ambiente. 

Questa tendenza generale trova spiegazione nel fatto che si migliora il rendimento energetico   dell’ecosistema: l'energia disponibile è meglio utilizzata, la biomassa vegetale e animale presente cresce fino ad un massimo compatibile con la velocità di riciclaggio degli elementi minerali ed il rinnovarsi delle risorse cicliche, prima fra tutte l'acqua. 

L'ecosistema accumula un capitale energetico crescente sotto forma di materiale organico, vivente e non; tale capitale rappresenta uno degli elementi di perennità del sistema. 

La ricchezza in forme viventi, piante, animali e microorganismi decompositori è tipico degli ecosistemi più evoluti e testimonia di una esistenza prolungata nel tempo e, quindi, di un certo grado di stabilità; sono stati proposti svariati indici matematici per descrivere e confrontare questa diversità di popolamenti, che va di pari passo con la complessità dell'ecosistema.    

Tuttavia non si deve dimenticare che la diversità tocca anche l'ambiente, la cui eterogeneità moltiplica le possibilità di insediamento delle specie; ancora, come non tenere conto delle popolazioni di ciascuna specie, che presentano una struttura di età caratteristica ed i cui individui presentano diversità di tipo genetico? 

Tutti questi fattori di diversità meritano di essere conosciuti e precisati, perché ciascuno di essi può favorevolmente incidere sulla stabilità dell'ecosistema, nozione anch'essa estremamente complessa e verificabile grazie all'analisi di diversi parametri, relativi alla costanza e alla durata di uno stato di equilibrio, all'inerzia o resistenza alle perturbazioni, all'entità delle perturbazioni tollerabili, alla velocità di ritorno all'equilibrio. 

Si comprende così come diversità e stabilità non siano legate da una relazione semplice; d'altra parte, la stabilità di un ecosistema non esclude affatto che esso sia fragile. 

Infatti, negli ecosistemi complessi, le specie sono fortemente specializzate e rigidamente adattate, quindi molto sensibili ad alterazioni o fluttuazioni inconsuete dell'ambiente. 

Al contrario, gli ecosistemi primitivi, più semplici, sono formati da specie meno specializzate ed esigenti e, perciò, meno vulnerabili. 

Per questo motivo gli ecosistemi complessi possono essere molto sensibili alle alterazioni dovute alle attività umane ed ai loro effetti, dalla coltivazione all'inquinamento. 

Frutto di tali interventi è allora il passaggio dell'ecosistema ad uno stato più semplice, che può essere sia uno stadio evolutivo anteriore sia uno stadio artificiale quale l'agrosistema, inteso come ecosistema naturale modificato dall'uomo agricoltore per ricavarne alimenti e altre risorse. 

E’ importante sottolineare, a questo punto, che conservare artificialmente tali ecosistemi significa intervenire costantemente, con apporti esterni, sul loro flusso energetico e sul loro ciclo minerale” (Ganapini W. 1980).

 

L'equilibrio degli ecosistemi si basa fondamentalmente su scambi energetici tra sottoinsiemi biotico (vegetale e animale) e abiotico (minerale) del sistema. 

Il flusso energetico che arriva ad un ecosistema è soltanto in piccola parte utilizzato per il processo di sintesi della sostanza vivente (biosintesi), mentre la maggior parte viene trasformata per creare e mantenere le condizioni climatiche, per la solubilizzazione ed il trasporto degli elementi minerali presenti nelle rocce (lisciviazione), per la circolazione dell'acqua (in particolare evapotraspirazione a livello delle piante); in sostanza, quindi, per assicurare le condizioni esterne di sostentamento. 

E’ proprio rafforzando gli apporti energetici utilizzabili per queste necessità di mantenimento e rimpiazzando il lento turnover degli elementi minerali con apporti fertilizzanti che l'uomo gestisce i suoi agrosistemi: beneficia degli apporti energetici essenzialmente qualche specie privilegiata (piante, animali domestici e l'uomo stesso), e ciò contribuisce a ridurre la competizione, eliminando le specie non utilizzabili, 

Gli ecosistemi semplificati non si sostentano, quindi, che assicurando loro, senza interruzione, il surplus energetico e l'apporto minerale, anch'esso costituente una spesa energetica. 

Per soddisfare queste condizioni l'uomo, inteso come specifica formazione storico-economica, ha favorito ed accelerato gli scambi tra gli agrosistemi, semplici componenti del suo ecosistema globale, ed altri sottosistemi, in modo particolare l'industriale e l'urbano, insieme complesso che va sotto il nome di ‘antropoecosistema’.

Se lo si valuta dal punto di vista dei criteri ‘diversità, maturità, stabilità’, si osserva che negli ecosistemi naturali l'evoluzione va verso una maggior efficienza energetica, grazie ad una progressiva riduzione del fabbisogno energetico necessario a produrre un'unità di biomassa, mentre a livello degli antropoecosistemi i consumi energetici pro-capite vanno crescendo, per l'innalzarsi degli standard di vita individuale, il che comporta, ad esempio, forti spese energetiche per il trasporto, in virtù della distanza tra i vari comparti dell'ecosistema tra cui si realizzano gli scambi. 

Già all’inizio degli anni ’80 ci interrogavamo sulla possibilità che diversità e complessità crescente delle società umane non oltrepassassero la soglia di irreversibilità del danno ambientale, non potendo crescere in modo indefinito i costi economici ed energetici di mantenimento di questo modello di sviluppo. 

Sapevamo che l'apporto energetico esterno agli ecosistemi gestiti dall'uomo non poteva più essere funzionale soltanto alla specie umana o, meglio, alle classi dominanti le società umane, e che i sottosistemi dell'ecosfera da cui si ricavano le risorse dovevano essere tutelati per il loro ruolo, parziale ma essenziale, nell'equilibrio globale.

Ciò a maggior ragione oggi, grazie alla introduzione del concetto di ‘servizi ecosistemici’.

Uno degli aspetti fondamentali dell'ecosistema, ed uno dei più trascurati da parte di questo modello di sviluppo, è quello dei cicli degli elementi chimici fondamentali. 

Infatti, negli ecosistemi naturali, la velocità del turnover condiziona la perennità e la stabilità. 

La rapidità crescente con cui vengono consumate-sprecate le risorse rende necessario ed urgente un cambiamento di rotta nel senso dell'adattamento del ritmo di utilizzazione delle risorse al ritmo di riciclaggio delle stesse una volta utilizzate. 

Alla luce di quanto fin qui detto, è evidente come la diversificazione delle risorse energetiche debba divenire una delle linee di fondo di ogni progetto di trasformazione, di Transizione. 

Di fronte alla qualità e quantità dei problemi ambientali ed energetici che l'umanità si trovava ad affrontare già tra gli anni ‘70 e ‘80, constatavamo come tutto un sapere avesse fallito e che la domanda da porci fosse “Modelli di utilizzazione delle risorse: intervento antropico o logica del profitto?”. 

 

Fu nel 1987 che Gro Harlem Brundtland, Presidente della ‘World Commission on Environment and Development’ (WCED) istituita nel 1983, presentò il rapporto «Our common future», da allora noto come ‘Rapporto Brundtland’. 

Per il Rapporto urgeva misurarsi con la "sfida globale" del disegnare un nuovo modello di sviluppo definito "sostenibile", cioè tale da " far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere alle loro": sviluppo sostenibile è processo di cambiamento nello sfruttamento delle risorse, in direzione di investimenti, tecnologie, strutture istituzionali per soddisfare i bisogni delle future generazioni oltre a quelli delle attuali, sapendo che tre sono le ‘gambe’ del ‘tavolo dello sviluppo sostenibile’: sociale, economica ed ambientale.

Centrale è garantire la "partecipazione di tutti" per conseguire equità intra- ed inter-generazionale supportata da sistemi politici che garantiscano piena partecipazione dei cittadini al processo decisionale e da reale democrazia a livello delle scelte internazionali.

 

Cinque anni dopo il ‘Rapporto Brundtland’, a Rio de Janeiro si tenne, convocato dall’ONU, l’Earth Summit (Rio’92), primo vertice internazionale in cui si incontravano oltre 150 nazioni per condividere le informazioni circa lo stato di fatto della ‘casa comune Terra’ e confrontarsi sulle strategie per fronteggiare le emergenze ambientali in atto e quelle annunciate.

Fu un'occasione emozionante di dialogo, a partire dal dotarsi di un glossario comune, tra Governi nazionali, scienziati, Associazioni di cittadini, rappresentanze imprenditoriali (es.il World Business Council for Sustainable Development (WBCSD) contribuì con il rapporto ‘Changing Route’).

Frutti positivi del Summit Rio‘92 furono le Convenzioni che inquadravano le priorità, dal ‘buco nell'Ozono’ al Cambiamento Climatico, dalla riduzione delle emissioni alla tutela della Biodiversità. 

Quello che venne formalizzato, purtroppo, non divenne percorso celere, cadenzato temporalmente e con assunzione di impegni cogenti e sanzionabili da parte della comunità internazionale. 

Stante la valenza comunque così innovativa dell’evento, si confidava che le COP (Conferenze delle Parti) che da Rio originarono potessero costituire lo strumento operativo efficace per dare concreta attuazione a politiche utili per risolvere i nodi indicati come prioritari dalle Convenzioni.

Così non fu: prese avvio un defatigante ripetersi di incontri, anno dopo anno, da cui risultava chiaro come il sistema di potere fossile promotore della globalizzazione deregolata non intendesse assumere come priorità la sfida della qualità ambientale dello sviluppo (cfr. COP27-Sharm-El-Sheick).

Gli allarmi scientifici già a Rio indicavano in 400 ppm C02 la soglia oltre la quale il Cambiamento Climatico sarebbe divenuto irreversibile, limite oggi raggiunto e superato con la allora già prevista catena di eventi estremi con cui siamo costretti a convivere, più gravi per chi ne ha la minore colpa, persone e comunità che vivono nelle aree di povertà e crescente disuguaglianza, grave ingiustizia climatica che genera la sofferenza di centinaia di milioni di migranti climatici.

Oggi siamo a oltre 418 ppm CO2 e la scienza, tramite UN-IPCC, ci dice che a 450 ppm CO2 diverrà reale il ‘rischio di estinzione della specie umana’. 

L’unico passo avanti rispetto al tradimento delle speranze di Rio’92 ebbe luogo nel 2015 grazie al dono che Papa Francesco ha fatto a tutti noi con la ‘Laudato Sì’ e, a seguire, con l’Accordo di Parigi a chiusura di COP 21, che dopo la frustrante esperienza di insuccesso dei ‘Protocolli di Kyoto’ portò più di 180 Paesi a siglare finalmente impegni e cronoprogrammi con carattere di cogenza. 

Grazie all’Enciclica ed al susseguente Accordo di Parigi fu adottata la ‘Agenda 2030’ delle Nazioni Unite, cassetta degli strumenti per conseguire entro il 2030 gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. 

L’Europa, che pesa per il 9% come generatrice di gas climalteranti, è l’unica area che negli ultimi anni ha visto stabilizzare e parzialmente diminuire le proprie emissioni: grande era l’attesa per le ulteriori ricadute positive degli impegni indicati dal Green Deal dell’UE, prima che crisi pandemica e bellica ne impedissero di fatto l’avanzamento verso l’auspicato scenario ‘emissioni nette zero’.

Analogamente, a causa delle citate crisi sistemiche, il percorso si è fatto più difficile per numerose imprese e istituzioni finanziarie che stavano avviando concrete e importanti azioni nel senso della ‘decarbonizzazione’ di processi produttivi e prodotti in logica di Economia Circolare nonché del disinvestimento, proprio degli attori della Finanza Etica, nel settore fonti fossili di energia (e armi).

Va letta negativamente al riguardo anche la proposta di ‘Tassonomia verde’ che avrebbe dovuto orientare in senso sostenibile la finanza, presentata al Parlamento Europeo già prima della guerra in Ucraina, in cui oggi, purtroppo, l’UE, contro il parere dei gruppi tecnici incaricati di elaborarne il testo, propone di includere opzioni quali energia nucleare e gas. 

Perché tutto questo?

Come ai tempi di Rio’92, più della metà del PIL mondiale è generato dal controllo delle fonti fossili di energia e consente ai detentori (63 famiglie o persone fisiche, secondo Oxfam) di condizionare non solo assetti geostrategici, ma anche modelli culturali, politica, governo dell’informazione, ciò che porta molti intellettuali, anche nelle Università USA, a definire la società attuale ‘neofeudale’.

Quei poteri hanno reagito alla domanda di cambiamento prezzolando ‘negazionisti’, investendo in ‘greenwashing’ per frenare la Transizione e conseguire ‘inactivism’ (inazione delle istituzioni) utile a procrastinare il modello ‘business as usual’, che ora si vorrebbe esteso alla privatizzazione dell’accesso alle risorse idriche, come già fatto in tema di suolo praticando ‘land grabbing’.

Uscire dall’intrico labirintico descritto richiede di ampliare studio ed analisi riguardo alla percezione che della Transizione, soprattutto della Transizione alla Ecologia Integrale postulata da Papa Francesco, ha la società umana.  

Sappiamo da tempo come le persone tendano a pensare e ad occuparsi principalmente di ciò che è loro vicino nel tempo e nello spazio, in contrasto con la dimensione spaziale tendenzialmente planetaria dei problemi ambientali, mentre, dal punto di vista temporale, l'ambiente planetario è regolato da un orologio ecologico e da ritmi altri rispetto ai nostri. 

In ottica religiosa, a lungo la questione veniva letta come semplicistica contrapposizione tra San Francesco, ispiratore di un rapporto paritetico tra uomo e natura, e San Tommaso, cui si attribuiva una visione piramidale con alla sommità l'uomo dominante il mondo che lo circonda, ciò che dà un'idea del radicamento di una sorta di nozione di "onnipotenza" umana.

Se quindi analizziamo l’abitudine "ancestrale" ad occuparci soltanto di ciò che ci è vicino (nel tempo e nello spazio), sinergica con prevalenti visioni di dominio dell'uomo sulla natura, capiamo quanti e quali retaggi si debbano superare e quanti nodi sciogliere per cambiare anzitutto approccio rispetto allo sfruttamento dell'ambiente e all’idea che ne fossero inesauribili in qualità e quantità le risorse, causa degli incombenti problemi di sopravvivenza in quanto specie, prima richiamati. 

Conviene rammentare come frutto avvelenato associato alla negazione della nozione di ‘Limite’ sia stato narrare in logica di ‘ottimismo tecnologico’ di come solo puntuale sarebbe stato l’impatto di fumi di combustione dispersi in aria, lo scarico di liquami in qualunque corpo idrico, l’interramento spesso incontrollato di rifiuti domestici, industriali, agrozootecnici, anche tossici, cattive pratiche che avrebbero portato all’annullarsi’ di tali emissioni per diluizione, occultando la nozione di ‘bioaccumulo nelle catene trofiche’ degli inquinanti immessi nelle matrici ambientali.

Travagliato è perciò stato ed è il ricorrere all’approccio sistemico come unica modalità per leggere lo schema ciclico delle relazioni che legano risorse ambientali, attività antropiche, produttive e di vita e per governare la fitta rete di flussi di materia, energia e informazione che sottendono attività ed insediamenti antropici, modalità base per la elaborazione dei bilanci ambientali, energetici ed economico-finanziari in base ai quali calcolare efficienza e rendimento dei diversi modi d’uso delle risorse (finite, cicliche, rinnovabili) e decidere le strategie sostenibili di sviluppo: analisi statistica, input/output, di processo ed ogni modalità offerta dall’innovazione aiutano a governare connessioni tra i flussi di risorse che sottendono l’agire antropico non ‘frammento’, ma ‘insieme unitario’.          

A metà anni ’70 approfondivamo, nella Redazione del “Sapere” di Giulio Maccacaro, la critica rigorosa della presunta ‘neutralità della scienza’, sapendo che causa tra le prime delle difficoltà menzionate fosse la subalternità che caratterizza la ricerca/fattore di produzione nel suo rapporto con i detentori dei mezzi di produzione, che condizionano lo sviluppo del lavoro scientifico in funzione della massimizzazione del loro profitto, non certo del soddisfare i bisogni primari dei più. 

Al riguardo, nel 1980 scrivevo:

 

A tale finalizzazione ha corrisposto un modo di organizzare il lavoro scientifico tale da generare una frammentazione specifica e settoriale dell'apparato conoscitivo e dei suoi prodotti inadeguata a comprendere i problemi dell'oggi e, soprattutto, a trasformare la realtà. 

Superare questa impasse è impresa di grande difficoltà; lo hanno sperimentato tutti quei ricercatori che da diversi anni hanno messo in discussione l'egemonia culturale delle forze dominanti e si sono posti l'obiettivo di dare un contributo specifico alle grandi lotte di rinnovamento condotte dal movimento dei lavoratori. 

Oltre a ciò non vanno perse di vista le intrinseche difficoltà connesse all'accumulazione «storica» delle esperienze umane, che dilata costantemente l'area delle conoscenze, ed al nuovo parametro che caratterizza il mondo moderno: la sua estrema complessità. 

Ci si scontra sempre più spesso con la complessità delle realtà investigate, con l'accumularsi di una massa di singole conoscenze, dati e teorie relativi ai sistemi che costituiscono oggetto di investigazione talmente grande da sfuggire ad una concreta e sintetica gestione di tanto sapere parcellizzato. 

La specializzazione e la riduzione del sistema esaminato in più subsistemi da analizzarsi separatamente costituiscono un rimedio scarsamente efficace, poiché ad ogni scorporo corrisponde un sempre maggiore divario tra la realtà oggettivamente integrata ed il modello costituito dai sottosistemi isolati. 

La complessità finisce così per diventare una seconda natura dell'umano; nuovi problemi si presentano all'orizzonte ed è indispensabile che la loro analisi venga effettuata con approcci metodologici completamente nuovi, poiché la riproposizione di vecchi metodi alla nuova dimensione solo casualmente può determinare situazioni effettivamente risolutive. 

Credo che un tale processo debba partire da una valutazione critica e da un tentativo di ricomprendere unitariamente i risultati e le conoscenze acquisite dalle singole discipline, facendo anzitutto giustizia delle palesi dimostrazioni di quanto poco neutrale sia stato un certo sapere scientifico. 

Mi riferisco, ad esempio, ad un certo modo di intendere l'analisi costi/benefici, per la quale il degrado ambientale derivante dallo scarico incontrollato di residui industriali non rappresenta un parametro di cui tener conto a livello economico e della organizzazione della produzione e della società. 

Ricordiamo allora a taluni economisti che si tratta, in questo caso, di un vero e proprio costo di produzione non pagato. 

Ancora, i risparmi rappresentati dai costi ambientali non pagati avvantaggiano chi detiene la proprietà dei mezzi di produzione, mentre i costi, sotto forma di ambiente degradato con tutti gli effetti dannosi conseguenti, gravano sull'intera comunità. 

Va altresì rilevato come anche i più onesti ed approfonditi tentativi di dare risposte ai problemi prima sollevati muovendo dall'interno delle singole discipline non hanno dato risultati esaltanti. 

L'integrazione del parametro ambientale nel calcolo economico, ad esempio, non è mai stata realizzata in modo soddisfacente, principalmente a causa della difficoltà di valutare in termini economici l'impatto delle attività produttive e delle decisioni politico-amministrative sulla natura, ci si richiamasse alla valutazione dei costi di compensazione o alle spese associate, alla volontà di pagare come alla trasformazione in termini monetari della kilocaloria. 

Quanti si sono sin qui cimentati con questo problema avvertono che, da un lato, è difficilissimo tener conto di tutti gli effetti di una scelta di sviluppo sull'ambiente e non solo di quelli immediatamente percettibili, mentre, dall'altro, si incontrano difficoltà pressoché insormontabili quando si cerca di passare da una grandezza fisica ad una monetaria. 

Ci si chiede da più parti se si debba ancora continuare a subire le leggi del mercato o se sia possibile evitare di procedere a valutazioni in termini monetari”.

 (Ganapini W., 1980)

 

Tentativi prodromici alle pratiche oggi sperimentate e disponibili sono stati via via quelli «analisi multicriteri», «pianificazione ecologica», «Echistica», «analisi pluridisciplinare», ”analisi funzionale economico-ecologica”, tentativi tutti ispirati ad un approccio multidisciplinare e che spesso riprendevano la teoria marxiana del valore lavoro, che presenta analogie profonde con quella del valore energia, del Marx per cui il lavoro umano incorporato nelle merci conferiva loro un valore di scambio. 

Misurare il valore di un oggetto significa tentare di quantificare la quantità di lavoro umano, diretto o indiretto, incorporato nell'oggetto nel corso della sua produzione (così come l'analisi eco-energetica quantifica l'energia che viene incorporata): si deve allora trovare una misura comune (tempo di lavoro) tenendo conto delle differenti qualità dei tipi di lavoro in gioco - questione analoga a quella che si riscontra quando si cercano di evidenziare i diversi livelli qualitativi dell'energia ed i conseguenti «usi coerenti», fino al recupero e utilizzazione dei cascami energetici a bassa entalpia. 

La seconda difficoltà è rappresentata dal fatto che il calcolo del valore-lavoro presuppone che la merce o l'oggetto studiati siano producibili o, meglio, riproducibili a volontà, quando risorse naturali indispensabili alla produzione dell'oggetto non sono affatto riproducibili, come nel caso delle fonti fossili di energia. 

Gli economisti, allora, alle risorse naturali non attribuivano valore in sé; le «condizioni esistenti della natura» necessarie per la produzione di beni divenivano «valore» solo attraverso il lavoro umano incorporato, valore-lavoro centrato sullo sfruttamento del lavoro umano, tralasciando lo sfruttamento della natura. 

Si arrivò così a proporre l’approccio “Ecosviluppo e tecnologie appropriate”, lanciato durante la conferenza di Stoccolma delle Nazioni Unite sull'ambiente umano, modello di pianificazione inteso come strategia di sviluppo rurale per il Terzo Mondo, fondato su di un uso razionale delle risorse locali e del patrimonio conoscitivo delle popolazioni. 

Questa interpretazione restrittiva lasciò il posto all’accezione di sviluppo socioeconomico endogeno, basato sulle forze vive ed organizzate della società, coscienti della dimensione ecologica e desiderose di trovare un corretto equilibrio-simbiosi tra uomo e natura. 

 

Credo che l’excursus, pur incompleto, renda chiaro come difficile sia stato per l'ambientalismo scientifico farsi vertenza sociale e motore di trasformazione, essere “anticorpo/denuncia” ed “enzima/progetto” abbandonando approcci illuministici e scientisti per arrivare a contaminare le discipline con cui ci si confrontava, dalle scienze sociali (antropologia, antropologia culturale, psicologia sociale, sociologia) alle economiche, dalle territoriali alle tecnologiche, al fine di risalire ai determinanti che condizionano i processi decisionali applicando approcci di tipo sistemico al disegno di modelli di sviluppo non dissipativi, nutrendosi di ‘Best Needed Information’ circa il fenomeno studiato in relazione alla scala d’interesse, da locale a globale.

Abbiamo sempre condiviso l'esigenza di rifondare i sistemi di conoscenza che fece dire a Fromm: «Abbiamo bisogno di una scienza nuova completamente diversa; una scienza umanistica dell'uomo, che costituisca il fondamento delle scienze applicate e dell'arte della ricostruzione sociale». 

Ci sovviene spesso, nei tempi correnti, de ‘la bellezza ci salverà’, confidando che i linguaggi artistici si facciano carico di risvegliare nei cuori e nelle menti, con la loro potenza evocativa e simbolica, il desiderio di una vita piena di senso, di una economia al servizio della vita, di istituzioni forti che combattano disuguaglianze ed ingiustizie e tutelino interesse generale e beni comuni, di una ‘Bella Vita’.

Confidiamo altresì che etica ed estetica, nutrite di radicalità, sottraggano brodo di coltura a patologici stati di ‘trascuratezza’ culturale e comportamentale che importanti intellettuali considerano effetto/concausa del declino cognitivo scientificamente riscontrato negli ultimi decenni.

Per quanto travagliato sia il cammino che vorremmo ci portasse alla creazione della ‘carovana del cambiamento’, rete/interconnessione di comunità, persone, imprese protagoniste di progetti ed esperienze di nuovi stili sostenibili di produzione, consumo, vita che riportino al centro persona, relazioni umane, interesse generale, tutela dei beni comuni al posto del massimo profitto per pochi, credo dobbiamo resistere e proseguire a generare ed interconnettere ‘oasi di cambiamento’. 

Mi ha sempre preoccupato l’impossibilità di trasmettere, di generazione in generazione, la conoscenza   degli errori commessi, per consentire ai giovani la libertà di commetterne di nuovi, rimembrando l’“Odile” di Quéneau e le avanguardie parigine del primo Novecento da lui descritte.   Cresce in me la convinzione che serva una nuova stagione di ambientalismo scientifico improntato ad una radicalità forte e ad altrettanto forti competenza e progettualità, perché la sfida di oggi è “come governare sistemi complessi e ad elevato rischio di crisi ambientale in regime di incertezza e di scarsità di tempo”, visto il carattere di irreversibilità assunto da crisi globali cruciali.             Transizione ad uno sviluppo sostenibile è l’unica possibilità per curare interesse generale e beni comuni nella Terra, unica nostra casa comune. 



Bibliografia  

 

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