Riflessioni Sistemiche n° 27


Decostruendo miti e pregiudizi del nostro tempo

Disvelare le epistemologie nascoste
per dar vita a un piano d’azione


di Alberto Quagliata (1) e Lavinia Bianchi (2)

1 Studioso del pensiero sistemico e della comunicazione in Rete

2 Ricercatrice TD in Pedagogia generale e sociale

Foto di Thomas Skirde da Pixabay 

Sommario
Il contributo approfondisce alcune categorie interpretative emerse dalla ricerca che ha inteso indagare “Le epistemologie nascoste” che alimentano la costruzione del sog­getto vulnerabile nell’immaginario educativo italiano. Tra gli obiettivi-meta della ricerca, vi è quello di individuare uno sfondo integratore che dia conto delle radici culturali dalle quali proviene l’attuale clima normativo-culturale-educativo relativo alle pratiche di inclusione in Italia (Canevaro, 2006, Ferri, 2018) e, ancora, quello di disvelare epistemologie im­plicite e prassi che legittimano esclusione, patologizzazione e subalternità (hooks, 1990, 1998, 2020; Spivak, 1998).

Partendo dalla teoria elaborata, verranno condivise riflessioni sulla necessità di un cambiamento paradigmatico delle consolidate pratiche educative e didattiche, di natura prevalentemente trasmissiva, per orientare l'agire pedagogico in direzione sistemica e complessa, restituendo centralità alla relazione.


Parole chiave
Epistemologia, Complessità, Relazione, Pedagogia impegnata.


Summary
This paper delves into some of the interpretive categories that emerged from the research that aimed to investigate "The hidden epistemologies" that fuel the construction of the vulnerable soggetto in the Italian educational imaginary. Among the objectives-meta, that of identifying an integrating background that gives an account of the cultural roots from which the current normative-cultural-educational climate relating to inclusion practices in Italy originates (Canevaro, 2006, Ferri, 2018) and, again, that of unveiling implicite epistemologies and practices that legitimize exclusion, pathologization and subalternity (hooks, 1990, 1998, 2020; Spivak, 1998).

Building on the theory elaborated, reflections will be shared on the need for a paradigmatic shift in established educational and teaching practices of a transmissive nature, orienting pedagogical practice in a systemic and complex direction, restoring centrality to relationship.


Keywords
Epistemology, Complexity, Relationship, Engaged pedagogy.

 

 

1.        Premessa: ricercare, formare e formarsi nella e alla complessità

 

Assumere la complessità come epistemologia di riferimento per una ricerca che indaga i temi dell’educazione e della rappresentazione dei soggetti vulnerabili significa scegliere un posizionamento engaged, impegnato (hooks, 2020).

La complessità, via maestra, è decostruzione di logiche semplificanti e riduttive e dà vita a una progettazione di ricerca intesa, appunto, come impegno alimentato dall’etica (Charmaz, 2014; Bianchi, 2019).

Morin ci aiuta a capire che rivolgere lo sguardo a pratiche metodologiche tradizionalmente basate sulla applicazione indiscriminata delle regole dell’evidenza, dell’analisi, della sintesi, e dell’enumerazione presuppone un “pensiero semplificante” e una “intelligenza cieca” che «distrugge sul nascere le possibilità di comprensione e di riflessione, eliminando anche tutte le possibilità di giudizio corretto o di una visione a lungo termine» (Morin, 1989, pag. 31). 

Per rendere internamente coerenti e dialogici l’impianto di ricerca, il contesto di ricerca e gli obiettivi, si è allora proceduto in maniera complessa, sistemica e grounded, consapevoli che:

 

«[...] la complessità abbandona l’illusione di una possibile generalizzazione, e considera ogni teoria una ‘teoria locale’ capace di rendere conto della molteplicità dei punti di vista e delle tante possibili definizioni del medesimo oggetto. In questa ottica ogni ipotesi è definita dal modello di riferimento scelto, dalla griglia di codifica e decodifica utilizzata e dal contesto storico e sociale in cui gli eventi vengono letti. Ciascun punto di vista è considerato parziale, solo una parte della verità. Si teorizza la complementarità delle descrizioni e la composizione delle conoscenze come possibile metodo per “avvicinarsi” alla complessità del reale. C’è più di un unico universo da conoscere: si introducono infatti i concetti di ‘multiverso’ e ‘pluriverso’, di polifonia di descrizioni, e ci si distacca da versioni semplificate e univoche degli eventi» (Telfener & Casadio, 2003, pag. 49).

 

L’impianto della ricerca, con una cornice epistemologica e metodologica complesse, si colloca in prospettiva intersezionale nei temi-problemi cari alla Pedagogia interculturale, alla Pedagogia Speciale, alla Storia della Pedagogia, alla Letteratura per l’infanzia e persegue l’obiettivo di disvelare le epistemologie implicite che informano l’attuale clima normativo-culturale-educativo relativo alle pratiche di inclusione nella scuola italiana.

A quasi trent’anni dalla pubblicazione del libro “La pelle giusta” (Tabet, 1997), ricerca che ha messo in evidenza quanto il razzismo sia “un motore spento” pronto a riattivarsi in molteplici declinazioni trasformative, la scuola italiana appare non ancora pienamente consapevole del portato sommerso di una cultura coloniale e patriarcale. Un fenomeno, questo, che si trascina nel tempo, non ancora risolto seppur edulcorato e mitigato dall’uso di un linguaggio politicamente corretto che tuttavia, di fatto, determina ricadute sostanziali non lontane da quella che è stata definita “inclusione subordinata” (Cotesta, 1999).

 

 

La legislazione italiana in materia di accoglienza e integrazione si è resa maggiormente

“inclusiva” nel corso del tempo, adoperando cambiamenti nella gestione delle differenze culturali e tentando di ridurre quella macro-esclusione ghettizzante che a livello legislativo e sociale appariva esplicita (basti pensare al lungo percorso dei diritti di cittadinanza). Tuttavia, considerando la micro-esclusione, il percorso è maggiormente insidioso, meno evidente e, per questo, potenzialmente più pericoloso: «si tratta infatti di forme di esclusione più sottili che rivelano un’appartenenza incompleta alla classe» (D’Alessio, 2012 in Ferri 2018, pag. 17), quindi di quelle continue esclusioni che si perpetuano con narrazioni, parole, scelte didattiche, costruzione del setting

L’atteggiamento in risposta a varie forme di alterità viene formalmente normato in direzione inclusiva, ma stenta a evolvere in un nuovo e consapevole paradigma educativo: gli alunni con background migratorio e gli alunni con disabilità non sono più inseriti in classi differenziali, ma sono ancora vittime di una narrazione dubbia, intrisa di nozioni come “stranieri”, “disabili”, “recupero”, “problema” e “integrazione”, che perpetua un’idea di educazione assistenziale piuttosto che di educazione come pratica di libertà.

Le riflessioni sul termine/concetto “inclusione” non sono lontane da quelle relative alle considerazioni critiche sulla nozione di “integrazione” dei migranti: si tratta di locuzioni problematizzanti, termini liquidi che meritano attenzione da parte di insegnanti ed educatori. Una vasta letteratura di settore ha fatto emergere come molteplici dogmi sull’alterità culturale siano stati normalizzati e interiorizzati nella società – benché sul piano legislativo, ad esempio, la segregazione scolastica sia da tempo superata – dimostrando come la disparità di risultati scolastici sia esito di una discriminazione a livello di opportunità fornite, piuttosto che di una reale fragilità intrinseca ai soggetti (Darling-Hammond, 2015); ancora, ha dimostrato come le nozioni di intelligenza e virtù siano riferibili a soggetti bianchi (Broderick e Leonardo, 2016) e normotipici (Quagliata et alii, 2021, pag. 383). Nell’analisi e nella elaborazione delle categorie concettuali di questa ricerca, le insidie implicate nel rapporto con l’alterità emergono proprio dalle parole della quotidianità scolastica. I termini in-vivo rivelano, seppur in forma non esplicita e il più delle volte celata e inconsapevole, la propensione a reiterare forme culturali coloniali, visioni etnocentriche e legate all’abilismo. Il linguaggio delle professionalità a valenza pedagogica è – come del resto ogni linguaggio, sia esso istituzionale, professionale o mediatico – intriso di simboli e valori, mai neutrale, e capace, anzi, di influenzare i percorsi formativi. La prospettiva assunta in questo lavoro ripropone il concetto di ricerca come pratica di libertà, di apertura all’imprevisto e allo spaesamento come azioni di cambiamento e superamento delle più pervasive e invisibilizzate forme di esclusione: la lente interpretativa della complessità e dei Dis/ability Critical Race Studies (DisCrit) offre la possibilità di emanciparsi da una corrispondenza aprioristica della realtà al sistema di appartenenza, ponendosi come luminosità improvvisa che aiuta a immaginare nuovi ordini del reale.


 

2.        La ricerca 

In questo paragrafo – nel quale descriviamo in maniera sintetica le Core Categories e la teoria grounded elaborata – condividiamo alcuni costrutti densi e preganti e proponiamo ipotesi interpretative capaci di supportare un cambiamento dei consolidati paradigmi educativi “falsamente” inclusivi agiti nella didattica tradizionale di tipo trasmissivo.

L’approccio qualitativo che caratterizza l'impianto metodologico di questa ricerca è proposto come una scelta opportuna per lo studio di fenomeni complessi e di rilevanza etica: l’essere ‘spostati e posizionati’ in un universo creaturale suggerisce di scegliere una epistemologia e una metodologia che risultino coerenti tra loro e con il contesto multiproblematico preso in esame. Il disegno di ricerca vuole infatti proporsi come indisciplinare (Morin, 1993) e intersezionale: la cornice teorica per lo studio della marginalizzazione e dell’inclusione subordinata nelle scuole è mutuato dal modello intersezionale dei DisCrit (Connor & al. 2016).

In coerenza con il contesto della ricerca e con l’epistemologia di riferimento indicata, la metodologia Grounded Theory a indirizzo costruttivista (CGT) è stata pensata come scelta migliore; avendo come obiettivo metodologico di base la co-costruzione di significati, la CGT è particolarmente indicata per esplorare ambienti in continua trasformazione e multiproblematici (Bianchi, 2020).

Fare ricerca al tempo del Covid-19, su un tema non direttamente impegnato a rilevare le conseguenze della pandemia, appare come una azione sfidante e, probabilmente, ci costringe a ripensare i nostri confortevoli modelli di riferimento.

La riprogettazione online di un impianto di ricerca immaginato in modalità blended ha consentito ai componenti del gruppo di ricerca di non interrompere le attività programmate e di valorizzare le numerose possibilità di lavoro cooperativo offerte dalla Rete: la collaborazione online, che richiede e consente una riflessione costante e condivisa tra i singoli componenti del gruppo di ricerca, rappresenta un punto di forza dell’intero impianto metodologico, in modo particolare nel periodo storico caratterizzato dall’emergenza sanitaria.

Le caratteristiche formali del percorso di elaborazione di una teoria grounded non richiedono che il processo di indagine parta dalla formulazione di un’ipotesi sperimentale o da una domanda di ricerca focalizzata; la ricerca prende avvio dalla individuazione di alcuni concetti sensibilizzanti (Blumer, 1969) e procede per passaggi tra loro interconnessi e ricorsivamente implicati: il primo passaggio (che nasce con l’avvio del campionamento teorico) è relativo alla codifica aperta; il secondo passaggio prevede una analisi più in profondità ed è relativo alla codifica focalizzata; il terzo passaggio relativo alla codifica teorica predispone il contesto all’elaborazione dell’ultimo passaggio, quello di emersione delle categorie interpretative centrali (Core Categories).



Le Core Categories e la struttura che connette 

L’ultimo passaggio di una ricerca grounded a indirizzo costruttivista si caratterizza per originalità e sensibilità teorica; è il passaggio in cui si percepisce la genesi concettuale di un costrutto inedito, sfidante e concettualmente denso: inventare le core categories, ossia i nuclei teorici forti, è un processo supportato dalle indicazioni sulle quali concordano tutti gli autori della GT (Glaser, Strauss, Corbin, Charmaz) che suggeriscono l'utilizzo di forme evocative e pregnanti per descriverle, individuando nessi, connessioni e relazioni gerarchiche.

Vengono ora presentate, in forma narrativa e necessariamente sintetica, le tre Core Categories (CC) elaborate nella fase di codifica teorica.

 

 

Questa CC è descritta dalle proprietà esplicative che perseguono l’obiettivo di un radicale cambiamento di paradigma: l’inclusione non può essere prescritta con progetti specifici finalizzati alla realizzazione di un clima integrante, bensì deve essere considerata come presupposto di sfondo che sia capace di innervare le pratiche educative e didattiche. I temi/problemi che accompagnano questa trasformazione paradigmatica sono relativi sia alla riprogettazione del curriculum, sia a una profonda presa di coscienza e alla decostruzione dei curricula impliciti. Una nuova epistemologia che dia vita a nuovi curricula si caratterizza per l’attenzione a percorsi di pedagogia delle differenze (di genere, di identità e provenienza, di status) come pedagogia inattuale (Bertin, 1968; Lopez, 2018) antidogmatica, critica, di educazione alla pace e alla mondialità, di educazione ecologica in una prospettiva impegnata (engaged).

Viene proposto, ad esempio, di avvicinarsi all’approccio Philosophy for Children, eletto insieme agli albi illustrati e al cooperative learning come risorsa inclusiva: Philosophy for Children è un programma ideato a metà degli anni settanta dal filosofo americano Matthew Lipman; il progetto – sostenuto sin dagli anni ’90 dall’ UNESCO – trae ispirazione dalla Community of Inquiry deweyana e ha come scopo didattico-pedagogico quello di incrementare le capacità cognitive complesse, le abilità linguistico-espressive e le competenze sociali. «La matrice pedagogica del progetto si basa sul riconoscimento della valenza educativa della indagine filosofica, intesa come pratica di ricerca intorno ai campi dell’esperienza umana, nelle sue dimensioni estetiche, etiche, logiche. La pratica della ricerca filosofica consente di sviluppare le abilità di ragionare, di formare concetti, di indagare il significato dei concetti, delle esperienze, dei problemi». Alla base della “Philosophy for Children” vi è il costrutto di comunità di ricerca: la ricerca filosofica si sviluppa nel confronto con gli altri, attraverso il dialogo critico-argomentativo che consente di costruire insieme percorsi di indagine sulle dimensioni filosofiche dell’esperienza.

 

 

In questa CC vengono approfonditi i temi tra loro interagenti di abilismo, sessismo, razzializzazione, classismo e riproduzione del potere.

In particolare, la riduzione in stato di indigenza, la patologizzazione delle diversità e, ancora, la razzializzazione appaiono strettamente collegate e tali da auto-rinforzarsi.

Quello che potrebbe essere il principale nucleo da decostruire è relativo al principio di “neutralità”, al quale vengono associate sia la bianchezza, sia la normalità, intesa come la condizione di “essere normodotati”.

L’intersezione tra abilismo, sessismo, razzializzazione e classismo contribuisce a generare una situazione di schismogenesi (Bateson, 1972) in grado di enfatizzare un processo disfunzionale che tende ad auto-alimentarsi e intensificarsi, cristallizzandosi in circoli viziosi che impediscono, di fatto, di disvelare sia le singole parti disfunzionali del dispositivo di riproduzione violenta, sia la loro invisibilizzata azione retroattiva e ricorsiva.

In proposito, ad esempio, hooks sostiene che potrebbe essere utile iniziare chiaramente a parlare in classe di bianchezza (hooks, 1990, pag. 54, trad. nostra):

 

«Un cambio di direzione davvero innovativo sarebbe la produzione di un discorso sulla razza che interroghi la bianchezza. Sarebbe molto interessante che tutte le persone bianche che danno la loro opinione sulla nerezza sapessero cosa può essere detto sulla bianchezza. Moltissime studentesse e studenti – anche se ci sono alcune incredibili eccezioni – considerano la razza come una questione dell’Altro che non è bianco; è nero, marrone, giallo, rosso, o persino viola. Infatti, solo una persistente, rigorosa e informata critica sulla bianchezza potrebbe davvero determinare quali forze di rifiuto, paura e competizione siano responsabili della creazione di un così profondo divario tra il professare di essere politicamente impegnati nell’estirpazione del razzismo e la partecipazione alla costruzione di discorsi che perpetuano il dominio razziale».

 

La Core Category Riconoscendo l’abilismo fa emergere, oltre agli effetti dell’invisibilizzazione dei sottesi impliciti, anche gli effetti dell’incomunicabilità tra problemi relativi alla bianchezza e all’abilismo. I Disability Studies hanno introdotto una critica e un correttivo per i modelli della disabilità di tipo clinico, o basati sul deficit, utilizzati in educazione; contestualmente, purtroppo, sono stati talmente privi di attenzione critica per quanto riguarda la questione razziale, che non potevano ricevere una denominazione diversa da White Disability Studies. Una fiorente letteratura, partita dagli Stati Uniti negli ultimi decenni, ha iniziato a documentare come le rappresentazioni della razza e della disabilità basate sul concetto di deficit si intersechino tra loro, facendo sì che gli allievi di colore siano collocati molto più degli altri nelle classi di educazione speciale e sottoposti ad aspre sanzioni disciplinari. Queste ricerche costituiscono un solido fondamento per dimostrare come il concetto di razza influisca sul fatto che una persona sia collocata fra i disabili o fra gli abili, sia percepita come a rischio o promettente, sia considerata dalla prospettiva del deficit o da una posizione più ottimistica. Quando si riflette dunque sulle intersezioni fra teoria critica della razza e Disability Studies nel contesto educativo, diventa chiaro che il razzismo e l’abilismo non sono scollegati fra loro, ma collusivi e interdipendenti.

La patologizzazione dialoga in modo ricorsivo con altre proprietà di questa categoria e di altre categorie e fa emergere il tema che hooks (2020) definisce tokenism. Il tokenism, che rimanda alla “teoria della massa critica”, riprendendo il concetto di simbolo, definisce il fenomeno attraverso il quale gruppi di maggioranza reclutano, all’interno di un determinato contesto, persone appartenenti a gruppi di minoranze (etniche o di genere) per lanciare un messaggio di inclusività, che molto spesso si rivela essere falso.

Si verifica spesso una compensazione fittizia, eclatante e, in buona misura, edulcorata e sovraesposta, che si evidenzia, ad esempio, quando in un gruppo viene riconosciuto un sottogruppo sottorappresentato che potrebbe avere effetti negativi sull’attività dell’intero gruppo: si agisce, allora, in modo “inclusivo a tutti i costi”, una sorta di crudele specchietto per le allodole.

Il tokenism è molto diffuso nelle serie TV e nei film, ma anche in altri contesti, come i salotti televisivi, la politica e il mondo aziendale, ed entra nelle scuole con straordinaria pervasività.

Esempi di tokenism sono le “quote rosa” in ambito politico e in ambito aziendale; il nominare o assumere una persona appartenente a un gruppo di minoranza, solo per prevenire eventuali critiche e dare l’impressione che le persone vengano trattate in modo equo; oppure, all’interno di una classe, enfatizzare le “origini” di una compagna/o con background migratorio (scivolando pericolosamente nell’assetto che preclude alla “pedagogia del cous-cous”) e spiegare che la compagna/o con disabilità “è speciale, unica/o” (e noi per questo ci prendiamo cura di lei/lui), oppure, ancor peggio, “è come noi” (e lo dimostriamo nella recita di Natale ...).

Le più marcate caratteristiche dei token (la persona-simbolo, la “prescelta” per entrare a far parte del gruppo egemonico) all’interno delle narrazioni sono: visibilità, polarizzazione, sensazionalismo e assimilazione. I token sono ben riconoscibili, in quanto inferiori all’interno del gruppo; sono invasi dal concetto dell’esagerazione, avendo caratteristiche somatiche diverse, rendendo così il gruppo dominante sempre più coeso e più consapevole delle differenze con gli stessi token; a volte, le caratteristiche dei token vengono distorte e assimilate all’interno del gruppo dominante, in modo da “portarle” ad assumere gli stessi valori del gruppo per creare una narrazione rassicurante e accogliente per gli spettatori.

Finora il “fenomeno token” è stato principalmente analizzato in riferimento alla presenza di donne e, in misura più contenuta, di persone con disabilità all’interno dei board aziendali, ma può essere esteso a tutte le categorie di diversità.

 

 

La CC Agendo una pedagogia engaged-impegnata dà conto dello sforzo continuo operato dagli insegnanti; la scelta di parole come “lottare”, “resistere”, “insistere”, che risuonano come termini militareschi o, comunque, reattivi, non può essere una scelta casuale: gli insegnanti sanno che è necessario agire una qualche forma di resistenza. È necessario resistere e contenere il dilagare di quella che Ongini (2019) definisce “fifa bianca” (il ceto medio ha una “fifa bianca”, preferisce non mandare i propri figli nelle scuole dove ci sono molti immigrati, sottraendoli così a una pericolosa “contaminazione”), espressione che rimanda a costrutti etnocentrici, razzializzanti e inferiorizzanti che alimentano immaginari sulla dequalificazione dell'offerta didattica in ambito multiculturale (Bianchi, 2019).

Resistere al Super-io ministeriale, attraverso un lavoro onesto, etico, capace di sfidare tradizionali modelli trasmissivi e riproduttivi, significa agire il coraggio di dar vita a progetti didattici veramente innovativi, di lavorare non solo sull’individualizzazione dell’offerta didattica, ma sulla personalizzazione dei percorsi con il giusto tempo, “il tempo che ci vuole”.

Per riprendere il quadro teorico già delineato, uno dei principi che caratterizzano i DisCrit esplicita che questa prospettiva di studio militante «promuove l’attivismo e varie forme di resistenza» (Ferri, 2018).

L’insegnante must embrace change, deve abbracciare il cambiamento. Consapevoli della ‘non neutralità’ di ogni pratica di insegnamento, e in accordo con hooks (1994), è necessario riflettere su metodi in grado di consentire un approccio critico all’abilismo, al razzismo e al sessismo; è necessario agire una prassi pedagogica impegnata, in grado di entusiasmare tanto gli alunni quanto gli insegnanti, una migrazione quotidiana oltre i tradizionali confini (lo status quo) metodologici e contenutistici.

Porre le basi per un insegnamento in grado di entusiasmare significa come prima cosa coinvolgere e, a tal fine, è opportuno considerare che è possibile richiedere la partecipazione di studentesse e studenti solo mettendosi in gioco in prima persona; hooks afferma, in particolare, che non chiederebbe mai a studentesse e studenti di fare qualcosa che lei stessa non farebbe. Per far sì che l’educazione e l’insegnamento diventino la pratica della libertà è quindi necessario agire una pedagogia impegnata (enganged pedagogy), terreno d’azione di tutti e per tutti. In questo contesto, la pedagogia deve ricercare e attuare pratiche in grado di promuovere lo sviluppo armonico ed equilibrato del benessere mentale, fisico e spirituale di ognuno: un approccio olistico e trasversale in grado di toccare sia la teoria che la pratica, sia il sapere dei libri che il saper vivere nel mondo (hooks, 1994, pag. 14).

Concludiamo il paragrafo con una descrizione sintetica della teoria grounded elaborata: L’inclusione si costruisce facendo.

Nella costruzione di questa teoria confluiscono e coesistono istanze poste su livelli logici diversi, come ad esempio quelli politico (militante), normativo, pedagogico, didattico: dall’intersezione di temi-problemi riferibili a istanze così tanto composite, emerge una teoria radicata che ci sollecita a una azione trasformativa immediata.

L’inclusione si costruisce facendo è la teoria emergente che vuole sostenere insegnanti e professionalità a valenza pedagogica impegnate nelle sfide educative contemporanee, considerando l’inclusione come uno sfondo integratore, come un presupposto, come una istanza sovraordinata e sempre presente, non come un obiettivo posto dal di fuori, “dall’alto”. Sostenere l’azione di insegnanti e addetti ai lavori significa, tra l’altro, proporre una formazione iniziale e in servizio che sia capace di decostruire impliciti culturali segreganti che agiscono come riproduzione invisibilizzata di potere.

Le competenze inclusive da sollecitare negli insegnanti, attraverso una formazione continua e ricorsivi momenti di scambio, dovrebbero essere caratterizzate da una sistematica decolonizzazione pedagogica, che permetta di agire l’educazione come pratica di libertà (hooks, 1998).

Il tema dell’inclusione riguarda tutte e tutti, non soltanto i cosiddetti alunni vulnerabili: il termine “vulnerabile” è già un intero cosmo educativo. Rimanda a una fragilità, a una crepa, spesso definisce una mancanza, e quindi attira un buon numero di investimenti istituzionali, definisce o contribuisce a definire una situazione che rende naturalmente indispensabili operazioni di assistenza, compensazione, correzione.

Ecco allora perché risulta tanto facile e immediato creare i presupposti affinché esista un vero e proprio sapere della vulnerabilità, ripartito in discipline specifiche (pedagogiche, sociali, psicologiche, mediche ecc.) e in azioni tra loro “slegate”, finalizzate, calate dall’alto …

In una realtà plurale e iperconnessa, ogni catalogazione e riduzione classificatoria, ogni necessaria organizzazione gerarchica degli obiettivi complessivi andrebbe ridefinita, relativizzata, personalizzata, alla luce di una prioritaria ed eticamente connotata prassi educativa della relazione. Scrive in proposito Glissant (1990, pag. 183):

 

«[…] Ma la Relazione non si confonde né con le culture di cui parliamo, né con l’economia dei loro rapporti interni, né con la proiezione dei loro rapporti esterni, e nemmeno con quegli imprevisti che nascono dall’intreccio di tutti i rapporti interni con tutti i rapporti esterni possibili. E ancor meno con l’accidente straordinario che sopraggiungerebbe al di fuori di ogni rapporto, noto o ignoto, e di cui il caso sarebbe la calamita. La Relazione è tutto questo, contemporaneamente».

 

Dare centralità alla relazione e agire l’inclusione come sfondo integratore – in senso metaforico, di trama connettiva e narrativa e, ancora, in senso istituzionale (cfr. Zanelli, 1986) – significa impegnarsi a trasformare non solo i tradizionali saperi disciplinari, ma anche gli elementi didattici e metodologici, per valorizzare una “didattica per il decentramento dei punti di vista”, che ha l’obiettivo esplicito di far emergere la realtà pluriprospettica esistente.

Più il contesto-classe è complesso, più la comunicazione si presenta come una serie di esperienze di interfaccia (Sclavi, 2003), cioè di situazioni in cui gli stessi eventi, le stesse cose, assumono significati talmente diversi da risultare incompatibili tra loro, e incomprensibili. A maggiore complessità equivale, dunque, maggiore impegno degli attori, in una riflessività sistemica senza fine: riflessività che corrisponde alla necessità di costruire una profonda familiarità con un'epistemologia in cui hanno un ruolo centrale la vulnerabilità, la polifonia, la circolarità comunicativa, la comprensione dialogica, l'empatia, l'equilibrio tra coinvolgimento e distacco, l'ascolto attivo (Bianchi, 2019). Flessibilità e competenze nell'ascolto e nel decentramento, decostruzione degli impliciti e capacità di "fare insieme": un contesto complesso in cui mancano queste competenze può riprodurre, e spesso riproduce, quel potere oggettivante e paternalistico che relega l’inclusione a una serie di raccomandazioni educative e didattiche.

Dunque, l’inclusione non è – non può essere intesa – come un semplice metter dentro (Medeghini, D’Alessio & Vadalà, 2013) gli alunni che per le ragioni più disparate (condizione di disabilità, presenza di un disturbo specifico dell’apprendimento, esperienza migratoria, eccetera…) sono definiti vulnerabili.

L’inclusione agisce per impedire che si perpetui anche a scuola quel biopotere (Foucault, 1975; Mbembe, 2016) responsabile di controllo disciplinare sui corpi, quell’ortopedia pedagogica che assoggetta e disciplina, corregge, abilita o disabilita, riproduce segregazioni sempre nuove e all’apparenza meno violente.

Operando in un contesto marcatamente connotato da responsabilità e da esigenze etiche, diventa fondamentale valorizzare i margini di sovrapposizione tra l’educazione e gli altri ambiti di intervento, in un confronto costante con la psico-educazione, l’etnopsichiatria, la linguistica, la mediazione interculturale, l’arteterapia, l’antropologia, la giurisprudenza, la sociologia, le scienze politiche.

L’inclusione assume, in questa teoria emergente, il valore di “qualcosa che è già”, qualcosa che essendo può essere attualizzata; l’inclusione assume dunque i connotati di de-marginalizzazione, giustizia sociale, resistenza ed emancipazione, ed è epistemologicamente sostenuta dai paradigmi sistemici e interagenti della complessità (Bateson, 1972-1979, Morin, 1993), degli studi postcoloniali (Fanon, 1961; hooks, 1990; Sayad, 1999; Spivak, 1998) e dei DisCrit1 (Connor & al., 2016; Bocci, 2018; Ferri, 2018).

Dal posizionamento iniziale che ha dato vita alla ricerca, riprendiamo un concetto sensibilizzante che ha guidato tutto il processo di co-costruzione della teoria: se progettare un contesto educativo inclusivo – ossia in grado di essere abitato da tutti e da ciascuno – è la proposta operativa per scongiurare – o almeno limitare - il ricorso a “pseudo-soluzioni” (come, ad esempio, il ricorso a strumenti compensativi e misure dispensative), messe in atto, in buona misura, solo per “contenere” chi fatica a starci, diventa allora “naturale” la scelta di posizionarsi all’interno del paradigma dell’engaged pedagogy.

È attraverso l’impegno sul campo (impegno etico, pedagogico e propriamente politico) che il cambiamento può avvenire: è urgente decostruire il pensiero sessista, classista, imperialista-occidentale-egemonico. Per fare questo è necessario intersecare le varie forme di oppressione sociale che, come è ormai chiaro, non possono e non devono essere considerate singolarmente.

In quest’ottica «la marginalità assume l’energia di una strategia discorsiva oppositiva che sfida le costruzioni sociali gerarchiche e i codici culturali egemonici, decostruendo l’opposizione tra un “centro” monolitico e i suoi “margini” designati, e offrendo la possibilità politica di un equilibrio multisituato e di un’intersezione creativa delle marginalità stesse» (Bianchi, 2019, pag. 81).

La teoria grounded proposta non aspira a dare soluzioni, né a prescrivere formule magiche e procedure presuntuose; onestamente, aspira a sostenere il passaggio trasformativo in azione, aspira alla possibilità. Scrive in proposito Contini (2009, pp. 52-53):  «Aprire possibilità: questo è il compito fondamentale dell’educazione, nei confronti di tutti i soggetti e in particolare di quelli che la gettatezza ha reso svantaggiati: possibilità di conoscere e imparare a conoscere, di amare e di essere amati, di tendere alla realizzazione dei propri progetti, di accedere alla cittadinanza ricevendo conferme sociali, di esprimere, nel rispetto di quelli altrui, valori e orientamenti che, condivisi o meno, siano a loro volta rispettati. Questa è la direzione verso cui si incammina chi affronta il compito e assume la responsabilità di educare in termini di impegno etico, molteplicità di saperi e competenze critico-riflessive».

Imparare a disimparare, questo sembrano dirci le riflessioni emerse nella costruzione della teoria. Destrutturare, decostruire e riaggregare oltre i confini abituali alcuni assunti assorbiti nelle proprie pratiche educative e didattiche diventa un’operazione per la quale è necessaria una formazione alle competenze inclusive, una formazione che si ispiri alle teorie della complessità e ai posizionamenti critici delle teorie postcoloniali e della pedagogia delle differenze.

 


3.        L’inclusione come rivoluzione paradigmatica: l’azione pedagogica ecologica e complessa 

Una visione sistemica dell’educazione stenta a farsi strada nella prassi consolidata dei processi della formazione istituzionale, scolastica e universitaria. All’interno delle istituzioni formative ed educative continua a essere prevalente un approccio mentalistico e individualistico, mentre appaiono vani gli appelli all’importanza del contesto e alla sua influenza sull’apprendimento.

Scrive in proposito von Foerster (1987, pp. 119-120): «[…] non c’è da meravigliarsi che un sistema di istruzione il quale confonda il processo di creare nuovi processi con l’elargizione di un bene chiamato “sapere” o “conoscenza” possa causare qualche delusione negli ipotetici destinatari, in quanto, semplicemente, non viene loro trasmesso nessun bene: di beni non ce ne sono. Storicamente, credo, l’equivoco per il quale si attribuisce alla conoscenza una realtà sostanziale nasce con il volantino umoristico stampato a Norimberga nel XVI secolo. Esso mostra uno studente seduto; in testa ha un buco nel quale è inserito un imbuto. Accanto a lui è ritto in piedi il maestro, che versa nell’imbuto un secchio pieno di “conoscenza”, ossia di lettere dell’alfabeto, numeri e semplici equazioni. Mi sembra che l’imbuto di Norimberga abbia fatto per la pedagogia ciò che ha fatto la ruota per l’umanità: adesso possiamo scendere la china molto più in fretta. Esiste un rimedio? Certo che esiste!»

La teoria grounded elaborata potrebbe sostenere le numerose categorie professionali coinvolte– insegnanti, pedagogisti e decisori politici, almeno – ad avviare una profonda revisione dei curricula e una decisa azione di sistema capace di prospettare il cambiamento agendo l’etica.

Tale rivoluzione paradigmatica terrà in attenta considerazione i veleni ancora agenti nel nostro sistema di istruzione/educazione e, contestualmente, valorizzerà il Pharmacon che proprio in questa rinnovata consapevolezza emerge.

I veleni si manifestano, principalmente, nel modello tradizionale della trasmissione del sapere e nell’ “integrazione da protocollo”.

La tradizionale impostazione didattica di tipo trasmissivo e marcatamente settoriale-disciplinare, di fatto, riproduce un potere auto-legittimante, che ha ricadute segreganti (per la diversità, per le minoranze ecc…), e un immobilismo diffuso. Bateson ci aiuta a comprendere che in questo modello – responsabile dell’obsolescenza delle modalità di insegnamento e di interpretazione del mondo – non c’è spazio per una polifonia di significati e per l’attenzione all’etica (banalizzata in senso sentimentalistico). In questo modello agiscono ancora il dualismo cartesiano che separa la mente dalla materia; il fisicalismo che utilizziamo nelle metafore riguardanti i fenomeni mentali (potenza, energia, tensione, ad esempio); l’assunto antiestetico, derivato dalla centralità delle scienze fisiche, secondo cui tutti i fenomeni (compresi quelli mentali) devono essere pensati-studiati-valutati in termini oggettivo/quantitativi; l’utilizzo di metafore cosali e lineari proprie della fisica.

 L’integrazione da protocollo incarna – in maniera prevalentemente inconsapevole nei più, ma non per questo con conseguenze meno gravi – le più violente forme di colonizzazione: l’invisibilizzazione e la normalizzazione/naturalizzazione delle ingiustizie sociali.

Integrazione è una “non-parola”; sin dalle riflessioni di Sayad (2002) comprendiamo quanto sia un contenitore vuoto che, di fatto, non supera le dinamiche di segregazione-naturalizzazione e assimilazione: la scuola fa spazio ai neoarrivat* in Italia e ai ragazz* con disabilità ma non modifica la sua struttura complessiva. Un progetto formativo realmente inclusivo prevede una radicale riforma paradigmatica nei suoi contenuti, nella progettazione e nella didattica.

Il Pharmacon: come diventare consapevoli e far vivere un piano d’azione.

Partendo da una analisi avvertita delle metamorfosi socio-culturali e politiche della nostra contemporaneità, appare necessario proporre un nuovo paradigma interpretativo dei processi di apprendimento istituzionali: serve un approccio sistemico, complesso, integrato, multidisciplinare e interculturale.

Le caratteristiche di questo nuovo paradigma vedono la giustizia sociale e la pedagogia impegnata come riferimento radicale e imprescindibile; l’interculturalità diventa un costrutto superabile alla luce della complessità; una profonda assunzione di responsabilità del soggetto che apprende; l'importanza della costruzione progressiva, negoziata e continuamente rielaborata delle conoscenze, che non sono date a priori (non c’è trasmissione del sapere); la fruizione e costruzione condivisa di diversi ambienti che permettono di lavorare insieme su nuove interpretazioni e valutazioni e di inventare nuovi elementi di conoscenza.

È importante sul piano epistemologico abbracciare la complessità – via maestra – sia per decostruire le rappresentazioni segreganti e coloniali, sia per superare le tradizionali strutture teoriche ed empiriche del sapere.


Il contributo riprende e integra la ricerca presentata nel volume a cura di F. Bocci, L. Cantatore, C. Lepri, A. Quagliata, Le epistemologie nascoste. La costruzione del soggetto vulnerabile nell'immaginario educativo italiano, Roma: Roma TrEPress, 2022.

Il contributo è il risultato di un lavoro comune. Gli Autori hanno condiviso l’impianto dell’intero articolo e i Riferimenti bibliografici. Nello specifico, Alberto Quagliata ha scritto i paragrafi 1 e 3, Lavinia Bianchi ha scritto il paragrafo 2.



Riferimenti bibliografici