Riflessioni Sistemiche n° 28


Rifondare le pratiche umane navigando nella complessità

Svegliarsi con l’allodola
La poetica della natura come parte della transizione ecologica


di Danilo Selvaggi

Direttore generale della Lipu - BirdLife Italia,

membro del Comitato Nazionale per il Capitale Naturale

danilo.selvaggi@lipu.it

Allodola (Alauda arvensis) – foto di Enrico Borghesan, Archivio Lipu

Sommario

L’articolo pone l’attenzione sulla importanza della frequentazione della natura e delle sue esperienze dirette, definite poetica della natura, che favoriscono il superamento di molti pregiudizi negativi sviluppatisi intorno alla natura e apportano benefici psicofisici, culturali, esistenziali. La poetica della natura è una componente essenziale della transizione ecologica e tuttavia va accompagnata da una politica della natura, per far sì che la transizione ecologica sia affrontata in modo più compiuto. La congiunzione di poetica e politica, che rappresenta a sua volta il superamento di un pregiudizio storico (l’inconciliabilità dei due approcci), è la chiave per le sfide ambientali e culturali che ci attendono.

Parole chiave

Poetica della natura, restauro, pillole di natura, canto degli uccelli, bosco, meraviglia, appartenenza, io, inconscio ecologico, creatività, lateralità, biodiversità, crisi ecologica, limiti del pianeta, politica della natura, edipo, desiderio, legge dell’ecologia, transizione ecologica.


Summary

The article draws attention to the importance of frequenting nature and its direct experiences, defined as poetics of nature, which favor the overcoming of negative prejudices about nature and bring psychophysical, cultural and existential benefits. The poetics of nature is a key factor in the ecological transition, yet it must be accompanied by a politics of nature, to ensure a more comprehensive way of dealing with the transition path. The conjunction of poetics and politics, which in turn represents the overcoming of a historical prejudice (the irreconcilability of the two approaches), is the way to future environmental and cultural challenges.


Keyword

Poetics of nature, restoration, pills of nature, birdsong, forest, wonder, belonging, ego, ecological unconscious, creativity, laterality, biodiversity, ecological crisis, planetary boundaries, politics of nature, Oedipus, desire, ecological law, ecological transition.

 


Alla domanda del piccolo James se l’indomani si andrà in gita, la signora Ramsay risponde di sì, certamente, nel caso faccia bel tempo. E tuttavia, caro James, c’è un compito da assolvere: “dovrai svegliarti con l'allodola" (Woolf, 1992, pag. 33).

La condizione posta dalla mamma al bambino nell'incipit di Gita al faro farà da centro del nostro discorso, ma con una valenza più ampia e al contempo più precisa di quella con cui comincia il romanzo-elegia di Virginia Woolf. Una valenza che trasforma il mezzo in fine. Svegliarsi con l’allodola non è il requisito per raggiungere il premio (la gita al faro) ma il premio stesso. È la scoperta dell’alternativa esistenziale offerta dalla natura, che consiste in una vita più sana, ricca di soddisfazioni e giusta. Si tratta di un’alternativa disponibile, un regalo che ci è intorno, ammesso che il ricevente (io, noi) corrisponda al donatore (la natura) e dunque attivi una trasformazione nei propri modi di vivere. E ammesso, ovviamente, che la natura sia conservata.

Userò la figura della sveglia con l’allodola per delineare una modalità esistenziale ecologica che definisco poetica della natura. La poetica della natura è la strategia di prossimità, relazione diretta con la natura e, conseguentemente, di pensieri e azioni che promuovono un cambiamento individuale e comunitario in corrispondenza con la natura. 

Come tale, la poetica della natura rappresenta una componente essenziale della più ampia strategia chiamata transizione ecologica. Meglio: rappresenta metà dell’opera. La transizione ecologica necessita di un programma pubblico di vasta portata che comprende processi di modifica delle economie, delle tecnologie, dell’organizzazione sociale. In breve, necessita di una politica della natura. Tuttavia, in assenza di rinnovamento individuale, e dunque in assenza di eventi che mettano in gioco le nostre esistenze concrete, fatte di desideri e realizzazioni, la politica della natura è destinata a successi solo parziali ove non a un sostanziale fallimento. 

Alla politica della natura occorrono programmi collettivi ed esperienze personali. Per questo il canto dell’allodola, il significato e il valore dell’alba, la chiamata della natura, la poetica della natura, sono così importanti.



Meraviglie dell'alba

L’alba è un prodigio che si ripete ogni giorno. La quantità di fenomeni necessari per produrla è stupefacente tanto quanto il fatto che, pur avendo di questi fenomeni una qualche contezza scientifica (sono fenomeni naturali, non il frutto di accadimenti soprannaturali), noi continuiamo a stupirci. C’è poi un prodigio nel prodigio che è l’alba nella stagione dell’amore. Gli uccelli - i maschi - cantano a più non posso, per convincere le femmine che i migliori sono loro e dunque continuare la specie. Ne viene fuori una sinfonia di eccezionale bellezza e varietà, che David George Haskell chiamerebbe "la base sensoriale della gioia" (Haskell, 2023). Il silenzio, i fruscii, i colori, gli odori, le suggestioni dello scenario dell’alba fanno il resto.

Detto per inciso, una nuova corrente scientifica (Prum, 2020, ma anche Rothenberg, 2006), che rimanda ad un ampio orizzonte di studi di cultura animale, ipotizza che il fenomeno del canto degli uccelli non sia limitato alla mera emissione di segnali onesti (cioè l’insieme di espressioni - canto, danze, piumaggio - che indicano la buona salute dell’individuo) ma debba essere inteso come evento evolutivo complesso che include una componente di natura estetica: gli uccelli cantano anche perché amano farlo. È dunque possibile che le doti artistiche, pur fini a sé stesse, rientrino nel patrimonio che gli uccelli desiderano tramandare e dunque concorrano ai motivi della scelta sessuale.

Recuperando la Teoria della selezione sessuale di Darwin detta anche, appunto, Teoria estetica, questa corrente scientifica supera la concezione strettamente funzionalista del comportamento animale potendo dare un’interpretazione di tutto quell’apparato di orpelli - livree eccentriche, lunghe code, abbellimenti grandiosi e ovviamente canti, non poco dispendiosi - che caratterizzano molti uccelli e che la teoria adattamentista non riesce a spiegare interamente.

Alla luce di questa visione, il bosco all’alba (o il campo aperto, terreno dell’allodola) appare ancora più suadente. Un luogo non solo di utile ma anche di dilettevole. Di laterale. Un luogo poetico.



Nessun bambino

Della sveglia con l’allodola Rachel Carson è stata una protagonista di eccellenza. Come è noto, la biologa statunitense passa alla storia grazie a quel Primavera silenziosa che nel 1962 segna una svolta nell’affermazione del movimento ambientalista mondiale.

Primavera silenziosa è anzitutto un libro-denuncia dell’uso abnorme di Ddt e altri pesticidi chimici nell’America di metà Novecento, con tutti i danni conseguenti all’ambiente, alla salute umana e alla vita selvatica, di cui gli uccelli sono stati le vittime principali. È a questo che si riferisce il titolo del libro, ispirato a un verso de La Belle Dame sans Merci di John Keats: alla sparizione degli uccelli dai boschi, dalle campagne e dai cieli d’America. Al silenzio delle primavere degli uccelli morti, uccisi dal diluvio di chimica che ha accompagnato lo sviluppo dell’agricoltura industriale e più in generale le pratiche di gestione della natura dell’epoca (e purtroppo, in buona parte, anche di oggi).

L’opera di Rachel Carson mette sotto accusa questo sistema, compresa la concezione che lo giustifica, la filosofia del controllo della natura, e avanza una controproposta: sostituire la filosofia del controllo, che in ultima analisi è impraticabile o comunque inefficace, quando non deleteria, con la filosofia del patto, dell'alleanza. L’alleanza con la natura deve essere la base di una politica che spodesti il principio di sopraffazione e affermi, declinandolo nei programmi di ogni sorta, il principio di relazione. Di buona relazione. Un principio sistemico, ecologico. 

L’ambientalismo moderno e le politiche della natura nascono così, con la natura che assume rilievo crescente nelle agende politiche dalle quali, per molti versi, era estromessa. Almeno in linea teorica, la natura diventa il centro di una rinnovata programmazione delle cose umane e Rachel Carson assurge a madre non dell’ambientalismo in quanto tale (le cui origini risalgono al secolo precedente) ma del secondo ambientalismo, l’ambientalismo moderno o, appunto, delle politiche ambientali. 

E tuttavia, prima ancora che la politica della natura, Rachel Carson sposa la poetica. Un vissuto personale, sentimentale del mondo naturale. La scrittrice di Springdale è anzitutto una bambina innamorata e meravigliata di quanto la natura sa offrire, specialmente all’alba, e quelle emozioni faranno da premessa alla storia pubblica che verrà. Sarà la madre Maria McLean a iniziare Rachel, sin da piccolissima, all’esperienza naturalistica, tirandola giù dal letto prima del sorgere del sole e portandola nel bosco ad ascoltare gli uccelli, convinta che l’educazione della natura fosse un esercizio totale. Un'esperienza scientifica, estetica, sensoriale, riflessiva, motoria, creativa che rivoluziona la struttura dell’essere aprendo possibilità molto diverse rispetto a quelle dell’educazione tipica della società industriale, grigia, denaturalizzata. La natura è un’esperienza che forma in modo completo e ci cambia a fondo.

Carson farà tesoro di quei principi, elevando la vita in natura (la sveglia con l’allodola) a condizione di una vita migliore. “Nessun bambino - scriverà in Brevi lezioni di meraviglia - dovrebbe crescere senza aver ascoltato il coro degli uccelli all’alba, in primavera. Mai dimenticherà l’esperienza di puntare la sveglia presto al mattino e uscire nell’oscurità prima dell’alba” (Carson, 2020, pag. 26).

“Le prime voci si sentono quando ancora non si è fatto giorno. È facile riconoscere i primi canti solitari. Può darsi che alcuni cardinali stiano modulando il loro nitido fischio ascendente… Poi viene il canto di una bigiarella, puro ed etereo, con la qualità sognante di un ricordo gioioso. Lontano, in qualche zona distante del bosco, un succiacapre vocifero continua il suo monotono canto notturno, ritmico e insistente… Pettirossi, tordi, passeri, cantori, ghiandaie, vireonidi aggiungono le loro voci.

Il coro aumenta mano a mano che altri pettirossi si uniscono, contribuendo con il loro ritmo furioso che presto si fa dominante nel selvaggio intreccio di voci. In quel coro all’alba si sente il battito della vita stessa” (Carson, 2020, pp. 26-27).

Ecco: il battito della vita stessa. A nessun bambino dovrebbe accadere di crescere senza averlo colto. Nessun bambino dovrebbe essere privato di quel sense of wonder, come lo chiama Carson, il senso della meraviglia, che ne deriva. Di più: il senso della meraviglia nemmeno dovrebbe cessare quando il bambino cresce e supera quella sorta di barriera che separa i sogni dell’infanzia dal realismo dell’adulto, lasciando dietro di sé l’esperienza della natura e della meraviglia come cose da bambini, che devono cedere il posto alle questioni importanti. Se questo accade, sostiene Rachel Carson, se il senso di meraviglia svanisce, se le questioni importanti sono sterilizzate da ogni possibilità di incanto, a svanire è la possibilità di cambiamento autentico e autentico benessere, ed ogni azione, programma, politica ambientale sono in ultima analisi compromessi.



La Teoria del Restauro e altre cure

Da molti anni la scienza è impegnata a mostrare quanto la vita in natura rappresenti una fonte di benessere per gli esseri umani, oltre le nozioni canoniche e spesso approssimative che abbiamo in merito. Gli studi accumulati sono innumerevoli, a partire dal pionieristico lavoro degli anni Settanta di Roger Ulrich (la Toeria del Recupero dallo Stress, Ulrich) e da quello di Rachel e Stephen Kaplan, psicologi dell’Università del Michigan, sulla cosiddetta Art - Attention Restoration Theory (Teoria del Restauro dell’Attenzione, vedasi Kaplan e Kaplan, 1989).

I Kaplan elaborarono un programma su come recuperare dalle situazioni di stress mentale che sempre più colpiscono le persone, specialmente nelle nostre società fortemente urbanizzate, e su come farlo grazie alla natura. La terapia prevede un percorso di vari livelli di liberazione dallo stress, centrati su un modo diverso di gestire l’attenzione. La tesi di fondo della teoria è duplice: 1) nella vita non possiamo né dobbiamo essere costantemente concentrati, sotto comandi rigorosi; la mente deve essere anche libera di deviare, vagare, ricevere stimoli morbidi (soft fascination); 2) nel compito di soft fascination la natura è maestra. Sa accogliere, rallentare, favorire relazioni delicate che costituiscono già in sé stesse una forma di cura. Con le sue immagini incantevoli, con i colori, i suoni e i silenzi, il fruscio delle foglie, il soffio del vento, la delicatezza delle tinte autunnali, la natura attiva un’opera di restauro dell’anima e della mente, sofferenti perché sollecitate dai troppi problemi, informazioni, richieste, obiettivi, rumori del mondo di oggi. La natura le cura, le guarisce, o comunque può fortemente contribuire.

L’approccio dei coniugi Kaplan ha aperto una lunga stagione di studi sul benessere naturale, che ha attraversato le conoscenze fino ai lavori interdisciplinari più recenti. Ancora dall’Università del Michigan viene lo studio del 2019 di Mary Carol Hunter e altri delle cosiddette pillole di natura, volte a ridurre lo stress quotidiano di chi abita in città. Il lavoro, condotto mediante il prelievo di due bioindicatori dello stress nella saliva (cortisolo salivare e alfa-amilasi), ha coinvolto 36 persone alle quali è stato chiesto di avere una Ne (Nature experience, Esperienza di natura), trascorrendo almeno dieci minuti al giorno in ambiente naturale per almeno tre volte a settimana per otto settimane.

Ebbene, è bastato così poco per registrare un calo dello stress nelle persone di circa il 25%. Lo studio è diventato un invito agli operatori sanitari che si trovano ad affrontare i sempre più frequenti casi di stress mentale: invitate le persone a stare in natura, prescrivete loro una pillola di natura quotidiana. Anche da pochi minuti trascorsi tra alberi, foglie e canto degli uccelli le persone trarranno giovamento (Hunter e altri, 2019).

I 36 casi del lavoro di Hunter sono diventati quasi 1300 in quello del team di Ryan Hammoud. Pubblicato nell’ottobre 2022 da Nature Scientific Reports, lo studio ha mostrato come il giovamento dell’esperienza naturale sia particolarmente legato al canto degli uccelli. Bastano piccole dosi quotidiane di natura, e in special modo di birdwatching e birdhearing, a produrre benessere per 6-8 ore e più. In pratica, a dare una carica di positività psicofisica per buona parte del giorno e dunque, se le nostre vite si riempissero di natura, per buona parte della vita.

"Un campione di 1292 partecipanti ha completato un totale di 26.856 valutazioni ecologiche tra aprile 2018 e ottobre 2021. Gli incontri quotidiani con l'avifauna sono stati associati a miglioramenti duraturi del benessere mentale. I miglioramenti sono stati evidenti non solo nelle persone sane ma anche in quelle con una diagnosi di depressione, la malattia mentale più comune in tutto il mondo. Questi risultati hanno potenziali implicazioni per la protezione dell'ambiente e della fauna selvatica e le politiche di salute mentale. Dovrebbero essere attuate misure specifiche, volte a preservare e aumentare gli incontri quotidiani con l'avifauna nelle aree urbane" (Hammoud R. e altri, 2022).

In un mondo che conosce altissimi tassi di stress, con ricadute di ordine sanitario, economico, sociale, il restauro psicofisico della persona è un motivo di non poco rilievo e, come appena visto, produce anche il potenziale effetto collaterale di una gestione dell’ambiente con occhi di maggior riguardo. Ecco dunque la prima accezione della poetica della natura: frequentazione della natura come terapia naturale.



Oltreconfine. L’allargamento comunitario dell’io

E tuttavia, il potenziale terapeutico della natura non si limita alla pur notevole funzione di toccasana. Vi è una seconda capacità di cura, intellettuale e morale, che è data dal potere di allargare la nostra idea di mondo, di comunità d’appartenenza, aprendo prospettive esistenziali di più ampia soddisfazione. È ciò a cui si riferisce Rachel Carson quando parla del senso di meraviglia.

 

"Qual è il valore di preservare e rafforzare [il] senso di stupore e meraviglia, la consapevolezza di qualcosa che va al di là dei confini dell’esistenza umana? Esplorare il mondo naturale è solo uno dei tanti modi di trascorrere le ore felici dell’infanzia o c’è qualcosa di più profondo? Sono certa che ci sia qualcosa di più profondo, qualcosa di duraturo e importante. Coloro che vivono tra le bellezze e i misteri della terra - siano essi scienziati o persone comuni - non saranno mai soli o stanchi della vita. A dispetto della contrarietà e delle preoccupazioni dell’esistenza, i loro pensieri sapranno trovare altre strade che conducono all’appagamento interiore e a un rinnovato entusiasmo nei confronti della vita. Chi contempla la bellezza della terra trova riserve di forza che dureranno quanto la sua stessa vita(Carson, 2020, pp. 32-33).

Bisogna prestare attenzione a questo passo, così potentemente ottimistico, anche per fugare i sospetti di retorica che tanta fiducia potrebbe suscitare (peraltro, conoscendo l’esperienza di Rachel Carson, inclusa la triangolazione con la malattia patita, il rischio di retorica è da ritenersi del tutto fuori luogo). Il passo mostra un vero e proprio capovolgimento delle idee di natura che storicamente abbiamo sviluppato e che si mostrano sempre meno idonee e meno corrette.

Vivere il mondo naturale, scrive la biologa, vuol dire intrattenere un rapporto con una realtà “duratura e importante” che contribuisce alla soluzione di “contrarietà e preoccupazioni dell’esistenza” e consente di “non sentirsi mai soli o stanchi della vita”. La prossimità con la natura regala un “appagamento interiore”, stimola “un rinnovato entusiasmo nei confronti della vita”, ci permette di attingere a “riserve di forza che dureranno quanto la stessa vita”.

Da cosa origina questa lunga serie di virtù? Sostanzialmente, dalla rivalutazione di quel qualcosa che va al di là dei confini dell’esistenza umana”, cioè del vivente non umano, e precisamente dalla scoperta-ribaltamento che la natura non è un luogo ostile ma, al contrario, è casa. E in quanto casa, produce un ampliamento dei luoghi dell’io, dei suoi orizzonti, dei suoi confini, esortandoci alla partecipazione a una comunità più vasta che è appunto quella dell’intero vivente. Anzi, un ampliamento e al tempo stesso una riduzione dell’io, nella misura in cui riconosciamo l’esistenza, la dignità e la vastità dell’altro vivente (e ne traiamo le conseguenze anche pratiche). Milioni di specie diverse dalla nostra con vite diverse dalla nostra ma alla nostra somiglianti.

Siamo, evidentemente, al cospetto di un superamento di molti assunti della nostra tradizione culturale maggiore, per la quale la natura ha rappresentato per lo più un campo negativo, squalificato da ragioni religiose, filosofiche, scientifiche o semplicemente di senso comune. Un campo nel quale non è possibile trovare vero appagamento o compagnia (prerogative della vita sociale), né principi duraturi e importanti (prerogative della vita mentale, spirituale, religiosa), né liberazione dai rischi (prerogativa della vita civile, urbana, e dei suoi sistemi di protezione).

Natura come danno o pericolo, natura come simbolo del male, natura come regno di esistenze di rango basso, natura come mera disponibilità di beni di consumo, peraltro usati irresponsabilmente: la storia del pensiero ecologico è soprattutto la messa in discussione di questi costrutti, attraverso un’evoluzione di scienza e valori ma anche, appunto, esperienze concrete e personali. Esperienze di vissuto, di corrispondenza, di scoperta diretta della moltitudine di altre vite e altre menti, al di là dei confini dell’esistenza umana, con le ricchezze e le sorprese che si portano dietro tra cui l’ipotesi che gli uccelli cantino anche perché amano cantare.

Lungi dal rappresentare un limite, ad esempio per gli obblighi morali di nuova generazione che produce (la comparsa delle altre vite, evidentemente, allarga il cerchio della morale, degli "aventi diritto", e dunque aumenta le nostre responsabilità), la scoperta di questo oltreconfine è la liberazione da una prigionia autoimposta, la prigionia di specie, e l’attivazione di una vita migliore.

È ancora a Rachel Carson che dobbiamo rifarci per chiudere il cerchio, citando un episodio emblematico e struggente della sua storia pubblica e privata: l’evento delle farfalle monarca. Corre l’anno 1963 e la scrittrice, malata, fugge per qualche giorno dalla baraonda politica e mediatica scatenata da Primavera silenziosa, per dedicarsi con l’amica del cuore Dorothy, sulla costa del Maine, alla poetica della natura. Eccolo, lo spettacolo che attendevano: la migrazione autunnale delle farfalle monarca.

Più di tutto ricorderò le farfalle monarca, quella lenta deriva di piccole forme alate, una dopo l’altra, ciascuna spinta da una forza invisibile” (Carson, 1995, pp. 467-468). Milioni di creature arancione in volo verso sud, dal nord America al Messico, dove svernare. Torneranno? Molte di loro no, dice Rachel Carson. Alcune nemmeno riusciranno a terminare il viaggio. Altre nel corso del viaggio si riprodurranno, dando vita a una vera e propria migrazione transgenerazionale che ha qualcosa di stupefacente, in senso tanto scientifico quanto morale. Uno scambio di testimoni di esistenza. Un regalarsi reciprocamente il tempo. Un entrare ciascuna nelle stanze del tempo e della vita altrui.

La visione delle farfalle monarca in Maine rafforza in Rachel Carson l'idea che la nostra esistenza sia qualcosa di molto più vasto di come siamo soliti pensarla, e viverla. Più l’esistenza si apre all’altro e più è larga e senza fine. Più oltrepassa certe tenaci barriere dell'io (non tutte ma sicuramente alcune) e più è destinata, in qualche modo, a durare. Anche per questo chiudersi in sé è stupido. Si vive di meno e si dura di meno. 



Vite laterali

Seguendo la lezione di Theodore Roszak, che dell’ecopsicologia è considerato il fondatore, l’ecopsicologa Marcella Danon punta proprio sul tema dell’allargamento dell’io (e sul senso di reciprocità noi-natura) come argomento centrale per la conversione culturale ecologica, evidenziando il concetto di inconscio ecologico che Roszak, con varia ispirazione, ha elaborato.

“L’inconscio ecologico [sono parole di Theodore Roszak] al suo livello più profondo racchiude l'intera intelligenza ecologica di tutte le specie, la fonte da cui è scaturita la cultura, come riflesso consapevole di un’emergente mente della Natura. La sopravvivenza della vita e di tutte le specie non sarebbe stata possibile senza un tale sistema di saggezza autoregolantesi”. Un sistema che ha sempre guidato l’evoluzione, “attraverso tentativi ed errori, selezione ed estinzione”, e al quale il nostro io deve oggi ricollegarsi “se vogliamo diventare una specie sana capace di grandi avventure evolutive” (Danon 2020, pag. 75).

La tesi è dunque quella che esiste un habitat comune, non soltanto biofisico ma anche psichico. Un territorio della psiche, antico e profondo, come una sorta di rete micorrizica, nel quale tutti gli umani si ritrovano o possono ritrovarsi. Risuonano, in queste parole, concetti che hanno segnato la svolta epistemologica degli ultimi decenni e contribuito al design del pensiero ecologista. Risuona l’ecologia della mente batesoniana così come la sua creatura globale. Risuona per certi aspetti il pensiero del sacro, pur nella suggestione delle sole bozze che Gregory Bateson ha potuto lasciarci su questo tema così insidioso. Risuona la coscienza della Terra-Patria di Edgar Morin, nel senso dell’allargamento della nostra terra di destino: non la comunità di sangue, non la nazione e nemmeno (solo) la società, ma il vivente. Il Pianeta.

L’approccio ecopsicologico ci serve tuttavia da spunto anche per tirare in ballo la terza accezione di poetica della natura, dopo quelle dei benefici piscofisici e dell’allargamento comunitario dell’io: poetica della natura come lateralità, creatività, affettività (Barberio, 2017), dimensione analogica e non lineare della nostra mente. Potremmo considerarla una versione artistica della soft fascination di Rachel e Stephen Kaplan, cioè del cedimento di concentrazione e della crescita di sensazione.

Nell’immersione naturale, il pensiero logico si fa da parte o comunque risulta non più l’unico autorizzato ad agire. Entra in gioco il nostro lato analogico, la cui capacità è di attingere a strati più intimi e persino oscuri del nostro animo (per cui è lo stesso inconscio ecologico che rientra in gioco) e portarli ad espressione. È come se avessimo dentro di noi una foresta, una foresta interiore, e quando ci troviamo in natura, ad esempio in una foresta vera e propria, le due foreste cominciano a dialogare direttamente, senza bisogno del medium razionale. Parlano tra loro, e la foresta reale contribuisce a che la foresta interiore generi la sua propria diversità biologica, cioè sentimenti, parole, pensieri, visioni, narrazioni, desideri. Metafore.

C’è, in questo senso, un forte legame tra le forme della natura e talune nostre modalità espressive che le dinamiche della vita contemporanea, frenetica, iper-razionalizzata, sono solite penalizzare, esattamente come accade al senso di meraviglia, che non supera le frontiere dell’età adulta o lo fa solo da ingressi secondari. La poesia propriamente detta, con il suo esercizio di legare le parole con i fili dell’analogia, è certamente tra queste modalità. La poesia è forse il linguaggio metaforico supremo, e a voler prender sul serio la lezione di Bateson sulla metafora come linguaggio della biologia, è addirittura il modo più proprio di corrispondere alla natura. È la poetica della natura per eccellenza. Tuttavia lo sono anche la musica, la pittura, la scrittura di diari e taccuini, la scrittura autobiografica e molte altre espressività che raccontano legami ritrovati, o semplicemente trovati, mai avuti prima (se non, appunto, nelle profondità dell’inconscio ecologico) con la vita che ci circonda. Un’ecologia della cultura. Una cultura, o coltura, della creatività.

È dunque questa la terza accezione della poetica della natura: la natura che favorisce la creatività, l’espressione dei modi laterali. Oltre ai benefici psicofisici che ci aiutano a vincere lo stress, oltre all’ampliamento della vita dell’io che scopre di avere una casa più grande - il Pianeta - e una morale più grande, la prossimità con la natura ci stimola una via espressiva più intensa, che non sostituisce la via razionale ma la integra (vedasi anche l'importante tema dell’outdoor education, la conoscenza all'aperto, Guerra, 2019 e 2020) e la arricchisce e per questo potenzia il nostro essere nel mondo.

Nel quadro entusiastico tracciato dal passo di Rachel Carson non c’è dunque esagerazione. I vantaggi che vengono dalla frequentazione della natura, dalla svolta ecopoetica delle nostre vite, sono notevoli. La natura ci cambia la vita. Svegliarsi con l’allodola o le bigiarelle sembra davvero un restauro profondo. Più che una sveglia, un risveglio.



Ah!

Ma intanto: come sta l’allodola? Qual è lo stato della specie che ci sta facendo da guida inconsapevole? I dati del Farmland bird index, l’indice di salute degli uccelli di ambiente agricolo (Lipu-Rete Rurale Nazionale 2022), che fotografano la situazione dal 2000, fanno registrare un -47%. Significa che in due decenni, di questa piccola specie campestre, il cui canto fa vibrare l’alba delle nostre estati, metà della popolazione italiana è andata persa.

Altrettanto grave è la situazione di cutrettola (- 43%), cardellino (-48%), rondine (-48%), mentre i dati precipitano per specie come il torcicollo (- 67%), il saltimpalo (- 70%,) il calandro (- 72%), l’organetto (- 77%), di cui abbiamo perduto due terzi e oltre. Le cause di questo scenario drammatico sono da ricondurre a un’agricoltura insostenibile, ancora colma di chimica e votata all’intensivo, che non lascia quasi spazio alla natura. Non una siepe, uno specchio d’acqua, un elemento di paesaggio naturale, un fiore. Sterminate distese di coltivi nelle quali la diversità biologica è straniera. Sessant’anni dopo Rachel Carson, e pur a fronte di mutamenti di rilievo, l’agricoltura resta uno dei campi più riluttanti alla transizione ecologica e più legati alla filosofia del controllo: la natura è un deposito da sovrasfruttare e, se qualcosa non funziona (insetti nocivi, danni da fauna selvatica), si ricorre agli strumenti "gestionali".

La perdita di biodiversità in ambiente agricolo è del resto solo uno dei volti di quella che chiamiamo, al singolare, crisi ecologica, e che in realtà è un fenomeno plurale, complesso, sebbene abbastanza uniforme nelle cause generali. Joahn Rockström, direttore del Centro di Resilienza di Stoccolma, ha guidato il team di scienziati che ha definito i cosiddetti planetary boundaries, i limiti planetari. Nove ambiti biofisici con delle soglie numeriche da non superare, per non ritrovarci dalla zona verde, nella quale dovremmo stazionare in sicurezza, alla zona gialla, di insicurezza e rischio crescente, o addirittura alla zona rossa, di pericolo estremo. I dati più aggiornati dicono che le soglie rosse sono state superate per sei ambiti (biodiversità, cambiamenti climatici, ciclo di fosforo e azoto, inquinamento da sostanze chimiche, consumo del suolo, disponibilità di acqua dolce) e che dunque l’umanità è ampiamente in pericolo. 

Sul fronte specifico della perdita di biodiversità, il dato più eloquente lo offre l’Ipbes, la piattaforma intergovernativa per la biodiversità e i servizi ecosistemici: un milione di specie a rischio d’estinzione di cui il 50% entro il secolo. Tra le specie in pericolo, il 25% di animali e vegetali, oltre il 40% di anfibi, il 33% di coralli. Numeri, a cui vanno aggiunti quelli della crisi degli habitat, che portano l’Ipbes a decretare senza remore che la “sesta estinzione di massa” è in atto. Cioè, che l’allodola si trova in folta compagnia.

Cosa fare? Come invertire la rotta, in tema di distruzione massiva di natura, consumo di risorse, emissioni climalteranti, inquinamento nelle forme più varie? Come agire, considerata la straordinaria concomitanza di cause? Soprattutto: può, la poetica della natura, da sola, con la sua logica di prossimità, lentezza, profondità, cambiare le cose?

In un certo senso è la domanda che la giornalista Susan Deming pose al termine di un’intervista a Gary Snyder, poeta, pensatore ed ecologista profondo. Dopo alcuni quesiti sulla natura, la wilderness, la scrittura, Deming chiede: “Può, la poesia, cambiare il mondo?” E Snyder risponde con un’esclamazione: “Ah!”. Cosa intendesse possiamo solo supporlo. “Mi piacerebbe di sì”, o “forse no”, o “forse un giorno sì”, o “nel mio cuore sì ma in realtà non so”. In ogni caso, la risposta-non risposta di Snyder ci aiuta a completare il discorso sulla poetica della natura con il seguente argomento: se abbiamo a cuore la trasformazione ecologica del mondo, dobbiamo assumere la poetica della natura come metà del compito. L’altra metà è un agire pubblico che trasformi globalmente, e più rapidamente, la nostra organizzazione tecnica e sociale. Un agire politico.


 

La sfida della politica

È a questo che dedico la parte finale dello scritto: alla necessità che la poetica della natura sia affiancata da una politica della natura, e che solo in tal modo la strumentazione metodologica necessaria alla transizione ecologica possa dirsi completa.

La crisi ecologica consiste in una serie di fenomeni di straordinaria portata nel tempo e nello spazio. Coinvolge numeri impressionanti e complicati aspetti qualitativi. Tira in ballo un sistema di infrastrutture materiali e immateriali che percorre l’intero pianeta, innervandolo come uno scheletro.

Questa megamacchina (Mumford, 2011; Latouche, 1995) affonda le origini lontano nel tempo, traendo ispirazione dalle logiche che già furono della rivoluzione neolitica e che si sono storicamente evolute ma con un filo conduttore: la crescita di produzione, consumi, economie (pur negli squilibri diffusi). Un processo lungo e stratificato che ha prodotto manufatti, città, strade, trasformazioni territoriali, industrie, sistemi economici, sistemi burocratici, tecnologie nonché idee e mentalità, e da queste ultime è stato a sua volta plasmato.

Alla storia secolare della megamacchina fanno riscontro i pochi decenni di vita della cultura ecologica, che deve quindi confrontarsi non solo con l’Antropocene breve della Grande accelerazione - diciamo dal 1945 ad oggi - (McNeill, Engelke, 2018) ma con il Lungo Antropocene, la storia complessiva di tutta una civiltà. Questo è dunque il compito asimmetrico che spetta alla cultura ecologica: agire su miliardi di persone e sui sistemi che le riguardano. Modificare abitudini consolidate, interessi differenziati, privilegi acquisti. Modificare la geopolitica e i suoi scottanti equilibri. Vincere le enormi opposizioni. Smontare un sistema-mondo e rimontarlo, reinventarlo. E inoltre agire in fretta perché i tempi della crisi ecologica, il suo precipitare, non sono quelli del fare poetico e nemmeno quelli della politica tradizionale, con le sue fatiche (per buone o cattive ragioni) nel decidere e nell’agire in rapidità.

È necessario aggiungere, in questo senso, che l’avvento della crisi ecologica complica ulteriormente i già tortuosi sentieri della politica, incrinandone molti degli istituti classici. Tre esempi possono essere utili:

- il rapporto Stato-Territorio, caposaldo delle nostre democrazie, non funziona più. La globalità dei fenomeni ambientali richiederebbe anche forme di governo globale, la cui istituzione, peraltro, appare oggi molto difficile;

- la legittimità democratica è posta almeno parzialmente in discussione, perché la salvezza del pianeta richiede scelte anche drastiche che accendono contraddizioni tra bene democratico e bene ambientale;

- la dimensione spazio-tempo della politica dovrebbe mutare, allargandosi oltre l’umano e allungandosi oltre il presente e il futuro prossimo, cioè oltre i tempi brevi delle politiche tradizionali, tenendo conto anche dei futuri più lontani e delle umanità che li vivranno. Una prospettiva ardua, considerando quanto la politica privilegi il qui ed ora e quanto ancora oggi sia poco incentivata a fare diversamente.

C’è insomma, come notato da un numero ormai vasto di autori (Damieson, 2021; Mann e Wainwright, 2019; Pellegrino e Di Paola, 2018; Conversi, 2022) una sorta di incompatibilità ontologica tra la politica che abbiamo e la politica che dovremmo avere. E tuttavia, sebbene di una politica diversa, è pur sempre di una politica che abbiamo bisogno. Di un’organizzazione delle società di grande scala secondo modelli e valori fondati sui nuovi principi ecologici, adeguatamente supportata da tecnica e tecnologia.

E qui si innesta un ulteriore problema, tutt'altro che secondario: la perdurante e diffusa ritrosia per la politica (diciamo pure la “teoria del sospetto” che in varie forme la accompagna), unitamente alla ritrosia, ove non a una vera avversione, per la tecnica. Tecnica come tecnologia, tecnica come burocrazia, tecnica come potere. Avversione che aumenta con l'intensificarsi della macchina tecnica (Serena Dinelli direbbe della "regolamentazione", Dinelli, 2022), generandosi così un classico circolo vizioso.

Si tratta di un problema oggi acuto ma che accompagna l’umanità da tempo, e accompagna lo stesso ambientalismo fin dalle sue origini. Anzi, l’ambientalismo nasce proprio come disgiunzione tra due visioni del mondo e due strade da seguire (Clayton, 2019), che a buona ragione possiamo far coincidere proprio con i due segmenti del nostro discorso: la visione poetica e la visione politica del mondo; le idee alternative secondo cui 1) la salvezza è nella natura selvaggia e in quelle modalità sentimentali, laterali, calde dell’esistenza, che ne favoriscono il nostro e suo vissuto; 2) la salvezza è nel buon uso delle risorse naturali e dunque nella gestione, nelle opportune conoscenze e tecniche, nell’organizzazione politica. In un approccio lucido, razionale, freddo.

È una divisione che l’ambientalismo non ha mai sanato e che continua a lacerare le parti, oltre a frenarne l’azione. Nondimeno, è un costrutto errato, fondato su una serie di errori, oggi enfatizzati dalle esigenze dell’era globale, tra cui un errore di scala: la poetica agisce nella prossimità; chiama in causa il contatto diretto, i luoghi interiori; tira in ballo il desiderio, la cultura, i tempi lunghi dell’educazione. La politica, tanto più in era globale, agisce anche nella vastità; chiama in causa i grandi programmi, le dimensioni pubbliche, le scelte di massa. Tira in ballo i diritti, i doveri, le norme.

Appare ovvio, ma forse non così tanto, affermare che la nostra vita sia la coesistenza di questi due livelli, e dunque, a meno di rinunciare a uno dei due (vivere nel bosco ignorando la società, vivere in società ignorando il bosco) abbiamo bisogno di entrambi. La transizione ecologica ha bisogno di entrambi. Il Pianeta ha bisogno di entrambi. E di entrambi ha bisogno l’allodola, da un lato per esser ascoltata nei suoi canti mistici, dall'altro per essere salvata dai nostri modelli ostici.

 

 

James, la madre, il padre, ovvero l’Edipo ecologico

Infine, torno là da dove sono partito, a Gita al faro, e chiudo con una specie di gioco: leggere la scena di apertura del romanzo come un quadro edipico. Un padre, una madre, un figlio, e una dinamica tra loro. Ricordiamo la situazione: alla domanda desiderante del piccolo James (se all’indomani la gita ci sarà), la madre risponde con ottimismo. Sì, svegliati all’alba e ci sarà, ammesso che il tempo sia bello (ma sarà bello, dice la beneaugurante signora Ramsay). “Al figlio queste parole dettero una gioia straordinaria… un’ondata di felicità paradisiaca” (Woolf, 1992, pag. 33). Poi però interviene il padre, che spegne i sogni del bambino. “Non si andrà al faro, James. Non sarà bello” (ib., pag. 43).

La prima lettura possibile della scena, la più ovvia, è quella critica, antiedipica, alla Deleuze e Guattari. L’intervento del padre è frustrante. Uccide la voglia del bambino e di chiunque si riveda in lui. Interrompe bruscamente il flusso del desiderio. Non è qui possibile anche solo accennare all’enorme dibattito scatenatosi sull’Antiedipo, in campi legati non soltanto alle discipline della psiche ma alla politica, alla filosofia, alla teoria critica e sociale. A questi campi aggiungerei tuttavia quello della società dei consumi che, a partire dagli anni Sessanta e Settanta e soprattutto con gli anni Ottanta, vivrà un’impennata spaventosa, anche in termini di impatto ecologico.

Quest’ultimo punto è cruciale per il discorso che qui mi interessa. La posizione antiedipica di Deleuze e Guattari si fonda sulla critica di una società repressiva, che uccide il desiderio come fa il padre di James. Cosa succede, tuttavia, se svolgiamo il ragionamento in chiave ecologica?  Succede quello che è realmente accaduto nel momento in cui, del desiderio, si è impadronita la società dei consumi con i propri comandamenti. Primo comandamento della società dei consumi: niente limiti al desiderio! Desideriamo, e soddisfiamoci! Se dunque il desiderio è desiderio di oggetti di consumo, non diamo limiti alla trasformazione della natura in oggetti di consumo.

Ciò che dunque appariva come una teoria della liberazione (il desiderio non represso, libero di soddisfarsi) è stato trasformato nel suo opposto dalla combinazione dialettica di iperconsumo globale e questione ecologica: una nuova schiavitù - schiavitù dalla società dei consumi e dell’industria culturale a suo sostegno - colma altresì di gravi conseguenze ambientali. Schiavitù che consuma vorticosamente il mondo.

È di questo che implicitamente parlano i planetary boundaries di Rockström. Non solo di dati scientifici, calcoli, modelli, ma delle conseguenze della trasformazione del desiderio in godimento (per dirla in linguaggio lacaniano) e dunque del superamento di ogni limite biofisico, affinché si tenti di dare soddisfazione impossibile all’inappagabile desiderio.

Appare così la necessità di un nuovo Edipo, un Edipo ecologico. La necessità di una legge dell’ecologismo che si affermi a tutela dei limiti biofisici del pianeta e del futuro, nostro e delle generazioni che verranno. È ciò che infatti è avvenuto con la storia dell’ambientalismo, da I limiti dello sviluppo all’equazione di Ehrlich e Holdren, dai confini di Rockstrom all’economia della ciambella di Kate Raworth. È la politica della natura, che ha (avuto) anzitutto il compito di mostrare i limiti, biofisici e anche morali, e tentare di farli rispettare. Dare una legge.

Domanda antiedipica: ma non è forse questa una modalità punitiva di essere nel mondo? Una forma impositiva, repressiva per l’esistenza e i suoi desideri? Non è politica contro poetica? Vincolo contro desiderio? La risposta è no, non lo è. Si tratta anzitutto di una necessità oggettiva, dipendente dal gap tra la capacità della natura di produrre e la velocità dell’umanità di consumare. Un limite inaggirabile, a meno di ricorrere ad ultratecnologie imprevedibili negli impatti e nelle conseguenze e forse non del tutto padroneggiabili. Si tratta anche di una necessità morale, perché la casa che abitiamo è abitata anche da altri, che di quelle risorse hanno altrettanto bisogno. C’è tuttavia un modo per integrare e in qualche modo andare oltre questa prospettiva meramente (diciamo così) vincolistica, e nel fare questo ci aiuta proprio la Signora Ramsay, l’ottimismo della madre di James, il suo modo beneaugurante di aprire al domani.

“Forse ti sveglierai e ci sarà il sole che brilla e gli uccelli che cantano”, dice la signora Ramsay a James (ib., pag. 43). Questo augurio è esattamente la svolta ecologica, che consiste non solo nell’indicare il limite e chiederne il rispetto (legge, politica), ma nel pensare diversamente il limite. Pensarlo come occasione. Guardarlo come l’apertura di desideri nuovi, desideri ecologici, che possono essere soddisfatti pur restando dentro i confini ambientali sicuri, e quindi senza annientare il mondo. Il consumismo, il piacere dato dal possesso pur effimero degli oggetti, non rappresenta l’unica occasione di appagamento. C’è una possibilità illimitata nel cercare, entro i limiti del Mondo-Terra, della nostra Terra-Patria, nuove forme di creatività, di gioia, di prosperità, di circolarità virtuosa, di relazione sistemica con la natura e gli altri. Possibilità illimitate a patto di cambiare premesse di sguardo e, appunto, di svegliarsi un po’ con l’allodola. Di dare finalmente un’occhiata a ciò che di bello c’è nel mondo. Di sentirsi a casa in quella che, senza più ombra di dubbio, è casa.

In questo compito, il compito di riscrivere la storia non solo della scienza ma anche dei valori, la cultura ecologica è chiamata davvero a dare il meglio di sé, in termini di ingegno e di capacità persuasiva gentile, perché si riesca a disegnare una nuova fase della storia dell’umanità pur attraverso l’inevitabile, e non brevissimo, percorso di transizione che ci aspetta.

Un’umanità insieme organizzata e desiderante, limitata e illimitata, politica e poetica. Ecologica.

  

 

Bibliografia