Primi appunti sulla regolamentazione:
tra spontaneità della vita e sistemi di regole
tra spontaneità della vita e sistemi di regole
di Serena Dinelli
Direttivo AIEMS, Advisory Board International Bateson Institute
‘Il lavoro ‘arrangiato’. Vietnam, bottega di barbiere e ristorante di strada.
Foto e titolo di Stanislao Loria
Sommario
L’articolo si interroga sulle implicazioni della crescente tendenza a regolamentare fenomeni, relazioni, funzioni, in termini strettamente formalizzati, e spesso anche digitalizzati, in rapporto al dinamismo e alle emergenze tipici dei sistemi viventi, sociali e culturali. Porta esempi dal campo educativo, clinico, della ricerca e attività accademica, della gestione del territorio e diversi altri. E pone alcune domande per la ricerca di soluzioni.
Parole chiave
Finalità cosciente, sistemi aperti, flessibilità, completezza/incompletezza, tracimazione, assuefazione, emergenza, regolamentazione, bisogni educativi speciali, clinica, attività accademica, ricerca scientifica, gestione del territorio, volontariato.
Summary
The article questions the implications of the growing tendency to regulate phenomena, relationships, functions, in strictly formalised, and often digitised, terms, in relation to the dynamism and emergence typical of living, social and cultural systems. It brings examples from the fields of education, clinical, research and academic activity, land management and several others. And it poses some questions for the search for solutions.
Keywords
Conscious purpose, open systems, flexibility, completeness/incompleteness, overflowing, habituation/addiction, emergence, regulation, special educational needs, clinical, academic activity, scientific research, land management, volunteering.
Sono stata più volte sul punto di abbandonare questo articolo, ed è facile capire perché: l’idea, la cultura, il leit motiv della regolamentazione, e la relativa fenomenologia e possibile ‘tossicità’, ricorrono in sfere disparate e svariatissime e a livelli diversissimi.
Ho infine deciso di condividere qualche prima riflessione come invito ad approfondire un tema che ritengo quanto mai attuale. Tratterò qualche aspetto entrando un po’ più nel merito; altri, per la loro vastità, li proporrò solo per cenni. Il mio intento è anzitutto esplorare fenomeni che sono ogni giorno sotto i nostri occhi, ma che per assuefazione possono restare non notati, non visti nelle loro implicazioni. E contribuire ad aprire una discussione.
Situazioni caotiche, cambiamento e regolamentazione
Nel suo libro “Burocrazia”, l’antropologo David Graeber osserva che “…i momenti insurrezionali… sono i momenti in cui l’apparato burocratico viene neutralizzato. Questo processo ha sempre l’effetto di spalancare gli orizzonti delle possibilità, il che non sorprende visto che una delle molte cose che l’apparato fa è imporre orizzonti molto limitati…” (Graeber D., 2000). E Rebecca Solnit, nel suo libro sulle dinamiche sociali di aiuto durante l’uragano Katrina a New Orleans, nota che durante le grandi calamità naturali le persone spesso vivono un’esperienza di apertura mentale e pratica dello stesso tipo (Solnit R., 2009). Improvvisamente il fitto tessuto delle regole istituzionali si squarcia. Cadono anche le relative percezioni socialmente imposte e interiorizzate: e allora emergono impensate possibilità, mentre a un tratto contesti di solito nettamente compartimentati si mescolano e si fondono, e generano qualcosa di nuovo e imprevisto.
Personalmente ho avuto esperienze di questo tipo, con l’inondazione di Firenze nel ’66, poi intensamente con i movimenti nei tardi anni ’60 e con il femminismo, e, almeno in parte, con l’attività politico-culturale per promuovere i servizi territoriali per l’età evolutiva. Ho allora vissuto intensi sentimenti di vitalità, immaginazione attiva e fiorente, apertura del pensabile e possibile, creatività progettuale personale e condivisa, e sperimentazione fattuale di prassi innovative.
Qualcosa di analogo mi dicono persone a cui è capitato di vivere in paesi meno ‘sviluppati’ del nostro: questi ambienti meno ‘intenzionalmente ordinati’ possono anch’essi suscitare intense esperienze di vitalità.
Nora Bateson, nel suo saggio “Aphanipoiesis” sviluppa importanti considerazioni sulla possibilità di cambiamento e la lega tra l’altro a una coalescenza di percezioni usualmente compartimentate, e all’affiorare, nella condivisione, di quella che definisce “una vitalità selvaggia”. Tenere a mente cosa accade quando la regolamentazione viene spazzata via può essere un buono sfondo per interrogarsi sulla sua natura e la sua possibile ‘tossicità’ (Bateson N., 2019).
E ho deciso di partire da qui, dal suo opposto, per invitare a riflettere su quali sorgenti di energia, innovazione, creatività, cambiamento, essa può tenere a bada fino al soffocamento.
Per dirla in breve, regolamentare può essere positivo, necessario, indispensabile, a volte persino salvifico, ma anche diventare inutile, o precisamente iniquo, o bloccare processi viventi e diventare veramente tossico e talora perverso. E la domanda può e deve anche essere: come?
Regolamentazione e culture politiche
C’è tutto un aspetto politico- culturale della questione. Spesso i ‘progressisti’ propongono regolamenti con intenti di equità, tutele di vario tipo, riconoscimento delle diversità. La tendenza è tanto più forte in una fase in cui la politica ‘di sinistra’ ha abbandonato le sue tradizionali tematiche economico- sociali, cercando invece di distinguersi per la difesa di ‘diritti’’. I ‘conservatori’ o liberisti invece in linea di principio resistono a quella che vedono come invadenza della libertà. Ma come vedremo, in modo apparentemente paradossale, il neoliberismo e le sue logiche hanno prodotto una proliferazione regolatoria, anche perché ciò può a volte servire molto bene determinati interessi. Ed essendo il neoliberismo culturalmente egemonico, oggi nei fatti la tendenza sembra condivisa da tutti e in molti campi.
Una delle questioni che questi appunti implicitamente pongono è se sia necessaria una riflessione sistemica approfondita sul tema, giacché la nostra società sta rapidamente cambiando di giorno in giorno e dovrà farlo ancor di più in un prossimo futuro a fronte di grandi problemi. Bisogna interrogarsi sul “come”.
Regolazione/regolamentazione
I sistemi complessi e gli organismi viventi conoscono la regolazione: mantengono la propria coerenza e organizzazione attraverso reciproche interazioni tra le loro componenti, mentre hanno scambi con il proprio ambiente, apprendono ed evolvono. Nei sistemi viventi la regolazione è profonda e sofisticata. Ne è un aspetto esemplare il fatto che spesso avviene secondo una precisa tempistica. È quanto accade, ad esempio, nella fecondazione: gli spermatociti, che nel testicolo sono ancora immobili e incapaci di fecondare, dall’istante in cui entrano nel corpo della donna si trasformano, sviluppano la coda e diventano capaci di muoversi ed essere fertili. Come certi eventi biologici avvengano solo e soltanto in dati momenti è tuttora un mistero. E restando al solo aspetto temporale, analoghi processi di auto-regolazione dei viventi si manifestano in tutta la cronobiologia del corpo umano o della vita vegetale.
I due termini regolazione e regolamentazione sono spesso usati come intercambiabili, ma sono in effetti due cose molto diverse (la distinzione esiste in Italiano, francese e tedesco, manca invece in Inglese, che ha solo il termine regulation). E non sono rari i casi in cui la regolamentazione confligge decisamente con la regolazione, impedendole di ‘funzionare’. Il tema è sollevato tra l’altro da Elinor Ostrom. Nel suo lavoro sui beni comuni la Ostrom raccomanda di non dare una rigida regolamentazione centrale ai contesti locali: è bene invece lasciare la gestione a lungo termine di un bene comune a dinamiche sociali complesse, che generano accordi, negoziazioni e soluzioni, anche istituzionali, evolutive (Ostrom E., (2006). Ciò spesso viene liquidato come esito del ‘liberismo economico’ della Ostrom. In realtà, se si legge in profondità ciò che è emerso dai suoi studi su moltissime realtà, si vede che di ben altro si tratta: e cioè di qualcosa che ha molto a che vedere con l’auto-organizzazione nei sistemi (in questo caso, sistemi sociali correlati a ecosistemi).
Per limitarci a tempi recenti, l’idea di regolamentazione ha avuto una magnifica affermazione con lo sviluppo degli eserciti di massa dotati di armi di serie e di uniformi (che non a caso si chiamano così e la cui correttezza è controllata da regolamento); e con il parallelo sviluppo delle burocrazie statali nel corso dell’800. Ma più in generale
possiamo vederla come un’idea che avanza sempre più pervasiva, sottotesto dell’affermarsi della produzione industriale e della società capitalistica. È una sorta di corollario e insieme un must della ricerca del controllo, della standardizzazione e ‘ripetibilità a prescindere’.
D’altra parte nei sistemi sociali regolazione e regolamentazione non di rado coesistono: per es. certi provvedimenti statali economici sono tesi a indurre dati comportamenti con incentivi, sistemi di tassazione ecc, (mirando a creare un contesto di regolazione); ma anche invece con veri e propri regolamenti prescrittivi.
In queste riflessioni cercherò di analizzare aspetti della regolamentazione come caratterizzata in modo specifico - dalla sua intenzionalità (Bateson G., 2000 1 e 2) - dalla formalizzazione dettagliata di ciò che è possibile, dovuto o inibito in un dato ambito; - dalla relazione con sanzioni di vario tipo. - dalla tendenza ad evocare una disciplina completa.
Questo tema di riflessione e ricerca mi pare particolarmente interessante nel momento che stiamo vivendo: nelle nostre società, già da prima variamente burocratizzate, l’economia e la cultura digitali stanno implicando lo sviluppo straordinario di una regolamentazione formale della vita.
Da un lato il digitale consente libertà e opportunità prima assolutamente impensabili. Ma l’altra faccia della medaglia è che sempre più azioni, relazioni e funzioni vengono “tradotti in procedure regolamentate’” in un crescente numero di ambiti della vita personale e associata. Metto le virgolette perché la regolamentazione non è mai una mera “traduzione”: quando vengono regolamentati i processi vitali non sono infatti più gli stessi. Subiscono delle torsioni. (Bateson G., cit e Minati G. F., 2016).
La tendenza alla completezza, alla moltiplicazione e alla diffusione. Identità digitale
Ma c’è un’altra questione. Molto spesso la formalizzazione intenzionale dei processi relazionali e comunicativi si rivela inadeguata a ricoprire la varietà, flessibilità, complessità, emergenza, tipiche dei processi vitali e sociali. A questo si risponde non prendendo atto dei limiti di certi modi di regolamentare, ma moltiplicando le imposizioni: come già accennato, una premessa latente del sistema regolatorio è l’aspirazione alla “completezza” (sulla completezza/incompletezza si veda il magistrale lavoro teorico di Minati G.F., 2016).
Vi invito a leggere un piccolo ma magnifico caso. Riguarda un gesto semplice e quotidiano come pagare qualcosa per la vita scolastica del proprio figlio. È la versione attuale di un gesto che faceva mia madre: mi metteva nella cartella il tributo per il ‘soccorso invernale’ da portare a scuola, e la maestra in cambio mi dava un bollino.
Da un post su FB, ott 2022: “Ieri ho scoperto di dover fare un pagamento urgente alla scuola di mio figlio. Si può fare solo attraverso pagoPA, con SPID o altre identità digitali. Non avevo lo SPID. Sono andato sul sito di Poste (vari disservizi…) Ho riprovato e sono riuscito a registrarmi. Ho inserito tutti i dati per ottenere lo SPID. Mi sono arrivate n+1 mail di conferme varie. Ultima, la mail di conferma che potevo prenotarmi per il riconoscimento dell’identità, stamattina. Sono andato sul sito di Poste. Ho prenotato. Sono andato in posta, dove mi hanno riconosciuto. Sono tornato a casa. Ho ricevuto mail di conferma. Ho aperto il sito pagoPA e mi sono registrato attraverso SPID di PosteID. Una volta dentro, ho dovuto inserire i miei dati . Come se non fosse la dodicesima volta. Ho cercato la scuola. Ho cercato la causale di pagamento nel manuale - sì, cazzo, manuale - dei pagamenti scolastici, QUARANTADUE pagine.”
Abbiamo subito notato che il padre del ragazzino fa gratis un lavoro amministrativo, cosa tipica di tutta la rivoluzione digitale. Ma qui non sono queste le cose pertinenti.
Anzitutto vediamo che nel caso del digitale c’è la necessità di prevedere e regolamentare i pasticci e i rischi legati al rapporto di interfaccia tra macchine e esseri umani: gli umani vivi, con le loro capacità di inganno, frode, menzogna, errore ecc.
Per fare fronte a questo la prassi oggi scontata è l’‘identità digitale’, che trasforma aspetti importanti del “sistema vivente persona” in un insieme di procedure strettamente regolamentate senza le quali la persona non può più agire, relazionarsi, lavorare, usufruire di diritti o adempiere a doveri in svariate sfere della vita personale e associata.
In realtà gli Stati moderni avevano già tipicamente regolamentato l’identità personale con le tante forme istituzionali della ‘cittadinanza’ (documenti, anagrafe, passaporti, codici sanitari e tributari, timbrature al lavoro ecc). Ma l’identità digitale indubbiamente rende tutto ancor più cogente e davvero minuzioso. Si veda un recentissimo caso eclatante nell’ambiente degli autisti Uber (Bansal V., 2022): un semplice nuovo taglio dei capelli rende il tuo selfie irriconoscibile all’algoritmo, che ti blocca l’accesso al mezzo di lavoro.
Probabilmente a chi legge sono venuti in mente esempi dalla propria esperienza. Per parte loro i burocrati, oggi in compagnia dei tecnocrati del digitale, seguono la tendenza a moltiplicare funzioni e poteri, come a suo tempo notato e teorizzato da Max Weber. Quanto ai cittadini, spesso la convivenza con queste tendenze dà luogo a lamentazioni, arrabbiature, sbuffamenti per le perdite di tempo e molto altro. Ciò che accade in realtà è che la maggior parte delle persone entra nella danza: è quel che fa il papà del ragazzino. Cerca cioè di capire e immaginare come pensa il regolatore (che controlla le sue azioni in modo apparentemente ineluttabile), e cerca di “funzionare come da regolamento” (alla fine potrà perfino avere un senso di soddisfazione per ‘avercela fatta’).
Questo, insensibilmente, sarà nel tempo un fattore di assuefazione e di diffusione culturale di una certa mentalità.
Ma nell’esempio c’è un secondo aspetto rilevante di assuefazione. Vediamo come la scuola, destinataria finale della procedura, abbia a sua volta sviluppato un manuale di ben 42 pagine! e per le sole regole di pagamento! La mentalità regolatoria proposta a livello centrale tende a tracimare a livelli inferiori locali, diventando cultura e prassi diffuse.
Facendo ricerche per questo articolo mi sono imbattuta in tanti altri casi eclatanti. Ho visto per esempio cosa è accaduto in Piemonte, man mano che il Ministero della Sanità periodicamente emanava le sue disposizioni anti COVID per le scuole. Ne è scaturita una cascata di regolamenti regionali inviati alle scuole molto più spesso, e cioè con una media di uno ogni 3 giorni sull’arco di due anni (la media è di ogni 2 giorni togliendo i mesi estivi). E possiamo immaginare la cascata di circolari e sub-regole di comportamento a livello del singolo istituto.
Il fatto che si crei una cultura diffusa della regolamentazione è già di per sé un fatto potenzialmente tossico: può infatti generare una mentalità che porta ad applicarla ai più svariati sistemi e contesti, anche a quelli del tutto inappropriati ad essere così governati perché aperti e dinamici, e auspicabilmente tali. Per dirla in breve, regolamentare può anche diventare tossico. Nora Bateson direbbe che può diventare ‘insidioso’ (Bateson N. cit 2021): essere cioè qualcosa che si diffonde gradualmente senza essere notato, ma che può causare danni.
Un caso di potenziale ‘tossicità’. Vicissitudini di soggetti in età evolutiva, della scuola e della clinica. E: ‘la regolamentazione oscura forse possibili domande?’
In effetti a suo tempo il tema mi è venuto in mente come potenzialmente tossico nel mio campo professionale. Esaminare questo caso sarà illuminante anche in termini più generali. A cosa mi riferisco? Nella scuola, ambiente in cui ho lavorato come psicologa per quarant’anni, sono state man mano introdotte categorizzazioni di soggetti che risultano in difficoltà nel seguire il programma di lavoro ‘normale’. Questo ha dato luogo a un numero sempre crescente di ‘soggetti variamente speciali’. Ne sono scaturiti percorsi di ‘accertamento’, ‘certificazione’ e ‘trattamento’ sempre più formalizzati (quasi tutti, a partire dalla legge 170 del 2010, ad opera di governi di centro-destra, ma il centro sinistra si è accodato).
Questo processo, formalmente nato sotto l’etichetta di un equo diritto all’istruzione, si è sviluppato in un duplice contesto. Da un lato l’imporsi nella scuola della cultura aziendalistica del neoliberismo; dall’altro la formazione di lobbies di genitori, spesso in realtà promosse da specialisti e avvocati. La tendenza regolatoria, infatti, non di rado va insieme al lobbismo per specifici interessi.
Dall’insieme è scaturito uno straordinario complesso di fenomeni che, con ogni probabilità, inizialmente non erano affatto stati previsti come tali.
Si tratta di una raffica pluriennale di disposizioni e regolamenti ministeriali e regionali; di un fiorire pirotecnico di sigle, DSA, BES, ADHD, ALUNNI ADOTTATI, PDI PEI, PDP, da prevedere nei POF e PTOF, a cura della Dirigenza e della Funzione Strumentale per l’Inclusione (sic!); complicate procedure di certificazione, accertamento, aggiornamento delle certificazioni; un profilo definitorio del soggetto che, da regolamento, lo accompagna via via nei passaggi di livello scolastico ancora prima che nelle nuova scuola nessuno abbia mai visto in faccia il ragazzino.
Le singole scuole si sono anche dotate di regolamenti interni sulle diverse procedure di lavoro da seguire: on line ho trovato elenchi di pagine e pagine, con tanto di schede e report scritti da produrre. Sono state istituite anche procedure per avere dei soldi, le ’indennità economiche di frequenza’’ (terapie private, tutor a casa ecc): le famiglie per ottenerle devono portare il ragazzino ‘dislessico’ o ‘iperattivo’ e simili al giudizio decisivo della Commissione invalidi civili (di fatto composta per lo più, curiosamente, da medici geriatri!).
Oggi nelle classi c’è una quota crescente di ‘soggetti speciali’ con relativo ‘sostegno’ o con tutors, a volte anche 4 o 5 per classe, il che può dar luogo a situazioni caotiche. Ma le cose possono andare anche peggio: con mio stupore, una affidabile amica mi dice che nella terza elementare di sua nipote sono state chieste e ottenute diagnosi neuropsichiatriche per ben 12 bambini su 24. Ciò è destinato a produrre una profonda distorsione dell’attività educativa.
È sorta pure una fiorente industria editoriale e di ‘centri specializzati’ privati, dal marketing molto attivo. La regolamentazione formale ha anche dato luogo a una giurisprudenza e a un mercato per gli avvocati, che assistono le famiglie in cause legali contro gli insegnanti o la scuola.
Sul versante clinico le cose non vanno meglio: tutto ciò ha infatti implicato l’uso obbligatorio di test, diagnosi definite in base a regole e standards, protocolli standard sul ‘che fare’ emanati da specialisti che spesso non hanno alcun contatto con i contesti reali da cui ‘i casi’ provengono; infine, ne è scaturito il prevalere di una cultura cognitivista-comportamentale a scapito di quelle sistemica o psicodinamica, per loro natura più complesse.
Se si parla con docenti e psicologi coinvolti si scopre che non poche delle loro energie e di quelle dei genitori sono oggi impegnate nel rispetto formale delle procedure. Questo riduce le energie da dedicare al rapporto clinico e educativo evolutivo con il bambino: non quello cartaceo o digitale, ma quello reale.
Sono minori e irrigidite anche le energie dedicate alle relazioni tra adulti teoricamente collaboranti; e quelle dedicate all’osservazione clinica attenta sia del soggetto, sia dei contesti scolastici e familiari, osservazione spesso rivelatrice per indicazioni evolutive.
E non mi soffermo sull’impatto ambiguo, e con dimensioni potenzialmente ‘tossiche’, che queste pratiche in vari modi hanno sullo sviluppo e l’immagine di sé stessi dei minori interessati. Né mi addentro nelle bizzarre trasformazioni che non di rado tutto questo sta comportando nella scuola e nel lavoro educativo.
Col digitale sta anche crescendo (per ora all’estero più che in Italia) la tendenza a sostituire con procedure on line o con l’accumulo di report digitali una cosa fondamentale: e cioè i momenti di elaborazione emotiva e professionale condivisa tra colleghi.
Come notavo all’inizio, quando vengono regolamentati i processi vitali non sono più gli stessi. Il farsi delle relazioni, in cui si esercita e cresce la conoscenza, la possibilità di introdurre perturbazioni evolutive, subisce delle torsioni. E le conoscenze specialistiche, utili e necessarie, con difficoltà possono esplicarsi e fondersi nel dinamismo dei processi di crescita e evoluzione. La ricchezza dinamica, insomma, cambia se ingabbiata in un rigido sistema formalizzato. Lo dico sulla base di una lunga esperienza (Dinelli, 2017).
Siamo di fronte a un paradosso: si proclama che la scuola deve essere flessibile per far fronte alle diversità, e la flessibilità si traduce in rigidi regolamenti.
Tutto questo ha pure effetti importanti di tipo più generale, al di là della potenziale tossicità per il singolo caso e per il contesto educativo in genere. L’attuale regolamentazione evita, e di fatto impedisce di riflettere su cosa stia dietro quello che viene definito disagio, difficoltà, bisogno speciale, patologia ecc ecc.
Spostare lo sguardo dalla prospettiva ristretta “problema da risolvere e relative regole”, allargando il pensiero e le prassi a più ampi circuiti, farebbe sorgere domande molto interessanti. Eccone solo alcune.
- C’è un rapporto tra le sempre più ricorrenti ‘difficoltà’ nella letto- scrittura e la crescente neo-oralità mediatica in cui i bambini fin da piccolissimi sono immersi? E a fronte di ciò, come e quanto la scuola è davvero consapevole della propria crisi in quanto dedicata per missione a trasmettere proprio la cultura scritta? E quanto sa interrogarsi sul rapporto tra oralità e scrittura? Porsi questa domanda sarebbe molto interessante per cercare risposte meno banali di quelle che troppo spesso ricorrono (tra cui l’abbassamento del livello educativo o la mera corsa verso la digitalizzazione).
- Oppure, sono o no la scuola e la clinica consapevoli che oggi molti bambini vengono anche da culture non alfabetiche, per cui i loro cervelli, per via epigenetica, sono semplicemente diversamente organizzati? Mi è capitato di pensarlo vedendo regolarmente classificati come ‘dislessici’ bambini provenienti da una cultura pre-alfabetica e basicamente orale come è quella Capoverdiana.
- Oppure ancora: il costante aumento di bambini classificati come ‘autistici’ o ‘iperattivi’ è dovuto solo a una miglior capacità diagnostica? o invece al fatto che l’ambiente chimicamente tossico in cui viviamo sta cominciando a dare i suoi cattivi frutti? (vedi Dinelli S., 2017. 2, Toffol G., et al 2017, Levine H. et al, 2022).
E potrei continuare con le domande che la regolamentazione non invita a porsi. È come se l’esposizione della scuola e dei clinici ad un mondo complesso, turbolento, in rapida trasformazione e ricco di convulsioni, venisse appunto affrontata moltiplicando le regole. Irrigidendo lo sguardo e l’approccio, sopprimendo la flessibilità propria del ‘sistema clinico-consultante’, del sistema discente-struttura educativa e quello genitori-bambino: flessibilità evolutiva tanto più necessaria sia per l’unicità di ogni singolo caso, sia rispetto a fenomeni psico-socio-culturali e strutturali emergenti.
Nel complesso, questo caso mostra una deriva impressionante, che concretizza una considerazione fatta nel 1970 da Gregory Bateson: e cioè “In sostanza si può dire che le patologie della nostra epoca sono il risultato cumulativo dell’…esaurimento della flessibilità in risposta a tensioni di vario genere.” (Bateson G., 3, pag. 541)
Neoliberismo e regolamentazione. Università, ricerca, volontariato
Come già notavamo, nella scuola queste tendenze vanno anche insieme alla concezione aziendalistica che sempre più vi è stata imposta. Nel suo lavoro sulla burocrazia Graeber (cit. 2000) nota che negli ultimi decenni lo sviluppo di un certo modo di normare in ogni campo è frutto del neoliberismo.
Il neoliberismo americano e quello europeo sono in parte diversi, per la forte influenza dell’ordo- liberismo tedesco nella UE. Ma per quanto qui attiene, esso ha comunque implicato un crescente connubio tra aziende private e Stati, esportando anche nell’area pubblica le modalità gestionali manageriali tipiche del XX secolo (che però tuttora perdurano negli anni 2000, come nota Minati (Minati G.F., 2016 e 2021).
Un effetto tossico è che con il neoliberismo queste modalità sempre più vengono imposte in settori come la scuola, l’Università, la medicina, la psicologia e quant’altro: e cioè in ambiti che hanno e dovrebbero avere l’emergenza e l’apertura, proprie dei sistemi viventi, al cuore stesso della loro natura e funzione.
Il neoliberismo, specie nell’Università e nella ricerca, è anche andato insieme a sostanziali de-finanziamenti pubblici. Al contempo sono subentrati, diventando sempre più rigidi e cogenti, tre tipi di regolamentazione: - sulle pratiche e gli standard formali richiesti per trovare fondi. - sul valore accademico e scientifico dei lavori e delle attività (peer reviewing, modalità di rendicontazione di progetti di ricerca, classificazione di valore delle riviste, numero di citazioni e simili), - sui criteri di valore attribuito ai progetti e al numero e tipo di pubblicazioni nella carriera e nei finanziamenti. Tutto ciò sta sempre più condizionando e ingabbiando sia le linee di ricerca e lavoro culturale, sia le complesse dinamiche sistemiche dell’attività scientifica e dell’evoluzione dei
paradigmi (su tali dinamiche per es. De Toni A. F., e Bastianon E. 2019).
Alla luce di questo è interessante e preoccupante uno studio uscito nel 2021 su Pnas. Chu ed Evans (2021) hanno esaminato 1.8 miliardi di citazioni su 90 milioni di articoli relativi a 241 argomenti: gli AA concludono che “il diluvio di pubblicazioni non porta ad alcun cambiamento delle idee centrali nel campo di ricerca, ma piuttosto ad una ossificazione del canone” (trad mia). (Un altro fattore in tal senso, che qui non trattiamo, è l’overflow di informazione). (Chu. S. G., Evans J. A., 2021). Gioca qui un altro forte fattore e cioè l’overflow di informazione, che qui non trattiamo
Il fenomeno regolatorio non colpisce solo aree importantissime come l’Università e la ricerca, ma è arrivato in anni recenti in Italia a colpire l’attività del volontariato, tipicamente informale per natura (vedi legge 117 del 2017). Apparentemente porre regolamenti pareva necessario: sotto l’ombrello ‘volontariato’ si erano andate formando realtà economiche importanti che lo sfruttavano per sgravi fiscali e evasioni contrattuali verso i dipendenti. La norma riformatrice varata dal governo Renzi però non si è limitata a dei correttivi su questo: la legge e i suoi successivi aggiornamenti regolatori hanno nei fatti creato una situazione molto complicata che risulta ben poco gestibile da semplici associazioni di cittadini, costrette a rivolgersi a consulenti per farcela. Sono pure stati imposti criteri di progettazione e valutazione dell’attività in forme di tipo manageriale (cui sono legate le possibilità di un qualche finanziamento): definizione degli obbiettivi, indicatori prioritariamente quantitativi dei risultati ecc ecc.
Uno degli effetti paradossali della regolamentazione scatenata dal neoliberismo e dalla digitalizzazione è la moltiplicazione di strutture private parallele che debbono la loro esistenza solo a come le cose sono regolamentate.
Notiamo una proliferazione di agenzie private che a pagamento fanno procedure digitali. C’è anche un fiorire di agenzie di consulenza per ottenere fondi come da regolamento Nella ricerca e nell’accademia, essendoci la necessità di ‘fare punteggio’, è sorta una miriade di riviste scientifiche per pubblicare comunque giacché le riviste più accreditate sono ingolfate. ecc ecc. E abbiamo già parlato di tutto il mercato sorto attorno alla regolamentazione ‘per un equo diritto allo studio’.
Regolamentazione e dinamismo dei sistemi, in rapporto ai suoi esiti, e ai contesti e alle culture. Da Internet alla gestione del territorio
Nella nostra conversazione ho chiesto al professor Minati quando secondo lui la regolamentazione diventa tossica. La risposta è stata: quando viene imposta. In effetti, notava Minati, la regolamentazione in senso stretto è adatta solo a sistemi artificiali. Come abbiamo già detto, le regole sono sistemi chiusi, ma i sistemi viventi e sociali a cui si applicano non sono statici, in realtà cambiano in continuazione. Un esempio evidente, diceva Minati, è Internet. Come sistema artificiale funzionava benissimo secondo le regole. Ma tutto è cambiato e si è complicato con l’avvento dei social e l’uso del mezzo da parte di miliardi di esseri umani.
Analogo caso è quello della finanza. L’attuale finanza funziona con sistemi artificiali, gli algoritmi, come tali regolamentati. Ma che succede? Nell’enorme sviluppo del campo regolato non di rado c’è chi fa operazioni teoricamente proibite, restando coperto e invisibile proprio grazie alla vertiginosa dinamica automatica (a volte causando gravissimi danni).
La dinamica strutturale dei sistemi rende la regolamentazione continuamente obsoleta e da aggiornare, tanto più in una società come la nostra. Minati ha portato l’esempio dei regolamenti nel campo della sicurezza sul lavoro: i protocolli sono anche utili, ma nei fatti oggi attrezzature e processi produttivi cambiano quasi ogni giorno. (Gregory e Nora Bateson direbbero: “le notizie non sono più attuali”). C’è anche la questione dell’organizzazione formale e informale. Gli incidenti non saranno mai pari a 0, perché agiscono tanti fattori. Per es. conflitti e tensioni personali tra due addetti a una macchina possono impacciare la collaborazione dando luogo a un incidente.
In effetti una regolamentazione formale può andare insieme a due diversi esiti: un sistema regolatorio può infatti essere di fatto aggirabile, o invece nei fatti assolutamente cogente, e ci sono i molteplici casi intermedi. I diversi esiti sono connessi a molti fattori, che per la loro varietà rendono non facile esplorare la questione. Nell’esempio della sicurezza sul lavoro, i regolamenti si calano in un contesto operativo, economico, di potere contrattuale asimmetrico, in cui possono essere aggirati.
All’opposto si situa il regolamento che sia totalmente incarnato in un dispositivo. È spesso il caso del digitale, quando è impossibile fare una data operazione o raggiungere un fine se non seguendo una precisa procedura. Qui la sanzione primaria è l’impossibilità assoluta conseguire altrimenti il proprio scopo: almeno per la gran parte degli utenti o dei lavoratori, che non hanno attualmente le conoscenze informatiche e i mezzi necessari all’aggiramento.
Sull’uso o aggiramento dei regolamenti possono giocare fattori culturali. Stavo proprio interrogandomi sul complesso rapporto tra regolazione e culture quando ho vissuto un piccolo episodio.
Degli operai dovevano mettere delle tende da sole sui miei balconi al nono piano, perciò avevo chiesto espressamente che portassero l’imbragatura. L’hanno portata, ma non sono riuscita a fargliela usare: gli operai hanno spensieratamente decretato che li avrebbe impacciati perché i miei balconi erano molto stretti (eh già, proprio per questo erano pericolosi!). E così ho invece assistito a una spavalda sfida virile tra maschi a chi osava di più in sprezzo del pericolo.
Volendo lavorare sul nostro tema credo che sarebbe molto interessante riflettere sul complesso rapporto tra regolazione e stabilità/ dinamismo delle culture. Una cultura o sotto-cultura può essere descritta come dominio consensuale, come insieme dinamico di premesse implicite e convergenti, che contribuiscono a modulare i comportamenti delle persone, il significato di ciò che accade, dei contesti, delle interazioni. Una cultura si sedimenta, resta condivisa anche quando un individuo è solo. Ma è in continua evoluzione per gli apporti della miriade di persone che la condividono. (Queste considerazioni valgono anche per la cultura intesa come forme materiali, che ci immergono in un certo contesto di vita).
E allora, in quale contesto socio-culturale una regolamentazione viene introdotta? I recenti disastri avvenuti ad Ischia fanno riflettere: regole ‘aliene’ sovraimposte a un contesto totalmente ‘altro’ risultano del tutto aggirabili e aggirate. Questa è una assai imperfetta descrizione della questione, ma fa sorgere domande interessanti.
Ad esempio: che rapporto può esserci tra regolamentazione, cultura (in senso antropologico) e uso folle del territorio? In realtà per proteggere e conservare un territorio bisogna conoscerlo. Bisogna stare in continua relazione con esso e con i suoi limiti, e in relazione tra coloro che insieme lo condividono (Casari M., Tagliapietra C., 2018, Ostrom 2006 cit).
Ciò implica a certi livelli una cultura condivisa e una comunità: cioè esattamente quello che è andato perso quando masse di italiani contadini sono usciti dalla terra e dalla povertà e sono entrati nella cultura del denaro, della ‘modernità’, del ‘benessere consumista’ e della mancanza del limite. Questo processo in Italia è avvenuto nel brevissimo arco di due-tre decenni, una generazione (a differenza di altri paesi): una vera e propria crisi culturale, che ha implicato un improvviso ribaltamento dello sguardo sul territorio, diventato spazio anonimo da sfruttare per arricchirsi e costruire. L’assalto al territorio da parte di famiglie e individui intraprendenti, o anche criminali, ha creato una ‘cultura arrangiata’ di nuovo tipo, e anche l’ombra di un nuovo comunitarismo tra consimili: ognuno guarda l’abuso fatto dal suo vicino, e si chiede se potrebbe fare altrettanto o magari di più.
Non è solo una questione di ‘livello culturale’ o di ignoranza: in questi giorni della tragedia di Ischia mi è tornato a mente in invito a cena sull’isola. Invito ad una casa proprio sul Monte Epomeo. Ci arrivammo facendo chilometri di strade larghe solo due metri, sfiorando muriccioli coi fianchi dell’auto, ci chiedevamo come avrebbero fatto un mezzo di soccorso o una autopompa a passare in caso di necessità. Approdammo alla casa, di tre piani, abusiva, col solo pian terreno completato, allegramente ricevuti da… un professore ordinario dell’Università di Napoli e dalla sua famigliola.
Su questo drammatico processo di cambiamento economico e culturale si sono innestate le culture urbanistiche. Mentre la realtà andava da tutt’altra parte, esse hanno prodotto regolamenti statali, regionali, comunali, sempre più minuziosi, sofisticati fino al barocchismo. Non spero certo di addentrarmi in una analisi soddisfacente di questa e
altre simili situazioni. Voglio solo condividere una considerazione. E cioè che talora potremmo forse vedere i regolamenti formali come una sorta di esoscheletro di società e culture che hanno perso o abbandonato una regolazione endogena fondata su valori, punti di vista condivisi, prassi consolidate; e che dandosi appunto regole formali, non affrontano né questo tema generale, né il problema specifico di ogni caso. Punto di riferimento diventano infatti sia l’applicazione del regolamento, sia le possibilità di eluderlo.
Questo ha probabilmente un ulteriore effetto negativo: indebolisce e intacca le possibilità residue di regolazione comunitaria e processuale, e anche le possibilità di cambiamento.
In conclusione. Prospettive
Come dicevo, questi sono solo alcuni appunti stimolati dal tema di questo numero monografico. Qualche aspetto l’abbiamo un po’ esplorato, qualche altro solo accennato. Altri, e molto importanti, cruciali, nemmeno citati. Per esempio il rapporto tra regolamentazione e potere, e asimmetrie di potere; o come le politiche statali in proposito possano essere alquanto ambigue (penso per es. al caso del gioco d’azzardo, o alle ambigue implicazioni del lobbismo e della istituzionalizzazione di stake-holders). O ancora, se e come si possa rendere una regolazione evolutiva/adattiva, anche utilizzando gli sviluppi del pensiero sistemico e della complessità; o come l’uso del digitale, oggi in forme ibridate con le mentalità riduzioniste del ‘900, possa avere evoluzioni interessanti.
Da tutto ciò già emergono alcuni aspetti del nostro tema:
la relazione della regolamentazione con:
la complessità
la flessibilità
il cambiamento
le culture (con le loro continuità e discontinuità)
l’eterogenesi dei fini
Sono sotto-temi rilevanti in un’epoca in cui la complessità è in continuo aumento. Una realtà sociale in cui veloci cambiamenti a tutti i livelli sono già in atto; ma in cui d’altra parte la situazione sembra richiedere in modo urgente e necessario un cambiamento del cambiamento.
In sintesi, alcune prime domande:
Come distinguere dove e quanto occorre rigidità e invece preservare o aumentare flessibilità? Come può/deve essere distribuita la flessibilità?
Come proteggere e coltivare contesti di auto-regolazione evolutiva? Ed è possibile, e come, crearli o ricrearli?
Come coltivare il rispetto del fatto che i sistemi viventi sono sensibilissimi ai contesti ed evolvono sempre con un ventaglio di possibilità e con caratteristiche qualitative?
Infine, una domanda da porsi potrebbe essere: come accade che gli esseri umani, a fronte delle infinite possibilità e diramazioni che l’evoluzione della vita potrebbe proporre, tendono spesso ad imboccare una strada e a persistere in essa? E come accade che la vedano e sentano ineluttabile? E come perdono la loro capacità di immaginazione alternativa? o magari la capacità di fare resistenza ad un trend per esplorarne uno nuovo e diverso?
Il tema di questo numero monografico chiedeva di esplorare la ‘tossicità’, ma non ancora come uscirne. Chiedeva insomma di interrogarsi su che cosa ci sta succedendo.
Sui problemi qui accennati stanno emergendo contributi nella ricerca e nel pensiero, e in nuove prassi embrionali, come ad esempio in alcune pratiche educative, epistemologiche, economiche o politiche, o nelle esperienze di democrazia deliberativa che nell’ultimo decennio si vanno facendo in varie parti del mondo. Ma su questo ci sarà molto altro da dire.
Ringrazio le persone con cui ho condiviso conversazioni sull’argomento, in particolare Matteo Allegretti, Julian Blum, Sergio Boria, Andrea Cerroni, Cecilia Clementel Jones, Rosalba Conserva, Beniamino Marchi, Gianfranco Minati e Claudio Tosi. Tuttavia le posizioni e considerazioni esposte sono state rielaborate da me e ne sono responsabile.
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