Riflessioni Sistemiche n° 28


Rifondare le pratiche umane navigando nella complessità

L’Università finisce.
Taylorismo della mente fra marketing e burocrazia


di Andrea Cerroni

Università degli Studi di Milano-Bicocca

Foto di Pexels da  Pixabay

Sommario 

La progressiva aziendalizzazione che si sta abbattendo su tutta la filiera della conoscenza nell’epoca neoliberista merita uno sguardo approfondito per gli esiti che già sono manifesti e rischiano di essere di capitale importanza. Ci concentreremo in questa sede sull’Università, analizzandola sia nelle sue tre ‘missioni’ sia nel ruolo sociale di chi ci lavora. Analogo discorso andrebbe fatto sulla Scuola.


Parole chiave

neoliberalismo, società della conoscenza, riduzionismi, valutazione.


Summary 

The increasing corporatization that is sweeping across the knowledge chain deserves an in-depth look because of the outcomes that are already manifest and are likely to be of capital importance. We will focus on the university, analyzing its three 'missions' and the social role of those who work there. A similar discourse should be made on School.


Keywords

neoliberalism, knowledge-society, reductionism, evaluation.



Negli ultimi trent’anni il New Public Management, ovvero un modello neoliberista di riforma della Pubblica Amministrazione adottato da Governi di ogni colore nella gestione dell’azione pubblica dei paesi occidentali (centrato su standard misurabili di prestazione, competizione orientata al mercato, controllo minuziosamente importato dal settore privato, visione omeostatica dell'organizzazione. Cfr. Hood 1995) ha invaso progressivamente il mondo accademico. La diffusione dell’ideologia aziendalistica, infarcita di efficientismo tayloristico e market orientation, discende dall’egemonia acquisita dalla logica economica e dalla contemporanea riduzione di questa al mero scambio e, in fin dei conti, alle valorizzazioni di ogni attività (verso i ‘clienti’ interni ed esterni) nei nudi termini di valori di scambio. Questa logica vorticosa si è estesa a ogni aspetto della vita sociale, fino alla filiera della conoscenza (economia della conoscenza), riducendo l’intera vita sociale a scambi di cosa ha un mero valore di scambio (e dunque non è altro che questo) contro cosa ha un (altro) mero valore di 

scambio (e dunque non è altro che questo) e, in definitiva, denaro contro denaro. Il finanzcapitalismo (Gallino L., 2007) è la logica conclusione della diffusione del neoliberismo assieme, sosterremo, alla fine della Universitas studiorum.

La svolta decisiva nelle politiche pubbliche in Occidente avviene negli anni ’80, quando la campagna per l’egemonia lanciata dei (neo)liberisti nel decennio precedente assurge al potere in Occidente e lo Stato viene ridotto ai minimi termini, cioè quelli necessari e sufficienti al solo sviluppo del mercato. 

In Italia, sin dai primi anni Novanta, ma soprattutto dalle cosiddette ‘Leggi Bassanini’ (1977-1999),  la dichiarazione di Bologna (1999) e quindi con la ‘strategia di Lisbona’ (2000) verso una economia della conoscenza, sotto la supervisione dell’OECD viene progressivamente aggredita la filiera della conoscenza, dai primi livelli scolari fino all’Università e alla ricerca, orientandola allo sviluppo di ogni competenza, che così viene prosaicamente definita: “la capacità di dare risposta a domande complesse. Espresse non in astratto, ma in un contesto concreto, mobilitando tutte le proprie risorse intellettuali […] nei tempi, nei modi e nelle circostanze più adatte a soddisfare la richiesta” (Cipollone P., Sestito P., 2010, pag. 14).

Viene smantellata, come si vede, quella torre eburnea che, con qualche esagerazione, si dice isolasse un tempo lo sviluppo della conoscenza dalla società, è andata rapidamente crollando nel corso della seconda metà del Ventesimo secolo. In genere, inoltre, si pensa a questa torre d’avorio come a un malaugurato isolamento della conoscenza: sì che essa per un verso non fluisce fuori dalle ristrette cerchie di pochi privilegiati lasciando le masse pascolare nell’ignoranza sottraendole allo sviluppo della scienza; e, per altro verso, essa stessa starebbe ‘fuori dal mondo’ in spazi facilmente concessi a fughe intellettuali (tipiche la vena ‘ariostesca’ dell’intellettuale italiano) o a surrettizie ipostasi dello stato di cose presenti (idealismi ottocenteschi), comunque senza concludere nulla di utile all’umanità. Che ci sia del vero è innegabile, ma sarebbe ingenuo pensare tanto che si sia trattato di un isolamento a tenuta stagna (in entrambi i versi), quanto che non abbia anche svolto una funzione difensiva del lavoro intellettuale di contro alle pressioni pratiche e politiche, consentendo margini spesso sufficienti di autonomia. Dunque, l’apertura della cosiddetta ‘terza missione’ presenta anche un duplice rischio. Innanzi tutto il potere politico e economico può cooptare una porzione della comunità accademica per sostenere i propri interessi in nome di ‘lo dice la scienza’. Secondariamente, le forze del mercato e del governo possono entrare nella cabina di regia delle dinamiche della comunità scientifica.



Dentro la società della conoscenza

Nella seconda metà del secolo passato si è venuta dispiegando la forma sociale che è ormai consueto denominare società della conoscenza (Cerroni A., 2006), intendendo un sapere che, avvalendosi dei saperi precedenti resi disponibili, produce sapere che entra in un processo circolatorio che conosce solo i limiti definiti dall’azione politica. Si tratta di una specie sociale caratterizzata dalla diffusione capillare di processi che vedono la produzione di conoscenza a mezzo di conoscenza per produrre conoscenza nella vita individuale. Ma questo non solo nella vita lavorativa, bensì anche nel tempo libero cui essa, e non per caso, è sempre più intrecciata. E a ciò è intrinsecamente connessa la presa di coscienza dell’ampio spettro dei valori che usiamo, produciamo e scambiamo nella vita sociale.

La conoscenza è ritenuta sin dai tempi di Aristotele un bene cui gli uomini naturalmente tendono e, quantomeno dall’Illuminismo in avanti, da tutti riconosciuto come un bene che ha valore generalmente umano, legato com’è al benessere dell’intera umanità.  Dal punto di vista economico, i beni possono essere classificati in rivali o non rivali, escludibili o non escludibili, confinabili o non confinabili. Beni rivali sono tipicamente i beni esauribili, per i quali l’uso da parte di qualcuno diminuisce la possibilità di uso da parte di altri. Beni escludibili sono quei beni per i quali è realistico mettere in atto esclusioni dall’accesso. Beni confinabili sono, infine, quei beni il cui uso può essere circoscritto a un ristretto ambito geografico. Il caso della conoscenza è piuttosto delicato. Innanzi tutto, il suo valor d’uso aumenta sia con l’uso personale ripetuto sia nella condivisione dell’uso, e dunque è un bene di fatto cooperativo. 

D’altra parte è facilmente escludibile attraverso politiche che, ad esempio, limitino la scolarità di massa o la circolazione dei lavori scientifici. Infine, malaugurate politiche pubbliche possono tenere la conoscenza o almeno il suo pieno sviluppo al di fuori dei propri confini statuali. 

Per tutto questo non mi sento di definire la conoscenza un Bene pubblico globale (Cfr. Stiglitz J., 1999) senza l’aggiunta di specifiche politiche volte a renderlo effettivamente tale (Cfr. Cerroni A., 2006 e Gallino L. 2007, §8)). Solo in tempi recenti ci si è accorti che si tratta di un bene particolarissimo, poiché se non è semplicemente non-rivale come i beni pubblici, esso è addirittura cooperativo (a livello sia intersoggettivo sia intergenerazionale). Al contempo è però altamente escludibile (come solo i beni di club) e perfino confinabile quanto meno per autoesclusione, se non vi sono opportune politiche che lo rendano un bene pubblico effettivo. Ecco che, allora, l’ascesa del neoliberismo con il suo quantofrenico riduzionismo economicistico (Cerroni A., 2022) e l’inserimento dei soggetti individuali e istituzionali che perseguono professionalmente lo sviluppo della conoscenza entro un mercato concorrenziale di produzioni a loro volta esclusivamente finalizzate a fornire ‘risorse umane’ agli altri mercati concorrenziali, non poteva non aver effetti devastanti. 

Nella deriva ideologica contemporanea, la conoscenza è andata, insomma, ad aggiungersi a terra, lavoro e capitale quale fattore economico e, come stigmatizzato magistralmente da Karl Polanyi (1944), condividendone la sorte che la vede ridotta a merce. La didattica diventa, dunque, l’offerta di capitale umano, la ricerca l’offerta di prodotti cognitivi a beneficio degli addetti ai lavori, e la terza missione è l’offerta di merci materiali o simboliche per qualunque mercato.

D’altronde, Antonio Gramsci (1975, III, pag. 1590) aveva ben compreso che già “il liberalismo è un programma politico, destinato a mutare, in quanto trionfa, il personale dirigente dello Stato”.

Parleremo, allora, di un’aziendalizzazione dell’Accademia finalizzata all’aziendalizzazione generalizzata della società e nella misura in cui “Economics are the method; the object is to change the heart and soul” (“L’economia è il metodo; e l’oggetto deve cambiare il proprio cuore e la propria anima”) (Thatcher M., 1981). Come vedremo, nell’Accademia si sta combattendo una battaglia decisiva per il successo del neoliberismo (sul concetto si veda Moini, 2020).

L’Università e, più in generale, quella che chiamiamo comunità scientifica o accademica, è un’istituzione che l’umanità si è data nel corso di oltre un millennio di storia, nella forma in cui la modernità occidentale ce l’ha consegnata, proprio allo scopo di costruire conoscenza. In questo essa fa il paio con il Parlamento e, più in generale, con l’apparato dello Stato democratico di diritto. La connessione fra i due registri, ovvero, detto semplicemente, fra scienza e statualità, è quella che abbiamo imparato a tematizzare dal momento in cui ci siamo posti il problema storico-antropologico di superare la dicotomia, forse ingiustamente attribuita a Descartes, fra mondo della mente, e dunque del conoscere, e mondo del corpo, e dunque dell’agire socialmente rilevante. Una tale comprensione si è accompagnata alla crescente consapevolezza che la mente non aiuta solo a fornire valori come risposte alle domande di bisogni già esistenti, ma crea continuamente nuovi bisogni e nuovi valori e dunque produce cambiamenti rilevantissimi a livello sia individuale che sociale. Gli sviluppi delle due istituzioni, insomma, sono sempre andati di pari passo, contribuendo proprio col loro crescente interscambio allo sviluppo storico dell’umanità. Per convincersene basti riflettere al sorgere contemporaneo delle università medievali e dei liberi Comuni (e come caso emblematico alla prima università statale e i vagiti di stato moderno e costituzionale nella Napoli federiciana), alle Accademie scientifiche e agli Stati assoluti nel Seicento (con l’unica eccezione dell’Italia) sino alla realtà del mondo contemporaneo. Se non teniamo conto di questo doppio legame, anche diagnosticato dalla clausola baconiana scientia potestas est, non possiamo comprendere appieno la portata degli effetti della aziendalizzazione dell’Accademia nel corso della seconda metà del Novecento.

Cominciamo, dunque, a osservare che la prima decade dell’agosto del 1945 è una buona data di nascita per la società della conoscenza perché i due funghi atomici sollevatisi a Hiroshima e Nagasaki hanno sancito incontrovertibilmente tanto la potenza della conoscenza più teorica e il contenuto cognitivo del potere pratico ultimativo, quanto la diffusa presa di coscienza dell’intero nesso scienza-politica.

Ricordando i movimenti Pugwash, Concerned Scientists e i vari comitati di scienziati per la pace, ci si accorge che sorse immediatamente un dibattito ancor oggi molto attuale. Proprio in quell’anno, infatti, esce il rapporto Science the Endless Frontier. A Report to the President on a Program for Postwar Scientific Research di Vannevar Bush, lo scienziato messo a capo del Progetto Manhattan, in cui si sostenne la necessità di continuare a sostenere con ingenti finanziamenti pubblici la scienza nel periodo post-bellico proprio per gli esiti eclatanti ottenuti e quelli che con certezza ne sarebbero venuti in termini di crescita economica, benessere sociale, sicurezza militare ecc. Ma già l’anno dopo, al subentro di Truman alla morte di Roosevelt, l’economista John Steelman venne incaricato di redigere un nuovo rapporto, intitolato A Program for the Nation, di ben altro tenore: il governo federale d’ora in avanti si sarebbe riservato il diritto sia di sviluppare propri programmi di ricerca autonomi, sia di coordinare lo sviluppo complessivo della scienza negli Stati dell’Unione.

Già Norbert Wiener (1958) aveva, peraltro, segnalato il processo corrosivo cui la scienza stava venendo sottoposta diventando un Grande Affare nel quale militari e aziende si erano gettate con tutto il loro carico di logiche e finalità.

Ma una nuova linea di politica della scienza venne avviata negli Stati Uniti e, di lì, in tutto il mondo occidentale sin dall’ascesa di Ronald Reagan alla Presidenza: il Bayh-Dole Act, approvato in tutta fretta quando ancora il nuovo Presidente non si è insediato, stabilisce che i finanziamenti federali alle Università saranno calanti, ma in cambio esse potranno brevettare e cedere in licenza le invenzioni realizzate anche grazie ai fondi federali. Prese così avvio una fase in cui l’Accademia ha subìto progressivamente quella che abbiamo definita aziendalizzazione.



Le tre missioni dell’Università

L’Accademia svolge notoriamente tre funzioni sociali (missioni): didattica, ricerca e ‘terza missione’.


La didattica

La prima missione, prima in senso storico perché risalente alla motivazione stessa di istituzione delle università, consiste nel fornire percorsi formativi superiori certificati e abilitanti a percorsi di carriera professionale. Più in generale, si tratta di avere cittadini in grado di creare valore pubblico grazie a quanto imparato in tali percorsi. Chiaramente, lungo la filiera dell’education, ci sono tre dimensioni che bisogna tener distinte. La prima è l’educazione, intesa a trasmettere valori socialmente condivisi finalizzati alla convivenza civile, come per i valori dell’ethos mertoniano che tengono insieme la comunità scientifica assicurandone il successo conoscitivo, ovvero la condivisione della conoscenza nell’intera comunità (comunitarismo), l’uso di criteri impersonali nelle valutazioni scientifiche (universalismo delle fonti), l’assenza di legami affettivi o finanziari (disinteresse) e l’esercizio di dubbio metodico e massima cautela (scetticismo organizzato). 

Inoltre, questa dimensione garantisce la continuità della memoria storica (collettiva e scientifico-disciplinare) e lo sviluppo della creatività e poliedricità personale.

La seconda è la formazione, intesa come acquisizione di conoscenze teoriche, pratiche e strumentali per svolgere una data mansione lavorativa, conoscenze orientate al problem solving in ambienti ben strutturati ai quali garantire certe prestazioni. 

Infine la terza dimensione è l’istruzione, e non a caso il Ministero della Repubblica esordì definendosi proprio come Ministero della Pubblica Istruzione per sottolinearne la centralità. 

Per istruzione possiamo intendere l’apprendimento di conoscenze generali e astratte utili per padroneggiare linguaggi, simboli, concetti, metodi conoscitivi e schemi di pensiero al fine di consentire al cittadino di esercitare progressivamente una cittadinanza piena e responsabile nella società della conoscenza, partecipando anche al problem setting in ogni ambito della vita sociale.

Notiamo che le tre dimensioni dell’intervento didattico, seppure con peso diverso, anche salendo di grado non collassano mai in uno solo. Ma l’aziendalizzazione tende a valutarne l’efficacia con criteri esclusivamente esterni, ovvero  considerando la mera collocazione nel mondo delle professioni e delle aziende quali esistono e sono manifestate dalla domanda espressa da soggetti esterni abilitati a tale funzione (in Italia principalmente Confindustria e lobby e camarille bruxellesi), riducendo l’Università a mero ente di accreditamento verso terzi (certificazione di crediti), stravolgendo i percorsi educativi e istruttivi, e distorcendo quello formativo dei futuri scienziati, nonché coartando la pluralità delle voci e la libertà dell’insegnamento garantite dalla nostra Costituzione. Ecco fenomeni degenerativi capitali. L’accreditamento comporta che imparare diviene secondario rispetto ad apprendere: prepararsi al processo di esplorazione e comprensione della complessità passa in secondo ordine rispetto al mostrare nel proprio ‘portfolio’ il conseguimento di risultati tangibili, misurabili, eventualmente persino al di fuori del percorso accademico (riconoscimento dell’attività lavorativa).

L’aziendalizzazione della didattica comporta anche, sia una sua taylorizzazione, in termini di efficienza nella prestazione documentabile per via burocratica, sia una marketizzazione volta a procacciarsi con ogni mezzo le risorse scarse, i clienti ovvero studenti paganti ma sempre meno motivati a imparare, e dunque anche attraverso attività accessorie, ludiche e ‘accattivanti’ che nulla hanno a che fare con l’impegno allo studio. La concorrenza fra atenei si gioca, in effetti, sempre più su servizi amministrativi, residenze, campi sportivi, attività ricreative ecc., attrattività che non hanno a che fare direttamente con la qualità della conoscenza che vi si insegna, che passa decisamente in secondo piano. Peraltro, il livello delle rette universitarie negli Stati Uniti può arrivare a decine di migliaia di dollari all’anno e, oltre a incrementare la spirale di devalutazione intrinseca della conoscenza, ha da tempo generato un debito molto preoccupante, il che sta cominciando ad avvenire anche in Europa. Altra manifestazione di questo fenomeno è la tendenza al superamento della lezione frontale e la diffusione di contenuti asincroni, da seguire in remoto e con comodo, non come completamento della propria formazione, ma in sostituzione dello scambio docente-discenti. Con il termine ‘scambio’ è opportuno intendere precisamente un processo circolare di ‘scambio che cambia’, in cui il cambiamento riguarda tutti, ricordando anche il motto latino docendo discitur. La fine della lectio comporta, dunque, una cesura fra momento della ‘distribuzione’ della conoscenza e momento del suo ‘incremento’ che nel contesto reale del mercato sancisce il ritorno alla scolasticizzazione della Università. La logica aziendale diventa quella di uno shopping a piacere e l’offerta formativa si connota in termini di attrazione pubblicitaria. Nella progressiva, e ormai quasi compiuta, liceizzazione dell’Università, si avvera quanto scrisse Giorgio Israel (2008, pag. 62) a proposito della scuola: “Il docente non è più un insegnante e un educatore ma un animatore culturale, una figura del tutto analoga a quegli animatori delle feste di compleanno dei bambini che facilitano la socializzazione e il divertimento proponendo giochi e guidando la festa nel modo più gradevole possibile”. E dunque non è eccessivo parlare di fine della didattica propriamente intesa, in ossequio alla libertà d’insegnamento (art.33 Cost.).


La ricerca

La seconda missione, integrata nelle università, nel frattempo scolasticizzatesi, a cominciare dalla riforma humboldtiana nella Germania di inizi Ottocento, consiste nella produzione di conoscenza certificata in tutto lo scibile umano. È da quell’epoca che si può parlare di mondo accademico intendendo l’università e non più le accademie propriamente scientifiche cresciute proprio per sopperire alla sua deformazione. 

Più in generale si tratta con questa missione di fornire conoscenza di crescente valore socialmente rilevante in quanto luogo di raccolta della capacità di produzione di conoscenza socialmente diffuse (docenti e discenti, biblioteche, strumentazioni) e centro di diffusione di nuova conoscenza capace di accompagnare lo sviluppo delle potenzialità storiche e dei nuovi bisogni da essa stessa suscitati. L’aziendalizzazione di questa missione lavora, ancora una volta, sia verso l’interno, attraverso una accountability scevra di responsibility, ovvero limitata alla conformità e acquiescenza (compliance) ad aspettative contrattualizzate, priva di riferimenti a deontologia professionale e responsabilità pubblica (che, vista l’usura linguistica del termine pubblico, preferirei definire repubblicana), sia verso l’esterno, nei confronti di entità emanatrici di bandi di ricerca che, con variabilità disciplinari ancora forti, ma comunque in misura crescente, vedono coinvolti soggetti aventi interessi non strettamente conoscitivi e solo discutibilmente pubblici e che formulano, invece, sempre più domande ben strutturate. Ecco che tutto viene ridotto a rapporto privatistico, come analogamente è fatto dell’economico ridotto a microeconomia. Chiameremo il primo effetto taylorizzazione della mente e il secondo burocratizzazione della ricerca e se l’ottica del tempo breve e del risultato tangibile fa la ricerca miope e sviluppa una parassitaria, parossistica attività di controllo delle performances, non è difficile intravedere sin d’ora anche la fine della ricerca. Ma vedremo meglio la situazione considerando fra breve i ruoli della figura dell’accademico.


La ‘Terza Missione’

Ci resta, infine, da considerare la terza missione, il cui stesso nome ne rivela il carattere residuale, dunque facile a molteplici declinazioni. Essa consiste nella fuoriuscita di conoscenza dalle mura accademiche attraverso tutti gli altri percorsi che non siano ‘teste formate’ o ‘documenti certificati’, ma quasi sempre, proprio in ossequio all’ideologia aziendalistica che se l’è accaparrata vantando non si sa bene quale primazia, essa viene ridotta al ritorno nel breve periodo, all’immediatezza tangibile e alla valutabilità monetaria degli introiti economici ricavati dalla vendita delle proprie produzioni che, oltre alla brevettazione, comprendono spin off e le ricerche ‘conto terzi’. 

È sufficiente riflettere a come ANVUR (https://www.anvur.it/attivita/temi/), l’Agenzia Nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, ha definito la Terza Missione “apertura verso il contesto socio-economico mediante la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze” per rendersi conto che nell’attuale contesto delle politiche neoliberiste ogni sua estensione a iniziative “dal valore socio-culturale ed educativo”, del tipo “i musei scientifici e gli scavi archeologici”, rasenti l’irrilevanza se non costituisca proprio un orpello. Essa andrebbe, piuttosto, concepita come una assai più ampia funzione sociale di diffusione del sapere e dunque rubricabile sotto l’etichetta comunicazione della conoscenza, ove non se ne contempli solo la forma intellettuale (comunicazione pubblica in senso stretto), ma anche pratica (diffusione di modalità di uso delle risorse disponibili, soprattutto se innovative e finalizzate alla definizione di politiche pubbliche) e, solo infine, oggettivata (prodotti e  produzioni originate dalla conoscenza esperta) (Cerroni A., 2020). L’aziendalizzazione della terza missione distorce la comunicazione della conoscenza, normativamente dialogica, verso la cosiddetta ‘divulgazione’, termine inevitabilmente dispregiativo e di matrice positivistica (volgarizzazione) e con una chiara funzione di mercato, di ‘pubblicità’ di ritrovati, attori e istituzioni. Anche se c’è da notare (Leydesdorff L., Meyer M., 2010) che la brevettazione non è diventata una funzione centrale nemmeno nelle Università statunitensi e che, a parte pochissime eccezioni (Caltech, Harvard, MIT ecc.), non hanno nemmeno particolare rilevanza economica, la cosiddetta Terza missione dell’Università viene quasi sempre schiacciata proprio sulla azione immediatamente economica. Ma, vista la scarsa consistenza di questo contributo, il paragone fra attività fornite dalle università (start up accelerators, seed capitals, web tv ecc.) e quelle fornite da aziende private e agenzie pubbliche assai meglio attrezzate fa comprendere anche in questo caso la riduzione del ruolo dell’Università ad animatore sociale di secondo piano, quasi irrilevante.

Se abbiamo tutti plaudito, condivisibilmente, al crollo delle mura della torre d’avorio come a quello del muro di Berlino, ci rendiamo forse adesso conto che quei muri avevano svolto anche una funzione protettiva che avrebbe comunque meritato l’attenzione politica per trovare un qualche sostituto.



I tre ruoli dell’accademico

Venendo adesso alla figura dell’accademico, inteso come termine epiceno (Merton R.K., 1988), possiamo individuare tre diversi ruoli sociali che bisogna tenere distinti (idealtipi weberiani), anche se possono ritrovarsi nella stessa persona e persino nello stesso tempo (si pensi p.es. al caso degli scienziati coinvolti nel succitato Progetto Manhattan): lo scienziato, l’esperto e l’intellettuale.


Lo scienziato

Lo scienziato riporta alla comunità scientifica di riferimento per la individuazione e definizione di un problema, la metodologia di produzione di dati, l’interpretazione del loro significato e la ricostruzione del fenomeno in oggetto sempre in condizioni di incertezza. Dunque, egli cerca di capire quel che si può sapere: conoscere quel che ancora non si conosce, riportando alla comunità di pari che con quel sapere può avere a che fare. E in ciò fa suo il motto di origine medievale e fatto proprio dall’Accademia del Cimento: provando e riprovando.

La diffusione dell’aziendalizzazione tayloristica sul lavoro dello scienziato, con la sua enfasi prestazionale, si manifesta a questo riguardo con almeno due effetti. Innanzi tutto, la sovrapproduzione da ‘catena di montaggio’ di articoli e libri, burocraticamente derubricati a ‘prodotti’ e, con conseguenza quasi inevitabile, massificati nella qualità. 

In secondo luogo, poiché il margine di manovra dello scienziato più originale di fronte alla peer review diminuisce, per non incorrere nelle forbici censorie del conservatorismo, dei fraintendimenti dovuti a differenze di vocabolario, delle ignoranze specifiche, delle uccisioni protette dall'anonimato, ecc. lo scienziato tenderà a rifugiarsi nel nucleo di ricerca in voga in quel momento 

o, ancora più rigidamente, ad allinearsi agli interessi dei mandanti. Si crea così un mainstream surrettizio e il conseguente dottrinarismo e svuotamento cognitivo: ciò prefigura l'estensione di un bias di conferma, che da fenomeno di psicologia sociale può diventare una vera e propria ideologia, costituendo un pericolo mortale per il futuro della scienza.

Da più parti si lamenta, infatti, tanto una crisi da sovrapproduzione ipertrofica, quanto la diminuzione di qualità accettabile. 

Proviamo a entrare un poco nel difficile processo di valutazione della ricerca (Viale R., Cerroni A., 2003; Cerroni A., in Baldissera A., 2009, pp.51-70; Cerroni A., 2003; Binswanger M., 2014; e Pacchioni G., 2017).

Valutare la produzione accademica si è sempre fatto. Chiunque di noi leggendo un articolo o un libro di un collega, anche di settori un po’ diversi dal proprio, ne percepisce la qualità. 

Ma, vuoi perché l’università costa, vuoi perché chi non ha confidenza con la ricerca non sa valutarla, nella seconda metà del XX secolo si è andata diffondendo l’esigenza di valutazione. 

Valutare vuol dire assegnare un valore in vista della formulazione di un giudizio che possa orientare una scelta in vista di un fine ed è perciò lapalissiano che non esista in linea di principio una valutazione ‘avalutativa’, ovvero asettica, oggettiva. Diciamo che non avrebbe nemmeno alcun senso. Preventivamente occorre stabilire un metodo funzionale a tale giudizio e siccome non ha senso valutare in astratto una cosa, una attività, un evento ecc. senza effettuare paragoni con altri (reali o ipotizzati) che si ritengono confrontabili, tale giudizio non può non essere comparativo. Dunque, la valutazione presuppone anche criteri di tipizzazione, di definizione degli ambiti di esercizio delle scelte, questioni di rilevanza e priorità nella individuazione dei confronti e degli standard, e in definitiva questioni di senso circa quanto ci circonda e come possiamo intervenirci. Ecco che, insomma, valutare mette in gioco i valori più profondi dai quali si guarda alla valutazione medesima, e in ultima istanza rivela la nostra immagine del mondo. Ecco perché l’introduzione di una valutazione suscita sempre discussioni sugli effetti avversi (conversione dei mezzi in fini) e sarebbe dunque opportuno che queste fossero il più condivise possibile: su quanto vi è di soggettivo l’unica possibilità di condivisione del senso è nella costruzione di consenso.

Cosa sia il merito di una ricerca scientifica è in discussione da lungo tempo. Già Weinberg (1963) individuò un merito scientifico interno (quanto sia fatta bene quella ricerca), un merito scientifico esterno (quali effetti su altre discipline), un merito tecnico (effetti su applicazioni tecnologiche) e merito sociale (effetti sul contesto sociale più generale). Limitandoci al solo merito scientifico interno di una pubblicazione, notiamo che Martin e Irvine (1983) ne individuarono tre differenti dimensioni: la qualità, come assenza di errori palesi, originalità, aggiungo, progressività di fronte agli sviluppi potenziali futuri; l’importanza, come influenza potenziale che una pubblicazione potrebbe avere nel suo campo se la comunicazione all’interno della comunità scientifica fosse perfetta; l’impatto, e cioè l’influenza realmente esercitata dalla pubblicazione sulle attività di ricerca ad essa circostanti. Se già essi conclusero che una valutazione bibliometrica (delle citazioni ricevute da successive pubblicazioni) riflette semplicemente l’impatto delle pubblicazioni, potremmo aggiungere che una valutazione tramite peer review (giudizio incrociato fra i ‘pari’ prescelti da qualche rivista in qualche modo accreditata) ha essa stessa una serie di problematicità ben note (Cerroni A., 2003). A ciò dobbiamo aggiungere, come già osservato da Ioannidis (2005) e scritto a chiare lettere dall’Editor di Lancet Horton (2015): “Il giudizio sulla scienza è semplice: gran parte della letteratura scientifica, forse la metà, potrebbe essere semplicemente falsa”. Una indagine ad ampio spettro di Baker (2016) diede poi il via a una serie di indagini che confermano la cosiddetta ‘crisi della replicabilità’ dei dati sperimentali: la questione è ormai… un preoccupante dato di fatto che si presta, fra l’altro, a speculazioni dietrologiche e alimenta sospetti gravissimi sulla scienza.

Recentemente, la diffusione di pubblicazioni cosiddette ad open access (con costi a carico di chi pubblica) ha cercato di superare i vincoli economici posti alla fruizione della scienza dal florido mercato delle riviste sorto per conseguenza di quanto abbiamo detto, ma essa stessa ha generato ulteriori problemi che hanno portato (Sanderson K., 2023) oltre 40 redattori di Nature a dimettersi da due importanti riviste di neuroscienze per protestare contro tariffe eccessivamente elevate, stabilite dall'editore a carico di chi la scienza la produce. Dunque, qualcosa di molto grave non va. E ciò è diventato eclatante proprio da quando si è diffusa una ideologia aziendalistica nel mondo accademico


L’esperto

L’esperto riporta, invece, al committente, che qui considereremo di connotazione politica, committente che lo ha prescelto nella vasta comunità di portatori di conoscenza esperta assegnandogli il compito di fornire soluzioni accettabili, concretamente perseguibili, nei tempi disponibili, e confacenti a certi interessi e finalità (politiche). Il ricorso all’esperto, dunque, è mirato al problem solving grazie a quel che già si sa: egli usa il sapere tecnico disponibile per risolvere i problemi all’interno di un quadro (politico) nel quale altrove è già stata presa posizione di problem setting e alla luce del quale si useranno criteri (politici) per valutare la soluzione proposta. Non è eccessivo assegnare all’esperto l’impegno ben noto in azienda: remember who pays you (ricorda chi ti paga).

Il semplice rinvio del politico ‘agli esperti’ è, insomma, fuorviante perché, se da un lato getta una luce di irrilevanza sul politico, la cui abdicazione pubblica evoca nel pubblico l’avvento salvifico di una tecnocrazia per risolvere problemi che la Politica non sa affrontare da sé, dall’altro occulta valutazioni e scelte ovviamente politiche compiute lontano dai riflettori. In ogni disciplina scientifica, infatti, vi è sempre stato (almeno finora) un più o meno ampio (disciplinarmente e temporalmente variabile) margine di dissenso interno, che viene celato con il ricorso ‘agli esperti’, secondo il motto ‘lo dice la Scienza’. E, perciò, si compiono due errori capitali: si mina la legittimazione democratica della scelta politica e si attribuisce alla scienza un valore epistemologico metafisico che non può certo avere, avendo proprio lottato contro le metafisiche per affermarsi e, anzi, essendo l’essenza dello spirito scientifico proprio in questa continua lotta con i propri fondamenti, donde il suo carattere emancipatorio. È in questa chiave che va stigmatizzata la lapidaria affermazione, da più parti (anche assai autorevoli, ahimè!) formulata: ‘la scienza non è democratica’. Evidentemente, si concepisce la democrazia come una umorale, pre-sociale estroflessione delle proprie peristalsi psichiche e la scienza come illuministico, angelicato coro monodico intonato al disvelamento del Vero, inteso come oggetto definitivo di proprietà esclusiva di una inarrivabile casta sacerdotale. Invece che, con le parole di Thomas Huxley, il ‘mastino di Darwin’: “Science is simply common sense at its best” (la scienza è semplicemente il buon senso al suo meglio).


L’intellettuale

Intellettuale è un termine che ha subito una torsione efficacemente riportata (al significato n.2) dal vocabolario (online) Treccani: “Nell’uso contemporaneo ha spesso valore ironico o limitativo, per indicare ostentazione di gusti e costumi raffinati o superiorità culturale e spirituale, non di rado solo immaginaria: è un i.; fa l’i.; posa a intellettuale.” 

Questa figura è ispirata, evidentemente, a qualche Donchisciotte, Azzeccagarbugli o nella migliore delle ipotesi Cosimo Piovasco di Rondò, figlio del Barone di Rondò, riverito signore di Ombrosa. Ma soprattutto l’intellettuale è visto come un privilegiato che guarda con distacco e supponenza a un mondo che vede sulla via della consunzione, ricevendone, come giusta restituzione, un disprezzo popolare. Come non vedere in questo il frutto di una operazione politica di lunga data volta a inibire la critica troppo scomoda per il potere? Certo, la separatezza fra élite e popolo è, forse soprattutto in Italia, un problema reale: ma lo è per entrambi. Intellettuale notoriamente assai scomodo, Antonio Gramsci (1975, II, p.1505) osservava che se 

“L’elemento popolare 'sente', ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale 'sa', ma non sempre comprende e specialmente 'sente'. I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra”. 

Si può, perciò, intravedere la figura di un intellettuale pubblico che mostri di 'sentire', magari subendo di conseguenza il biasimo dei suoi colleghi pedanti, le ire populiste dei filistei e, di tanto in tanto, la mordacchia dei censori settari che pascolano nel mainstream. Chi sarebbe costui? Colui che fa dello stato di cose presenti un tema di ricerca e non si accontenta di crogiolarsi nella ‘quiete degli studi’, ammesso e non concesso che ne esista ancora traccia. Colui, insomma, che si fa carico dei problemi di rilevanza pubblica, assumendosi la responsabilità di fronte alla propria comunità nell’accezione più generale, ovvero, ancora con Gramsci (ivi), di fronte al popolo-Nazione, assieme al quale realizzare un blocco storico in assenza del quale non si fa politica-storia. Cioè, non si cambia la Storia.

L’intellettuale, insomma, si mette un pezzo di mondo sulle spalle, cercando di capire quel che bisogna sapere per cambiare quel che ha capito che non va, ma che potrebbe andare meglio: si pone il problema di cosa non si sa, del perché ancora non lo si sappia e del perché sarebbe invece opportuno saperlo. E per farlo, innanzi tutto, ascolta, osserva, cerca di ‘sentire’. Del resto, non aveva forse già spiegato Aristotele (Topici) la necessità di partire proprio da quel che si dice nell'opinione più ampiamente possibile condivisa (endoxa) per gettare le fondamenta (archai) su cui edificare il sapere più saldo (episteme)? E non era già per Tucidide (Guerra del Peloponneso) l’opinione della maggioranza, certamente dopo che ha partecipato alla discussione, la più adatta alla presa delle decisioni con rilevanza sociale per la polis? E non avrebbe detto Cicerone (Tusculanae disputationes; De legibus) di considerare il consenso generale al pari di una legge di natura (consensio omnium gentium lex naturae), per cui la potestas ultimativa non può che essere in capo al Popolo, se al Senato spetta la auctoritas?

Certo che si parla qui di una unione di sapere e valori pubblici, cioè di quella che abbiamo sempre inteso, alla lettera, come conoscenza. Ed è avendo in mente questo che ci si fa l’idea di una consunzione pluridecennale dell’accademia, perché senza repubblicana virtus, come scriveva Cicerone, la conoscenza è destinata a restare solitaria e sterile (solivaga cognitio et ieiuna).



Conclusione

Se l’Università, dunque, finisce, che fare? A mio avviso, due sono le azioni da intraprendere. Una reazione deve consistere nel rivendicare l’attuazione dello spirito del Costituente, in particolare agli artt. 3, 33 e 34 da leggersi insieme ed estesi all’intera filiera della conoscenza. E una rivoluzione: ma ci potremmo dibattere a lungo e forse non abbiamo più tempo, vista la straordinarietà dei provvedimenti in corso in questi interminabili tempi d’eccezione. Allora, non ho altra proposta che smantellare con un tratto di penna tutte le riforme di Scuola e Università, in realtà controriforme, operate da tutti i Governi succedutisi negli ultimi venticinque anni. E dopo apriremo il dibattito.



Bibliografia