Veterinario libero professionista, Sindaco a Canosio dal 2009 al 2019, Presidente Comunità/Unione Montana Valle Maira dal 2010 al 2019, Presidente Uncem Piemonte dal 2020, Sindaco di Marmora dal 2024.
Sommario
La lotta ai cambiamenti climatici rimette al centro delle opportunità e delle politiche i territori montani e le aree interne e rurali del Paese. Perché sono lo scrigno dei beni ambientali che servono l’intera collettività, perché lì si sta già vincendo la sfida della green economy. Acqua, foreste, clima, assorbimento di CO2, rigenerazione del territorio, devono essere riconosciuti nel loro valore e il pagamento dei servizi ecosistemici deve diventare realtà.
Parole chiave
Comunità, cambiamento climatico, rigenerazione, PSE (pagamento servizi ecosistemici), sostenibilità.
Summary
The fight against climate changes places mountain territories and both inner and rural areas of our country again at the centre of opportunities and policies. This is because they are the treasure chest of environmental assets at the service of our whole community as there they are already winning the challenge of the green economy. Water, woods, climate, CO2 absorption, territory regeneration must be acknowledged in their value and the payment of ecosystemic services must become reality.
Keywords
Community, Climate Change, regeneration, PES payment ecosystemic services, sustainability.
La sostenibilità della crescita economica, l'innovazione, i cambiamenti climatici. Elementi decisivi per gli Stati moderni, per la scienza, ma anche per i territori, per chi è chiamato ad assumere scelte locali legate allo sviluppo. Uncem ritiene particolarmente significativo che i Premi Nobel 2018 per l'Economia Paul Romer e William Nordhaus siano stati premiati per i loro studi sull'interrelazione tra i cambiamenti climatici e l'economia e per gli studi sulla crescita endogena e le ricerche sulle politiche che incoraggiano l'innovazione e la crescita a lungo termine.
Dopo la Cop21 e la Laudato sì, diventati documenti fondamentali anche per l'azione istituzionale di un'associazione come Uncem -che si occupa dello sviluppo e della coesione dei territori montani e rurali, secondo la necessaria sostenibilità ambientale- i Nobel 2018 ci impegnano ancora di più nel definire politiche anche locali efficaci per il futuro, ricordando Elinor Ostrom, Premio Nobel per l'Economia del 2009, premiata per i suoi studi sui beni comuni. Già allora come Uncem avevamo capito che il nostro impegno deve essere inserito e agganciato a grandi percorsi globali e che lo sviluppo locale è una scienza sempre più complessa in questa dinamica. I grandi economisti guidano il nostro percorso. I contributi di Paul Romer e William Nordhaus sono metodologici, fornendoci informazioni fondamentali sulle cause e le conseguenze dell'innovazione tecnologica e dei cambiamenti climatici. I due premi Nobel non consegnano risposte conclusive, ma le loro scoperte ci hanno portato molto più vicino a rispondere alla domanda su come possiamo ottenere una crescita economica globale sostenuta e sostenibile.
La crisi climatica ha fatto riemergere il ruolo e l’importanza delle geografie e dei territori, che in Italia sappiamo essere prevalentemente montani e per questo più esposti e vulnerabili agli impatti della stessa. Una condizione di rischio che ne fa crescere l’importanza, come afferma il Manifesto di Camaldoli (Società dei territorialisti, 2019), per una nuova centralità della montagna, Manifesto promosso tempo fa dalla Società dei Territorialisti/e. L’emergenza causata dall’epidemia di Covid19 ha ribadito e rafforzato la percezione dell’importanza della dimensione territoriale, dai presìdi sanitari locali alla necessità di accorciare le filiere produttive, dando così ulteriore spinta ad una globalizzazione meno mondiale e più regionale, ai sindaci e alle reti di volontariato capaci più degli algoritmi di individuare, raggiungere e contenere il disagio sociale. Sempre più abbiamo imparato a leggere le due crisi, climatica e pandemica, come le facce della stessa medaglia, quella della insostenibilità del nostro modello di sviluppo. Per questo nel Manifesto di Assisi (Fondazione Symbola, 2020), promosso da Symbola e dai francescani del Sacro Convento, viene richiamato il ruolo centrale dei territori e delle comunità nel promuovere un’economia a misura d’uomo contro la crisi climatica. Un lavoro che richiede di tornare ad avere curiosità, attenzione, empatia e vicinanza con la realtà, che sollecita l’interpretazione e la rappresentazione, e anche la pratica collettiva della rappresentanza. Non potrebbe essere altrimenti dal momento che la riemergente dimensione territoriale non è una sfera levigata ma piuttosto un prisma con più facce, ognuna con una sua specifica texture con diverse trame e densità. Come quella della prossimità che nel lungo esperimento sociale del distanziamento fisico si è imposta più di altre all’attenzione del dibattito pubblico e di alcune agende politiche più reattive e lungimiranti; quella della sindaco di Parigi Anne Hidalgo con il programma “La città dei 15 minuti”, con l’obiettivo di ripensare la città come insieme di autonomie abitative, sociali e anche produttive, dall’agricoltura urbana e sociale al ritorno della manifattura liberata dagli impatti ambientali del passato. Nel lockdown abbiamo capito l’importanza di avere servizi, farmacie e negozi, vicino casa. Lo stesso dibattito sulla dispersione abitativa trova un suo oggettivo punto di forza ancora una volta nella prossimità tra le grandi aree urbane e quelle meno densamente popolate, segnate dalla presenza di città intermedie e piccoli comuni investiti da processi di invecchiamento della popolazione e di erosione demografica. È bene concentrarsi sulle tendenze emergenti senza tuttavia farsi illusioni, le città non saranno abbandonate e non ci sarà uno spontaneo processo di tornare ad abitare nei piccoli centri significativo nei numeri e nelle dimensioni. Siamo chiamati a pensare come rendere le città più abitabili e i territori più abitati per evitare che questi siano visti come uno spazio di risulta, di consumo, a disposizione delle grandi aree urbane da una parte, e area di tutela estrema irrazionale tanto per soddisfare la sete di green-washing metropolitano dall’altra: la montagna viene generalmente vista con gli occhi di chi consuma (turisticamente soprattutto) o di chi vuole tutelarla in modo estremo in quanto ambientalismo fatto a casa d’altri, senza rendersi conto che è un luogo dell’abitare . Per questo era necessario e urgente nel post-Covid avviare quel “...grandioso progetto... di neo-popolamento... comprendente un insieme di azioni che valorizzino le nuove convenienze a vivere e lavorare in aree montane, specie quelle più bisognose di recupero” come proposto dal Manifesto di Camaldoli (Società dei territorialisti, 2019). Diciamo che il PNRR non ha saputo tradurre in modo concreto questa urgenza, ma si ripropone comunque la necessità e l’urgenza di un’azione strategica nazionale che prenda atto della specificità della montagna, che non può essere assorbita e ricompresa in altre categorie e programmi che non la assumano nella sua unitarietà e complessità. Un’azione strategica nazionale capace di orientare e di rendere coerenti ed efficaci le azioni degli attori istituzionali territoriali della montagna; piccoli comuni, città intermedie, comunità montane, parchi, aree interne della Snai (Strategia Nazionale Aree Interne), Gal (Gruppo di Azione Locale), comunanze agrarie, regole... componenti importanti, seppur diversamente rilevanti, ma parti di un insieme più grande. E tra le nuove opportunità certamente c’è quella offerta dal digitale che restituisce, in forme nuove ed inedite, prossimità, a territori che la modernità ha reso remoti ed isolati. Il digitale è certamente un servizio indispensabile che deve essere necessariamente aggiunto a quelli tradizionalmente conosciuti e assicurati, ma è allo stesso tempo molto di più, è un nuovo universo comunicativo capace di produrre una delle rotture temporali più radicali avvenute nella storia dell’umanità, che sollecita ed apre inedite dimensioni generative e partecipative grazie all’intersezione tra innovazione sociale e tecnologica. Ci eravamo abituati a pensare che le due condizioni fondamentali del nostro tempo sarebbero state la densità, grazie ai fenomeni di inurbamento, che fanno parlare del ventunesimo secolo, come quello delle città, e la prossimità, grazie soprattutto allo sviluppo del digitale, e ci ritroviamo a ragionare di scenari dove inaspettatamente quest’ultima potrebbe addirittura sopravanzare la prima. Per questo ha fatto bene l’Uncem a denunciare i ritardi nella realizzazione del piano della Banda Ultra Larga e a porre nella sua Piattaforma per la Montagna la questione del digitale come dimensione strutturale ed esponenziale di una contemporaneità che riapre ai territori la possibilità di tornare ad avere un futuro. Una visione che trovava conferma e sostegno nelle parole della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen che, nel discorso sullo stato dell’Unione del 16 settembre 2020, aveva annunciato che per sostenere una transizione verso un’economia e una società più verdi, digitali e resilienti il 37% di NextGenerationUe sarebbe stato investito negli obiettivi del Green new deal e il 20% nel digitale. La tempesta perfetta planetaria scatenata dall’incrocio della crisi climatica con quella pandemica ha creato le condizioni per una reazione dell’Europa imponente e tempestiva; un’occasione storica per rispondere alle sfide del nostro tempo. Basterà? Le perplessità sull’efficacia di questa risposta cominciano purtroppo a dare conferme. Saremo riusciti davvero nella sfida di rendere più abitabili le nostre città e più abitati i territori?
Tornando ai territori, abbiamo imparato negli ultimi 10 anni, che la montagna non è ferma e sospesa, non è vuota. È presente a sé stessa, invece, per ciò che di generazione in generazione ha deciso di fare fino ai nostri giorni. Specchio del presente proprio e di tutti. “In montagna, non è sufficiente che le iniziative partano dal basso, devono attraversare il di dentro” (Teneggi, 2020). Devono essere iniziative comunitarie: i conti si devono fare in piazza. Partendo da tre chiavi di lettura.
La prima riguarda il crinale di questa terra: la storia della montagna è terminata e occorre la sfrontatezza di un nuovo inizio. I figli della montagna non la riabiteranno in onore al proprio cognome e a una promessa resa: insieme lo faranno piantando storie oppure sradicandole, dove vi sarà la necessità di sentieri per attraversarla di nuovo e pascoli da pascolare. Avranno nomi irriconoscibili dai vecchi e parleranno dialetti mai sentiti insieme a quelli noti. La montagna non troverà chi è disposto ad adottarla per ciò che è. Tanti ed entusiasti, invece, lo faranno per quello che ci sognano dentro e attendono. Una resa dei conti generazionale che la montagna deve alla propria storia e all’andar via dei figli. Andati dove era scritto, non torneranno semplicemente esortati a farlo. Prima della firma del Sindaco o del fido dalla Banca, l’intraprendenza che solleviamo e ci prendiamo la responsabilità di promuovere, vuole una terra abilitante e una generazione che si perdoni l’abbandono.
La seconda riguarda la terra di mezzo, quella che separa la montagna, invece di unirla, alle aree industriali e metropolitane. Questi ultimi decenni ci hanno convinti che a valle delle montagne, più che a monte, si nascondono risposte potenti per la loro riabitazione. Per questo obiettivo, oltre all’adozione di nuovi figli con storie loro, le montagne devono avere una funzione territoriale più ampia. Occorre che gli abitanti delle terre di mezzo guardino a monte, invece che a valle, per i servizi e le funzioni pubbliche. È urgente farne ragione pubblica, per politiche e azioni di rafforzamento di questi flussi, invece che inutile retorica.
La terza riguarda il rapporto fra le attese del vivere in montagna e il suo modo. La montagna è stata controintuitiva all’epoca che lasciamo e alla visione de-strutturata del suo tempo. Sui suoi territori non v’è prestazione credibile ed efficace, se non di rassicurazione e conferma della sua Istituzione. Tutte le relazioni e i prodotti, tanto più le prestazioni pubbliche, devono essere istituenti, ovvero devono svilupparsi in modo dinamico e aperto, non predeterminato, e favorire la creazione di nuovi spazi e significati: un processo di costruzione, piuttosto che di semplice adesione, a regole o strutture esistenti. Un approccio controverso nel tempo della prestazionalità e della sua globale e individuale accessibilità. Ospedali, banche, aziende municipali, municipi, farmacie e addirittura le chiese per i loro sacramenti: gli abitanti delle montagne reclamano istituzioni prima che prestazioni, insegne visibili al loro passare prima che al loro bussare. Una riflessione che dovrebbe riguardare anche le misure di razionalizzazione degli enti comunali e delle aziende pubbliche funzionali. Come ritenerli efficienti se inefficaci nel produrre comunità? Occorrerà ridare alla gente la possibilità di appartenere a una terra, la capacità di usarla tutta e bene, la responsabilità di ricostruirvi istituzioni mutualistiche per la produzione di fiducia, coesione e addirittura di beni essenziali prossimi a chi ne avrà bisogno. E un nuovo patto, nuove regole di ingaggio si rendono necessarie tra pubblico e privato.
Perché quando si parla di rapporto tra pubblico e privato in montagna si parla di percorsi comunitari.
Si può dire che il comunitarismo e la partecipazione collettiva dei beni rappresentino il fondamento della cultura tradizionale alpina e in parte anche appenninica. Ovunque, o quasi, si trovano varianti di queste forme di autogoverno originatesi nel secolare fluire delle generazioni e che vengono chiamate con nomi differenti a seconda delle vallate: regole, patriziati, vicinie, degagne, almende, comunanze agrarie, università, partecipanze (soprattutto in Appennino), uomini originari, e così via.
Quando parliamo di comunità non dobbiamo rifarci all’idea di comunità introversa e legata alla discendenza degli “originari”. Dobbiamo guardare a una nuova, e per certi versi opposta, forma ibrida e progressiva di comunità: comunità intesa come alternativa a una società di singoli, chiusi nella loro solitudine e nell'assenza di scopi comuni; una comunità di intenzione il cui senso di appartenenza, il cui collante è dato da un obiettivo di scopo, dal fare, dalla creazione di interessi condivisi (anche e soprattutto materiali). Dunque, basata sulla ragione più che sulla tradizione. Una comunità che si legittima non attraverso il proprio fondamento tradizionale, ma nella gestione di un bene messo in comune.
Il governo dei beni comuni è materia da premio Nobel. Come detto, quello dato nel 2009 alla professoressa dell’Indiana University, l’americana Elinor Ostrom che, alla gestione dei commons (Ostrom, 2006) ha dedicato l'intera vita accademica.
Ostrom ricorda nel suo libro divenuto classico “Governare i beni collettivi” (Ostrom, 2006) che “quattro quinti di territorio alpino sono soggetti a una qualche forma di proprietà collettiva: villaggi locali, società o cooperative” (Ostrom, 2006). Poi passa a descrivere le procedure di governo dei boschi, il lavoro di gruppo che tutte le famiglie sono tenute a sostenere, la suddivisione del legname ricavato in cataste uguali tra loro, infine la spartizione delle stesse cataste attraverso un'estrazione a sorte.
Ma cosa sono esattamente i commons? Sono forme di proprietà "condominiale", né pubblica, né privata: un modo diverso di possedere che esce dai tradizionali modelli binari Stato/privato e che in Italia è normato dalla recente legge sui Domini collettivi.
“I beni comuni di "diritto privato" ma di "uso collettivo" possono collocarsi a metà strada fra lo statalismo burocratico e il liberismo selvaggio correggendone eccessi e distorsioni”, ha scritto l'antropologo Annibale Salsa (Salsa, 2021).
E saranno destinati a rafforzarsi ulteriormente alla luce della crisi dei sistemi moderni di gestione polarizzati sulla contrapposizione fra pubblico e privato.
Ma da questi istituti emerge un'altra importante ricaduta positiva: dato che tra i principi fondativi dei commons ricorrono l'inalienabilità, l'inusucapibilità, la perpetuità, ecco che il bene naturale posseduto - bosco, pascolo, prato, acque - rimane implicitamente protetto da possibili speculazioni.
Oltre alla descrizione dei commons tradizionali, Ostrom fa un passo avanti e si spinge nel futuro per delineare le nuove possibili applicazioni, la messa in comune delle risorse, le attività economiche, i trasporti, i centri di erogazione dei servizi.
I ‘nuovi commons’, più legati alla sfera sociale, oggi sono spazi di aggregazione, luoghi di socialità e servizi per l’abitare. I beni comuni non sono qualcosa di stabile: sono dinamici, così come le comunità, che non sono qualcosa di definito e perpetuo, ma si plasmano con il cambiare dei bisogni. È l’avere qualcosa da gestire e di cui prendersi cura, oltre a trarne beneficio per il proprio benessere, che rende necessaria l’esistenza di una comunità e stimola la partecipazione e la gestione collettiva. Non è tanto il bene comune in sé, quanto la relazione tra abitanti, ecosistema e risorse a innescare processi di comunità.
Oggi abbiamo la necessità ricollocare nel presente il concetto di beni comuni: ampliare la visione sui beni comuni significa reimmaginare presidi montani che rispondano ai bisogni attuali, valorizzando la storia dei luoghi, il paesaggio cocostruito e la relazione tra umano e ambiente. Ripensare la proprietà privata e valorizzare quella collettiva significa aprire possibilità senza esporre a speculazioni, garantendo accesso alla casa e alla terra per un’abitabilità situata. Questo processo può contribuire a rigenerare la relazione tra umanità ed ecosistema montano, unendo tradizioni, conoscenze e innovazioni. Per questo i domini collettivi, radicati nei territori marginali e sfuggiti al dualismo tra proprietà pubblica e privata, hanno un ruolo centrale nell’affrontare le sfide attuali. La loro capacità di preservare l’ecologia sociale che li caratterizza e innovarsi per rispondere ai bisogni contemporanei permette di ridare senso alla relazione tra beni comuni e comunità, aprendo nuove prospettive per abitare la montagna.
Moderne forme di commons o associazioni di proprietà o anche semplici aggregazioni di intenti le ritroviamo ad esempio nelle comunità energetiche rinnovabili (Cer), nei gruppi di acquisto solidale (Gas), nel cohousing, negli alberghi diffusi, nelle latterie turnarie, nelle cantine sociali, in certe segherie di fondovalle, nei biodistretti, e associazioni fondiarie. Si tratta di riletture in chiave contemporanea con innumerevoli varianti di quelle antiche torme di unione di interessi che sulle Alpi hanno attraversato i secoli replicandosi.
Attenzione, però, non si pensi candidamente che il vicinato sia di per sé un insieme solidale subito pronto a condividere propositi e progetti; e neppure che “se ci si conosce ci si capisce”, come viene retoricamente ripetuto: il punto è creare degli obiettivi di scopo a partecipazione volontaria, utilizzando tecniche decisionali partecipative fondate sull'attenuazione del conflitto, non dunque sul semplice metodo democratico. E anche su queste basi che la moderna comunità può diventare un’incubatrice di progettualità imprenditoriali e di erogazione dei servizi, soprattutto nei comuni periferici e ultraperiferici dove i servizi essenziali mancano. Gli stessi nuovi “commons” fanno comunità, la rafforzano, ne danno legittimazione pratica, e gli esempi di efficace realizzazione sono sempre più numerosi. Le cooperative di comunità, come per esempio quella citatissima di Succiso nell'Appennino reggiano, sono un modello di grande successo, si inquadrano come imprese collettive basate sulla pluriattività e sono a tutti gli effetti dei soggetti giuridici.
Nel 1991 il paese di Succiso si trovava sull'orlo del collasso: gli abitanti erano scesi a una sessantina, la scuola aveva chiuso per mancanza di alunni, e anche il bar aveva abbassato per sempre la saracinesca. A quel punto ai residenti non rimanevano che due alternative: o lasciar morire il paese o unire le forze in una qualche forma di collaborazione. Fu così che nacque la Cooperativa di comunità Valle dei Cavalieri. Il nuovo soggetto giuridico si diede degli obiettivi e trovò i fondi per realizzarli. Da lì a breve venne aperto il bar, poi il negozietto, poi il ristorante nei locali della scuola chiusa, e anche un piccolo albergo con sala convegni. Nel I998 iniziò l'allevamento di ovini e la produzione di pecorino, e nel 2003 entrò in funzione il centro visita del Parco nazionale dell'Appennino Tosco-Emiliano. Oggi la cooperativa organizza anche attività didattiche e sportive legate alla montagna e si regge su soci lavoratori e dipendenti, che in alta stagione superano le dieci unità. Da questa esperienza sono nate molte altre iniziative simili. Si può dire che il «caso Succiso» abbia fatto scuola, anche in senso letterale: una vera e propria scuola di comunità, con docenti e studenti da tutt'Italia, progettata insieme alla Cooperativa di comunità Briganti della vicina Cerreto Alpi. Succiso avrebbe potuto diventare un paese fantasma, ma grazie alla sua cooperativa di comunità è ancora in vita.
In conclusione. Se istituti che hanno 1000 anni di storia sembrano contemporanei e ci indicano la via, un nuovo protagonismo della Politica è necessario. Non più politica, ma una nuova Politica.
Da quarant’anni l’economia ha schiacciato la politica ed oggi ciò che può salvare l’economia è proprio l’azione della Politica. Un’azione che richiede radicalità riformista, non estremismo, consapevolezza di una azione improntata a pragmatismo e gradualità che renda “utile” gli aiuti europei, l’indebitamento e adegui gli assetti istituzionali. I territori montani non sono delle piccole patrie autonome alle quali si devono assicurare i mezzi per la loro autonomia, bensì realtà che devono contribuire allo sviluppo complessivo. In questo senso la loro responsabilità non è locale, essa supera i limiti amministrativi del singolo comune. L’eguaglianza formale dei territori montani deve diventare una eguaglianza reale di situazioni e di relazioni.
Bibliografia
Fondazione Symbola, 2020. Manifesto di Assisi.
Ostrom E., 2006. Governare i beni collettivi, Marsilio Ed. Palermo.
Salsa A. 2021. Autogoverno dei territori montani: Storia e prospettive. Scienze Del Territorio, 9. https://doi.org/10.13128/sdt
Società dei territorialisti, 2019. Manifesto di Camaldoli.
Teneggi, G., 2020. Comuni(tà) Insieme Uncem 2000-2020 Vent’anni di azione, Delegazione Piemontese Uncem, LAR Ed (Perosa Argentina).
Letture consigliate
Collettivo Altra Montagna, 2025. La montagna con altri occhi. People, S.r.l. Busto Arsizio.
Comunità Montagna, 2025. A servizio della Collettività, Uncem, https://www.comunitamontagna.eu
Comunità Montagna, 2023. Essere Comunità nella sostenibilità, Uncem, https://www.comunitamontagna.eu
Comunità Montagna, 2022. Il Piemonte dei Borghi, Uncem, https://www.comunitamontagna.eu
Coltivare comunità: un percorso che continua, 2022. Barca, Pazzagli, Teneggi, Tantillo. Agenzia di Stampa Cult, https://www.agenziacult.it
Comunità Montagna, 2019. Il Green New Deal della Montagna, Uncem, https://www.comunitamontagna.eu