Riflessioni Sistemiche n° 28


Rifondare le pratiche umane navigando nella complessità

La funzione adattativa della cultura sistemico-complessa ad un mondo sempre più complesso (seconda parte)


di Pierluigi Fagan

Studioso indipendente. Independent scholar.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay 

Sommario

Negli ultimi settanta anni il mondo ha subito una inflazione di complessità. Le nostre forme sociali, economiche e politiche dovranno cambiare nel profondo per darci miglior adattamento a questi rapidi e significativi cambiamenti.


Parole chiave

Era complessa, cultura della complessità, democrazia, sistemi auto-organizzati, adattamento.


Summary

Over the last seventy years the world has undergone an inflation of complexity. Our social, economic and political forms will have to change profoundly to better adapt us to these rapid and significant changes.


Keywords

Complex Age, complexity culture, democracy, self-organization system, adaptive system.



Nel precedente articolo (Fagan, P. 2022) si partiva da una premessa: il mondo sta radicalmente cambiando. Questo movimento storico è dedotto facilmente dalla semplice contabilità del numero di esseri umani e di Stati cresciuti di tanto (triplicati) in poco tempo (settanta anni) e relativo sviluppo della rete delle reciproche interrelazioni. Questo il fatto quantitativo. Il fatto qualitativo è più complesso, ma nel groviglio dei vari fenomeni generatisi segnalerei il fatto che è in atto una sorta di “grande convergenza” tra i diversi modi economici. Il concetto di “grande convergenza” (Baldwin, R., 2018) nasce in rapporto ad un famoso testo dello storico K. Pomeranz “La grande divergenza” (Pomeranz, K., 2004). In esso, si mostrava con abbondanza di dati e fatti, come la divergenza tra mondo occidentale e soprattutto Cina, una inversione dei pesi di potenza quali si erano manifestati lungo i secoli precedenti, cominciò nella prima metà e si affermò nella seconda metà dell’Ottocento a seguito della Rivoluzione industriale che possiamo considerare il pieno compimento della forma moderna di economia. Nella seconda metà del Novecento, invece, è iniziato un processo che vede flettere la curva di potenza occidentale e crescere non solo quella cinese, ma anche quella indiana, sud-est asiatica ed in parte araba mentre ci si aspetta che a traino sia destinata a crescere anche quella africana e sudamericana. In gran parte, questo movimento verso la riduzione di differenza relativa è stato mosso dall’adozione ormai planetaria delle forme dell’economia moderna ovvero scienza-tecnica, capitale, mercato. 

Questa ultima formula ha diverse declinazioni di peso e modo, con più o meno radicalismo di mercato, predominanza di capitale privato o pubblico, diversi livelli di sviluppo della conoscenza tecno-scientifica. Ma a grana grossa, non v’è dubbio che applicata l’economia moderna a stati demograficamente massivi con davanti decenni di sviluppo conseguente l’esplorazione delle condizioni di possibilità, faccia il paio con la riduzione delle condizioni di possibilità degli stati occidentali ultra-maturi che usano quel tipo di economia quantomeno da due secoli. È proiettando queste due curve su un grafico che si nota, palesemente, il processo di convergenza tendenziale, confermata da tutte le analisi e previsioni dei principali istituti di ricerca sull’economia-mondo, accademici, istituzionali nonché quelli fatti da operatori internazionali del sistema banco-finanziario. L’argomento economico è ingombrato spesso dalla nostra definizione di “capitalismo”, il modo economico centrato sulla riproduzione di capitale, questo attrattore concettuale ordina per lo più il dibattito critico. Forse dovremmo allargare l’inquadratura e leggere come e perché nacque il sistema che chiamiamo “economia moderna” a livello di funzionalità sociale. Nei fatti, scienza-tecnica-capitale-mercato si sono saldate a sistema per produrre beni e servizi, nonché condizioni di possibilità garantite da potenza geopolitica, che migliorassero la quantità e qualità di vita degli associati coinvolti nel sistema come produttori e consumatori. Naturalmente questo modo economico nasce e si riproduce replicando l’asimmetria sociale tra Pochi e Molti, ma sono cinquemila anni ovvero dalla stessa nascita delle forme civili di vita associata che c’è questa asimmetria. Lo stesso poderoso incremento demografico degli ultimi settanta anni è figlio di questo sistema avendo migliorato le rese agricole, diminuito la mortalità infantile, allungato la speranza di vita. 


In luogo delle profezie sulla fine del “capitalismo” o sulla sua eternizzazione, andrebbe notato che questo sistema ha almeno tre limiti che vanno considerati. Il primo è che ciò che lo alimenta sul piano concreto, materie prime e l’energia che serve a farlo funzionare, ha limiti di disponibilità (Butera, F.M., 2021), soprattutto ora che è lievitata la sua estensione ed intensità a livello mondo. Il secondo è che anche il piano dei bisogni che fa da motore immobile al sistema produco-consumo, ha a sua volta dei limiti. Nei fatti, negli ultimi cinquanta anni, qui al centro del sistema che è la sua regione occidentale, si è prodotta una sola innovazione rilevante, l’info-digitale con prospettive di applicazione anche nel “bio” (NSF/DOC, 2002). Tra fine Ottocento e primi Novecento, avemmo in sequenza: la rivoluzione meccanica e termodinamica, quella chimica, quella fisica, quella sanitaria e a Novecento inoltrato quella delle telecomunicazioni e dell’intrattenimento di massa. Le innovazioni generative di cascate di nuovi prodotti e servizi di oltre un secolo fa è stato un unicum che non si è più replicato. L’info-digitale e le biotecnologie sono gli unici settori recenti in espansione futura, ma non sembrano poter replicare quantitativamente l’impeto di sviluppo 

precedente (Gordon, R.J., 2017). Sull’info-digitale c’è anche la discussione sul se e quanto questa nuova forma vada a risucchiare molteplici attività di produzione precedenti con un saldo negativo in termini occupazionali minando la precondizione per l’esistenza di un mercato di domanda che assorba la crescente produzione potenziata dagli aumenti di produttività oltreché dalle innovazioni stesse.  Quindi, più che strologare sulla fine o l’eternità del capitalismo c’è da rendersi conto che l’economia moderna ha un ciclo storico di curva a campana per la quale per il tratto iniziale cresce, in quello mediano ristagna, in quello finale decresce per restrizione progressiva delle sue condizioni di possibilità. Questo ambientando il modo economico moderno nei vari paesi o aree di civiltà che si trovano in punti diversi di quella curva. Risulterà quindi che noi occidentali siamo nella discesa della curva a campana mentre altri sono in ascesa sul primo lato della curva, semplicemente perché sono all’inizio del ciclo ed hanno più domanda potenziale. 


C’è poi anche un terzo aspetto critico ovvero il fatto verificato di quanto questo impeto di produzione impatti sugli equilibri eco-climatici (Moore, J.W., 2017) e di quanto la competizione tra sistemi economici e finanziari di potenza ripartiti per stati, alimenti il conflitto geopolitico (Fagan, P., 2017). Sebbene il fondamentalismo economico si sia sempre concentrato sull’interno del sistema economico, nei fatti, ogni sistema economico nazionale sia per alimentazione di materie ed energie, sia per attrazione di capitali, sia per ricerca di mercati di sbocco, ha vitali dipendenze esterne. Come si noterà, nella nostra analisi abbiamo bandito ogni giudizio etico-morale, prima di chiederci cosa ne pensiamo di tutto ciò dovremmo concentrarci a capire come funzione, se continuerà a funzionare, per chi di più (il c.d. “resto del mondo” che è solo all’inizio del suo sviluppo) e per chi di meno (noi occidentali nel tratto discendente della curva a campana), a quali prezzi, generando quali frizioni e contraddizioni. 


Con tutto ciò crediamo di aver sostanziato sufficientemente l’affermazione del fatto che il mondo è oggi radicalmente “nuovo” rispetto anche solo a quello di qualche decennio fa (McNeill, J.R., Engelke, P., 2018) o un secolo fa (McNeill, J.R., 2002-2020). Tutto ciò pone un problema: l’adattamento alle nuove condizioni del contesto. Per noi società occidentali in contrazione anche più che per altre parti del mondo in espansione. 


Le società tra animali e piante possono intendersi come “veicoli adattivi”. Non v’è dubbio che la strategia sociale o gruppale si sia largamente affermata nell’evoluzione per il semplice fatto che una società o gruppo è sempre un intero più delle parti. Tra individuo ed ambiente, si è spesso frapposta la società o gruppo. Gli individui si adattano alla società che diventa il comune sistema adattativo rispetto all’ambiente. Le società tra animali e piante e quelle umane hanno certo molti tratti e dinamiche in comune, ma hanno anche una distinzione di fondo ovvero la natura auto-cosciente che pensiamo esser una nostra esclusiva distintiva. Le strategie adattive delle diverse società umane, piccole, medie, grandi, introflesse o estroflesse, più o meno dinamiche, semiaperte o semichiuse, ordinate da funzioni le più varie (politiche, economiche, militari, religiose) animano il registro storico. Per ognuna e per la loro forma più ampia di civiltà, si possono leggere successi e insuccessi, rapide affermazioni ed altrettanto rapide cadute o catastrofi, cicli di vita. Il punto è che ognuna ha dovuto fare i conti con le proprie capacità di intermediare adattamento al mutare delle condizioni esterne. Come accennato nel precedente articolo, forse questa inquadratura sarebbe più chiara e condivisa se del lavoro di Darwin si fosse più che esaltato il concetto di evoluzione spesso inteso come progresso, la necessità di adattamento tra le parti e tra parti e contesto, un contesto che cambia, sempre. Tutto è sempre dentro un più ampio contesto e sistemi minori e maggiori debbono adattarsi reciprocamente oscillando in una banda di compatibilità relativa e complessivamente al contesto dato che è dinamico. 


Nella cultura sistemico-complessa, sappiamo che i sistemi che mostrano le migliori facoltà adattative alle dinamiche di contesto, sono i sistemi auto-organizzati. Sono i sistemi in cui viaggiano meglio le informazioni e dove l’insieme trova modi di auto-strutturarsi funzionalmente ed autoriprodursi (autopoiesi), adattandosi per l’appunto alla mutevolezza del contesto. La prima forma strutturante le società umane è la politica poiché è lì che si decide del sistema nel suo complesso con poi i più ampi strumenti per far di quelle decisioni un ordine, inclusa la funzione legislativa senza la quale non esisterebbe il “capitalismo” o modo economico moderno. La versione autorganizzata della funzione politica è il sistema democratico poiché certo non è distribuita informazione e decisione né nel sistema dell’Uno, né in quello dei Pochi ma solo in quello dei Molti per ripercorrere la classificazione base di filosofia politica aristotelica che in realtà risale ad Erodoto che esprime pensieri forse di senso politico comune precedenti (Hansen, M.H., 2003). 


Purtroppo, noi abbiamo tanto una alta ed unanime considerazione della bontà della democrazia, quanto una sua sostanziale non conoscenza a livello di concetto e di teoria. Siamo convinti davvero di vivere in una società democratica e senz’altro lo siamo comparativamente ad altre forme del passato, ma tra questa forma attuale ed il suo concetto e teoria c’è un abisso. Uno delle componenti essenziali di un sistema politico che aspira a corrispondere in tendenza al concetto di democrazia ed arsenale teorico allegato è lo stato e distribuzione media delle forme di conoscenza. Alla fine, la democrazia è un modo per prendere le decisioni che strutturano l’intenzionalità politica di una società, la forma non a caso detta di “auto-governo” parente di autorganizzazione ed autopoiesi. Un sistema soggetto che si governa come oggetto, si governa da sé stesso, si dà le leggi di funzionamento da sé (auto-nomia).  


Ma come fanno le parti di un sistema sociale politico a vocazione democratica ossia gli individui che ne fanno parte, a partecipare attivamente e con competenza all’autogoverno del sistema se non sanno, sanno poco, sanno male degli oggetti e fenomeni che debbono governare? Inclusa una sostanziale ignoranza di cosa è una democrazia? In una antica metafora concettuale della prima modernità, Leibniz presentò il suo sistema delle monadi. Le monadi non avevano relazioni reciproche ma nell’invenzione molto astratta del tedesco, ognuna rifletteva l’intero mondo, tutte sapevano del tutto. Da qui l’armonia meravigliosa di questo strano sistema-non-sistema metafisico espresso nella Monadologia dal Leibniz. Cosa sa oggi un cittadino medio o anche medio-alto del tutto che è una società occidentale in un mondo in profondo, radicale e veloce cambiamento? Praticamente niente. Su quali basi si fa opinioni e prende decisioni? Siamo tutti affogati da incrementali aumenti di informazione a fronte di un vistoso depauperamento delle facoltà di conoscenza. 


Ci sono sistemi sociali, sistemi geopolitici, sistemi economici, sistemi finanziari, sistemi demografici, sistemi ecologici e climatici, sistemi culturali con credenze e logiche varie tutti intrecciati tra loro, Peccato che mediamente quasi nessuno inquadri tali oggetti o fenomeni davvero come sistemi, “sistema” è una etichetta senza contenuto. Li chiamiamo sistemi, anche nel linguaggio di senso comune, ma la conoscenza media del concetto di sistema è praticamente nulla. La conoscenza della natura complessa di quelli citati altrettanto assente, men che meno se li prendiamo tutti assieme. Il fatto è nella realtà e nel mondo, sono tutti intrecciati assieme in un sistema generale molto complesso, è solo nelle nostre partizioni della forma di conoscenza moderna che sono separati.  


Prendiamo ad esempio l’argomento ecologico-climatico. Come si fa anche solo ad iniziare un discorso tra una persona che parte dall’inquadramento sistemico ed una che non lo fa sul tema in questione? A questa seconda sfugge la natura intrinseca dell’oggetto. Non sa che ciò di cui parla ha molte variabili, si confonde anche solo a metterne a fuoco tre (e spesso ce ne sono dieci volte tante), non è in grado di leggere le interrelazioni, non legge le diverse scale dal micro al macro, i fenomeni di emergenza, non conosce il concetto di feedback, non sa che i feedback possono essere accrescitivi e diminutivi non sono cioè lineari, pretende certezze scientifiche precise neanche stessimo parlando della gravitazione newtoniana, ignora che piccole cause possono avere grandi effetti, non si pone il problema di quanto l’impianto mentale dell’osservatore condizioni l’osservazione stessa dell’oggetto, non prende in considerazione la storia del sistema, non riesce a collegare ciò che dirà sul sistema ecologico-climatico ed il sistema sociale ed economico o geopolitico. A proposito di eventuali problemi relativi ai sistemi ecologico-climatici, l’opinione di questo cittadino che in testa ha un caleidoscopico di frammenti, spesso dalla dubbia origine di fondatezza, intrisi di ansia emotiva che spinge a giudizi affrettati e dicotomici sul bene e sul male del mondo, conta zero. 


Non è con cittadini del genere che si può avere un auto-governo del sistema e non è con cittadini del genere che si può operare il necessario cambiamento adattativo. Abbiamo preso il sistema ecologico-climatico ma avremmo potuto prendere qualsiasi altro sistema che compone il sistema generale che chiamiamo società. 


Peggio poi se cominciassimo a capire che il mondo non si divide in spicchi a seconda dei nostri corsi di studi, è un intrecciato assieme di cose e fenomeni che noi studiamo separatamente. I dibattiti pubblici verticali (che è il flusso principale e che in verità non è affatto un dibattito in quanto il ritorno da basso ed alto non c’è mai)  e tra livelli orizzontali (ad esempio sui social) relativamente il cos’è una pandemia o la guerra in Ucraina o il problema ecologico e solo in parte climatico o le reiterate crisi economiche e soprattutto finanziarie o il rapporto tra Europa e Africa (o con la Cina o con l’anglosfera) oggi e per i prossimi trenta anni, mostrano con evidenza che non siamo affatto in grado di dirci una società con facoltà di auto-organizzazione semplicemente perché le parti non sanno di ciò di cui dovrebbero decidere se pure qualcuno le mettesse in grado formalmente di decidere qualcosa, cosa che per altro le nostre “democrazie” evitano come la peste di fare sul serio. 


In breve, e come anticipato nell’articolo precedente, il mondo è sempre più complesso, le forme della mentalità media che chiamiamo immagine di mondo non lo sono affatto, sono ancora e solo moderne, vengono dalla precedente fase storica ormai terminata. La cultura sistemico-complessa che in teoria sarebbe la miglior corrispondenza tra mondo ed immagine che ce ne facciamo, è sotto-coltivata, sotto-distribuita, sotto-determinata. Vediamo meglio quali sono le ricadute di tutto ciò in termini di attività e cambiamenti che si dovrebbero promuovere per un riallineamento tra intelletto e cosa (Tommaso d’Aquino). E vediamolo in ottica di sviluppo di un sistema politico democratico che faccia delle nostre società dei sistemi con facoltà di auto-organizzazione ed in quanto tali adattativi al potente flusso disordinante dei tempi che ci sono toccati in sorte di vivere. Non per puntare ad una improbabile “armonia meravigliosa” ma per fare delle nostre società dei sistemi adattativi in questa particolare e straordinaria fase storica. 


La prima condizione di possibilità da cui ogni altra dipende per aspirare a migliorare il tasso di democrazia dei nostri sistemi sociopolitici e quindi le facoltà di autorganizzazione a fini adattivi della nostra società è il tempo. Mi riferisco al tempo individuale. Il nostro tempo quotidiano è settato sulle condizioni stabilite tra fine XIX e XX secolo da aspre lotte dei lavoratori a partire dagli Stati Uniti d’America, le otto ore di lavoro, otto personali ed otto di sonno. Ripeto, più di un secolo fa rispetto al quale abbiamo guadagnato talvolta il sabato mattina e di recente perso qualcosa con lavori che richiedono la possibile mobilitazione o disponibilità info-digitale 24x7. Già così non si capisce perché dopo più di un secolo di aumento della produttività, comparsa dei limiti ecologico-ambientali e considerazioni su quanta sempre meno spinta di domanda c’è per nuovi prodotti che sostituiscono vecchi che andrebbero altrettanto bene se non smettessero ad un certo punto di funzionare per deliberato sabotaggio programmato, a cui poi aggiungere le ricadute della disoccupazione provocata dell’info-digitale e dalla globalizzazione, ma anche le frizioni geopolitiche derivate dalla difesa-ampliamento dei mercati o cattura di materie prime, non si capisce perché quasi nessuno teorico si ponga e ponga al dibattito pubblico l’impellente domanda se non sia il caso di programmare una riduzione progressiva dell’orario di lavoro attenti ovviamente a non intaccare ulteriormente il reddito per una qualità di vita media. Dato anche che le otto ore di tempo personale sono state rosicchiate da spostamenti (soprattutto nelle grandi città), incombenze gestionali personali e casalinghe, intrattenimento e svago anestetizzante. 


E il tempo per conoscere i fatti del mondo che si riflettono sul funzionamento sociale, quei fatti che dovremmo giudicare e sui quali dovremmo farci una opinione su necessità, modi e tempi di cambiamento? Il cittadino democratico è un lavoro sociale, un lavoro che porta via parecchio tempo, tempo che non abbiamo, per cui non abbiamo facoltà neanche in potenza di poterci occupare della complessità politico-sociale. Questo solo per inquadrare il problema della conoscenza necessaria, poi ci sarebbe quello della partecipazione attiva alle pratiche democratiche che richiederebbero ancora tempo. Non è un caso che nell’Atene periclea, si introdusse il salario di assemblea poiché ogni venerdì di assemblea popolare generale era una giornata di lavoro e di guadagno persa, così come ogni anno speso a incarnare una funzione pubblica, affinché la stessa macchina statale fosse democratica, veniva altrettanto retribuito e data la magra compensazione molti commercianti ed aristocratici non partecipavano attivamente salvo poi lamentarsi del basso livello di qualità della democrazia stessa. 


Ma “tempo” ha anche una seconda declinazione, quella del processo. La democrazia è un sistema molto complesso e difficile da impiantare, sviluppare e far funzionare bene. Se approcciamo il cambiamento sociale con idee semplificate quali la rivoluzione, la bacchetta magica, il salto quantico ed altre scorciatoie del pensiero, non andremo in accordo alla necessaria metrica progressiva di un sistema che deve tendere ad esser sempre più democratico scalando diversi livelli con pause di assestamento e verifica del funzionamento sociale sistemico generale. La democrazia non è un sistema che c’è o non c’è, è un sistema a cui tendere continuativamente, di costante miglioramento progressivo. La riduzione del tempo di lavoro per dare tempo alla funzione di cittadino democratico è la prima condizione di possibilità necessaria, quella senza la quale ogni altra è vana. È la classica condizione necessaria sebbene non sufficiente, la precondizione di sviluppo di un progetto di seria democratizzazione delle nostre società declinato nel tempo. 

Come riempire questo tempo ricavato come prima condizione di possibilità? Innanzitutto, se si vogliono cittadini in grado di maneggiare la conoscenza necessaria a far funzionare una democrazia in tempi complessi, c’è da porsi il problema della formazione. Formazione anche qui s’intende in due modi. 


C’è il modo o nodo della formazione nel senso di composizione e forma dell’immagine di mondo. Edgar Morin ha intitolato il suo opus magnum “La Méthode” ovvero il metodo, il metodo del come conosciamo e pensiamo, quindi poi agiamo. Diverse sue opere maggiori e minori hanno ruotato intorno questo problema perché la cultura sistemico-complessa è proprio una teoria della conoscenza generale (scientifica, umano-sociale, riflessiva). C’è senz’altro da sviluppare maggior lavoro su questo tema. Purtroppo, l’attitudine a-sistematica della filosofia dopo Hegel ha fatto sì che la sede propria del pensiero riflessivo generale abbia ampliato a dismisura l’indagine su frammenti e frammenti di frammenti, proprio mentre l’attività di conoscenza generale ha a sua volta proceduto a frammentarsi sempre di più. Così di “conoscenza” ci occupiamo in biologia evolutiva, in scienze cognitive, in psicologia, in sociologia, in pedagogia, in linguistica, in storia della cultura, in filosofia e varie epistemologie, ma si fa una gran fatica a riportare poi tutte queste conoscenze parziali a sistema. Anzi, come nel caso del dibattito sulle “due culture” (Snow, C. P., 2005), si litiga sul fatto se il mio tipo di conoscenza abbia più valore del tuo non notando spesso che i tipi di conoscenza e relativi metodi, a volte, sono diversi perché sono diversi gli oggetti ed i fenomeni che hanno in oggetto. Non possiamo conoscere una reazione politica, sociale, culturale come conosciamo una reazione chimica o fisica. 


Poi c’è il problema della formazione degli intelletti. Qui si va non solo nel campo della scuola nei suoi vari gradi, dei metodi e dei fini tra cui capire che il concetto di formazione di una società democratica ha come finalità creare cittadini democratici non 

professionisti di questo o quel mestiere, ma anche a domandarsi le quantità di formazione che abbiamo. Poiché le nostre aspettative di vita si sono allungate enormemente mentre è aumentata la complessità generale, non si vede perché non porsi il problema di momenti di formazione lungo tutto l’arco di vita. Il cittadino democratico consapevole ed attrezzato a comprendere e decidere sulle strategie adattative della propria forma di vita associata, deve formarsi continuativamente, c’è troppo da sapere per pensare che terminati gli studi giovanili il resto segua di conseguenza. 


Non sarebbe folle, ad esempio, anche cominciare a discutere se poter istituire un corso di laurea in conoscenza sistemico-complessa dove si insegna non solo il metodo di conoscenza ma anche si fornisce una formazione multi-inter-transdisciplinare generale. Il fine è quello di cominciare a produrre generalisti che possano interagire e dialogare, nei luoghi di lavoro come in politica ed in ogni altra forma organizzata di sottosistema sociale e culturale, con i tanti specialisti. Tra un confuso olismo di principio spesso con finali poco più che mistici e questa frammentazione caotica che va dappertutto perdendo senso per strada, forse c’è una forma intermedia che mette a fuoco la logica degli interi e dei contesti in grado di aiutare gli specialisti a tener conto dei quadri più generali salvo prima alimentarsi dalla conoscenza di quelli. Tra generalista e specialista dovrebbe esserci complementarità e dialogica come c’è tra Tutto e Parti. 


A seguire il problema del tempo e del duplice problema della formazione, c’è la distribuzione, la distribuzione di conoscenza. In Italia, ad esempio, abbiamo qualcosa come un circa 40% di adulti che ha terminato gli studi alla licenza media o prima. Per carità, c’è molta saggezza ed intelligenza statisticamente distribuita al di là dei titoli di studio, ma non v’è dubbio che molti dei temi dell’agenda politica adattiva cui siamo chiamati a discutere e decidere, necessitino conoscenze che non si ottengono con la sola esperienza diretta o il buonsenso. Per altro anche l’altra metà che ha a base studi superiori ha problemi di distribuzione secondo quanto detto nel paragrafo sulla formazione. Le “dotte ignoranze” che sanno tutto del niente e niente del tutto, per quanto garantite da un pezzo di carta, non formano cittadini in grado di far funzionare una democrazia. Il principio guida dovrebbe essere che se vogliamo che i Molti siano in grado di partecipare alla formazione di un sistema auto-organizzato ed auto-decidente, le diseguaglianze di conoscenza, almeno tendenzialmente, vanno ridotte anche prima di quelle sociali o economiche o politiche poiché in un sistema democratico le seconde dipendono dalle prime. 


Tempo, formazione, distribuzione della conoscenza e poi alimentazione costante ed aggiornamento dato dall’informazione. La nostra si dice “società dell’informazione” ma come funziona questo diluvio di informazione? Nei fatti, essendo le nostre società “econocratiche”, l’informazione è nei fatti un di cui dell’econocrazia. Ci stupiamo che ci siano Paesi in cui ad esempio le fonti di informazione siano proprietà esclusiva del regime politico vigente, ma un sistema in cui le fonti di informazione siano solamente in mano ad imprenditori va bene? Nel migliore e più raro dei casi, avremo un imprenditore che tratta l’impresa di informazione una impresa come un’altra, un altro modo per investire capitale e ricavarne un profitto. Ma per natura propria delle leggi del marketing, una fonte informativa di successo sarà sempre omeostatica, darà le informazioni che quel pubblico si aspetta di avere. Inoltre, le metriche del conto economico condizioneranno forme e contenuti dell’informazione stessa. 


Ma questo è solo il caso migliore e più limitato poiché notoriamente ci sono migliaia di modi migliori di far soldi che non investire in imprese di informazione. Il caso più diffuso e peggiore è quando l’imprenditore usa la sua fonte di informazione per aver influenza politica, sia per ottenere vantaggi spicci per le sue imprese, sia per condizionare l’attività giuridico-normativa, sia per far scambio di influenze e debiti di riconoscenza, se non per lanciarsi a sua volta in attività politiche dirette in un esubero di volontà di potenza. Abbiamo informazione pubblica ostaggio dell’élite che governa in quel momento ed informazione privata condizionata da interessi di parte (economica, finanziaria, geopolitica e politica secondo le convenienze del proprietario). Questa seconda a volte nazionale, a volte addirittura internazionale, dove cioè ci sono interessi extra-nazionali che vogliono influire su politiche nazionali come se l’informazione ad Atene fosse stata gestita da Sparta. 


Internet ed i social avevano promesso una forma di informazione più orizzontale. A conti fatti dopo qualche decennio di pratiche dobbiamo dire che qualcosa – forse - è migliorato, ma molto meno dell’auspicato e ci siamo ritrovati anche con nuovi inaspettati problemi. I grandi gruppi di interessi hanno imparato a maneggiare il flusso informativo e gli algoritmi di governo dei sistemi distributivi in modo da replicare anche qui la loro egemonia. A volte anche sotto le mentite spoglie dell’opinione spontanea dal basso che spontanea non è affatto. I condizionamenti di tempo, formazione e distribuzione della conoscenza fanno sì che l’informazione senza la conoscenza è stupida, la conoscenza senza l’informazione rimane astratta. L’enorme volume di rumore che inquina il mondo on-line svaluta di per sé molta informazione così ottenuta. Le forme distributive e gli algoritmi mostrano addirittura la facoltà di formarci a livello proprio di forme di conoscenza a livelli di logica e di metodo prima ancora che di contenuto. Forme potenziate da conoscenze di scienze cognitive e comportamentismo anglosassone, intrise di sollecitazioni emotive polarizzanti, vere e proprie intossicazioni neuronali, dipendenze, formazione degli immaginari, maleducazione, discriminazione, appiattimento e confusionismo, propagazione di nevrosi di fondo, narcisismo di massa, perdita di umanità sociale reale, non portano più democrazia ma la sua malattia: la demagogia. Le aspettative dei pionieri della rete erano basate sulla convinzione che tecnica e mezzo fossero più importanti di forme e contenuti, non è così, in tutta evidenza. I recenti sviluppi dell’Artificial Intelligence, presentano aspetti inquietanti spesso tendenti alla distopia. Ma mentre si discute se e come normare questo campo, nessuno si pone il problema di come elevare i livelli di autonomia intellettuale e conoscenza degli utilizzatori. 


Tempo, formazione, distribuzione della conoscenza, informazione ed infine dibattito. Il dibattito tra cittadini democratici è l’essenza stessa della democrazia. Primo perché aiuta la distribuzione delle conoscenze tra chi ne sa di più o di meno, ampiamente o monotematicamente, superficialmente o approfonditamente. Secondo perché è solo dal conflitto dei sistemi pensanti e loro giudizi che si notano limiti e parzialità dei nostri. Terzo perché è il discorso collettivo che alla fine deposita lo strato del senso comune che fa da base alla capacità di autogoverno dei Molti. Il dibattito democratico orizzontale è l’equalizzatore della conoscenza, ma anche la culla delle mediazioni, delle ibridazioni, delle sintesi superiori di idee o sistemi di idee sempre parziali ed incomplete a livello individuale. È la media della mentalità che fa la qualità di questa o quella società nell’affrontare le sfide adattative non le sue punte estreme. 


Nelle nostre società c’è la rappresentazione del dibattito, noi guardiamo dibattiti non li facciamo. E guardiamo quelli che esigenze ed interessi dell’emittente che sceglie quali punti di vista invitare a dibattere, decide esser tale. 


Compressi in format del mezzo che pretende discutere cose complesse con frasette ad effetto snocciolate coi tempi dei commercial mentre l’altro preso da incontinenza emotiva ci urla sopra la sua verità o l’odio per la nostra sotto lo sguardo del conduttore che opera in osservanza le leggi delle audience e del politicamente corretto secondo la moda del momento. Tra questa cosa ed il dibattito democratico non c’è neanche lontana parentela. 


Sviluppare le doppie forme della formazione, migliorarne la distribuzione, alimentarle con informazione plurale ed equalizzarle a farle crescere dialetticamente, sono quattro condizioni necessarie ad un sistema politico con ambizioni democratiche e sono tutte dipendenti dalla prima condizione di possibilità: il tempo. 


Chiudiamo così, con questo pentalogo di punti che danno le condizioni di possibilità per lo sviluppo di una modalità politica democratica, la nostra ricerca per avere società auto-organizzate, quindi adattative. Si tenga anche conto che non tutto ciò che auspichiamo promette immediatamente vita migliore, né è immediatamente ottenibile. L’adattamento delle società occidentali ai tempi non più moderni richiederà processi di ristrutturazione e cambiamento profondi e disordinanti. Una maggiore consapevolezza di quadri generali diffusa e qualificata si richiede anche per l’introiezione che ogni individuo dovrà fare. Individui più consapevoli dovranno loro stessi auto-organizzarsi in accordo al cambiamento e non sempre ciò sarà immediatamente facile e migliorativo gli standard di vita. L’introiezione di quadro generale è precondizione per avere dinamiche sociali adattative e non frantumarsi nelle dinamiche di profondo cambiamento dilaniate dal conflitto tra interessi personali ignari del fatto che il loro esito dipende da quanto bene funziona la società nel suo complesso, quello che in teoria della democrazia si chiama “interesse generale” ovvero l’interesse del sistema come intero più delle parti.  


Come ogni crisi anche quella della contrazione di potenza occidentale, offre opportunità. Dovremo adattarci ad un nuovo modo di stare al mondo, un mondo affollato e condominiale con oggi 8, fra trenta anni 10 miliardi di individui quando solo settanta anni fa eravamo solo 2.5 mld. Un mondo naturale che non reggerà all’estensione e progressiva intensificazione dei modi dell’economia moderna inventati su un’isoletta nordeuropea più di due-trecento anni fa quando il mondo contava otto-dieci volte minori effettivi. Forse dovremmo comprendere meglio la logica del perché “More is different” (Anderson, P.W. 1972). Nel “moderno” il “vantaggio occidentale” era netto e profondo rispetto al resto del mondo, un Occidente che ai primi del XIX secolo contava comunque quasi un quarto dell’umanità quando oggi ne conta meno di un sesto, sempre più anziano. Un modo economico che sbagliamo a pensare come una teoria della fisica meccanica (e del resto Newton ed il capitalismo sono entrambi inglesi), che ignora la fisica termodinamica (Georgescu-Roegen, N., 2003), indipendente dalla geostoria e dalla geopolitica, quando la sua “ragione” non è solo interna, ma esterna. Colonialismo, imperialismo, prevaricazione culturale, guerre, sfruttamento umano e naturale, ineguaglianze, gerarchie sociali autoreplicanti, dominio culturale dall’alto, devastazione ambientale, riduzione dei bisogni umani a marketing, teorie della felicità quantitativa (utilitarismo), atomismo sociale, utilizzo monotono della competizione, sono tutte parti necessarie di un sistema, sistema nato e sviluppato in un mondo diverso da quello di oggi e di domani. Prima ancora che scatenare i nostri strali di giudizio etico o morale su tutto ciò, dovremmo comprendere più semplicemente che tutto ciò, per noi, tende a non funzionare più e con ciò a non funzionare più le società che vivono di questa versione di sistema. Non è un caso che, di colpo, sia ricomparsa la più antica pratica umana sintomo di chiara crisi adattiva: la guerra. 


Adattamento si dice in due modi. Si tratta di cambiare il sé per andar in accordo al contesto e, soprattutto per noi umani, si è trattato spesso di cambiare il contesto per facilitare l’adattamento del nostro sé. Un sé che, come molti altri animali e piante, ha come strategia adattativa la vita associata, il fare gruppo, società. Si tratta quindi di trovare nuove sincronie ed accordi mai perfetti tra l’individuo-società-mondo. A livello di società va cambiato il regolamento ordinativo. Il fare economico rimarrà una delle funzioni vitali del funzionamento organico sociale com’è ovvio che sia, ma per tutto quanto detto non potrà più svolgere la funzione ordinativa principale. Pretenderlo con la cocciutaggine tipica di chi resiste al cambiamento adattivo porterà prima al sempre maggior disordine, infine a qualche tipo di catastrofe che è la sentenza inappellabile di ogni disadattamento. Così è stato con i generali del sistema imperiale romano, così è stato per la classe sacerdotale della credenza cristiana nel Medioevo e per tutte le decine di casi di collasso delle società complesse (Tainter, J. A., 1988; Diamond, J., 2005). 


La funzione adattativa della società deve esser trasferita al funzionamento politico ed alla sua forma più distribuita e favorente l’auto-organizzazione flessibile. Questa forma più adattativa è quella in cui i Molti si fanno carico del comportamento della società dandogli intenzionalità condivisa, la democrazia (Innerarity, D., 2022). La democrazia è la declinazione politica logicamente conseguente della cultura della complessità. I sacerdoti della teoria economica dominante tuonano a difesa del principio di autorganizzazione del mercato (la “mano invisibile” di A. Smith), ma pare non esserci nessuno che ponga invece il problema dell’autorganizzazione sociopolitica.  Una “democrazia” che riprenda il suo cammino storico proprio e non venga confusa con un sistema in cui individui privi di ogni conoscenza di merito vanno ogni quattro o cinque anni a votare propri rappresentanti (spesso altrettanto privi di conoscenza di merito) senza capir bene neanche l’oggetto della delega. I nostri in realtà sono i tipici sistemi misti già teorizzati da Polibio in poi: Molti che delegano Pochi che eleggono e qualche volta controllano un Uno a gestire il tutto per tutti (Manin, B., 2010). Questo necessario ordinamento realmente democratico in grado di trasferire continuamente segnali dall’uno a tutti e da tutti all’uno, recependo anche i segnali di come il mondo (contesto) 

reagisce alle nuove forme che decideremo di darci, presuppone almeno cinque punti delicati ed interconnessi senza i quali non si dà alcuna democrazia meritoria di questo nome. 


Questo per avere speranza di poter far funzionare adattivamente le nostre società al cambiamento profondo e veloce del mondo. Per far funzionare meglio l’adattamento nei due sensi di cambiare sé (individuo) ed il contesto (società), per meglio intermediare la relazione tra Io e Mondo, occorrerà anche una profonda riforma dell’immagine che l’individuo si fa del mondo. Ed è qui che la cultura sistemico-complessa ha molto da dire e ruolo da svolgere. 



Bibliografia