Riflessioni Sistemiche n° 28


Rifondare le pratiche umane navigando nella complessità

Un rito del digitale (per me)


di Sergio Bellucci

Giornalista e saggista

Sommario

Un dettaglio del mio rapporto con le tecnologie digitali si trasforma in un rito che indaga costantemente la natura del nuovo mondo che avanza, si sovrappone e tenta di controllare il mondo basato sugli atomi. L’umano come navicella che, navigando sulla sfera del digitale produce, più o meno consapevolmente, una relazione qualitativamente e quantitativamente altra con il pianeta. Il raggiungimento di un bordo degli eventi che rischia di non farci giungere più a toccare la terra delle relazioni umane.


Parole chiave

Rito, mito, digitale, analogico, Terraformattazione capitalistica, Surrealtà.


Summary

A detail of my relationship with digital technologies turns into a ritual that constantly investigates the nature of the new world that advances, overlaps and attempts to control the world based on atoms. The human as a spaceship that, navigating on the digital sphere produces, more or less consciously, another relationship on the planet. The achievement of a border of events that risks making us no longer touch the earth of human relationships.


Keywords

Rite, myth, digital, analog, capitalist terraformatting, Surreality.



“La macchina funziona. L’uomo vive”.

Franco Ferrarotti, 2023


L’occasione

L’occasione che mi viene offerta è, per me, ghiotta.

La cosa che voglio raccontare, infatti, ronza nella mia testa da diversi decenni e, per me, è diventata una sorta di gioco, un confronto, una domanda che mi consente di indagare la qualità della mia giornata in digitale. Potrebbe rappresentare, quindi, un piccolo rituale che accompagna la mia esperienza informatica. Ad ogni chiusura di giornata il simbolo di chiusura del mio computer mi indica una azione: “Arresta il sistema”. 

Con quella richiesta e con l’azione congiunta, siamo ben lontani da una dimensione che assume un valore mitologico. Il passaggio, però, assume un valore simbolico che sottostà all’esperienza stessa contenuta nell’atto richiesto. Quell’atto, però, mi ha sempre connesso ad un livello esperienziale che mi ha spinto lungo un confine che allude, in qualche modo, ad una relazione tra mito e rito. Il mito, infatti diverrebbe una dimensione astratta, vuota, basata solo sulla dimensione puramente linguistica se non fosse direttamente connessa sia ad una dimensione fisica sia ad una legata alla percezione dell’esperienza. 

L’aprirsi, in una qualche maniera, alla sua stessa dimensione fisica, all’ambiente naturale delle cose, infatti, è la dimensione dalla quale emerge la sua stessa “misura”, come ci ha ricordato Edgar Morin (Morin E., 1974). D'altronde, sulla natura stessa del mito, senza entrare in un vasto e antico territorio di riflessioni, mi sembra che sia sufficiente fermarsi all’acquisizione di Paul Ricoeur quando, nella sua opera Il conflitto delle interpretazioni (Ricoeur P, 2020), ci spiegò che di un oggetto di riflessione possono coesistere prospettive diverse che non debbano per forza ridursi a una né dissolvere l’oggetto dell’analisi ma, riconoscendosi come punti di vista diversi che comprendono dimensioni diverse dello stesso oggetto, contribuire alla costruzione di un quadro che potremmo definire complesso. Interpretazioni, quindi, non solo tutte lecite ma, in qualche maniera, addirittura necessarie a comprendere la complessità dell’oggetto d’analisi con il minor impatto riduzionistico possibile. Il mito, inoltre, sospinge verso la creazione di un’azione rituale che, in una qualche maniera, ne configura il senso, ed è proprio quella connessione profonda che dota il rito della sua stessa potenza e che ne fa assumere una dimensione ontologica e, alla fine, anche ontogenica. È un legame profondo che connette l’esperienza del rito ad un vissuto che rafforza la natura del mito generatore e, in questa funzione creatrice, diviene in qualche misura operaio di una storia del mondo (piccolo o grande che sia) dotando l’individuo rituale di una sorta di capacità di pre-conoscenza, di pre-cognizione, sull’accadimento prossimo futuro. Una capacità previsionale che conforta nell’espletare un atto con la certezza di un accadimento, una sicurezza necessaria a non smarrire la propria incerta condizione di vita, rafforzando i propri passi su di un sentiero, la propria percezione di sé nel mondo.

Ed è quel piccolo gesto che a volte chiude in me la certezza di una potenza in atto dei mei gesti e, talvolta, mi trasmette tutta l’impotenza di un singolo gesto individuale.

Tutto ciò, inoltre e come apparirà ovvio in seguito, solo quando uso il PC da tavolo e il sistema operativo più diffuso e presente sul mercato. Un altro importante e famoso sistema operativo, infatti, si è tenuto alla larga da una tale produzione di “connessione di senso” fin dal suo apparire sul mercato nazionale e i nuovi apparecchi mobile, con la loro connessione perenne e la loro logica di funzionamento continuo, hanno eliminato questa mia esperienza nel loro uso anche se, in ogni modo, rimane latente in me il ricordo di tale esperienza. Molto, naturalmente, è dipeso e dipende, anche dalle scelte dei nostri “traduttori” italiani di quel sistema operativo e, sicuramente, nessuno è consapevole del “senso” di quella frase nella sede della società di Redmond nello Stato di Washington degli Stati Uniti. Penso, infatti, che tutto dipenda, non solo dalle scelte di una serie di traduttori, ma soprattutto dalla meraviglia della semantica, dalla dimensione storica e sociale di quei “semi” che circolano di bocca ad orecchio in maniera incessante e che sono in grado di assumere forme e significati cangianti, allusivi, addirittura caleidoscopici in alcuni casi e che costituiscono, di fatto, il lievito dei “sensi” sociali che possiamo attribuire alle cose e al mondo che ci circonda, e alla percezione individuale, al peso soggettivo che ogni individuo dà ad ogni singola parola. 

Come ci ricorda Finelli, nel suo bel testo Filosofia e Tecnologia: 

“Va ben sottolineato quanto in questo processo cognitivo il valore logico, il valore di verità, dell'informazione dipenda, in ultima istanza, dal valore biologico della soggettività che interpreta il mondo, producendo e utilizzando universali linguistico-razionali, con lo scopo primario della sua riproduzione di vita in un ambiente storico-sociale-naturale determinato. Vale a dire che l'informazione rimanda sempre a una interpretazione, ossia alla problematica pratico-esistenziale da cui muovono i criteri di scelta e di costruzione dei suoi parametri universalizzanti, in alternativa a tutti gli altri che vengono esclusi. 

Ogni codice oggettivo e impersonale dipende dalla antropologia culturale della soggettività (di natura più collettiva che individuale) che lo costruisce, in una compenetrazione di significato pubblico e di senso soggettivo che sottrae ogni possibilità a ogni teoria del conoscere inteso come riflesso e percezione di un mondo presuntivamente esterno e oggettivo. A conferma di quanto la teoria kantiana della conoscenza come sintesi, ossia come azione delle funzioni trascendentali della soggettività, rimanga ferma nel suo essere chiave di volta di un'antropologia epistemologica moderna: azione di sintesi cioè di una datità che rimarrebbe in frammenti di molteplicità, e priva di senso alcuno, senza l'intervento di procedure a priori di unificazione” (Finelli R., 2022, pp. 22-23).

Per Finelli la percezione di senso che dà forma alla stessa intelligenza non può essere disgiunta dalla corporeità fisica umana e la dimensione di calcolo delle macchine non rappresenta, in nessun modo, una forma di intelligenza. La comprensione del mondo passa, quindi, per la complessità irripetibile della stessa struttura del corpo a cui la mente è connessa. Potente, nella specie umana, è senza dubbio la “creatività” e le prassi che determinano lo slittamento di senso nel linguaggio, che imboccano spesso direzioni impreviste e a volte imprevedibili, e che poggiano sulla caratteristica capacità umana di rompere un “equilibrio di senso” che era invalso fino ad un momento prima. Per usare una definizione di Paolo Virno la creatività è caratteristica della «forma di pensiero verbale che consente di variare la propria condotta in una situazione di emergenza» (Virno P., 2004, pag.12)

Ma non serve, qui, entrare nel confronto sulla dimensione, sociale o personale, delle parole. L’affermazione di Giuseppe Longo, a mio avviso, costruisce un quadro concettuale di riferimento sufficientemente stabile al momento:

“È sempre un organismo, come unità, che agisce e si muove, che attribuisce significato a un segnale in arrivo o a una perturbazione. I “cambiamenti correlati” indotti da un colpo - una parafrasi delle “variazioni correlate” di Darwin all'interno degli organismi e all'interno di un ambiente - sono resi possibili solo dall'unità dell'organismo e dalla sua storia in un ecosistema. La formazione del senso è dunque storica, a cominciare dalla storia filogenetica e poi da quella ontogenetica, compresa l'embriogenesi per gli organismi multicellulari” (Longo G., 2019, pag. 68).

Da anni, come ho detto, avrei voluto mettermi davanti ad una tastiera e scrivere un qualcosa su questo piccolo dettaglio del mondo digitale, su questo mio appiglio interrogativo, su quello slittamento di senso dis/velatore che mi poneva (e mi pone ancora oggi) il gesto che mi viene richiesto in diretta (e indiretta, appunto) connessione al suo senso. È il desiderio di narrare di questa relazione che si instaurò tra me e le macchine che usavo da quando quella esperienza mi balenò davanti, invadendo i miei sensi e la mia mente, interrogandomi sulla potenza del mezzo, sul mio gesto e sul mio grado, potenziale, di libertà, connesso alla sfera del mondo che si stava costruendo. 

Come dicevo, la domanda, appunto quasi quotidiana, mi ha sempre interrogato al termine delle giornate davanti allo schermo del PC. Questo dettaglio - insignificante all’apparenza e di cui non resta memoria nei miei pensieri appena pochi attimi dopo la fine del mio lavoro e dopo avermi attraversato totalmente - lo ha messo sempre in contrasto/relazione con la sottostante natura del digitale, con la radice di quel mondo matematizzato che si stava sovrapponendo a quello materiale e che ormai ci avvolge come una seconda (?) realtà. La sua ritmica apparizione davanti alla mia mente, progressivamente, ha sviluppato una sorta di rito finale del mio rapporto con la sfera del digitale, un “ordine delle cose” che, da prassi non voluta, si è ormai trasformata in una sorta di cerimoniale, di un congedo che interroga la forma della nostra “relazione”, una piccola liturgia laica che provo a sfruttare per sentirmi (ancora?) un “umano atomico”.


La Surrealtà come nuovo habitat

Proprio nelle pagine di questa rivista, da qualche anno, provo a sostenere che siamo in presenza dell’irruzione nella storia dell’umano (sia sotto il profilo delle sue relazioni, sia sotto quello della percezione del sé) di quella che ho chiamato “Surrealtà” (Bellucci S., 2015), una dimensione esistenziale nella quale l’ibridazione tra il reale “atomico” con quello “digitale” sta producendo un ambiente “nuovo” nel quale esperire l’esperienza di vita. Di come tale nuova forma dell’esperienza umana, inoltre, passi per una sorta di tramoggia nella quale si depositino, via via, le cose non “matematizzabili” le quali divengono, progressivamente, residui esperienziali anche quando mantengano una loro specifica dimensione atomica, spesso legata alle cose che, più di altre, abbiamo definito nella storia umana e nelle percezioni delle stesse nostre caratteristiche, come umane. E come tale procedimento, al contempo, produca un progressivo “processo” di creazione e di ri/organizzazione di una inesplorata forma di fusione di un reale ibrido/virtuale nel quale si possa/debba “abitare”. Il processo di creazione di una forma della nostra fisicità e socialità che ormai potremmo chiaramente definire come ibridata. Come è del tutto evidente, inoltre, la nascita di una nuova sfera del vitale (atomico o informativo che sia) trasforma, ibrida e scarta tutto ciò che incontra, e genera un nuovo ambiente in cui è possibile/obbligato vivere. 

Quello che si è ormai prodotto, infatti, rappresenta una sorta di crogiolo in cui vari elementi (materiali e immateriali) in parte si fondono, creando nuovi composti anche cangianti e temporanei ma in stretta relazione tra i loro componenti, e in parte si rendono “inerti” restando esterni e “incompatibili” con il processo in atto. Da un lato, infatti, si produce quella grande sfera che è stata chiamata dei gemelli digitali, doppioni della realtà atomica che si sottomette, però, alla capacità di calcolo e di controllo del suo fantasma digitale. Dall’idea concettuale della cosiddetta “Industria 4.0” agli Avatar virtuali dei nostri “assistenti digitali” in poi, si è sviluppata una grande retorica del “potere dei dati” che fanno assumere all’algoritmo di selezione/decisione (che ingloba sempre una logica e una ideologia del mondo) il potere decisionale che si vuol far apparire “neutro perché tecnologico”.

Questa immane capacità di immagazzinamento di dati e di calcolo ed elaborazione di soluzioni si sta spingendo verso due grandi esiti: la creazione di mondi “interamente virtuali” e di software in grado di indagare il mondo e dare risposte in maniera autonoma attraverso le intelligenze artificiali più o meno generative che siano.

Ma non tutto, però, si può “sussumere” nella grande macchina da calcolo. In molte “reazioni chimiche”, quelle in cui sono in gioco gli “atomi” e le loro complessità, spesso emergono, appunto, i cosiddetti “inerti”. I componenti che, all'interno di una reazione complessa, non si legano ad alcun altro componente, infatti, sono chiamati prodotti o reagenti inerti. Gli "inerti" sono sostanze che non subiscono modifiche nel processo di interazione in atto o non partecipano attivamente alla reazione stessa, ma possono ancora essere presenti nel sistema come risultato finale della reazione. Proprio questa propria dimensione “inerte”, rispetto al processo di Terraformattazione, ne evidenzia il valore di “irriducibilità”, la bitta alla quale rimane legata la dimensione umana atomica. Significativo, quindi, rimane l’indagare il rapporto tra questa dimensione collettiva irriducibile e la galloccia individuale, il gancio attraverso cui essa è ancorata, per mezzo di relazioni che non transitano attraverso il processo di matematizzazione che caratterizza la “Terraformattazione capitalistica”. 

Ben altra disquisizione servirebbe qui, ma ci svierebbe lontano dal contesto scelto, sarebbe l’analisi della differenza tra l’aggancio della condizione individuale ad una salda bitta d’acciaio di una banchina di un porto o l’ancoraggio ad una boa (che per definizione è mobile e, potremmo dire, nomade) della imbarcazione delle nostre vite. Come pure l’indagine sulla consistenza e la composizione “materica” della fune che lega queste due dimensioni. In altre parole, la qualità e complessità del legame tra la nostra psiche e il mondo delle relazioni in questa realtà ibrida e abitata ancora da diversi “materiali inerti”. Ma, appunto, servirebbe un altro indirizzo di ricerca.

Credo, inoltre, che possiamo affermare con una certa tranquillità e senza essere qui costretti ad una dimostrazione, che la produzione di questa realtà ibrida non sia legata alla mera “tecnologia disponibile” ma determinata strettamente in relazione ai rapporti sociali che ne sottostanno e che la producono con una loro “logica egemone”. Valgono, per me, ancora le riflessioni del Marx dei Grundrisse quando afferma che: “L'applicazione degli agenti naturali - in una certa misura, la loro incorporazione nel capitale - coincide con lo sviluppo della scienza come fattore in proprio nel processo di produzione. Come il processo di produzione diventa un fattore per l'applicazione della scienza, così la scienza diventa un fattore, per così dire una funzione, del processo di produzione” (Marx K, 1976). La tecnologia per Marx non è soltanto la trasformazione della scienza in una immediata forza produttiva, è un ibrido di conoscenza e normazione, cioè di “scienza” e leggi, con una incorporazione al loro interno, quella delle forme delle relazioni sociali e dei rapporti tra le classi che la muovono verso una finalità che appare oggettiva (proprio per la capacità egemonica della narrazione, diremmo oggi, della classe al comando) ma che racchiude in sé la complessità dei rapporti storici tra le classi, le culture sedimentate, le credenze e la conoscenza distribuita nei corpi sociali. 

Si può affermare, quindi, che il processo di Terraformattazione possa definirsi di vera e propria “creazione di un ambiente nuovo” proprio per la potenza che ha la costruzione dell’ibrido digitale rispetto al mondo e alla “natura” per come si era evoluta fino ad ora. Tale creazione ho chiamato, appunto, processo di “Terraformattazione capitalistica”. 

L’idea di coniare un neologismo come “terraformattazione” prende spunto dal processo di “adeguamento alla vita umano/terrestre” che si potrebbe innescare su un pianeta “altro” dalla Terra per renderlo abitabile alla vita del nostro pianeta e, quindi, all’uomo. Questo processo, diciamo “astronautico”, è stato chiamato, appunto, “terraformazione” e che ho unito al concetto di “formattazione” che si usa, in informatica, per rendere “utilizzabile” un disco rigido, un supporto informatico ove depositare programmi e contenuti necessari all’uso digitale. La formattazione in informatica, appunto, è l'operazione tramite la quale si prepara, per l'uso, un supporto di memorizzazione di massa, come ad esempio un disco fisso o una sua parte (in gergo tecnico, in quel caso, si chiama partizione), per renderlo idoneo all'archiviazione di programmi o dati, impostando una struttura di utilizzo del supporto (file system) che vi verrà creato sopra. Cancellazione della realtà esistente e creazione di un sistema che utilizzi il supporto “secondo la sua logica di sistema” piegando la sua dimensione “atomica” a quella della logica informatica del “digitale”. Esattamente quello che l’intero sistema digitale sta producendo nel mondo del reale, azzerandone non tanto la sua fisicità materiale ma piegandone (e limitandone, ovviamente) la sua dimensione a quella necessaria al proprio utilizzo attraverso la sua “logica”. Una sorta di “riduzionismo digitale” caratterizzato da una “falsa” operazione di apertura a nuovi confini. Non è un caso, ad esempio, che l’ibrido per eccellenza di questa operazione sia stato definito attraverso la locuzione “realtà aumentata”. 

La costruzione di senso che necessita l’introduzione di una nuova dimensione, a cui si aspira che abbia la forza di produrre una capacità egemonica in grado costruire un contesto nuovo, assume sempre l’immagine di una proposta che alluda ad un grado di libertà più alto di quello esistente (anche se ipotetico) anche quando essa contenga, in realtà, una modifica strutturale delle forme delle relazioni tra l’uomo e il mondo e tra individuo e società che comporti forme di asservimento maggiori e di controllo sociale e individuale più grandi o, addirittura, totali. 

Detto in altri termini, quindi, il processo di Terraformattazione capitalistica indica che siamo all’inizio di una nuova fase della storia umana.

Non è un caso, probabilmente, che il processo di formattazione (in informatica) possa essere chiamato anche di inizializzazione sebbene, in realtà, questa sia la fase che precede la formattazione vera e propria e rappresenta quella in cui si prepari, dal punto di vista logico, il supporto da utilizzare e che consenta il processo di scrittura dei dati e di etichettatura dell'unità di memorizzazione. In pratica, la inizializzazione di una nuova unità (o, similmente, la re-inizializzazione di uno già utilizzato) serve per stabilire lo stile tipo, il numero e la dimensione delle partizioni. In termini sociali, potremmo dire, le forme dei rapporti tra le classi e le norme che stabiliscono la “civile” convivenza tra di esse in quel determinato periodo storico e, in una qualche misura, le forme di redistribuzione della ricchezza prodotta e della sua “privatizzazione”. L’inizializzazione degli apparati digitali consiste nel dividere la capacità del disco in una serie di blocchi di uguali dimensioni, chiamati unità di allocazione, e di fornire una struttura logica in cui verranno scritte le informazioni che permetteranno l'accesso ai dati desiderati. D’altronde, lo stesso sviluppo capitalistico (la formattazione della società alla sua logica produttiva) fu anticipato proprio da un processo, chiamato appunto di accumulazione primaria (del capitale) che rappresentò, di fatto, il processo della sua inizializzazione storica. Sul piano sociale il processo di Terraformattazione capitalistica ha prodotto la forma della proprietà privata (le unità e i tipi di allocazione) e le condizioni per la loro distribuzione sociale attraverso le regole che sottostanno alle forme di produzione del valore e la sua redistribuzione. 

I quadri istituzionali necessari al suo sviluppo (individuati nello schema della separazione dei poteri di settecentesca memoria e che rappresentano ancora per le classi al comando il punto “teorico” di riferimento anche se costantemente bistrattate dalle prassi presidenzialiste e “governiste”), le leggi codificate in questi decenni e le prassi sociali “imposte” progressivamente nei vari paesi, rappresentano un po’ le stesse differenze sui sistemi operativi dell’informatica che poggiano tutti, però, sulla stessa “potenza del calcolo binario e sulla logica della matematica booleana” che, nella realtà materiale è rappresentata dalla produzione capitalistica e finanziaria del valore.


Il calcolo digitale e la realtà

Lo sviluppo delle tecnologie di calcolo digitali, è ampiamente noto, è il frutto di interessi militari e commerciali giganteschi nati tutti all’interno di una specifica forma di modello economico-sociale e poi estesasi, con un processo di tipo egemonico, all’intera forma di vita umana e non. La tecnoscienza di questi anni, infatti, ha invaso le stesse forme dell’evoluzione della vita attraverso l’esponenziale capacità di intervento sugli stessi codici viventi del DNA, prima vegetale e ora animale. 

Dietro agli interessi che portarono grossi investimenti nelle macchine da calcolo, infatti, ci furono vicende legate allo sviluppo dei modelli di analisi dei comportamenti del mercato o quelli legati alle necessità belliche connesse allo svolgimento delle guerre. 

La geniale intuizione che, per ovviare alle strozzature del mercato, fosse necessario conoscere (e indirizzare) i comportamenti dei consumatori, diede vita alla necessità sempre crescente di poter gestire masse di dati rilevanti estratti dai comportamenti individuali e dalla società. 

L’allora nascente marketing aveva bisogno di digerire sempre più dati e produrre proiezioni sempre più accurate. Anche nel campo militare le cose spingevano verso una gestione massiccia di dati. L’aumento delle capacità di calcolo ottimizzarono alcune delle potenze di fuoco degli eserciti. Le prime macchine da calcolo informatiche, infatti, furono utilizzate dalle forze armate principalmente per scopi di calcolo balistico, come pure per la crittoanalisi e la codifica dei messaggi. Uno degli esempi più noti è l'ENIAC (Electronic Numerical Integrator and Computer), uno dei primi computer elettronici sviluppati negli Stati Uniti. L'ENIAC fu impiegato per realizzare tabelle balistiche per il calcolo dei percorsi dei proiettili, consentendo alle forze armate di ottenere informazioni accurate per le operazioni di tiro. 

L’aumento delle necessità di calcolo lega, ad esempio, anche una azienda dell’IBM all'Olocausto per l'uso dei loro sistemi di elaborazione dati, da parte del regime nazista, durante la Seconda guerra mondiale. IBM, attraverso la sua sussidiaria tedesca Dehomag, fornì macchine e tecnologia di elaborazione dati, chiamate "tabulatori", alla Germania nazista. Quei tabulatori furono utilizzati per raccogliere, organizzare e analizzare enormi quantità di dati, inclusi quelli demografici e varie informazioni, personali e sociali, relative alla popolazione. Questi sistemi furono utilizzati dal regime nazista per facilitare la catalogazione e l'identificazione delle persone, compresi gli ebrei e altri gruppi perseguitati. L'uso di quei “calcolatori” consentì alle autorità naziste di accelerare l'implementazione delle loro politiche di discriminazione, deportazione e sterminio. I dati raccolti dai tabulatori furono utilizzati per identificare i perseguitati, tracciare i loro movimenti, confiscare le loro proprietà e pianificare le deportazioni nei campi di concentramento. Dopo la guerra l’IBM sostenne che la sussidiaria tedesca operava in maniera completamente indipendente e che la società madre non fosse a conoscenza dell'uso specifico dei tabulatori durante l'Olocausto, anche se pare esistano prove documentali, come descritto nel bel libro dello storico Edwin Black L’IBM e L’Olocausto (Black E., 2001) che suggeriscono un coinvolgimento diretto di IBM nell'implementazione e nella gestione di questi sistemi. 

Al di là di come andarono veramente le cose, i sistemi di calcolo informatizzato, evidentemente, erano entrati nella storia umana.

In pochi decenni, infatti, il digitale invase in modo ubiquo l’intero mondo. La sua potenza iniziò a riscrivere le forme della produzione, delle relazioni, della scienza. L’intera forma della vita iniziò a trasformarsi ponendo le condizioni di un vero e proprio salto nella storia umana attraverso quel processo che, proprio su questa rivista anni or sono, come ho descritto in precedenza, ho definito come “terraformattazione capitalistica”. Con questo concetto intendo una specifica forma di matematizzazione delle forme relazionali e di marginalizzazione di ciò che era ed è impossibile da matematizzare. 

Il reale disponibile, infatti, risulta sempre più quello che è stato sottoposto ad una sua matematizzazione e, nel divenire in tal guisa rappresentato, si sottopone ad una trasformazione complessa in cui il suo “gemello digitale” diviene parte integrante della forma del suo uso e della sua riproducibilità tecnica.


La curiosità

La curiosità, che da tanto tempo mi spinge a scrivere un articolo che non ho mai scritto, risiede proprio in un comando che quasi ogni giorno molti di noi usa durante l’utilizzo del proprio computer. Al termine di una giornata di lavoro, infatti, il sistema operativo, nel momento della chiusura dell’apparato, ci indica il nome del comando da utilizzare con un “semplice” click: “Arresta il sistema”. 

In quella piccola e stringata frase posta in una manciata di pixel riquadrati dal resto, composta dall’imperativo del verbo arrestare: “Arresta”, e dal sostantivo: “Sistema”, connessi dall’articolo determinativo “il”, si racchiude tutto un mondo di ambivalenze che, ai miei occhi, sono sempre apparse come disvelatrici di ciò che avevo fatto fino a quell’istante, quello di cui avevo fatto parte fino a quel momento e quello a cui mi stavo predisponendo a fare. Nei minuti o ore precedenti, avevo usato “un” sistema (il grado di libertà dei miei movimenti, quindi, era tutto interno all’ingegnerizzazione delle connessioni e delle logiche previste) o, peggio ancora, ero “vissuto” all’interno di un sistema, privandomi della possibilità di fruire delle “sfumature della realtà” esterne al sistema stesso. Infine, stavo uscendo dal sistema e potevo re-immergermi nella vita “reale”. Con quel “semplice” gesto, riappropriarmi della complessità del reale.

Ma il verbo utilizzato e il sostantivo scelto aprirono fin dalla prima volta (e continuano ad aprire oggi) intere praterie di senso, flussi emotivi che si sovrappongono e mi fanno oscillare da officiante ad officiato, da una dimensione attiva (quella del potere e del volere) ad una totalmente passiva. 

Questo proprio per le traslazioni di senso a cui la frase si presta, un vero e proprio “motto di spirito”, avrebbe probabilmente sostenuto il Freud de Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (Freud S., 2010) se fossi stato sdraiato su quel famoso lettino a raccontare questa mia esperienza di vita. Quel motto di spirito che, sempre per il Virno già citato, rappresenta “il diagramma logico-linguistico delle intraprese che, in occasione di una crisi storica o biografica, interrompono il flusso circolare dell’esperienza” (Virno P., 2004, pag. 12). Per usare una metafora della fisica quantistica, potrei dire di vivere, ogni volta, un momento di “collasso d’onda” di consapevolezza che mi fa uscire con lo spin in su o con lo spin in giù.

C’era e c’è, quindi, un aspetto che fin dalla prima esperienza, dal primo collasso, ha sempre stuzzicato la mia fantasia e, cioè, il modo con cui mi potevo predisporre a quel salto. E il modo era, ed è, racchiuso tutto nel significato bivalente del verbo usato dai programmatori del sistema. Arrestare, infatti, può significare “mettere fine a”, “terminare” un qualcosa, ma anche “mettere una persona in stato di fermo”, svolgere una funzione di stampo “poliziesco”. In entrambi i casi, il segno indicato nella operazione richiesta, starebbe lì a significare un processo volto a limitare la libertà che avevo avuto fino a quel momento oppure, e questa è stata sempre la mia percezione, fermare un sistema che ti stava condizionando, limitando. 

In altre parole, per il sistema informatico che stavo usando fino a quel momento, il mio gesto limiterebbe una mia “libertà” quando, in realtà, rappresenta una “evasione” dal sistema in cui ero rinchiuso fino a quel momento. Una totale inversione di senso degli accadimenti e della percezione della mia condizione. Un analogo del sistema più generale del mondo del consumo a cui sono obbligato. Ma questo farebbe slittare il ragionamento in campi ancor più vasti se ciò fosse possibile.

Al di là della interpretazione e della fantasia di poter essere l’esecutore di un “arresto” di un sistema che tenta di sovrapporsi alla realtà stessa e di sostituirla nelle varie forme delle nostre relazioni con l’altro da noi, il digitale ha assunto ormai una ubiquità applicativa che pone quesiti enormi per la storia evolutiva dell’umano e dello stesso processo evolutivo del pianeta. Poter essere in grado di “fermare” quel sistema ti illude sulla tua personale (e collettiva?) possibilità di controllo che, in realtà, abbiamo da tempo perduto. 

D'altronde il buon Wittgenstein definiva la storia naturale della nostra specie caratterizzata da alcune funzioni come comandare, interrogare, raccontare, elaborare ipotesi, ecc... e nella limitazione di queste facoltà umane è, forse, racchiusa proprio la “rottura” storica che vive la nostra specie. Questo, però, non risolve del tutto la questione del nostro abitare questa contemporaneità, questo essere-per-la-scena (come potrei dire giocando con un formalismo linguistico di stampo heideggeriano). Anzi. Proprio qui si svolge il tema del passaggio e della sua qualità. Svolgere il discorso, infatti, non risolve il rapporto complesso che esiste tra corpo e linguaggio essendo il primo non solo incarnato ma attraversato da pulsioni vitali non riducibili. E questa condizione dell’ibridazione tra dimensione atomica e digitale porta ad un livello ancor più grande la questione, soprattutto nell’era delle Intelligenze Artificiali Generative che alludono all’aumento della concretezza dell’emersione di una forma di Intelligenza Artificiale Generale, quella che alcuni chiamano Singolarità.

Tutto questo si “risolve” in una percezione istantanea, un passaggio che si racchiude in un lampo e, alla fine, mi illudo di poter: Arrestare il sistema. 

Una sorta di via d’uscita, una possibilità concessami di poter “scendere dalla macchina” o, addirittura, di “poter mettere sottochiave” la macchina, il sistema macchinico, con un semplice mio gesto. Una sorta di uscita d’emergenza o, meglio ancora, di “capacità d’agire”, quell'idoneità/capacità/possibilità del soggetto a porre validamente in essere atti idonei ad incidere sul reale. Quella possibilità di intervenire sulle specifiche situazioni che, teoricamente, anche il sistema giuridico italiano riconosce alla persona e che la dimensione a rete, di fatto, nega attraverso un annegamento che contraddice, materialmente, la metafora della “navigazione” caratteristica del muoversi nello spazio della Rete. 

L’Arresto del sistema mi conferisce, attraverso la disponibilità di un semplice click del mouse che sottostà alla mia mano, una sorta di status che nella realtà è inesistente, quello che potremmo definire di agente di una “Polizia del Materiale”, quella che dovrebbe essere dotata di “armi” in grado di limitare l’intrusione, apparentemente immateriale, del fantasma digitale del mondo nella sfera della mia singola esistenza e in quella delle mie relazioni con l’altro da me. 

Eppure, i sensori sparsi intorno alla mia dimensione fisica - nella mia città, a volte nella stessa casa che abito, nei device in mio possesso o in quelli in possesso dell’altro-con-me - sono lì a ricordarmi, con la loro presenza silenziosa e ubiqua, che il mio gesto non è stato e non potrà che essere, illusorio, nient’altro che un fantasma, esso stesso, di una libertà che mai sarà più come prima.

Una libertà auto-dichiaratasi “aumentata” e, proprio attraverso questa auto-dichiarazione, sempre più sorvegliata e sorvegliante, come mai era stata nella storia dell’umano.

Un gesto, per quanto illusorio, mi rimane alla fine del testo. 

Sposto il mio mouse sul quadratino di pixel in basso a sinistra dello schermo, esito un momento... e poi: Click!


Quel gesto, semplice e illusorio, mi consegna sempre l’idea di una potenzialità che è racchiusa nelle scelte delle nostre mani. Vivere nel confine, nel bordo delle linee di calcolo - come l’edge-computing ci suggerisce - consente di osservare il mondo attuale da una angolatura che ci ricorda come la destrutturazione di forme, che possono divenire rituali e potenti anche nell’era del calcolo imperante, è sempre alla portata di una scelta. Anche una percezione transitoria a termine di una giornata di lavoro può ancorarci ad una consapevolezza che il sistema sembra far impallidire sotto la potenza dei sistemi di calcolo algoritmici. Intravvedere spazi e gradi di libertà nei gesti consueti e nelle prassi obbligate rappresenta una capacità umana, quella rottura del flusso di senso che è uno specifico dell’umano.



Nota al testo: Il termine terraforming risale ai romanzi di fantascienza raccolti in Legioni dello Spazio di Jack Williamson ed è stato successivamente adottato dalla scienza. La definizione è entrata in ambito aerospaziale inglese ed è composto, a sua volta, dal termine latino Terra e dal verbo form. Rappresenta l’ipotetico processo artificiale che mira a rendere abitabile, per l'uomo, un pianeta o una sua luna, intervenendo sulla sua atmosfera - creandola o modificandone la composizione chimica - in modo da renderla simile a quella della Terra ed in grado di sostenere un ecosistema. La terraformazione è molto al di là delle possibilità della tecnologia odierna e gli studi su di essa sono speculativi. 



Bibliografia