Già professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università di Trento, è il fondatore di Labsus e l’autore di I custodi della bellezza, Milano, TCI Ed., 2020 (2023).
Sommario
La cura dei beni comuni è uno dei modi con cui è possibile perseguire l’interesse generale e costruire il bene comune. L’amministrazione condivisa e il principio costituzionale di sussidiarietà consentono ai cittadini, utilizzando i patti di collaborazione, di prendersi cura dei beni comuni, migliorando così la qualità della vita e rafforzando i legami di comunità.
Parole chiave
Interesse generale, bene comune, beni comuni, cittadini attivi, patti di collaborazione, autonomia, responsabilità, solidarietà, comunità, fiducia
Summary
Caring for common goods is one of the ways in which it is possible to pursue the general interest and build the common good. Shared administration and the constitutional principle of subsidiarity allow citizens, using collaboration agreements, to take care of common goods, thus improving the quality of life and strengthening community bonds.
Keywords
General interest, common good, common goods, active citizens, collaboration agreements, autonomy, responsibility, solidarity, community, trust
1. Interesse generale e bene comune nella Costituzione
La Costituzione della Repubblica usa il termine “interesse generale” (non “bene comune”), in quattro articoli distinti: nell’art. 35, 4° comma; nell’art. 42, 3° comma e nell’art. 43, tutti e tre collocati nella Parte I, Tit. III, che tratta dei Rapporti economici. Il quarto articolo che usa il termine “interesse generale” è invece l’art. 118, ultimo comma, collocato nella Parte II, Tit. V, che tratta dell’Ordinamento della Repubblica e che così recita: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
In questa disposizione il termine “interesse generale” è utilizzato dando ad esso lo stesso significato che avrebbe il termine “bene comune”.
Negli artt. 35, 42 e 43, infatti, “interesse generale” è usato in un’accezione che tende a mettere in evidenza soprattutto la differenza tra l’interesse generale e gli interessi particolari, come nel caso
dell’art. 42, 3° comma: “La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale”. E anche negli artt. 35 e 43, sia pure in maniera meno netta, l’interesse generale viene invocato contrapponendolo sostanzialmente agli interessi di parte.
Diverso è il significato dato al termine “interesse generale” nell’art. 118, u.c., tant’è che si potrebbe in tale disposizione sostituire bene comune a interesse generale senza stravolgerne il senso: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività volte al bene comune, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Questo non significa che interesse generale e bene comune siano sinonimi. Ma certamente sono molto simili, perché entrambi mettono al centro la persona. Per noi è infatti nell’interesse generale tutto ciò che contribuisce alla pienezza dell’essere umano.
Lo conferma anche la Costituzione quando all’art. 3, 2° comma individua il fine del pieno sviluppo della persona come centrale per l’azione di tutti i pubblici poteri. Se infatti la Costituzione attribuisce alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione di ciascun essere umano, dei suoi talenti e dei suoi progetti di vita, ciò significa che tale pieno sviluppo è nell’interesse generale. Altrimenti non si spiegherebbe perché, dopo aver affermato all’art. 2 l’inviolabilità dei diritti dell’uomo, all’art. 3 la Costituzione ponga con altrettanta solennità (“È compito della Repubblica...”) la piena realizzazione di ciascun essere umano come obiettivo fondamentale cui tutto l’agire pubblico deve essere finalizzato.
Il pieno sviluppo della persona non è infatti un obiettivo “egoistico”, così come non lo è, per esempio, l’obiettivo di cui all’art. 32 della Costituzione di garantire a tutti la salute, considerata non soltanto un “fondamentale diritto dell’individuo”, ma anche un “interesse della collettività “. Infatti, così come è nell’interesse generale vivere in una comunità di persone in buona salute, altrettanto lo è consentire a tutti di poter sviluppare le proprie capacità, in quanto una comunità di persone pienamente realizzate è una comunità in cui tutti vivono meglio.
Si può dunque rileggere in questa chiave l’art. 118, ultimo comma, con il quale la Costituzione attribuisce a tutti i poteri pubblici un compito che ricorda, ma in positivo, quello della rimozione degli ostacoli di cui all’art. 3, 2° comma. L’art. 118, ultimo comma dispone infatti che la Repubblica deve favorire “le autonome iniziative dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale”. È evidente che la Repubblica non potrebbe mai favorire attività contrastanti con la missione che la Costituzione le attribuisce all’art. 3, 2° comma. Pertanto ne deriva che le attività di interesse generale svolte dai cittadini sono tali in quanto volte a creare le condizioni per il pieno sviluppo della persona, che è appunto un obiettivo di interesse generale.
2. Il bene comune nella Gaudium et Spes
Un’ulteriore conferma che è nell’interesse generale tutto ciò che contribuisce alla pienezza dell’essere umano viene dalla Costituzione conciliare Gaudium et Spes (1), secondo la quale il bene comune “è l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente” (Gaudium et Spes 26).
C’è una notevole assonanza fra questa definizione di bene comune e la formula utilizzata dalla Costituzione all’art. 3, 2 ° comma, anche se “perfezione” e “pieno sviluppo” non sono la stessa cosa, né potrebbero esserlo considerata la diversità delle prospettive in cui si pongono i due testi. Ma ciò che conta qui è che questo parallelismo consente di individuare il punto di contatto fra bene comune e interesse generale.
La Costituzione conciliare afferma che perseguire il bene comune significa, in positivo, creare “le condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente”, mentre la Costituzione della Repubblica afferma che le istituzioni devono rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale che … impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”. Sia pure da diverse prospettive, entrambe mirano al raggiungimento di un obiettivo che è la pienezza della persona, lo sviluppo dei suoi talenti e l’affermazione della sua dignità come individuo unico e irripetibile. E questo, se da un lato coincide con la definizione conciliare di bene comune, al tempo stesso dal punto di vista costituzionale risulta essere nell’interesse generale.
3. Interesse generale e cura dei beni comuni
Labsus fin dall’inizio della sua attività nel 2004 ha “tradotto” l’espressione “interesse generale” contenuta nell’art. 118, ultimo comma della Costituzione facendo riferimento alla cura dei beni comuni. Dove la Costituzione afferma che i soggetti pubblici devono favorire “le autonome iniziative dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale” noi diciamo infatti che, concretamente, quelle attività di interesse generale consistono nella rigenerazione e cura dei beni comuni.
Nel corso di oltre un ventennio di incontri in tutta Italia con cittadini, associazioni, amministratori, etc. ci siamo infatti resi conto che è difficile spiegare cos’è l’interesse generale, perché quello di “interesse generale” è un concetto astratto, così come “bene comune”, del resto. E’ facile spiegare cosa sono gli interessi privati in quanto siamo tutti portatori di interessi privati, così come è relativamente facile spiegare cosa sono gli interessi pubblici. Inoltre, così come è evidente che possono esserci miliardi di interessi privati (tanti quanti sono gli esseri umani) e migliaia di interessi pubblici (tanti quanti sono gli uffici pubblici), allo stesso modo è evidente che quello di interesse generale è invece un concetto per definizione declinabile con riferimento a pochissime situazioni. Fra queste, per esempio, la difesa di un bene comune immateriale come la legalità oppure di un bene comune materiale come l’ambiente, la tutela dei quali è a sua volta prodromica al soddisfacimento di altri interessi, privati e pubblici.
In sostanza, la cura dei beni comuni materiali e immateriali è uno dei modi (non l’unico) con cui si può perseguire l’interesse generale, anche perché dalla qualità dei beni comuni dipende la qualità della vita delle persone. Se, come s’è detto, al centro del concetto di interesse generale così come di bene comune c’è la persona, la sua dignità, le sue “capacitazioni”, allora la cura dei beni comuni realizzata dai cittadini attivi è uno dei modi con cui si possono realizzare quelle condizioni della vita sociale che permettono alle persone di realizzare pienamente sé stesse. In sostanza, i cittadini che si prendono cura dei beni comuni materiali e immateriali contribuiscono alla costruzione del bene comune.
4. Il principio di sussidiarietà e l’amministrazione condivisa
In Italia i cittadini possono prendersi cura dei beni comuni non soltanto all’interno di un quadro di regole specifiche, semplici e chiare, ma anche con il sostegno delle istituzioni, grazie al fatto che come s’è visto la nostra Costituzione all’art. 118, ultimo comma riconosce e legittima le attività svolte nell’interesse generale sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale.
La sussidiarietà orizzontale è un principio estremamente ricco di potenzialità sia sul piano teorico sia pratico, ma questa sua ricchezza rischierebbe di andare sprecata se non ci fossero gli strumenti tecnico-giuridici capaci di “tradurre” le potenzialità del principio in effetti pratici sul quotidiano funzionamento delle amministrazioni, in particolare di quelle locali.
Ma gli strumenti ci sono. Il primo è una teoria dell’amministrazione coerente con il principio di sussidiarietà e capace di valorizzarne tutte le potenzialità. Il secondo è un regolamento comunale-tipo adottato da centinaia di comuni italiani, fra cui Roma.
La teoria dell’amministrazione adatta a valorizzare la sussidiarietà è stata presentata per la prima volta da chi scrive nel 1997 in un saggio (2) intitolato Introduzione all’amministrazione condivisa.
In quel saggio, fondato sull’osservazione dei cambiamenti in atto nel nostro sistema amministrativo negli anni Novanta del secolo scorso, ipotizzavo che stesse gradualmente emergendo sotto i nostri occhi un nuovo modello di amministrazione fondato “sulla collaborazione fra amministrazione e cittadini” e sull’ipotesi “che allo stadio attuale di sviluppo della società italiana esistano i presupposti per impostare il rapporto fra amministrazione e cittadini in modo tale che questi ultimi escano dal ruolo passivo di amministrati per diventare soggetti attivi che, integrando le risorse di cui sono portatori con quelle di cui è dotata l'amministrazione, si assumono una parte di responsabilità nel risolvere problemi di interesse generale”. (Arena G., 1997)
5. Il Regolamento per l’amministrazione condivisa
Grazie all’art. 118, ultimo comma, della Costituzione quella che nel 1997 era solo un’ipotesi teorica oggi è diventata realtà quotidiana, con effetti rilevantissimi sulla qualità della vita nel nostro Paese.
In realtà per un lungo periodo, dal 2001 al 2014 il principio di sussidiarietà è rimasto inattuato perché, pur volendo i cittadini applicarlo per prendersi cura dei beni comuni del proprio territorio gli amministratori locali non glielo hanno consentito temendo, in assenza di normative applicative di tale principio, di assumersi responsabilità e di incorrere in sanzioni.
Ma il principio di sussidiarietà per come è formulato nell’art. 118 ultimo comma vive soltanto se lo fanno vivere i cittadini. La Costituzione dispone infatti che i soggetti pubblici “favoriscono” le autonome iniziative dei cittadini attivi. Sono i cittadini che, attivandosi autonomamente, fanno vivere la Costituzione e a quel punto le istituzioni intervengono ed entrambi, insieme, combattono contro il nemico comune rappresentato dai grandi “problemi di sistema” del mondo in cui viviamo: i cambiamenti climatici, il riscaldamento globale, la scarsità di risorse, le pandemie e gli altri problemi simili a questi che non possono essere affrontati senza la collaborazione di tutti, cittadini e istituzioni.
Insieme, si è detto. Perché deve essere ben chiaro che se i cittadini si attivano per la cura dei beni comuni i soggetti pubblici non possono “ritrarsi” giustificando la propria inazione con l’intervento dei cittadini attivi. Questi ultimi non sono supplenti dell’amministrazione né suoi strumenti, bensì semmai sono alleati delle istituzioni nella lotta contro la complessità che ci circonda, nel senso detto sopra.
Essendo i cittadini i protagonisti dell’attuazione del principio di sussidiarietà ci vogliono degli strumenti normativi semplici, facilmente modificabili e adattabili alla variegata realtà dei nostri enti locali, come può essere appunto un regolamento comunale. Una delle caratteristiche essenziali del principio di sussidiarietà è infatti che esso può essere attuato direttamente da tutti i livelli istituzionali, anche quelli locali, senza la necessità della previa intermediazione legislativa. Questo ha consentito a Labsus di redigere insieme con il Comune di Bologna nel biennio 2012 – 2014 un regolamento comunale-tipo che “traduce” per così dire l’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione in disposizioni di livello amministrativo. Il regolamento è stato messo a disposizione di tutti i comuni italiani sul sito di Labsus il 22 febbraio 2014 e da allora ad oggi è stato adottato da oltre 300 città (3).
6. I cittadini attivi e l’interesse generale
L’art. 1 del Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni pubblicato nel sito di Labsus individua innanzitutto le finalità, l’oggetto e l’ambito di applicazione del Regolamento stesso, legittimandolo attraverso il richiamo alle disposizioni costituzionali cui esso dà attuazione. L’art. 2 contiene le definizioni dei termini che sono usati negli articoli successivi: beni comuni, cittadini attivi, patto di collaborazione e così via. Fra l’altro, in questo articolo si riprende il tema dell’amministrazione condivisa, definita come “il modello organizzativo che, attuando il principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale, consente a cittadini ed amministrazione di condividere su un piano paritario risorse e responsabilità nell’interesse generale”.
L’art. 3 individua i principi generali cui si deve ispirare la collaborazione fra cittadini e amministrazione. Possono sembrare astratte enunciazioni di principio, mentre invece sono la griglia teorica al cui interno si sviluppa l’inedita collaborazione fra cittadini e amministrazioni per condividere “risorse e responsabilità nell’interesse generale”.
I protagonisti, coloro che fanno vivere il principio di sussidiarietà attivandosi nell’interesse generale sono invece oggetto dell’art. 4, intitolato “Cittadini attivi”, che per prima cosa chiarisce che non servono “ulteriori titoli di legittimazione” per partecipare agli interventi di cura dei beni comuni, perché tali interventi sono “concreta manifestazione della partecipazione alla vita della comunità e strumento per il pieno sviluppo della persona umana” e in quanto tali sono “aperti a tutti”.
È evidente in questa disposizione il riferimento all’art. 3, 2° comma della Costituzione. I Costituenti, che avevano vissuto in prima persona l’esperienza del totalitarismo fascista, volevano garantire a “tutti i lavoratori l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” sapendo che se non c’è partecipazione non può esserci democrazia. Il Regolamento condivide questa preoccupazione affermando che anche attraverso la cura dei beni comuni si partecipa concretamente alla vita della comunità, sia essa quella locale o quella nazionale.
È proprio nella definizione degli interventi di cura dei beni comuni come “strumento per il pieno sviluppo della persona umana” che si coglie appieno la radicale novità dell’amministrazione condivisa rispetto alla Costituzione. Come s’è visto, la Costituzione affida alla Repubblica la missione di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. L’Assemblea costituente ovviamente ragionava sull’amministrazione all’interno del paradigma bipolare tradizionale e dunque riteneva fosse unicamente compito della Repubblica “rimuovere gli ostacoli”, dando vita, fra l’altro, a quello che è stato chiamato lo Stato sociale.
Il Regolamento, che si fonda sul paradigma sussidiario, paritario e pluralista, ragiona invece in termini di attivazione delle capacitazioni di cui sono portatori i cittadini.
Dire che gli interventi di cura dei beni comuni sono “strumento per il pieno sviluppo della persona umana” vuol dire infatti che le persone che partecipano a tali interventi realizzano sé stesse mentre partecipano, grazie al fatto stesso che partecipano, mettendo a frutto nella cura dei beni comuni le proprie capacità e quindi crescendo come esseri umani. Non c’è un prima e un dopo, come nella previsione costituzionale dell’art. 3, 2° comma, per cui grazie alla rimozione degli ostacoli (per esempio con gli interventi del “welfare risarcitorio” di tipo tradizionale) le persone possono poi realizzare sé stesse, semmai c’è un durante.
Ma c’è anche il riconoscimento che la cura dei beni comuni ha una doppia valenza di interesse generale. In primo luogo ovviamente perché tale attività migliora la qualità dei beni comuni di cui tutti possono godere e dunque è utile all’intera collettività. In secondo luogo, perché le persone che vi partecipano realizzano sè stesse raggiungendo quel pieno sviluppo che la Costituzione affida alla Repubblica come sua missione. E come s’è detto sopra è nell’interesse di tutti che ciascun membro della comunità nazionale possa realizzare pienamente sè stesso.
Anche per questo motivo l’art. 4, 1° comma del Regolamento chiarisce che gli interventi di cura dei beni comuni sono “aperti a tutti, senza necessità di ulteriori titoli di legittimazione”. Tutti qui vuol dire tutti, senza eccezioni, quindi anche gli stranieri che risiedono regolarmente nel nostro Paese. Perché la cittadinanza attiva è qualcosa di molto concreto e pratico, non si è cittadini attivi perché una legge riconosce tale qualifica ma perché si partecipa, insieme con altri cittadini e con l’amministrazione, alla cura dei beni comuni del proprio territorio.
Se dunque cittadini stranieri, magari insieme con cittadini italiani, si prendono cura dei beni comuni del luogo dove essi vivono e lavorano, perché mai escluderli dall’applicazione del Regolamento sull’amministrazione condivisa? Se lo fanno, vuol dire che si sentono di fatto a pieno titolo cittadini italiani, che si stanno cioè integrando nelle nostre comunità. E anche questo è nell’interesse generale.
Infine, il comma 2 dell’art. 4, riprendendo l’art. 118 ultimo comma chiarisce un altro punto importante. La Costituzione prevede che i cittadini possano attivarsi nell’interesse generale come “singoli” o come “associati”. Ma cosa si deve intendere per “associati”? Qualunque definizione si fosse adottata si correva il rischio di essere parziali, perciò si è deciso di ricorrere alla formula dell’art. 2 della Costituzione, disponendo che i cittadini possono prendersi cura dei beni comuni “attraverso le formazioni sociali, anche informali, in cui esplicano la propria personalità”.
Qualsiasi formazione sociale può dunque presentare al comune una proposta di collaborazione ai sensi del Regolamento. Non c’è bisogno che si tratti di un’associazione, che abbia uno statuto, una sede, etc. Può essere anche un comitato che riunisce gli abitanti di una strada o di un condominio, nella massima informalità. Del resto, secondo l’art. 3 del Regolamento, anche l’informalità è uno dei principi fondanti dell’amministrazione condivisa.
7. I patti di collaborazione
I patti sono il cuore del Regolamento, lo strumento giuridico che trasforma le capacità nascoste degli abitanti di una città o di un borgo in interventi di cura dei beni comuni che migliorano la vita di tutti, compresi coloro che, del tutto legittimamente, preferiscono per mille motivi non attivarsi.
Anche se concretamente può accadere che i cittadini si mobilitino e stipulino patti di collaborazione
per intervenire in situazioni trascurate dall’amministrazione, il loro obiettivo non è tanto o solo quello di supplire a deficienze delle amministrazioni quanto quello di sprigionare energie nuove per affrontare meglio la complessità delle sfide che il mondo attuale pone a tutti, amministrazioni pubbliche e cittadini.
I rapporti che si instaurano fra cittadini e amministrazioni sulla base dei patti sono rapporti fra soggetti autonomi, distinti, ciascuno dei quali mantiene la propria identità, il proprio ruolo e si assume le proprie responsabilità, dando vita non ad una nuova struttura, bensì ad una funzione di interesse generale svolta in modo nuovo, utilizzando il modello dell’amministrazione condivisa anziché quello tradizionale. Cittadini attivi e amministrazione rimangono distinti ed autonomi, ma il risultato del loro interagire rappresenta un diverso modo di perseguire l’interesse generale (e di costruire il bene comune), cioè un diverso modo di amministrare.
Per realizzare in concreto questo diverso modo di amministrare bisogna seguire un percorso articolato in tre passaggi, dall’art. 118 u.c. della Costituzione ai Regolamenti per l’amministrazione condivisa dei beni comuni e infine ai patti di collaborazione. Ognuno di questi snodi è necessario e ognuno rinvia all’altro, in una circolarità di relazioni che a sua volta è una delle caratteristiche fondamentali della sussidiarietà.
Senza i Regolamenti infatti il principio di sussidiarietà avrebbe continuato ad essere inapplicato, come era successo fino al 2014, ma a loro volta i Regolamenti sono legittimati dall’essere fondati sulla Costituzione.
Senza i patti i Regolamenti sarebbero inefficaci, ma i patti senza i Regolamenti sarebbero per così dire” vulnerabili”, perché mancherebbe loro quel quadro di principi e di regole fornito dai Regolamenti che li protegge e li rende più efficaci. Inoltre il processo politico e istituzionale che in un comune porta all’adozione del Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni è fondamentale per creare nell’opinione pubblica e nell’amministrazione la consapevolezza del passaggio che si sta per fare dal modello di amministrazione tradizionale all’amministrazione condivisa, fondata sulla collaborazione e la fiducia reciproca fra cittadini e amministrazione comunale.
Gli incontri pubblici con la cittadinanza, le audizioni nelle commissioni consiliari, gli incontri con la giunta, gli assessori ed i dirigenti che in genere precedono l’approvazione in consiglio comunale del Regolamento sono altrettante tappe di un percorso di crescita collettiva che, una volta approvato il Regolamento, ne consentirà un’applicazione più efficace e consapevole.
8. Cosa sono i beni comuni
Secondo Labsus i beni comuni sono quei beni che “se arricchiti arricchiscono tutti, se impoveriti impoveriscono tutti”. Per esempio le scuole, intese come beni comuni materiali (l’edificio) e immateriali (l’offerta formativa), sono certamente beni che se arricchiti arricchiscono tutti, se impoveriti impoveriscono tutti. Per la stessa ragione anche la legalità, la salute, la musica, le tradizioni popolari, i dialetti, la memoria collettiva, etc. sono beni comuni immateriali.
In questa prospettiva la diffusione in tutta Italia dei patti di collaborazione ha introdotto un elemento nuovo che a sua volta influisce sulla definizione dei beni comuni. Essa ha infatti consentito di inquadrare giuridicamente le attività di cura dei beni comuni finora compiute spontaneamente dai cittadini attivi, regolando con precisione ruoli e responsabilità rispettive dei cittadini e delle amministrazioni.
Il Regolamento, in altri termini, ha creato un legame duraturo e strutturato fra la comunità composta dai cittadini attivi ed i beni comuni materiali e immateriali oggetto del loro intervento. Così facendo, ha reso evidente qualcosa che fino ad ora era rimasto in qualche modo sullo sfondo, cioè il legame fondamentale che si crea fra una determinata comunità insediata in un territorio ed un determinato bene comune.
Tale legame è cruciale da due punti di vista. In primo luogo per la cura del bene stesso, perché i beni comuni sono al tempo stesso locali e globali e dunque soltanto la comunità nel cui territorio quel bene si trova può concretamente prendersene cura. Innanzitutto per vivere meglio essa stessa, ma anche per consentire a tutti gli altri esseri umani presenti e futuri di godere eventualmente di quel bene.
In secondo luogo, il legame fra una determinata comunità e un determinato bene è essenziale perché è la comunità che, dando vita ad un’attività di cura condivisa di quel bene, identifica quel bene come un bene comune, cioè un bene che produce sulla vita delle persone gli effetti individuati sopra. Detto in altro modo, intorno ad ogni bene comune si crea una comunità.
9. La disciplina dei patti di collaborazione
I patti sono disciplinati dall’art. 5 del Regolamento, che li definisce come “lo strumento con cui Comune e cittadini attivi concordano tutto ciò che è necessario ai fini della realizzazione degli interventi di cura, gestione condivisa e rigenerazione dei beni comuni”.
Il Regolamento non dice a chi spetta prendere l’iniziativa per fare un patto, ma di solito la proposta viene dalle associazioni o dai cittadini associati informalmente, come un comitato di quartiere o un gruppo di abitanti di una strada. Questo tipo di iniziativa è perfettamente in linea con l’art. 118, ultimo comma della Costituzione, che prevede che i cittadini si attivino autonomamente nell’interesse generale, ma nulla esclude che sia il comune a proporre alle associazioni o ai cittadini in generale di stipulare un patto per la cura di un determinato bene comune. Così come può essere una scuola a proporre alle associazioni presenti nella scuola e nel quartiere di co-progettare un patto per la cura della scuola medesima o di altri beni comuni presenti nel territorio.
La formulazione adottata dal Regolamento (“tutto ciò che è necessario per la cura condivisa dei beni comuni”) lascia com’è giusto molto spazio all’autonomia delle parti, le sole in grado di sapere cosa è necessario nelle circostanze date per realizzare nel modo migliore la cura condivisa dei beni comuni. Sotto questo profilo, questa formulazione non rispecchia la cultura giuridica dominante in Italia, in cui il legislatore (sia nazionale, sia regionale) tende invece a disciplinare minuziosamente e in ogni dettaglio le attività delle amministrazioni e dei cittadini, come se temesse da un lato l’esercizio della discrezionalità dell’amministrazione, dall’altro quello dell’autonomia dei cittadini.
Dire che i patti sono lo strumento con cui cittadini e amministrazione concordano “tutto ciò che è necessario” per la cura condivisa dei beni comuni significa avere fiducia in entrambi e rispettare la capacità di giudizio ed il senso di responsabilità sia dei cittadini, che dovranno poi raggiungere gli obiettivi fissati dal patto da loro stessi sottoscritto, sia dell’amministrazione, che comunque al momento delle elezioni dovrà rispondere agli elettori dei risultati ottenuti durante il mandato, compresi quelli raggiunti applicando il modello dell’amministrazione condivisa.
Ma poiché si tratta di applicare una normativa del tutto nuova, che disciplina fattispecie per le quali non esistono precedenti che possano aiutare l’amministrazione (per le amministrazioni i precedenti sono come la stella polare per i naviganti...), il terzo comma dell’art. 5 contiene un elenco (assolutamente non tassativo, solo esemplificativo!) di ciò che il Regolamento ritiene sia opportuno che i patti contengano, così da facilitarne la redazione.
9.1. Obiettivi, durata e modalità di azione
Innanzitutto, il patto, che è un accordo per così dire “su misura”, deve fissare le regole della collaborazione fra due o più parti, definendo: “a) gli obiettivi che la collaborazione persegue e le azioni di cura, gestione condivisa e rigenerazione; b) la durata della collaborazione, le cause di sospensione o di conclusione anticipata della stessa; c) le modalità di azione, il ruolo ed i reciproci impegni, anche economici, dei soggetti coinvolti, i requisiti ed i limiti di intervento”.
Inoltre l’art. 5, 3° comma prevede “f) le modalità di monitoraggio e valutazione del processo di attuazione del patto e dei suoi risultati”, perché gli interventi di cura dei beni comuni svolti dai cittadini attivi devono anch’essi, come qualsiasi altra attività, essere sottoposti a verifica, con una valutazione sia del processo di attuazione del patto sia dei suoi risultati.
Ovviamente nei patti, come in tutte le relazioni fra due o più parti, possono insorgere delle difficoltà. Ecco perché l’art. 5, lett. h) dispone che il patto debba prevedere, oltre alla vigilanza sull'andamento della collaborazione, anche “la gestione delle controversie che possano insorgere durante la collaborazione stessa e le sanzioni per l'inosservanza delle clausole del patto da parte di entrambi i contraenti”, mentre la lettera i) dispone che nel patto siano previste “le cause e le modalità̀ di esclusione di singoli cittadini per inosservanza del presente regolamento o delle clausole del patto e gli assetti conseguenti alla conclusione della collaborazione”. Finora sono stati stipulati circa 10 mila patti di collaborazione ma, per quanto ci risulta, non è mai stato necessario applicare queste disposizioni.
9.2. L’attribuzione delle responsabilità
Infine, l’art. 5 affronta la questione delle responsabilità, una delle più delicate nel rapporto fra cittadini e amministrazioni, perché dirigenti e funzionari temono di assumersi responsabilità derivanti da interventi dei cittadini attivi che producano danni a persone o cose. La lettera j) dispone pertanto che i patti debbano prevedere anche “le conseguenze di eventuali danni occorsi a persone o cose in occasione o a causa degli interventi di cura, gestione condivisa e rigenerazione, la necessità e le caratteristiche delle eventuali coperture assicurative, le misure utili ad eliminare o ridurre le interferenze con altre attività, nonché l'assunzione di responsabilità secondo quanto previsto dagli articoli 18 e 19 del presente regolamento”.
L’art. 18 affronta il problema dal lato della prevenzione, cercando cioè di evitare che durante le attività di cura dei beni comuni accadano incidenti che possano provocare danni alle persone o alle cose. Pertanto, il primo comma dell’art. 18 dispone che “Il Comune promuove la formazione dei cittadini attivi sui rischi potenzialmente connessi con le attività previste dai patti di collaborazione e
sulle misure di prevenzione e di emergenza”, mentre il secondo comma prevede che “I cittadini attivi si impegnano per parte loro ad utilizzare correttamente i dispositivi di protezione individuale adeguati alle attività svolte nell’ambito dei patti, ad agire con prudenza e diligenza ed a mettere in atto tutte le misure necessarie a ridurre i rischi per la salute e la sicurezza”. Il comune forma i cittadini, ma questi ultimi si impegnano ad agire con la stessa prudenza e diligenza che userebbero se si stessero prendendo cura di un proprio bene.
Questa impostazione del rapporto fra comune e cittadini per quanto riguarda la sicurezza, fondata da un lato sulla formazione, dall’altro su un’autonoma assunzione di responsabilità per la propria salute e sicurezza da parte dei cittadini è finalizzata ad evitare che tale rapporto possa comportare a carico del comune una responsabilità diretta per la sicurezza dei cittadini attivi, da cui deriverebbero tutta una serie di adempimenti molto impegnativi per l’amministrazione.
L’art. 19 va al cuore del problema delle responsabilità. Il primo comma è strettamente collegato con la lett. j) dell’art. 5, perché prevede che il patto di collaborazione “indichi e disciplini in modo puntuale le responsabilità connesse con i compiti di cura, rigenerazione e gestione condivisa dei beni comuni previste dal patto”.
Il secondo comma invece non rinvia ai patti, ma fissa il principio per cui “I cittadini che si attivano per la cura, rigenerazione e gestione condivisa di beni comuni rispondono personalmente degli eventuali danni cagionati, per colpa o dolo, a persone o cose nell'esercizio della propria attività”. È la stessa logica applicata nell’art. 18, 2° comma, che considera i cittadini persone autonome, responsabili, in grado di autogestirsi durante le attività di cura dei beni comuni, esattamente come farebbero se curassero un’area verde o un edificio di loro proprietà.
10. I patti come fattore di innovazione
I patti hanno una notevolissima carica innovativa, perché grazie ad essi entrano in relazione realtà estremamente ricche e varie quanto a capacità, esperienze, punti di vista, etc. E ciascuna di queste realtà, sia sul versante delle amministrazioni sia su quello dei cittadini, può interagire nella co-progettazione e poi nell’attuazione dei patti con le altre realtà in modi del tutto imprevedibili, con risultati finali impossibili da determinare a priori.
Spesso l’innovazione non consiste tanto nella scoperta di qualcosa che nessuno aveva mai visto prima, quanto nella “combinazione inedita di fattori noti”. In questa prospettiva i patti rappresentano uno stimolo straordinario all’innovazione in campo sociale, politico e amministrativo perché consentono l’interazione in modi imprevedibili e quindi con risultati innovativi dei “fattori noti” rappresentati dalle risorse di cui dispongono le amministrazioni e di quelle di cui sono portatori i cittadini attivi. Oltretutto questi ultimi non sono, come le amministrazioni, vincolati dalle leggi nel fine e nei mezzi e quindi possono mobilitarsi per perseguire l’interesse generale (e costruire il bene comune) in modi e con strumenti ogni volta potenzialmente diversi.
Basta leggere i patti (4) presenti nel sito di Labsus per rendersi conto della ricchezza che scaturisce dallo straordinario pluralismo culturale, sociale e territoriale che costituisce una delle principali caratteristiche del nostro Paese.
11. I patti fanno comunità
Normalmente i cittadini attivi si prendono cura dei beni comuni insieme con altri abitanti del quartiere o del paese in cui vivono, dando vita a formazioni sociali più o meno strutturate. Ed è proprio la dimensione collettiva e comunitaria dei patti di collaborazione il vero valore aggiunto dei patti. A prescindere dagli effetti materiali positivi che le attività di cura dei cittadini possono avere su un determinato bene pubblico, ciò che veramente rende i patti di collaborazione preziosi per la tenuta delle nostre comunità locali sono gli effetti sui rapporti personali.
I patti infatti rafforzano i legami di comunità, producono capitale sociale, coesione sociale e senso di appartenenza, liberano energie nascoste, aiutano l’integrazione degli stranieri e delle persone in condizioni di difficoltà, fanno sentire le persone parte di un gruppo che ha un obiettivo ed è in grado di raggiungerlo. I patti, lo abbiamo visto in questi anni post pandemia, sono per molte persone un efficace antidoto alla solitudine.
Anche perché si può essere cittadini attivi senza appartenere ad organizzazioni strutturate, assumere impegni duraturi nel tempo né acquisire competenze specialistiche come quelle che sono richieste ai volontari in settori come la protezione civile, la sanità, l’assistenza alle persone svantaggiate, e così via. Anzi, proprio questa semplicità e “liquidità” sono gli elementi che rendono così attraente la cura dei beni comuni agli occhi di tanti cittadini che per vari motivi non possono o non vogliono iscriversi ad un’associazione.
Cittadini attivi possono dunque essere gli abitanti di un quartiere che, sulla base di un patto di collaborazione, si organizzano per far rinascere un’area verde abbandonata, così come possono esserlo i genitori che stipulano un patto per la cura del giardino della scuola dove studiano i propri figli. È una forma nuova di volontariato che si sta diffondendo sempre di più, forse anche perché più in sintonia con i ritmi di vita e le esigenze di una società frammentata, mobile, precaria come quella in cui viviamo.
12. La sovranità in forme nuove
L’art. 1, 2° comma della Costituzione afferma che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Nel corso dei decenni tale sovranità si è espressa soprattutto attraverso gli strumenti della democrazia rappresentativa, cioè il voto e la partecipazione alla vita dei partiti politici. Ma la democrazia rappresentativa oggi è in profonda crisi ovunque ed è quindi essenziale trovare anche altre modalità di partecipazione alla vita pubblica, oltre a quelle tradizionali.
Ecco perché è così importante questa nuova forma di esercizio della sovranità fondata sul principio di sussidiarietà, che si manifesta quando i cittadini si impegnano autonomamente in attività di cura e sviluppo dei beni comuni. Essi non lo fanno principalmente per rimediare alle inefficienze delle pubbliche amministrazioni o alla carenza di risorse pubbliche, anche se spesso la spinta iniziale ad attivarsi deriva da questo tipo di situazioni. In realtà i cittadini attivi sono persone autonome, responsabili e solidali per le quali prendersi cura dei beni di tutti come se fossero i propri, riappropriandosi di spazi e beni pubblici, è un’espressione orgogliosa di cittadinanza e di esercizio della propria sovranità in forme nuove.
13. I cittadini attivi danno fiducia
Il Regolamento per l’amministrazione condivisa ed i patti di collaborazione promossi da Labsus sono una piccola cosa, rispetto ai problemi del nostro Paese. Ma a volte sono le piccole cose che fanno la differenza, se sono in sintonia con i grandi cambiamenti nel modo di pensare di tante persone. E il Regolamento, ce ne siamo resi conto girando il Paese in questi anni, evidentemente è in sintonia con un cambiamento culturale profondo che sta liberando le infinite preziosissime energie nascoste nelle nostre comunità.
L’aspetto fondamentale di questo grande cambiamento culturale sta proprio nell’attivarsi autonomo di persone che non si sentono né si comportano come supplenti che rimediano ad inefficienze dell’amministrazione pubblica, bensì come cittadini sovrani che si riappropriano di ciò che è loro. Perciò lo fanno con entusiasmo, allegramente, approfittando dell’occasione per stare insieme con gli amici ed i vicini di casa, con quel gusto per la convivialità che è una delle nostre caratteristiche nazionali.
Ecco perché il vero valore aggiunto prodotto dall’amministrazione condivisa dei beni comuni non è tanto e soltanto il miglioramento della qualità dei beni comuni, quanto quell’impalpabile ma fondamentale valore rappresentato dall’aumento del senso di appartenenza, della coesione e dell’integrazione sociale. Quando i cittadini attivi si prendono cura insieme con altri dei beni comuni della loro città o del loro borgo, essi liberano energie, ricostruiscono i legami che tengono insieme le nostre comunità, danno fiducia perché mostrano con i fatti che un altro modo di essere cittadini è possibile. Soprattutto, comunicano una cosa semplice ma oggi quasi rivoluzionaria, cioè che è possibile coniugare il soddisfacimento dei propri interessi personali con il perseguimento del bene comune.
Bibliografia
Arena G., 1997. Introduzione all’amministrazione condivisa, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, Anno 30, N°1178-18, Edistudio.
Sitografia
https://www.labsus.org/2015/02/amministrazione-condivisa-18-anni-dopo-utopia-realizzata/
https://www.labsus.org/i-regolamenti-per-lamministrazione-condivisa-dei-beni-comuni/
https://www.labsus.org/category/beni-comuni-e-amministrazione-condivisa/patti-collaborazione/