Riflessioni Sistemiche n° 28


Rifondare le pratiche umane navigando nella complessità

L'emozionante storia del cervello digitale


di Giuseppe Conte

studioso di epistemologia della complessità

Foto di Kohji Asakawa da Pixabay 

Sommario

Partendo dalle credenze che ruotano attorno all’idea di cervello digitale, si esploreranno sommariamente alcune delle dinamiche e fattori che governano la produzione di storie e credenze nella nostra società. Stesse dinamiche che saranno la base per ipotizzare uno scenario evolutivo sociale, culturale, sistemico.

 

Parole chiave
Digitale, mercato, ideologia, mito, magia, vivente, complessità.

 

Summary
Starting from the beliefs revolving around the idea of the digital brain, we will briefly explore some of the dynamics and factors that drive the production of stories and beliefs in our society. These same dynamics will be the basis for suggesting a social, cultural, systemic evolutionary scenario.

 

Keywords

Digital, market, ideology, myth, magic, living, complexity.

 

Premessa

Il precedente numero di Riflessioni Sistemiche (n° 27) è stato dedicato all’individuazione di pregiudizi dominanti nella nostra società. Questo è invece orientato ad individuare pratiche che possano superare tali pregiudizi. In questa cornice si muove il presente contributo, che prende spunto da alcuni dei saggi comparsi nel precedente, pur sviluppando una linea di pensiero autonoma. A questo proposito si suggerisce di leggere, su riflessioni Sistemiche n° 27, i saggi di Serena Dinelli (Primi appunti sulla regolamentazione: tra spontaneità della vita e sistemi di regole), Enzo Scandurra (Non arrenderti, docile, a quella notte seducente),  Francesco Varanini (Computazione) e Pierluigi Fagan (La funzione adattativa della cultura sistemico-complessa ad un mondo sempre più complesso), abilitanti, in diversi modi, a quanto di seguito esposto.

 

Rivoluzione multi-dominio

Quella che stiamo vivendo ai nostri giorni è una vera e propria rivoluzione: la rivoluzione digitale. I progressi di queste tecnologie, mai stati così rapidi, producono ogni giorno strabilianti innovazioni, capaci di cambiare la nostra esistenza e modificare il corso della nostra civiltà. Al contempo, nelle società più tecnologicamente evolute, si assiste ad un progressivo cambiamento dello sguardo con cui si osserva il mondo. Sguardo che è sempre più intrecciato con l’avanzamento tecnologico digitale e che modifica progressivamente la concezione stessa di uomo.

Ad esempio, ormai con termini socialmente metabolizzati, si parla comunemente di intelligenza artificiale (Artificial Intelligence), apprendimento delle macchine (Machine Learning), rete neurale (Neural Network). Espressioni linguistiche che suggeriscono la commistione e la sovrapposizione tra l’universo tecnologico digitale e il dominio degli esseri viventi. Ibridazione è il termine spesso usato con entusiasmo per descrivere questo presunto fenomeno.

La fusione tra umano e digitale rappresenta uno de quadri linguistici e paradigmatici verso cui si sta muovendo velocemente la società occidentale.

Un quadro che tuttavia, ad un’analisi attenta, si mostra come carente di qualsiasi argomentazione scientifica. La sovrapponibilità dei domini della tecnica e dell’umano, seppur costantemente declamata, non è mai argomentata razionalmente.

Neanche sul piano metaforico aderiamo a queste narrazioni e continueremo a sostenere la posizione che i due domini, il tecnico e il biologico, il mondo delle macchine e il mondo della vita, non hanno elementi in comune che ne possano giustificare il confronto o la fusione.

Quanto qui sosteniamo, in maniera inequivocabile, è che la tecnica - e il digitale che ne è parte – appartiene ai sistemi complicati, mentre i viventi sono afferenti ai sistemi complessi.

Gregory Bateson, nelle sue riflessioni, modella alcune affermazioni che possono essere utili per chiarire meglio questa differenza irriducibile, quando parla della distinzione tra Pleroma e Creatura.

Nella mia vita ho messo la descrizione dei bastoni, delle pietre, delle palle da biliardo e delle galassie in una scatola, il pleroma, e li ho lasciati lì. In un'altra scatola ho messo le cose viventi: i granchi, le persone, i problemi riguardanti la bellezza, quelli riguardanti la differenza.
(G. Bateson, 2014, p. 21)


A questo punto è necessario sottolineare che le precedenti affermazioni non vanno in direzione di una contrapposizione tra umano e tecnica, perché questi elementi si trovano su domini diversi e perché l’uomo diviene quello che è proprio grazie alla tecnica.

A questo proposito, anche osservando con attenzione la continua contrapposizione tra apocalittici e integrati, si intuisce che entrambi gli schieramenti, anche quando non sono prodotti ad-hoc dai media, assumono confrontabili elementi che non lo sono, per poi divergere sulle conclusioni. Adottano cioè lo stesso quadro paradigmatico. Argomentazione molto diversa, che sposiamo, è quella che vede la tecnica come elemento caratterizzante l’uomo stesso.

“La tecnica e l’umano sono la stessa cosa, se si toglie la tecnica rimane un animale, non c’è più l’umano.” (Sini, 2011).

Non sembri banale questa precisazione: l’utilizzo della tecnica, azione mediante la quale l’uomo modifica se stesso e il suo rapporto con il mondo, non deve essere confusa con fusione, sovrapposizione o possibile sostituzione.

Questa sarà la nostra chiave di lettura nel leggere gli aspetti culturali e sociali dell’idea del cervello digitale. Cioè l’idea di fondo che un dispositivo tecnologico possa divenire autonomo e generare una sua identità, tanto da autorizzarci ad ammettere un possibile confronto con l’umano.

“Parlare della Macchina che vede e pensa, o addirittura che si autoriproduce (Von Neumann), è infantile antropocentrismo. Dichiarare che la macchina è dotata di una surrazionalità che afferma la potenza di un pensiero creatore delle proprie norme […], significa cadere nella fantasmagoria: vuol dire considerare aspetti della Tecnica (in particolare il computer) e spingerli all’estremo come se quella fosse la realtà.”

(Ellul, 2009, p. 50)

 

Cenni sulla generazione del mito

Il mythos è come una cornice nella quale inseriamo tutto ciò di cui siamo coscienti grazie al nostro lògos. Ciò in cui crediamo, senza sentire il bisogno di porci alcun altro perché, è ciò che costituisce il nostro mythos in cui riposiamo. Crediamo talmente in esso da non sapere nemmeno che vi crediamo. Lo diamo per ovvio, per scontato, lo vediamo evidente; la nostra mente è acquiescente, ossia tranquilla e non chiede altro.”
(Panikkar, 2008, p. 195)


Ogni storia, quindi ogni mito, trova il suo propellente nei sentimenti che riesce a suscitare. Il mito del cervello digitale si attaglia a storie che hanno sempre accompagnato l’umanità e che trovano il loro filo conduttore proprio nella magia, cioè nella capacità di acquisire poteri fuori dall’ordinario.

A ben vedere la storia umana è costellata di queste storie, spesso tramandate culturalmente per sottolineare la tracotanza (Hybris) dell’uomo. Ne sono esempi la vicenda del vitello d’oro, raccontata nella Bibbia, dove il divino viene prodotto direttamente dalle mani dell’uomo, oppure nella narrazione della torre di Babele, simbolo dell’ingegno umano che raggiunge Dio. Oppure, in maniera ancora più precisa, dalla storia del Golem, schiavo artificiale prodotto dall’uomo che infine si ribella al suo creatore.

Ma qual è  il filo conduttore di queste storie? La volontà umana che diviene finalizzata e manipolatrice compromettendo la relazione costitutiva con il tutto.

“Perché il finalismo è l’altro aspetto del riduzionismo scientifico, esso è l’ideologia delle menti deboli che pensano che per comprendere processi complessi esistono sempre scorciatoie che fanno risparmiare sudore e fatica.”
(Scandurra, 2022)


In questa postura mentale la tecnologia e il digitale divengono strumenti dotati di poteri straordinari, al servizio di uomini illuminati, rievocando l’archetipo della bacchetta magica. Torniamo quindi a storie di magia che invadono il terreno della mente e delle coscienze, quel terreno che Bateson, citando Alexander Pope definiva dove “gli angeli esitano a posare il piede e dove gli stolti si precipitano vociferanti”.

L’idea del cervello digitale, che ha colonizzato così rapidamente i nostri cervelli biologici, ha quindi echi antichi e ripercussioni nuove al tempo stesso. E molteplici sono le ramificazioni di questa idea, arrivata in breve a invadere anche le scienze. Ad esempio, nelle neuroscienze, si parla abitualmente di circuiti neurali ed elaborazione dell’informazione. O nella psicologia, con il redivivo cognitivismo HIP (Human Information Processing) e il boom della psicometria. O nel sociale, con il rigurgito dell’eugenetica di matrice statunitense, già portata alle estreme conseguenze dal regime nazista, e ora ripulita, attualizzata e basata sull’idea del cervello digitale, simboleggiata dal movimento transumanista e condensata in sigle come ‘Human+’.

 

Cultura, confort, mercato

La creazione di senso, per l’animale sociale che è l’uomo, passa nella creazione e condivisione di credenze, miti e narrazioni. Prodotti della spinta continua di ogni individuo di trovare un sentimento di equilibrio ed accettazione tra gli altri, un senso di coerenza con l’ambiente sociale che lo ospita (Antonovsky, 1979). E’ stimolante e coinvolgente rileggere le mille storie dell’umanità in questa prospettiva, come è interessante confrontare il passato con il presente. Tuttavia, credere che queste costruzioni siano appannaggio delle epoche passate e che oggi si viva in una specie di realtà oggettiva è oltremodo ingenuo. Anzi, non è affatto peregrina l’idea che in un prossimo futuro guarderemo all’epoca attuale come ad un periodo particolarmente pregno di banali credenze e superstizioni. Ma comprendere la diffusione e il successo sociale di una narrazione è estremamente difficile dato che i fattori coinvolti sono numerosi e diversi: sociali, storici, ambientali, culturali. Lontane e inestricabili sono le radici di questo fenomeno che, in quanto espressione sociale, è intrinsecamente complesso. Il dipanarsi storico di queste credenze è mirabilmente descritto da Varanini (2022). Tuttavia, dalla prospettiva culturale è utile considerare quanto sia stata propulsiva quella che è chiamata ‘ideologia californiana’, potenziata della confluenza di numerosi rivoli contro-culturali nati nei decenni postbellici e attecchiti negli Stati Uniti.

“Questa è una miscela di cibernetica, economia liberista e controcultura libertaria, ed è emersa da una bizzarra fusione della cultura bohemienne di San Francisco con le industrie di alta tecnologia della Silicon Valley. […] Questo amalgama di opposti è stato ottenuto per mezzo di una profonda fede nel potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie dell’informazione. Nell’utopia digitale ognuno potrà essere ricco e felice. Non sorprendentemente, questa visione ottimistica del futuro è stata entusiasticamente abbracciata, attraverso tutti gli Stati Uniti, da nerd del computer, studenti scansafatiche, capitalisti innovativi, attivisti sociali, accademici di tendenza, burocrati futuristi e politici opportunisti.”
(Barbrook & Cameron, 1995)


Posto questo substrato culturale, proviamo comunque ad evidenziare due elementi che potremmo chiamare ‘portanti’ nella creazione della narrazione sul cervello digitale. Il conforto e il mercato.

Storie come quella del cervello digitale sono confortevoli. Favoriscono una visione del mondo e del futuro che libera dalla fatica e dall’inquietudine del rapporto con l’incerto, l’imprevedibile, proprio perché propongono il baratto dell’incertezza del complesso (AA.VV., 2009), con la prevedibilità della tecnica nelle mani dell’uomo. Creano una ‘comfort zone’, una zona confortevole dove il pensiero critico e complesso, così incomodo ed energivoro, non ha bisogno di essere dispiegato.

“Possiamo forse infine intendere la computazione come una specifica forma di rimozione: il tentativo di escludere, espellere dalla coscienza di ciò che ci turba e ci inquieta. Sostituendo ogni persona ed ogni cosa con un suo simulacro.”
(Varanini, 2022)


Tutto questo, è articolato in un contesto che assume robustezza se è evocato il mercato, l’abacadabra che consente di assumere tra le parti una postura ideologica mutuamente vincolante e volta al mero utilitarismo. Perché il mercato è in primis un modo di pensare. Non è un oggetto o un fenomeno. Quando diciamo mercato intendiamo la trama di relazioni utilitaristiche dove ognuno è al contempo consumatore e produttore, cliente e fornitore dell’altro. Relazioni che sono manifestazioni del pensare mercantile.

La costruzione dell’idea della vita materiale, della quotidianità individuale e sociale, usciva dal terreno delle “semplici” relazioni umane per diventare il prodotto di una industria che produce profitto nella costruzione del “senso della vita”. Una industria che mette la propria “potenza” a disposizione di chi ha i mezzi economici per utilizzarla, sia essa un’impresa che deve vendere, sia esso un uomo politico o manager o un partito.
(Bellucci, 2019, p.31)


E’ un quadro concettuale particolarmente robusto proprio perché basato sulla banale e quantificabile regola del profitto, che diviene criterio unico dell’agire, proponendosi come sostituta di cornici qualitative complesse e fluide come quelle legate ai valori, personali o sociali che siano.

Un tassello importante nella definizione della prospettiva che qui proponiamo, è nel riconoscere l’utilizzo strumentale della tecnologia da parte della nostra finalità cosciente. Finalità che lo stesso Bateson descrive:

“La coscienza opera allo stesso modo della medicina nel suo campionamento degli eventi e dei processi del corpo e di ciò che avviene nella mente totale; è organizzata in termini di finalità. Essa ci fornisce una scorciatoia che ci permette di giungere presto a ciò che vogliamo; non di agire con la massima saggezza per vivere, ma di seguire il più breve cammino logico o causale per ottenere ciò che si desidera...”
(G. Bateson, 1968, p. 473)

E’ quindi il cuore del regno della coscienza intenzionale, centrata al raggiungimento del tornaconto nella continua ricerca di percorsi più efficienti per ottenerlo ed aumentarlo.

“Siamo affogati nell’intenzionale.”
(Illich, 2013, p. 266)


 In questo humus la storia di cui trattiamo, il cervello digitale, è sposata e propagata nella misura in cui ‘fa notizia’, cioè stimola risposte emotive nel pubblico. Emozioni e sentimenti che, per la nostra natura biologica, sono manifestazioni di interesse ed attenzione, spinta propulsiva all’orientamento e al comportamento. Il marketing moderno, braccio operativo del mercato, ha da tempo intuito queste dinamiche spostando il l’attenzione dai prodotti e dai servizi oggetto dello scambio, alle emozioni da suscitare nel consumatore. Questo, tra l’altro, ha prodotto il definitivo e completo scollamento del marketing dall’elemento da veicolare trasformandolo in repertorio di tecniche, spesso psicologiche, volte alla manipolazione utilitaristica del consumatore influenzando il suo universo di emozioni, sentimenti, senso e significati.

Il tentativo del capitale è di rendersi “interfaccia” tra l’individuo e la realtà stessa, una interfaccia attraverso la quale monetizzare qualunque transito in entrata e in uscita, da e per i nostri sensi. Il passaggio successivo dell’industria di senso, l’esito “obbligato” della sua espansione, è quello di trasformarsi in quella che abbiamo chiamato come l’Industria dei Sensi.
(Bellucci, 2019, p. 257 )


Dato questo scenario è essenziale non accettare passivamente il turbinio di narrazioni sul digitale cui siamo sottoposti quotidianamente. Naturalmente ciò non riguarda solo le narrazioni sul digitale ma possiamo tranquillamente affermare esse siano di uno degli emblemi dell’epoca moderna, epoca dove sempre più passa in secondo piano il sentimento della verità a favore del sentimento derivante dal pregustare il potenziale profitto dell’azione. Il consumatore, quindi ognuno di noi, si trova immerso in narrazioni banali, concordati e coerenti per le quali si sviluppa un senso di  accettazione. Si tratta di fenomeni studiati dalla psicologia sociale, chiamati effetto familiarità o effetto di mera esposizione (Zajonc, 1968) ed entrati da decenni a far parte del repertorio del marketing. Non a caso si parla dell’epoca contemporanea come quella della ‘post-verità’.

Il risultato è che il cervello digitale rappresenta ormai una vena aurifera di storie che pare inesauribile e che, in misura diversa coinvolge l’intero pianeta in quel processo ormai noto di globalizzazione che, prima di tutto, è quel processo di diffusione di un’ideologia banale che abbiamo raccontato in estrema sintesi.

“come accade che gli esseri umani, a fronte delle infinite possibilità e diramazioni che l’evoluzione della vita potrebbe proporre, tendono spesso ad imboccare una strada e a persistere in essa? E come accade che la vedano e sentano ineluttabile? E come perdono la loro capacità di immaginazione alternativa? o magari la capacità di fare resistenza ad un trend per esplorarne uno nuovo e diverso?”(Dinelli, 2022)

Ma il termine ‘banale’ non deve far credere che sia facile districarsene. Stimoli, informazioni, storie, sono il nutrimento quotidiano di un qualunque contesto sociale che è al contempo nicchia evolutiva, ambiente in cui ognuno di noi si muove e con il quale si relaziona. Torniamo quindi al concetto di relazione costitutiva che influenza inevitabilmente la generazione delle nostre credenze, opinioni, valori.

“Nelle relazioni creiamo noi stessi mentre creiamo il mondo.”
(Morelli, 2017, p. 69)


Entrambi i fattori decritti si sono progressivamente fusi fino a divenire corpo solido, proprio perché iper-semplificati.

“la tecnologia che, legata alla finanza, pretende di essere l’unica soluzione dei problemi, di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri”
(Francesco, 2015, p. 20)

 

Solo una storia?

Siamo tutti immersi in storie, storie che raccontiamo a noi stessi anche su noi stessi e che formano quell’idea di Io a cui poi crediamo.

“Ognuno di noi è un racconto peculiare, costruito di continuo, inconsciamente da noi, in noi e attraverso di noi - attraverso le nostre percezioni, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre azioni; e, non ultimo, il nostro discorso, i nostri racconti orali.[…] L'uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé.”
(Sacks, 2001, p.144)

 

Storie che raccontiamo sul mondo e che articolano il nostro agire. Storie che continuamente costruiamo con i mattoni delle nostre convinzioni, credenze, costrutti. Elementi che possono essere più o meno radicati e che, se centrali rispetto nostro sistema di credenze, divengono matrice di ulteriori convinzioni.

“Costrutto nucleare: costrutto che governa i processi id mantenimento di una persona, ossia quelli attraverso cui mantiene la sua identità ed esistenza. Costrutto periferico: costrutto che può essere cambiato senza una seria modificazione della struttura nucleare.”
(Kelly, 2004, pp. 482,483)


Giunti a queste prospettive generalmente si manifesta in molti lettori un rigurgito di realismo ed un’alzata di scudi a difesa della Verità oggettiva.

Non è questa la sede per discutere le abituali accuse di relativismo che ne scaturiscono, basti sottolineare che non si parla qui di relativismo, dove ogni affermazione ha lo stesso peso, bensì di relazione.

“il relativismo è pessimista e distrugge ogni criterio di verità, ivi compreso il proprio; la relatività [complessità], al contrario, lascia in piedi i criteri della verità senza però assolutizzarla”
(Panikkar, 2006, pp. 227, 228)


La relazione con noi stessi e la relazione sociale che influenza grandemente la nostra organizzazione interna che a sua volta è lo strumento con cui ci rivolgiamo al mondo costruendo comunità, ideologie, identità, credenze, verità.

“Non esistono stati di un sistema che non siano, esplicitamente o implicitamente, riferiti a un altro sistema fisico […]. Per comprendere la realtà è necessario tener presente che ciò cui ci riferiamo, quando parliamo di essa, è strettamente legato a questa rete di relazioni, di informazione reciproca, che tesse il mondo […]. La realtà non è fatta di oggetti.
(Rovelli, 2014, pp. 220, 221)

 

C’è da preoccuparsi?

Date queste premesse ci si potrebbe interrogare sulla necessità di interrogarsi sul mito del digitale, in definitiva storia tra le mille storie che formano la trama delle nostre vite.

L’urgenza di questa riflessione deriva dai riflessi negativi che coltivare questa narrazione può avere proprio sul mondo complesso del vivente cui prima si è accennato. Quello che qui sosteniamo è che l’assunzione acritica del mito del digitale renda disfunzionale il nostro sguardo verso il complesso, verso il vivente.

“…ciò che mi dà pensiero è l’aggiunta della tecnica moderna al vecchio sistema: oggi i fini della coscienza sono realizzati da macchine sempre più possenti[…]. La finalità cosciente ha ora il potere di turbare gli equilibri del corpo, della società e del mondo biologico intorno a noi.”
(G. Bateson, 2001, p. 473)

 

False soluzioni

Come in precedenza descritto, il sistema di credenze che spinge ad antropomorfizzare la tecnica risulta essere estremamente pericoloso, a nostro avviso, proprio perché porta il soggetto, l’osservatore,  ad avere uno sguardo manipolatorio, tipico del pensiero tecnico, anche nei confronti delle complesse dinamiche dei viventi e dell’ecosistema nel suo complesso associato ad un senso di sudditanza rispetto alle machine che ricordiamo, sono pur sempre guidate da altri uomini. A questo punto, è proprio l’ottica con cui abbiamo descritto la trama infinita di relazioni e di storie che ci circonda che ci permette di passare in rassegna ed escludere rapidamente alcuni ‘rimedi’ cui si portati a indugiare più facilmente. Eccone alcuni.

Verifica ed esclusiva diffusione di notizie ed informazioni ‘certificate’ e vere. Visione solo apparentemente risolutiva che rischia di aprire scenari ancora più inquietanti se ci si domanda: chi dovrebbe certificarle? E chi deciderà i criteri di certificazione? E comunque, a ben vedere, già oggi viviamo in un contesto informativo certificato. In certi paesi certificato da poteri centrali, in altri certificato dalle logiche di mercato.

Lotta alle fake news. Soluzione molto legata alla precedente. Slogan più che sostanza. Il sistema dell’informazione mondiale è teatro di lotte senza quartiere tra poteri e ideologie diverse, una commistione inestricabile tra propaganda, politica, marketing e potenza tecnologica. Uno scenario orwelliano dove ogni Stato e grande organizzazione ha realmente il proprio “Ministero della Verità”, dove la ricerca tecnologica è fortemente orientata nello sviluppo di nuovi sistemi di propaganda e persuasione e dove a tutte le parti che partecipano a questo gioco, per scopi diversi, conviene sostenere l’idea del cervello digitale.

Sensibilizzazione della cittadinanza e sviluppo di un pensiero critico. Una rimedio sintomatico dalle proprietà ansiolitiche che, proprio per le dinamiche descritte in precedenza, ha irrisorie possibilità di attecchire nel contesto attuale. Basti pensare che, la stessa espressione “pensiero critico” ha subito negli ultimi decenni una torsione, una deriva semantica che lo ha portato ad essere comodamente ospitato nell’alveo del pensiero dominante mainstream, strappandolo dalla sua connaturata posizione alternativa ad esso.

 

Prospettive

Le proposte appena descritte, seppur rapidamente accantonate come irrealizzabili e fallimentari, permettono di immergerci ancora più profondamente nelle dinamiche globali che sono al contempo linfa e pantano della nostra esistenza. Date queste premesse sembrerebbe essere senza scampo la deriva e la corsa verso il baratro come nella popolare credenza, anch’essa creata dalle logiche di mercato, dei lemmini votati al suicidio di massa.

Quanto fin qui descritto traccia un panorama in cui, a livello planetario, vi è un progressiva omologazione al pensiero unico che si traduce in una corrispondente diminuzione di stili di vita, credenze e sistemi di valori diversi. E’ una perdita gravissima di diversità culturale, non meno grave della perdita di biodiversità che lo stesso sistema di credenze e posture mentali indirettamente sta provocando. L’associazione del mercato, della tecnica e della propaganda, coagulate nel pensiero appetitivo e calcolante che abbiamo descritto, invade le comunità e penetra quotidianamente nelle coscienze consolidando quello sguardo sul mondo che è reale matrice del problema, innescando una causalità circolare sempre più vertiginosa.

Tuttavia, vi sono piccole zone di resistenza e a queste occorre guardare per ispirarsi. Si tratta di comunità locali, formazioni sociali più o meno fluide, gruppi di dissenso che hanno chiaramente poca risonanza mediatica. Caratteristiche comuni di queste comunità è il rifiuto più o meno netto  dell’ideologia che abbiamo descritto e il focus sull’umano e su relazioni sociali ‘autentiche’, cioè disintermediate.

A ben vedere si tratta di comunità che nelle loro dinamiche ricalcano i principi organizzativi che regolano i viventi, dove una differenza significativa tra l’organizzazione interna e l’ambiente esterno traccia un confine visibile e netto abilitando l’emergenza di processi e dinamiche specifiche che generano un’identità.

Proprio questo è il modello che si propone in questo scritto. Una comunità che abbia chiare le proprie distinzioni rispetto all’ideologia dominante. Distinzioni nette che possano fungere da barriera rispetto alla ‘contaminazione’ e alla diluzione della propria identità. Il rifiuto del modello mercantilistico, della finalità cosciente come unica guida, della tecnica parificata all’uomo e dell’idea di assimilare l’uomo alle macchine, confondendo il banale e il complesso. Una barriera puntellata dal dissenso e dal pensiero critico abbastanza resistente da permettere la creazione di un ambiente ‘interno’ fertile e recettivo alla nascita di valori e criteri diversi.

“…prima dobbiamo forse cambiare il modo con cui pensiamo di conoscere il mondo ed il modo con cui pensiamo di progettare non solo i meccanismi ma anche i sistemi sociali ed istituzionali, le interrelazioni economiche, sociali e politiche che fanno il nostro modo di stare al mondo. Progettare qui significa curare le “condizioni di possibilità”. In metafora, un po’ meno ingegneria, un po’ più agricoltura.”
(Fagan 2022)


Prendersi cura di un campo dove si voglia crescano spontaneamente nuove idee, nuovi stili di vita, nuove consapevolezze, vuol dire proteggerlo, prendersene cura, non abbandonarlo. E’ come strappare un lembo di terra al cemento e creare un orto urbano, come piantare specie adatte a proteggere specie vicine. Come istituire una riserva bioculturale in cui le dinamiche sistemiche abbiano modo di dispiegarsi al di fuori dei vincoli imposti dalla coscienza intenzionale e dalla ricerca del profitto. Nora Bateson ne dà un esempio coniando il termine aphanipoiesis.

“Come concetto l’aphanipoiesis dà il permesso di prendere sul serio quel cambiamento significativo che, per come avviene, non può essere raggiunto dall’analisi e dall’azione diretta. Siamo oggi in un momento in cui c’è un bisogno impellente di mutare, di vivere in modi che non possono prender forma dalle strutture esistenti. Come gli esseri umani o altri organismi possono sapere in che modo diventare qualcosa in cui però non sanno come tramutarsi?”
(N. Bateson, 2023)

 

Il rischio

La sfida principale cui va incontro un’identità organizzativa all’interno di un ambiente è quello di riuscire a scambiare materia ed energia con il contesto senza esserne assimilata e perdere la propria identità. La barriera di confine deve essere quindi intelligente, abbastanza permeabile da relazionarsi con l’ambiente che la circonda ma sufficientemente robusta da preservare la propria identità. La difficoltà di realizzazione e mantenimento di una comunità del genere è nel governo di questa permeabilità di confine. Così come ogni organismo vivente deve riuscire a bilanciare protezione con sensibilità, allo stesso modo la comunità deve riuscire a proteggersi da perturbazioni potenzialmente distruttive senza chiudersi e isolarsi dal contesto, scenario che la renderebbe disfunzionale rispetto al resto dell’ambiente.

 Questa è la caratteristica di ogni elemento che compone un essere vivente ed è la sfida di ogni organizzazione sociale. Far parte di un contesto più grande senza esserne assimilati. Una sintesi mirabile di quest’immagine fatta di relazioni e differenze la troviamo nelle parole di Raimon Panikkar: “Distinti, ma non separati” che fanno eco a quelle di Meister Eckhart: “Fusi, ma non confusi”.

 

Scenari di cambiamento

“… Se non ci cacciassimo nei pasticci, i nostri discorsi sarebbero come giocare a ramino senza prima mescolare le carte […] Allo stesso modo, per pensare idee nuove e dire cose nuove, dobbiamo disfare tutte le idee già pronte e mescolare i pezzi".
(G. Bateson, 2000, p. 49)


Gruppi siffatti restano ai margini della società mainstream, è inutile illudersi. Il sistema ideologico dominante di cui abbiamo parlato è tutt’altro che in crisi, anzi è ancora in inarrestabile espansione. Un’espansione talmente rapida che non può non richiamare alla mente quella dinamica di retroazione positiva, di cibernetica memoria, che porta un sistema al rapido collasso. Ma forse questo collasso non è necessariamente esiziale. Come l’arrivo dell’asteroide di Chicxulub è stato un evento che si presta a chiavi di lettura diverse se assumiamo la prospettiva dell’ordine costituito – i grandi dinosauri – o quella del nuovo – i piccoli mammiferi. La perdita di organizzazione di un sistema svincola elementi rendendoli disponibili a nuove organizzazioni.

“L’amplificazione e l’accelerazione di tutti questi processi possono essere considerate come lo scatenarsi di un formidabile feedback positivo, attraverso il quale un sistema si disintegra irrimediabilmente. Il probabile è dunque la disintegrazione. L’improbabile, ma possibile, la metamorfosi.”
(Morin, 2010)


E’ il segreto della vita, organizzazione anabolica capace di prosperare e diffondersi anche grazie alla morte, evento catabolico per eccellenza. Infatti, proprio quando il contesto, l’ambiente fisico o culturale, muta rapidamente a valle di una crisi e le abituali relazioni mutuamente vincolanti che tengono assieme vari elementi sociali si sciolgono, che elementi, gruppi, subculture possono trovare nuove condizioni ambientali adatte a prosperare.

“Siamo sull'autobus insieme ad un pianeta pieno di organismi ronzanti di vita, che tutti si muovono nel tempo, si spostano, imparano, cambiano e si rispondono a vicenda, ma non c'è una destinazione. Le mete e le destinazioni predeterminate sono efficienti nell'industria, ma inefficienti (o proprio incapaci) nel continuare la complessità della vita”
(N. Bateson, 2023)


Questa è la prospettiva adatta, a mio avviso, per inquadrare la situazione nel suo complesso. Una prospettiva che apre uno squarcio nel velo di ineluttabilità che a volte avvolge tutti, e che può dare la forza per proteggere e coltivare un’idea, un sogno, una speranza.

 

In sintesi

Abbiamo visto come l’idea di cervello digitale sia una costruzione completamente irrazionale e abbiamo elencato alcuni fattori sociali e culturali che ne hanno favorito la genesi. Siamo quindi andati ad esplorare, per sommi capi, i processi di generazione di storie e significati negli esseri viventi e di come questo sia risultante della complessa interazione dell’organismo con il suo ambiente. Da queste considerazioni si è sviluppata una proposta di ‘speciazione’ nella costruzione di una comunità protetta ma non isolata dal contesto mono culturale attuale, dove sia possibile creare le condizioni per la generazione di un vero e proprio nuovo fertile ‘campo semantico’, necessario ad abilitare una relazione strutturalmente diversa con se stessi e il mondo.

 

Una conclusione che principia

L’unica credenza pericolosa è che si sia o si possa essere al di fuori di un sistema di credenze. La costruzione di mondi è connaturata all’essere umano. La questione non è quindi immaginare di emanciparsi dalle credenze raggiungendo un inesistente punto privilegiato di osservazione, bensì creare le condizioni per la gemmazione spontanea e rizomatica di un sistema di credenze funzionale alla cura, per favorire il rigoglio dell’eco-sistema terrestre e delle creature che vi appartengono. Coltivare, prendersi cura del contesto, dell’ambiente, seminare, nutrire, accudire. Dove la relazione che lega l’accudente e l’accudito è riconosciuta come quella tra osservatore e sistema osservato e riconosciuta come generativa di entrambi e del contesto. In estrema sintesi potremmo chiamarla ‘comunità di promozione della salute’.

“La salute è innanzitutto un’esperienza soggettiva e relazionale. Ha inoltre a che vedere con l’equilibrio dinamico di un sistema vivente (una persona, una società, l’ambiente), e con la costruzione di senso.”
(AA.VV., 2019)

  

Bibliografia e sitografia