Riflessioni Sistemiche n° 28


Rifondare le pratiche umane navigando nella complessità

Conversione da inventare

di Sergio Ferraris

Giornalista scientifico, Direttore di QualEnergia e Nextville.it

Foto di Jürgen da Pixabay 

Sommario

La conversione ecologica è il settore da imboccare per rispondere in maniera efficace alle crisi ambientali, cambiamenti climatici in primis, che ci aspettano in futuro. Si tratta di meccanismi politici, economici e sociali per i quali sono pochi i cantieri aperti.


Parole chiave

Clima, conversione ecologica, capitalismo, mercato, sostenibilità, diritti.


Summary

The ecological conversion is the field to take in order to answer effectively to the environment crisis, in primis the climatic changes, we will face in the future. They relate to political, economic and social mechanisms, for whom there are few open yards.


Keywords

Climate, ecological conversion, capitalism, market, sustainability, rights.



Oggi non c’è analisi, ricerca o libro che occupandosi di clima non dia un segnale netto della sconfitta circa i cambiamenti climatici in atto. Il recente volume di Gaia Vince “Il secolo nomade” ha come sottotitolo “Come sopravvivere al disastro climatico” e non “Come evitare il cambiamento climatico”, le ultime analisi dell’IPPC e della IEA affermano che la finestra utile per contenere l’aumento di temperatura entro 1,5°C al 2100 scade nel 2030, mentre la concentrazione di CO2 e le emissioni annuali continuano a crescere. Un bollettino di guerra climatica nel quale ci sono tutti i segnali -  nessuno escluso - di una “Caporetto” certa, come ho considerato affrontando la questione della “Transizione ecologica” nel numero scorso di Riflessioni Sistemiche. E non ci sarà un “Piave” che faccia da argine. Perché, come ben sa chiunque s’occupi d’energia e infrastrutture energetiche, i “cicli energetici” durano minimo 25 anni, ragione per la quale le scelte fatte oggi in direzione delle fossili produrranno CO2 per i prossimi decenni, cosa confermata dai dati di scenario che spesso si tende a non mettere assieme perché in poche righe tracciano un panorama fosco, se non buio. Vediamoli a partire dall’economia e non dal clima. Secondo il Fondo Monetario internazionale (IMF) il Pil mondiale crescerà dai 102.000 miliardi di dollari del 2022 a 206.000 miliardi nel 2037, mentre secondo l’Agenzia Internazionale per l’energia (IEA) l’utilizzo delle fonti fossili a livello mondiale calerà dall’80% del 2022 al 60% del 2050, passando per un 75% al 2030. A chiunque abbia un filo di dimestichezza con una calcolatrice dovrebbe essere chiaro che il raddoppio del Pil al 2037 sarà realizzato con un mix energetico fatto per un 70% circa di fonti fossili, con tutto ciò che consegue in fatto d’emissioni di CO2. Quindi, di fatto, il fallimento della transizione ecologica è scritto nei numeri e ciò che serve, oggi, è la conversione ecologica.



Cambiare rotta

In pratica la conversione ecologica è un punto di rottura, con un’inversione di rotta di 180 gradi, che investe, oltre alla questione climatica, anche i limiti planetari che sono noti fin dal rapporto del Club di Roma del 1972. Economia, società, risorse, produzione: nessun aspetto dell’attività umana è esentato dalla conversione, in quanto il tasso di connessione globale ormai è totale, al contrario delle grandi crisi del secolo scorso. 

Le due guerre mondiali, per esempio, riguardarono aree relativamente piccole del Pianeta, con un impatto ambientale relativamente scarso, rispetto a ciò che ci aspetta oggi e soprattutto ebbero una fine, così come l’hanno avuta la pandemia d’influenza del 1920, la “Spagnola”, e quella più recente dovuta al virus Sars Covid 19. I cambiamenti climatici ora toccano, e con gravi conseguenze, zone come la Groenlandia, L’Antartide, gli oceani e la Siberia, solo per fare alcuni esempi sul fronte geografico, mentre le conseguenze sociali si manifestano, con gradi diversi, a tutte le latitudini come nelle zone più povere del Sahel in Africa o nelle grandi e ricche metropoli quali Roma, New York e Tokyo. Con danni sempre più evidenti, mentre nelle varie Conference of the Parties (COP) sul clima che si tengono ogni anno dal 1997, rimane bloccato il meccanismo “Loss and damage”, attraverso il quale andrebbero risarcite le comunità che subiscono le conseguenze del cambiamento climatico in una misura che va oltre ciò a cui le persone possono adattarsi, o quando esistono delle opzioni d’adattamento disponibili, ma non vi si può accedere o utilizzarle. È un concetto così controverso che, a oggi, non esiste una definizione ufficiale di “Loss and damage”, approvata dalle Nazioni Unite. E si tratta di un punto talmente divisivo che mette a rischio il già traballante sistema delle COP. A Bonn, il 14 giugno 2023 agli incontri preparatori della COP 28 di Dubai, è stata approvata l’agenda dell’assise internazionale e non ci sarà la discussione sul “Mitigation Work Programme”, ossia quella sulla riduzione delle emissioni, perché alcuni Paesi in via di sviluppo si sono opposti a ciò, vista l’assenza di discussioni concrete sul varo e potenziamento degli strumenti solidali di finanza climatica, come il “Loss and damage”. 

Eppure il “Loss and damage” è ben documentato da anni. Durante la canicola del 2003, in Francia, la mortalità aggiuntiva del mese di luglio è stata più alta nelle donne che negli uomini (più 162% rispetto un più 67%) e ha colpito soprattutto gli anziani. Il fenomeno secondo i dati ufficiali ha fatto 14.802 morti, ma si tratta di dati incompleti perché riguardano solo i decessi avvenuti nei primi venti giorni d’agosto e, a parità di temperatura, nelle periferie di Parigi si è registrato un aumento dei decessi del 171% mentre al centro del 127%. Povertà, disoccupazione, condizione abitativa svantaggiata, meno ferie nel mese d’agosto sono stati gli ingredienti di quel 44% di differenza. In sostanza i ricchi sono stati meno colpiti (Acot, 2007). La differenza di classe, quindi, colpisce anche nei paesi “ricchi”, non solo in quelli del terzo mondo. L’appartenenza a una classe sociale elevata consente di reggere meglio i colpi del cambiamento climatico. Sempre nel 2003 i risultati tra Francia e Belgio sono andati a favore di quest’ultimo sul fronte della percentuale di mortalità che, in Belgio addirittura non è aumentata. Le ragioni di ciò risiedono nel fatto che il sistema sanitario belga, negli anni prima della canicola, aveva incrementato la medicalizzazione dei posti letto nelle case di riposo, mentre la Francia non lo ha fatto. Il personale nelle case di riposo in Belgio, quindi, è molto più numeroso, per degente, rispetto a quello francese. Durante un’ondata di calore i più anziani possono non avvertire il bisogno di bere, alcuni non sono in grado d’idratarsi da soli e altri sono a rischio soffocamento. Per idratare in maniera adeguata 60 persone servono oltre 14 ore di lavoro, quindi due aiuto infermieri in più, che in Belgio erano presenti, ma in Francia no. E infine i prezzi delle strutture sono più bassi in Belgio al punto che oltre 6.000 persone francesi, tra anziani e disabili, si rivolgono a strutture belghe. Silenziosi e invisibili emigranti sanitari che si trasformano in profughi climatici. Il tutto nel centro della civile Europa nel XXI secolo. Un sistema sanitario pubblico efficiente quindi migliora la capacità d’adattamento. Si tratta di due esempi, la divisione in classi sociali e l’esistenza, nonché l’efficienza del sistema sanitario pubblico, che introduce la necessità di cambiare in maniera radicale la distribuzione del valore tra e all’interno dei corpi sociali, anche quelli che appartengono alle nazioni facenti parte delle élite economiche planetarie, come quelle del G7. 



Il valore del valore

La forchetta reddituale si va allargando e oggi ha le stesse proporzioni del 1914 (Piketty, 2016), la precarizzazione di larghe fette della popolazione rende i salari più bassi e intermittenti, mentre l’automatizzazione di molti processi manifatturieri – compresi quelli della conoscenza – potrebbe produrre la perdita di 800 milioni di posti di lavoro al 2040 (McKinsey, 2019). Oltre a ciò si nota l’affermarsi della trasformazione dei consumi in servizi – tipico il fenomeno legato alle autovetture – che rappresenta un ulteriore drenaggio di valore dai corpi sociali. E il capitale in questo senso usa anche l’ecologia per fare ciò. Il bando della vendita in Europa dei motori endotermici al 2035 avrà come conseguenza al 2050 il drenaggio di oltre 8.000 miliardi di euro, necessari al ricambio totale delle autovetture alimentate a combustibili fossili e che sono 267,46 milioni (elaborazione dell’autore su dati UE). Una decisione politica presa dall’ Unione europea, in base -  forse - a una motivazione ambientale, che probabilmente è spinta anche dalle case costruttrici di auto, ma senza tenere in alcun conto il punto di vista sociale. I corpi sociali subiscono, quindi, un attacco al valore da loro posseduto e avranno meno risorse per la resistenza e l’adattamento ai colpi dei cambiamenti climatici. Né si può pensare, con le logiche economiche e di bilancio attuali, che siano le casse pubbliche a sostenere l’urto degli eventi estremi, quando non si fa nulla a livello preventivo, né sul fronte delle emissioni, né su quello dell’adattamento dei territori e delle città. Anzi, si va indietro. Nel 2021 in Emilia-Romagna sono stati impermeabilizzati 502 ettari di territorio classificato come area a pericolosità idraulica media, fatto che ha contribuito ad amplificare, in maniera sostanziale, gli effetti della doppia alluvione del maggio 2023, il cui costo è stimato per ora a 9 miliardi di danni, mezzo punto di Pil, dei quali 1,8 sono da impegnare subito entro l’autunno, se non si vuole che un ulteriore evento “normale” possa trasformarsi in un’ulteriore catastrofe. Nel momento nel quale questi eventi diventeranno sistemici non ci sarà governo capace d’affrontare simili spese sequenziali e già siamo in queste condizioni. Il costo per l’Italia degli ultimi due anni di siccità e alluvioni è di 24,5 miliardi di euro. E infatti negli Stati Uniti ormai da una ventina d’anni uno dei più grandi avversari dei negazionisti del clima è il settore assicurativo che stima siano 14,6 milioni le proprietà immobiliari a rischio clima, per le quali si prevedono 32 miliardi di dollari di danni l’anno, con previsione di un aumento delle perdite medie annue del 26% al 2050. Si stanno iniziando ad avverare, con anticipo, le previsioni del Rapporto Stern del 2006 che indicavano, all’epoca, che impegnando l’1% annuo del Pil mondiale nella lotta ai cambiamenti climatici si potessero evitare investimenti “forzati” per l’adattamento al clima negli anni futuri tra il 5 e il 20% del Pil planetario (Stern, 2006). Visto che in sede COP dall’anno 2015, quello dello “Storico accordo sul Clima” non si riescono a trovare 100 miliardi di dollari l’anno per attuare l’articolo 9 dello stesso accordo, per finanziare sia l’adattamento, sia la mitigazione verso i paesi più poveri,- il meccanismo “Loss and damage” - si può essere certi che le stime di Nicholas Stern siano rimaste inascoltate. 100 miliardi di dollari, nella realtà inesistenti, non sono che un misero 0,098% del Pil mondiale. In pratica vorremmo investire - ma nella realtà non facciamo neppure quello - nemmeno un decimo di ciò che servirebbe. O meglio di ciò che serviva nel 2006, perché nel 2015 Nicholas Stern ha aggiornato la sua stima portando dall’1 al 2% la percentuale di Pil necessaria, per evitare le stesse perdite. In una prospettiva del genere avviare la conversione appare difficoltoso, se non impossibile, specialmente se si parte dall’economia nella sua forma attuale e dalla politica come s’esprime oggi.

In questa prospettiva s’inserisce anche quella demografica che è troppo spesso ignorata dagli ambientalisti stessi. I prossimi trent’anni infatti saranno caratterizzati da un aumento di circa due miliardi di esseri umani al 2050 che avranno aspettative elevate circa gli stili di vita, ragione per la quale i consumi cresceranno aggravando il bilancio delle emissioni climalteranti e dello sfruttamento delle risorse naturali. E infatti si prevede, come detto sopra, un enorme aumento del Pil mondiale. Bisogni sui quali s’innesterà il “naturale” drenaggio di risorse dai corpi sociali usato dal capitale, cosa che spingerà verso l’alto il bisogno di reddito e quindi di lavoro per soddisfare i consumi. Ma il meccanismo non sarà così lineare.



L’evaporazione del lavoro

E su ciò abbiamo a che fare con un'altra crisi che spesso è “offuscata” dagli ambientalisti. Quella del lavoro. Ottocento milioni al 2040 saranno i posti di lavoro persi a causa della tenaglia rappresentata dalla robotica e dall'intelligenza artificiale applicate ai processi produttivi di ogni tipo. Questo è ciò che emerge da una corposa ricerca di McKinsey uscita nel novembre 2019. “Il 50% delle attività a livello globale potrebbe, essere automatizzata, usando le tecnologie odierne - si legge nel report di McKinsey - Ma solo il 5% possono esserlo completamente” (McKinsey, 2019). Oggi però siamo a uno stadio intermedio e si osserva che la penetrazione delle nuove tecnologie nei processi produttivi, che riguarda il 60% degli stessi, è a diversi livelli. In una minoranza dei casi rende del tutto superfluo il lavoro umano, mentre più frequentemente riduce la necessità di lavoro lungo processi, filiere e servizi, con il risultato che aumenta la flessibilità necessaria per far fronte alle trasformazioni, con cambiamenti sostanziali sul luogo di lavoro e sulla sua somministrazione. Una mutazione che alla fine si traduce in una diminuzione della necessità della forza lavoro, con la sua precarizzazione. E si tratta di una strada senza alcun ritorno visto che le analisi di McKinsey, infatti, prevedono un aumento della produttività globale tra lo 0,8% e 1,4% ogni anno grazie alle applicazioni delle nuove tecnologie. Una dinamica mai vista in duecento anni di storia industriale.

In questo quadro spesso viene citata l'economia circolare come "ancora di salvezza" per il lavoro, oltre che per l'ambiente, ma è una questione che è inquadrata il più delle volte in un contesto privo dello scenario generale. Spesso, infatti, si considera l'economia circolare come un fenomeno lineare a sé stante che produce effetti positivi di carattere generale, inclusi quelli occupazionali. Ma prima di arrivare a tesi salvifiche e dogmatiche, è necessario analizzare maggiormente in dettaglio alcune componenti dell'economia circolare che sono l'energia, i flussi di materia, la manifattura e il riciclo/riuso. 

L'energia, anche se molto sottovalutata nella discussione sull'economia circolare è uno dei settori nel quale il paradigma sta sul serio cambiando. In questo quadro si è sviluppata la ricerca sul lavoro guidata da Mark Z. Jacobson dell'università di Stanford "100% Clean and Renewable Wind, Water, and Sunlight All-Sector Energy Roadmaps for 139 Countries of the World" che ha analizzato le potenzialità circa la creazione di lavoro delle rinnovabili, con le tecnologie di oggi, in uno scenario che vede il 100% rinnovabile al 2050. I risultati sono chiari. Lo scenario 100% rinnovabili al 2050 produrrà 51,5 milioni di nuovi posti di lavoro stabili a livello globale, con un incremento netto di 24,3 milioni visto che 27,2 milioni di occupati nelle fonti fossili perderanno il lavoro. Solo con l'energia, quindi, saremmo ancora distanti dal pareggiare la fosca previsione di McKinsey. E le cose si complicano quando ragioniamo sui flussi di materia. Si tratta di settori, che sono già a bassa intensità di lavoro e nei quali l'arrivo di Industria 4.0 espelle manodopera in maniera massiccia. Il nuovo - si fa per dire visto che è del 2016 - stabilimento dell'impresa siderurgica austriaca Voestalpine, nella cittadina di Leoben a sudest di Vienna, ne è un esempio. L’acciaieria impiega 14 lavoratori dipendenti per realizzare mezzo milione di tonnellate di acciai speciali ogni anno. 

Lo stesso impianto negli anni settanta impiegava circa 1.000 addetti. Ma a guidare realmente la linea di produzione, lunga settecento metri, sono solo tre i tecnici, mentre il resto è personale amministrativo. “Bisogna scordarsi che l'acciaio dia lavoro - ha detto a Bloomberg Wolfgang Eder, amministratore delegato di Voestalpine - Nel lungo periodo perderemo la maggior parte dei classici operai, persone che lavorano al caldo e nello sporco delle cokerie e degli altiforni. Tutto sarà automatizzato”. Da notare che l’impianto della Voestalpine essendo alimentato dall’elettricità si può considerare molto sostenibile visto che il mix austriaco nella generazione elettrica è per l’81% rinnovabile, ma si potrebbe tranquillamente decidere d’alimentare l’acciaieria al 100% da fonti rinnovabili scegliendo l’idroelettrico che non è intermittente e genera il 60% dell’elettricità consumata in Austria. Produzione potenzialmente 100% rinnovabile con una diminuzione del 98,6% di addetti in 50 anni. 

Discorso analogo si può fare anche per altri settori manifatturieri che possono riguardare l'economia circolare di oggi, come quelli della chimica fine e la bioeconomia, ma interessa anche l'agricoltura, settore che ha perso nell'ultimo mezzo secolo una percentuale enorme di addetti, grazie alla chimica prima, e alla coltivazione con precisione ora. Dunque il pareggio tra i nuovi lavori verdi e gli impatti dell’automazione ipotizzati da McKinsey rimane lontano. Tutto ciò lo conferma uno studio della Commissione Europea sull'economia circolare e il lavoro "Impacts of circular economy policies on the labour market" del 2018 nel quale si prevede la creazione nell'Unione Europea di circa 650.000 – 700.000 posti di lavoro aggiuntivi al 2030. “L'impiego segue la stessa dinamica del Pil perché i dati della produzione sono i driver della domanda di lavoro. - affermano i ricercatori - E l'incremento sarà guidato per la massima parte dal settore della gestione dei rifiuti per far fronte alla maggiore domanda di materiali riciclati”. Ecco quindi che lo sviluppo dell'occupazione è, ancora, legato alla creazione di nuovi prodotti e processi di produzione, esattamente come fu all'epoca del fordismo. Nuove metodologie di produzione per nuovi prodotti creano nuova occupazione. Visto che rifiuti e servizi potrebbero non brillare per qualità del lavoro, potremmo chiederci se Green Job è sinonimo di Good Job. Ed è una delle questioni che pone un rapporto sul lavoro nell'economia circolare "Waste Management in Europe. Good Jobs in the Circular Economy?" realizzato da Epsu la Federazione dei Sindacati dei Lavoratori Pubblici europei nel quale si legge: “Nell'entusiasmo per la creazione dei posti di lavoro, la discussione sulle condizioni e la retribuzione sono spesso messi da parte. A oggi non è stato scritto molto sulla qualità di questi lavori e su cosa significhi la transizione verso un'economia circolare circa i cambiamenti delle competenze e la delocalizzazione del lavoro. Si tratta - prosegue il rapporto - di posti di lavoro che sono per la maggior parte a basso reddito, poco qualificati e che comprendono oltre mezzo milione di persone impiegate nella raccolta dei rifiuti”. E sono comunque posti a rischio visto che l'innovazione tecnologica potrebbe arrivare anche nel settore dei rifiuti. In uno scenario ad alta automazione avremo un aumento della produttività, un incremento di resa finale e di valore con robot che riconoscono in automatico i materiali usati per gli imballaggi, si pensi al settore delle plastiche, con un abbassamento del costo finale della materia prima/seconda e il conseguente sviluppo di mercato. Robot per la separazione delle varie tipologie di rifiuti sono già sul mercato e si tratta di macchine dotate di intelligenza artificiale che consente l'apprendimento circa le nuove tipologie di rifiuti anche in maniera autonoma grazie alla sensoristica e alla condivisione delle “esperienze” tra diverse macchine. Non solo machine learning autonomo della singola macchina, ma machine learning condiviso in rete tra macchine diverse.



Capitale circolare

All'interno di una sostanziale "coesistenza" tra il modello economico esistente e quello proposto dall'economia circolare sembra che sia quest'ultimo a doversi adeguare al primo, per potere anche solo inserirsi con delle buone pratiche. Ciò significa che non sarebbe l'economia circolare – quindi le questioni legate all’esigenza di conversione ecologica - a dettare il cambio di paradigma necessario, ma al contrario dovrebbe farsi carico dell'aumento di produttività introdotto dalle nuove tecnologie, con la diminuzione del costo del lavoro e l'espulsione degli addetti. Con effetti paradossali come quelli di aumentare la protezione dell'ambiente, magari con la diminuzione drastica del contenuto di CO2 per unità di prodotto, accompagnata da un altrettanto drastico abbattimento dell'occupazione. Il tutto tutelando il capitale, l'ambiente, ma non il reddito e gli occupati. E persino il lavoro di R&S potrebbe non spostare più di tanto quest'equazione. Stora Enso, gruppo svedese-finlandese che fattura circa 10 miliardi di euro, con 25 mila dipendenti in 35 paesi, per esempio, ha deciso di mutare la propria produzione aggiungendo alla produzione di polpa di cellulosa, quella della lignina che fino a qualche tempo fa era uno scarto destinato alla produzione d'energia attraverso la combustione. La mutazione è stata netta. Dieci anni fa circa il 65% dell'attività dell'azienda era legata alla carta, percentuale che oggi è circa il 30%, mentre i biomateriali innovativi sono al 14%. La nuova attività di trattamento della lignina Stora Enso la svolge nello stabilimento di Sunila in Finlandia dove Stora Enso produce 50.000 tonnellate di lignina all'anno, usando il processo kraft, utilizzato normalmente per la conversione del legno in polpa di legno, diventando così il più grande produttore di lignina al mondo, cosa che gli ha consentito di lanciare sul mercato un nuovo prodotto, chiamato Lineo, che sostituisce i fenoli d'origine fossile. L'investimento dell'azienda per il nuovo processo per la separazione della lignina a Sunila è stato di 32 milioni di euro, senza incrementi occupazionali significativi visto che l'impianto, come tutti quelli di questo tipo, è a bassa intensità di lavoro. Il sito occupa, infatti, 150 persone che oltre alla lignina producono 370.000 tonnellate di polpa di cellulosa. E tutto il processo di trasformazione è guidato dai settanta ricercatori del centro di ricerca di Stoccolma dedicato ai biomateriali - che sono circa il 50% degli addetti alla R&S di Stora Enso, a livello mondiale. In pratica si sviluppano nuovi prodotti, con nuovi mercati, con investimenti bassi rispetto al fatturato, su filiere esistenti, producendo valore aggiuntivo per il capitale, forse per l'ambiente, ma non per la società. Il problema è, con ogni probabilità, alla radice. La perdita, o la creazione di posti di lavoro per le imprese impegnate nell’economia circolare è, oggi, un'esternalità invisibile. Così come la CO2 lo è per le filiere fossili.



Nuovi modelli

Servono quindi nuovi modelli nei quali il valore non sia determinato dall'esterno e non sia qualificato dall'accumulo. A decidere il valore devono essere le persone in base alle loro relazioni. E si tratta di caratteristiche, queste sì, in grado d'innescare la conversione ecologica, perché la creazione di valore all'infuori dello schema del capitale potrebbe essere la goccia d'acqua che può far traboccare il vaso del sistema insostenibile - sia sotto al profilo ambientale, sia sociale - fondato sull'economia fossile. Riappropriarsi del tempo e delle relazioni da parte delle persone, nella chiave del valor d'uso potrebbe essere una delle chiavi per uscire dal parallelismo economia circolare - economia tradizionale e imboccare il vero cambio di paradigma sostenibile.

Il valore, come abbiamo visto, è il denominatore costante e la chiave di volta della conversione ecologica sta nello scardinarlo in tutti gli aspetti sociali che di solito non sono considerati dall’ambientalismo classico, come salute, occupazione, qualità del lavoro e welfare in generale.Un terreno ancora inesplorato. Esistono alcuni esempi embrionali che è possibile iniziare ad analizzare come per esempio le monete complementari, un esempio per tutti il Sardex italiano nato in Sardegna nel 2009 e diventato un punto di riferimento per le monete sociali e complementari in tutta Europa. Si tratta di strumenti che non hanno come obiettivo quello dell’economia classica che è tesa all’accumulazione e tende quindi alla disparità, ma sono una risposta per far fronte alla scarsa liquidità monetaria dei momenti di crisi, alla precarizzazione, alla perdita del lavoro e reddito, e alla caduta della qualità della vita nel futuro. Si contano circa 5mila monete complementari e sociali in tutto il Pianeta che hanno tutte come denominatore comune quello di fare da tramite tra le necessità delle persone e le risorse e che sono ignorate dall’economia classica. Si tratta di sistemi che presuppongono lo scambio di valuta e non l’accumulo che non è conveniente visto che non si corrispondono interessi per la tesorizzazione. Le monete complementari quindi sono “solo” un’unità di misura e scambio di beni e servizi reali, cosa che rende impossibile la speculazione. Si tratta d’esperienze che hanno il valore della sperimentazione ma che non hanno trovato un appoggio forte a livello politico, anche perché minano alla radice uno dei cardini principali dell’economia classica, ossia la redditività del credito.

Altri tentativi di ribaltare il concetto di valore sono le varie esperienze di baratto strutturato, da quello tra i privati cittadini in Catalogna a quello messo a punto a livello internazionale dall’associazione internazionale IRTA che si occupa di fissare gli standard internazionale per il baratto tra le imprese. Si tratta, però, di esperienze estremamente isolate sul fronte economico. IRTA, infatti, è attiva dal 1979 e il volume economico del baratto industriale è compreso tra i 15 e i 20 miliardi di dollari l’anno. Una cifra piccola rispetto ai livelli rappresentati dal Pil mondiale e ancora più minuscola rispetto al volume di “valore” rappresentato dai derivati che nel 2022 hanno toccato i 632mila miliardi di dollari, oltre sei volte il Pil mondiale, con un aumento considerevole rispetto ai 598mila miliardi del 2021.



Elettroni autonomi

Altre esperienze “dal basso” sul recupero di valore e gestione alternativa sono rappresentate dalle spinte verso l’autonomia energetica, basata sulle fonti rinnovabili, che si stanno esprimendo in varie parti del Pianeta. Nell’Unione Europea, per esempio, sono abbastanza ben strutturate le cooperative energetiche, che sono circa 2.000 e coinvolgono 1,2 milioni di cittadini, contro una popolazione di 447 milioni di persone. Si tratta di una situazione che potrebbe cambiare, in meglio, viste le nuove legislazioni in materia d’energia rinnovabile e Comunità energetiche, messe a punto da Bruxelles. La UE, oltre a ciò, ha messo mano, in questa direzione, anche al mercato elettrico, provando a trovare un punto di mediazione tra le esigenze emergenti d’autonomia energetica dei cittadini europei e le imposizioni delle grandi compagnie energetiche del Vecchio Continente. Una mediazione impossibile, questa del mercato, che si vorrebbe realizzare con una “transizione” quando in realtà ciò che si prefigura in futuro è un netto scontro tra modelli energetici. Quello centralizzato, che, contraddicendo se stessa, l’Unione Europea ha rafforzato con la certificazione di fonti quali il gas naturale e il nucleare, come metodologie “adatte” alla transizione e quello distribuito che è invece caratteristico delle rinnovabili. 

Si tratta di due modelli incompatibili la cui coesistenza è impossibile visto che richiedono investimenti massicci in una direzione o un’altra e possiedono caratteristiche tecniche radicalmente diverse e incompatibili. Un solo esempio. La generazione da nucleare non è modulabile in base all’intermittenza delle rinnovabili, ragione per la quale o si investe in rinnovabili e il necessario accumulo che serve per rendere disponibile l’elettricità prodotta per lungo tempo, oppure nella costosa realizzazione di reattori nucleari e nell’altrettanto costosa manutenzione della filiera atomica civile. Non ci sono mediazioni possibili, e un discorso analogo, con costi e tempi di realizzazione però più bassi rispetto all’atomo, si può fare per il gas naturale. Un dibattito, quello sul modello energetico da scegliere per i prossimi decenni che fa molta fatica a essere affrontato sia nella sfera della politica nazionale, sia in quella internazionale, nonostante sia dirimente per un rafforzamento della democrazia sul fronte energetico, al punto che si parla di democrazia energetica. E si tratta di un altro aspetto che si trova ai margini del dibattito tra gli ambientalisti.



Conclusioni

Da questa breve e non esaustiva ricognizione abbiano visto come il valore sia assunto, molto di più rispetto al secolo scorso, come punto cardine delle dinamiche sociali e come si sia continuato a utilizzare il Pil come misura quantitativa dello sviluppo, abbandonando settori afferenti ai diritti collettivi, quali la casa, il lavoro, la salute, che saranno i primi a essere colpiti dalla crisi climatica. Con la politica che ha colpe enormi sotto a questo profilo. L’abbandono della dimensione collettiva per quella individuale è stata una scelta politica che iniziò con Margaret Thatcher che nel suo discorso d’insediamento per il suo secondo mandato di governo del Regno Unito nel 1983 disse: “La società non esiste. Esistono singoli uomini e donne e le famiglie”. E si tratta di una scelta che si è diffusa a tutti i livelli politici, destra, sinistra e persino tra la maggioranza degli ambientalisti che, riguardo al problema dei cambiamenti climatici, promuovono molto spesso “soluzioni” legate alle azioni individuali. E le soluzioni individuali sono state sonoramente bocciate nel Sesto report dell’IPCC che le ha definite ininfluenti sotto al profilo della riduzione delle emissioni e soprattutto le ha iscritte nel fenomeno del Green Washing messo a punto dalle aziende Oil&Gas, in ogni parte del Pianeta, comprese le nostre parti. Il problema di fondo è, e rimane, quello della mancanza di sintesi tra ecologia/clima e gli aspetti sociali, cosa che caratterizza anche i nuovi movimenti come i Friday for Future, il movimento sui cambiamenti climatici innescato da Greta Thunberg ed Extincion Rebellion, che aveva nel suo Dna primario anche alcuni aspetti sociali, come la connessione tra le generazioni. Nonostante i suoi fondatori abbiano avviato il progetto analizzando gli aspetti sociologici legati alle esperienze dei movimenti del XX secolo, l’organizzazione britannica, dopo i primi successi della primavera 2019, come quello di costringere il Governo conservatore britannico di Theresa May a dichiarare l’emergenza climatica – primo degli stati dell’Unione europea nella quale allora in Regno Unito c’era ancora – e come quello di obbligare il Labour Party di Jeremy Corbyn a sposare con decisione la causa climatica, ha perso parecchio della sua agilità funzionale sul fronte politico. I problemi sul fronte dell’efficacia delle politiche per la conversione ecologica sono svariati. Il primo è rappresentato dalla mancanza di una visione generale del futuro, una sorta di “ideologia” verde che sia facilmente comunicabile da chi la propone e sia altrettanto facilmente adottabile dalle persone. Non è mai stata fatta fino a oggi un’analisi sulla ricomposizione delle classi sociali, cosa che rende il messaggio ecologico facilmente frammentizzabile, fino ad arrivare al mero soddisfacimento delle più semplici esigenze ecologiche individuali che così diventano ininfluenti. 

Obiettivo più che dichiarato del capitale affinché non cambi nulla. La seconda questione è la velocità dell’informazione che si lega alla sempre più scarsa capacità di sedimentazione dei contenuti, cosa che lede particolarmente qualsiasi tematica che voglia influire sulla politica attraverso la formazione di un’opinione pubblica in grado d’influenzare i risultati elettorali. Unica vera questione, quest’ultima, in grado d’indirizzare la politica, in una direzione o in un’altra. In occasione delle ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti una serie di ONG statunitensi hanno creato uno slogan elettorale da veicolare a livello unitario che recitava esplicitamente “Vote climate” concetto che successivamente è stato adottato anche in Nuova Zelanda, Australia e Canada. Si è trattato di una “proposta elettorale” che coniuga efficacia comunicativa con il classico pragmatismo anglosassone, il tutto declinato attraverso una serie di concetti di base, semplici, in grado d’orientare l’elettore fornendo una serie di strumenti per “capire” quanta difesa del clima ci possa essere all’interno dei programmi elettorali. Una pressione simile a quella politica, appena descritta, si potrebbe fare circa gli acquisti da parte dei cittadini che potrebbero essere orientati sulla base dell’impatto climatico di beni e servizi. Quali siano i soggetti che possano declinare in questi termini il clima, e più in generale l’ecologia, per innescare la conversione ecologica, oggi non è chiaro. Sarebbe utile per fare ciò, avviare studi di ricerca sociale sul tema, dai quali derivare gli strumenti necessari. 



Bibliografia