È stato dirigente di istituti scolastici, ha partecipato a iniziative nel campo dell’educazione interculturale, dell’educazione motoria e dell’educazione ambientale; è stato consulente dell’Unicef – Comitato Italia.
Sommario
L'idea di bene comune a cui la scuola dovrebbe educare i propri studenti deve includere tutto ciò che unisce le persone: obiettivi comuni, valori condivisi, ideali che aiutano ad elevare lo sguardo oltre gli orizzonti individuali. Individuiamo il punto di partenza per giungere alla definizione dei concetti di bene comune come "interesse generale di una comunità" e di "beni comuni" come diritti inalienabili dei cittadini nel riconoscimento del fatto che ognuno di noi ha molteplici identità: di genere, etniche, linguistiche, nazionali, di classe sociale, religiose.
Parole chiave
Bene comune, beni comuni, identità, Capability approach, problemi di realtà, identità globale, paradigma cartesiano, paradigma ecologico, globalizzazione, libertà.
Summary
The idea of the common good that schools should educate their students about must include everything that brings people together: common goals, shared values, ideals that help raise one's gaze beyond individual horizons.
We identify the starting point for arriving at the definition of the concepts of common good as “general interest of a community” and of “common goods” as inalienable rights of citizens in the recognition of the fact that each of us has multiple identities: gender, ethnic, linguistic, national, social class, religious identity.
Keywords
Common good, common goods, identity, Capability approach, reality problems, global identity, Cartesian paradigm, ecological paradigm, globalization, freedom.
Bene comune e beni comuni: le definizioni da cui partire
Le succinte definizioni che Stefano Rodotà dette di bene comune e di beni comuni possono essere un buon punto di partenza per definire quale debba essere il ruolo della scuola nell’educazione all’idea di bene comune e alla pratica dei beni comuni.
Definì il bene comune come valore che indica l'interesse generale di una comunità, e i beni comuni come beni che non coincidono né con la proprietà privata, né con la proprietà dello Stato, ma esprimono dei diritti inalienabili dei cittadini.
La scuola appartiene alla categoria di beni comuni, costituita dai servizi pubblici forniti dai governi centrali e locali in risposta ai bisogni essenziali dei cittadini, e allo stesso tempo è il luogo comune in cui si educa all’ idea di bene comune.
L’ idea di bene comune a cui la scuola dovrebbe educare i suoi allievi
L’ idea di bene comune a cui la scuola dovrebbe educare i suoi allievi la esprimerei con le parole di Papa Francesco che lo ha definito un valore centrale per costruire un mondo più equo e solidale, in cui ogni persona possa vivere in dignità, una pratica di accoglienza e ricerca di giustizia,: «Il bene comune, è superiore alla somma dei singoli interessi; è un passaggio da ciò che “è meglio per me” a ciò che “è meglio per tutti”, comprende tutto ciò che dà coesione a un popolo: obiettivi comuni, valori condivisi, ideali che aiutano ad alzare lo sguardo al di là di orizzonti individuali» (cfr. enciclica Laudato si’ Papa Francesco).
La scuola si connota per i caratteri del contesto in cui opera
Appare quasi superfluo osservare che ogni scuola si connota in modo significativo per i caratteri del contesto in cui sorge; tuttavia, è opportuno ricordarlo, per affermare che il contesto in cui la scuola opera non deve essere inteso come l'esistente a cui adeguare le finalità della scuola, ma come stato di un processo di trasformazione che la scuola può volgere verso forme più complete, più avanzate di emancipazione culturale, di inclusione sociale. Ciò vale anche per l’idea di bene comune, e per le pratiche d’uso dei beni comuni che possono evolvere, per opera della scuola stessa, verso concezioni maggiormente adeguate ai nuovi bisogni che le trasformazioni della società, della tecnica e della conoscenza creano.
Come la scuola pensa se stessa, come si organizza per l’educazione al bene comune
Come la scuola pensi se stessa dovrebbe rivelarlo il Piano dell'Offerta Formativa (POF), un documento che definisce la sua identità culturale e progettuale e che contiene la pianificazione delle attività educative, curricolari ed extracurricolari; da esso si dovrebbe evincere quale visione di futuro propone ad allieve ed allievi, ai loro genitori, quale identità di persona intende contribuire a formare con la sua opera.
Proprio la definizione di identità è il punto da cui partire per definire il ruolo che la scuola ha nel costruire il percorso attraverso cui alunne ed alunni potranno giungere a incarnare nella propria esperienza, l’idea di bene comune come risorsa che riguarda l'interesse generale di una comunità e l’idea di beni comuni come diritti inalienabili dei cittadini.
Partire dalla definizione di identità e dalla considerazione “di vincoli morali e di istanze emergenti da identità diverse” di ciascun allievo, di ciascuna allieva, per giungere alla definizione dei concetti di interesse generale di una comunità e di diritti inalienabili dei cittadini, permette alla scuola di pensare, progettare l’azione educativa partendo dal “riconoscimento del fatto che ognuno di noi ha molteplici identità: identità di genere, di etnia, di lingua, di nazione, di ceto sociale, di religione, identità che nascono da interessi sportivi, gusti musicali, impegni sociali, ciascuna delle quali può dare luogo a istanze, vincoli morali che possono completare significativamente, o essere in seria contraddizione con altri vincoli morali e altre istanze emergenti da identità diverse. ….” (Amartya Sen, 2002, pag. 37).
Questa scelta favorisce la pratica di una giustizia che afferma il diritto alla massima libertà possibile per ogni persona. È una giustizia che vuole assicurare l’equità e l’efficienza nella distribuzione delle opportunità, assegnando la priorità, all’interno di ogni gruppo, all’individuo che a causa di qualcuna delle proprie identità lo ponga nella posizione più sfavorevole. Tanto per esemplificare, penso a quanto talvolta pesi la condizione dell’essere donna, dell’essere straniero, dell’essere portatore di qualche disabilità.
È compito della scuola assicurare che le identità plurali da cui le personalità degli alunni sono formate trovino modo di realizzarsi pienamente.
Questo riconoscimento deve riflettersi nell’organizzazione e nella cura dei tempi, degli spazi, delle relazioni, in modo che allieve ed allievi riescano a superare i conflitti in cui ognuno di loro può essere coinvolto quando cerca di realizzare le istanze delle proprie diverse identità. Possono essere conflitti vissuti come lacerazioni interiori, a livello di coscienza del singolo, possono assumere la forma di scontri tra individui, tra gruppi di persone; sono conflitti che nascono in famiglia, in classe, nella città, sui social. È compito della scuola esplorare le diverse alternative esistenti per risolvere i motivi di conflitto cui le differenze di identità possono dar luogo.
La scuola è anche il luogo dove si può essere educati a valorizzare la ricchezza che le diverse identità, quando si permetta loro di esprimersi e di realizzarsi, rappresentano per le singole persone, per la scuola, per la società. Per chi studia e lavora nella scuola si creano occasioni in cui è necessario confrontare le proprie plurali identità con le altrui, a dover contemperare le istanze delle diverse identità, anche facendo assumere loro i caratteri peculiari delle altre. Nella scuola si può insegnare a “guardare le cose da una diversa ringhiera ermeneutica”, favorendo l’evoluzione delle identità stesse verso forme inedite di espressione, che potrebbero essere più adeguate per vivere le relazioni sociali nel mondo contemporaneo.
Il dare la possibilità di attuazione autentica, piena a identità che talvolta sono
presenti solo allo stato potenziale, valorizzarle come espressione dell’individualità di ciascuno, contribuisce a contenere l’identità di consumatore che, sotto la spinta della tecnica che agisce con il solo scopo di potenziare se stessa, si afferma prepotentemente e tende a ridurre a forme di consumo tutte le risposte che possono essere date alle istanze delle altre identità. Le feste religiose, gli eventi culturali, lo sport, il gioco, la stessa convivialità sembrano esaurire il loro senso nel fatto del consumare qualcosa.
Se si riduce ogni manifestazione della personalità umana a consumo individualistico di merci, di servizi, di performance, i beni comuni si riducono a cose inanimate da dissipare e non sono più considerati come nuclei vitali, fonti di risorse attorno a cui si sviluppano le relazioni degli umani e degli altri viventi per realizzare il bene comune che riguarda l'interesse generale di una comunità.
Capability approach per il perseguimento di tali finalità
Per concretizzare queste finalità in obiettivi che ciascun alunno, ciascuna alunna possa considerare effettivamente propri, è necessario che l’istituzione scolastica adegui le iniziative della scuola alla realtà di ogni singolo alunno.
Per adempiere a questo compito è necessario che abbia come riferimento un orizzonte culturale ed un quadro normativo che la orientino alla realizzazione delle molteplici identità da cui ognuno dei loro allievi è formato: identità di genere, di etnia, di lingua, di nazione, di ceto sociale, di religione.
A me sembra che il quadro normativo definito da Amartya Sen e sviluppato in seguito da Martha Nussbaum, come capability approach (nella traduzione letterale in lingua italiana approccio delle capacità, o delle capacitazioni, traduzione che forse non rende bene l’idea) risponda allo scopo.
Capabilities sono per A. Sen il potenziale che le persone hanno di realizzare ciò che apprezzano e ciò che è importante per loro nella vita, inclusa la libertà di scegliere tra diverse combinazioni di identità.
In molti testi di pedagogia (cfr. Binanti, 2014) il termine capacitazione viene associato al concetto di "empowerment" e viene riferito al processo di promozione della libertà, della capacità e della responsabilità degli individui per prendere decisioni e agire nella propria vita.
L’approccio delle capacità, sposta l'attenzione del benessere umano dalle risorse alle reali opportunità e libertà che gli individui hanno di vivere una vita che abbia significato per loro e lo analizza concentrandosi proprio su tali libertà e opportunità, piuttosto che esclusivamente sulle sue risorse o sul benessere soggettivo. Mette in evidenza che il benessere non riguarda solo il possesso di risorse o l'essere felici, essere ben nutriti, istruiti o avere accesso all'assistenza sanitaria, ma anche la libertà di perseguire una vita che abbia un significato per l'individuo, la sostanziale libertà di decidere la priorità da assegnare alle varie identità che una persona potrebbe simultaneamente avere; deve mettere al centro non solo la possibilità degli individui di acquistare cose, ma soprattutto di intraprendere un progetto di vita secondo le proprie capabilities.
Martha Nussbaum sviluppa il concetto di capability di Amartya Sen partendo dalla considerazione che ragionare e agire in termini di capacità umane fondamentali significa non solo riconoscere a qualcuno un diritto, ma fare in modo che quel diritto sia davvero esercitabile.
In particolare, affronta due aspetti della questione.
La prima questione riguarda il fatto che le teorie politiche tradizionali hanno considerato la società come costituita da individui «adulti e indipendenti» facendo coincidere la condizione di indipendenza con la norma, con la regola, mentre la realtà è ben diversa. Gli esseri umani non sono semplicemente “animali razionali”, adulti, indipendenti, ma animali che si trovano in condizioni di bisogno (anche solo in precisi momenti della propria esistenza) e, per questo, di dipendenza dagli altri.
Partendo da questa affermazione si è concentrata sull'importanza della "cura" (care) come principio fondamentale per la costruzione di una società più giusta e umana. La sua posizione è strettamente legata all'etica della cura, che pone l'accento sulla necessità di prendersi cura degli altri, in particolare dei più vulnerabili, e di riconoscere l'importanza delle relazioni interpersonali.
Il multiculturalismo è la seconda questione che affronta.
La Nussbaum accoglie la critica fatta alla formulazione dei diritti che la tradizione occidentale ha universalizzato rendendoli applicabili a tutte le popolazioni, non tenendo conto che in quanto espressione storica e culturale del mondo occidentale sono escludenti rispetto alle istanze di persone e gruppi con diverso background. Il capability approach non vincola a una precisa tradizione come invece accade nel caso dei diritti,
La capability approach nasce nella visione di una cittadinanza mondiale, globalizzata, basata sull’interculturalità, sull’accoglienza, sull’accettazione e riconoscimento dell’Altro: “gli altri” vanno accolti nelle loro tradizioni e nelle loro abitudini diverse, che vanno comunicate, accettate, riconosciute nel sistema globale di una rinnovata cittadinanza.
Ambedue queste questioni riguardano il nostro tema: la prima ci richiama alla necessità di riconoscere l'importanza del prendersi cura delle relazioni che si instaurano tra le persone nella fruizione dei beni comuni, la seconda ci propone un modo di concepire “il bene comune” che non sia escludente rispetto alle istanze di persone e gruppi con diverso background (Nussbaum, 2014).
Quale paradigma
Sembra difficile che questi richiami possano essere tenuti in seria considerazione finché le relazioni tra esseri viventi e tra esseri viventi e l’ambiente fisico-chimico del pianeta saranno concepite secondo la logica del paradigma cartesiano che ha dominato il pensiero del mondo occidentale negli ultimi secoli, è una logica secondo cui “l’essere si esprime principalmente non come sistema, ma come individualità originariamente separate”, come relazioni tra individualità che, indipendenti le une dalle altre, preesistono alle relazioni che le legano. Questa concezione della realtà non coglie la complessità delle relazioni che connettono. È “un pensiero disgiuntivo e riduttivo che isola e separa, un modo di conoscere che disgiunge gli oggetti tra di loro e che tratta i fenomeni multidimensionali isolando in modo mutilante ciascuna delle loro dimensioni e perdendo di vista le connessioni che le legano” (Morin, 1983).
Scrive Ugo Mattei in “Beni comuni: Un manifesto”: “Il solo modo di interpretare la battaglia per i beni comuni è nell’ambito di una visione del mondo ecologica e non economica, che faccia tesoro di quanto insegnano le nuove scienze della vita e della terra. I beni comuni non sono – come del resto l’intero reale –– un insieme di oggetti definiti che si possono studiare in laboratorio e guardare dall’esterno secondo la logica cartesiana e l’osservazione empirica. Essi rivendicano invece un sapere che associa, connette, scopre nessi fra l’insieme degli esseri viventi e le condizioni fisico-chimiche e culturali- del vivere in comune” (Mattei, 2011).
Un sapere che associa connette è proposto da Edgar Morin che scrive: è necessario “passare da un pensiero disgiuntivo e riduttivo che isola, separa gli elementi tra di loro, che previlegia la separazione a scapito dell’interconnessione, l’analisi a scapito della sintesi, ad un pensiero del complesso che distingue e unisce, che sa concepire ciò che interconnette tra di loro gli eventi e che cerca di interconnettere ogni evento nel suo contesto, indagando sulle relazioni e inter-retroazioni che esistono tra ogni fenomeno e il suo ambiente.” (Morin, 1983).
Capability approach e l’imparare ad essere
Amartya Sen definisce capabilities, le capacità che una società dà o nega ad un individuo e le distingue dalle abilities, che più semplicemente sono ciò che una persona sa fare, e scrive che il loro insieme rappresenta la libertà di un individuo.
Nello stesso tempo nota “La libertà riguarda ciò che le persone sono o non sono in grado di fare e non semplicemente ciò che gli altri impediscono di fare”.
Sembra un richiamo alla responsabilità delle persone: l’essere in grado di fare non dipende solo dalle conoscenze, e dalle abilità acquisite, da ciò che si ha o si possiede, da ciò che è concesso, ma soprattutto dipende da ciò che l’individuo ha imparato ad essere.
Ciò che le persone sono o non sono in grado di fare dipende dalla responsabilità individuale, ma in larga misura dipende dall’opera della scuola, che può favorire od ostacolare l’imparare ad essere.
A mio parere la finalità educativa imparare ad essere, può essere ben definita e perseguita, se include, oltre al conseguimento di conoscenze, abilità e competenze disciplinari, l’acquisizione di saperi trasversali che definirei come saperi relazionali: saper comunicare, saper collaborare, saper assumere decisioni collettive, e al tempo stesso essere capaci di decisioni autonome, sapersi assumere responsabilità e sapersi autovalutare, saper risolvere problemi concreti saper pianificare, maturare il senso di appartenenza.
Sono saperi che si conseguono più facilmente se la scuola esercita i suoi allievi ad affrontare quelli che sono definiti come “problemi di realtà”. Sono problemi che richiedono agli studenti di applicare le conoscenze e le competenze acquisite nelle diverse aree disciplinari, a situazioni problematiche complesse che si riscontrano in contesti reali.
I problemi di realtà richiedono per essere affrontati, l’acquisizione di strutture concettuali quali relazione (causa/effetto, retroazione, ciclo, caso), sistema, trasformazione, processo, diversità, limite, che fungono da codifica della realtà, che contengono gli elementi concettuali più primitivi dai quali possono essere creati nuovi significati, altre regole, oltre quelle usuali, di combinazione delle idee. È un altro modo di definire l’apprendere ad apprendere che può essere conseguito meglio in un clima in cui si studia e si lavora provando il piacere di sentirsi funzionare bene quando assieme ad altri si fa qualcosa che da qualcuno è atteso.
Identità e violenza
Il senso di identità può dare un importante contributo alla forza e all’intensità delle nostre relazioni con il prossimo; la possibilità garantita a ciascuno di incrementare la propria libertà, intesa come realizzazione di tutte le proprie identità, costituisce per la società un arricchimento rappresentato proprio dalla realizzazione piena di tutte le identità delle persone; ma l’identità può anche uccidere.
Ciò succede quando una delle identità a cui una persona appartiene, in particolare, nazionalità, appartenenza politica, credo religioso, viene considerata come l’unica identità che ci costituisce. Quando ci si sente affiliati ad un’unica identità, viene meno la possibilità di trovare altre solidarietà che possono nascere da altre nostre identità e possono far superare le divisioni che alcune identità talvolta creano, mentre la solidarietà all’interno del gruppo identitario può contribuire ad alimentare la discordia tra i gruppi, aumenta il rischio di creare divisioni, di alimentare conflitti. (A. Sen, 2006).
È un problema particolarmente grave in questo momento storico in cui si stanno affermando nazionalismi intolleranti e fondamentalismi fanatici e in cui, contemporaneamente, il processo di globalizzazione in atto porta gli esseri umani che appartengono a etnie e a culture diverse, che intendono ispirare la propria vita e principi e priorità propri, a convivere in relazioni dirette.
Si constata nell’esperienza di ogni giorno la possibilità che da questa convivenza nascano conflitti originati dall’essere ad un tempo membro della famiglia d’origine, cittadino dello stato in cui si vive, seguace di una religione, dall’appartenenza di genere, e dall’essere allievo della scuola che si frequenta.
Se la scuola vuole mantenere se stessa come bene comune fruibile da tutti, dovrà mantener per fermo il principio che “L’essere membro come cittadino di una comunità nazionale, l’essere seguace di una religione per importante che sia, non possono prevaricare le concezioni e le implicazioni comportamentali di tutte le altre forme di associazione collettiva”. Dovrà saper giungere alla risoluzione di conflitti a cui le differenze potrebbero dar luogo, permettendo che tutte le identità: identità di genere, di cultura, di etnia, di credo religioso, di vocazione artistica, professionale possano svilupparsi pienamente, favorendo il realizzarsi di ogni istanza che nasca dall’esigenza di manifestare e di realizzare l’originalità di cui una persona può essere dotata.
Afferma Amartya Sen “Le istanze connesse a ognuna delle nostre molteplici identità possono essere tutte prese sul serio, poiché esistono diverse alternative per risolvere i motivi del conflitto cui le differenze potrebbero dar luogo”. Questa sua fiducia merita di essere condivisa (Amartya Sen, ibidem pag.37 e seg.).
Le difficoltà per la scuola di esercitare il suo ruolo nel mondo post-moderno
Quanto la scuola poi riesca a svolgere questo suo compito non dipende solo dalle competenze dei docenti e dalla propensione dei discenti ad apprendere.
Chi lavora nella scuola sa che i docenti, ammesso che possano agire e scegliere in modo ineccepibile il metodo, l’organizzazione delle loro attività, in modo da favorire la formazione di un’idea di bene comune quale quella sopra delineata, non possono essere certi che le loro aspettative verranno soddisfatte, perché l’esito voluto non dipenderà solo dalla loro azione.
Da sempre lo sviluppo della relazione educativa scolastica dipende in buona parte da come si sono sedimentate le tracce di esperienze precoci che risalgono fino alla primissima infanzia, dai vissuti personali del singolo individuo costruiti durante la sua crescita, è influenzato dalle interazioni sociali che nascono nel contesto ben più ampio della classe: il quartiere, la città.
Tuttavia, per secolare tradizione la scuola aveva mantenuto una sua centralità in un sistema in cui era chiaro chi possedesse la conoscenza da trasmettere e chi dovesse riceverla, chi dovesse decidere che tipo di conoscenza trasmettere, cioè la distinzione tra docente e allievo, era chiara la distinzione tra sistema educativo formale, non formale e informale.
Totalmente diverso è il sistema in cui avviene l’apprendimento dell’individuo postmoderno: è un sistema di fatto ingovernabile, in cui non è affatto chiaro chi funge da insegnante, chi da allievo, chi possiede conoscenza da trasmettere e chi deve riceverla, chi decide quale tipo di conoscenza deve essere trasmessa. È un sistema in cui il contesto di apprendimento è costituito da più strutture parzialmente sovrapposte ed incrociate, reciprocamente indipendenti ed irrelate ad una situazione in cui i processi educativi non sono affatto distinti dal resto degli impegni e dei rapporti personali (si può apprendere ovunque, dal mondo virtuale, nelle palestre, dalle canzoni, ecc.), non attraverso eventi educativi separati, ma nella loro varietà, e anzi nella loro mancanza di coordinamento.
La pratica tradizionale può convivere e rimanere assieme alle altre, i docenti possono agire e scegliere un metodo, un’organizzazione in modo da favorire un contesto che assecondi una formazione che risponda alle loro aspettative ma, contrariamente a quanto si pensava fin verso la fine degli anni ’90, senza pretendere di assumere funzioni orientanti, senza pretendere di coordinare, di indicare finalità od obiettivi (Bauman, 2002).
La domanda conclusiva: che cosa e come insegnare?
In questa situazione, educare ad un’idea di bene comune non può essere teorizzato come “un processo formativo guidato fin da principio da un tipo di bersaglio pianificato in anticipo”; ma come “un processo aperto, volto a modellare senza conoscere o visualizzare chiaramente il modello cui mirare, più che a fornire un prodotto specifico.” (Bauman op. cit.)
Il primo compito della scuola per inserirsi in questo processo è di essere attenta alle centinaia, forse migliaia, di iniziative esistenti in tutta Italia, volte a valorizzare risorse materiali o immateriali, reali o virtuali come beni comuni. Sono iniziative a cui partecipano con entusiasmo, sotto varie forme di volontariato, centinaia di migliaia di giovani. Attendono di essere ascoltati, meritano di non essere delusi, come spesso è successo. Basta ricordare come fu tradito il referendum per la gestione pubblica dell’acqua: Acqua bene comune (2011). Fu un referendum a cui parteciparono con entusiasmo milioni di giovani e che in seguito fu boicottato da tutti i governi (cfr. Micromega 18/6/21).
A questo mondo di giovani delusi dalla politica, la scuola si dovrebbe in particolare saper rivolgere, aggiungendo alla polifonia dei messaggi valoriali a cui essi vogliono dar voce, i propri, cercando di renderli convincenti.
Spetta agli organi collegiali: consiglio di istituto, collegio dei docenti individuarli.
Mi sembra che, in questo momento, in cui si parla di "Guerra mondiale a pezzi" (Papa Francesco, 2014), in un mondo dove la terza guerra mondiale a pezzi si è trasformata "in un vero e proprio conflitto globale”, l’istituzione scolastica potrebbe essere convincente se ponesse al primo posto il valore della pace indicando come modo per opporsi a questo insieme di conflitti e disordini che sembrano collegati da una logica globale, un nuovo bene comune costituito da un sentimento di identità globale, che potrebbe rendere possibile, rendere meno conflittuale il mondo in cui viviamo.
Non è un’idea compiutamente definita, indica piuttosto una meta che troviamo difficile prefigurare come un obiettivo predefinito, forse perché richiede uno sguardo che si spinga oltre le frontiere nazionali in cui siamo abituati a collocare le nostre relazioni e richiede di assumere il punto di vista che dia una visione globale delle relazioni umane. È un’idea che presuppone una cultura diversa da quella che ha dominato finora il mondo, una cultura che ci orienti a superare le inimicizie, a prenderci cura gli uni degli altri e ad accettare che a ciascuno sia data “la possibilità di scegliere il peso relativo da attribuire la pluralità delle proprie identità che provengono dalle varie collettività a cui le persone possono appartenere simultaneamente.” (A. Sen globalizzazione e libertà cit.)
La sua visione si basa sul concetto di libertà come un valore centrale, e sottolinea l'importanza di riconoscere e valorizzare le diverse identità per costruire una società più giusta, inclusiva e libera.
Amartya Sen parla di identità globale in Identità e violenza; scrive che può riguardare molte realtà e istituzioni a più livelli: dalle Nazioni Unite, alla società civile, alle singole persone, ai gruppi e alle organizzazioni. A suo parere lo scontento globale, espresso dai movimenti di protesta in tutto il mondo, può essere considerato come la prova dell'esistenza di un sentimento di identità globale. A suo parere lo scontento globale, espresso dai movimenti di protesta in tutto il mondo, può essere considerato come la prova dell'esistenza di un sentimento di identità globale.
“Se gli argomenti e le modalità di comunicazione dei dimostranti non sono sempre corretti, molti di questi argomenti sollevano tuttavia interrogativi importanti, che potrebbero diventare agenda del dibattito pubblico e contribuire ad alimentarlo”. In fondo, sostiene Sen, "è anche così che la democrazia globale muove i primi passi" (Amartya S., 2006).
L’istituzione scolastica può perseguire questa finalità nel sistema in cui avviene l’apprendimento dell’individuo postmoderno che è un sistema di fatto ingovernabile, se accetta che il processo formativo non sia guidato fin da principio da obiettivi pianificati in anticipo, ma sia un percorso di cui deve ancora essere definita la meta.
Un suo ruolo potrebbe averlo proprio nella definizione della meta a cui tendere; suo compito specifico potrebbe essere, oltre che studiare le idee che nascono nel mondo contemporaneo, proporre idee nate nel passato che sono ancora significative nella realtà post-moderna, per rigenerare in prospettive più ampie le relazioni fondamentali, quali sono le relazioni tra generazioni, tra differenti soggettività sessuali, tra diversi popoli e società, tra esseri umani e altre specie animali e vegetali, a cui ci si riferisce quando si parla di identità plurali...
Voglio riportare qui un esempio, tra i tanti che sarebbe possibile fare, penso al pensiero di Don Milani, Ivan Illich, Paulo Freire; mi riferisco qui al pensiero di Alexander Langer da cui potremmo ancora trarre indicazioni di estrema attualità.
Oltre venti anni fa Langer osservava che è necessario: «…tentare di congedarci dalla corsa verso il “più grande, più alto, più forte, più veloce”, chiamata sviluppo per rielaborare gli elementi di una civiltà più “moderata”, (più frugale, forse, più semplice, meno avida) e più tollerante nel suo impatto verso la natura, verso i settori poveri dell’umanità, verso le future generazioni e verso la stessa “biodiversità”, (anche culturale) degli esseri viventi” (Langer, 1992).
Bibliografia di riferimento
Bauman Z., 2002. La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza Il Mulino BO 2002.
Binanti L., 2014. La capacitazione in prospettiva pedagogica, A cura di Collana: Ontologie Pedagogiche.
Cini M., 2001. Dialoghi di un cattivo maestro, Bollati Boringhieri.
Papa Francesco, 2015. Enciclica Laudato si’.
Hawken P., 2009. Moltitudine inarrestabile Ed. Ambiente.
Langer A., 1989. Perdersi per trovarsi: la terra in prestito dai nostri figli, «Servitium», settembre 1989 (riportato in: http://www.alexanderlanger.org/it/148/3315/print)
Langer A., 1991. in: Azione nonviolenta, 1991.
Langer A. 1992. L'intuizione dell'austerità, «Mosaico di pace», n.9 - novembre 1992 (riportato in: http://www.alexanderlanger.org/it/143/2750).
Latouche S., 2007. La scommessa della decrescita, Feltrinelli.
Mattei U., 2011. Beni comuni: Un manifesto Laterza Bari.
Morin E., 1983. Il metodo ordine disordine organizzazione Feltrinelli Milano.
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Prigogine I. e I. Stengers, 1981. La nuova alleanza, Einaudi.
Sen Amartya, 2002. Globalizzazione e Libertà, Mondadori Milano.
Sen Amartya, 2006. Identità e violenza, Editori Laterza, Roma – Bari.