Giornalista scientifico, direttore della rivista QualEnergia di Legambiente. Scrive d’energia e s'interessa anche d'economia circolare, ma non solo, dei problemi sociali e del lavoro Si occupa d'innovazione nell’informazione e Intelligenza Artificiale applicata al giornalismo.
Sommario
Il saggio analizza l’erosione globale della libertà d’informazione, con focus su Stati Uniti e Israele. Indaga il ruolo dei media tradizionali, le pressioni economiche e politiche e l’influenza dei social network sulla libertà d’informazione. Evidenzia come proprietà editoriali, disinformazione e censura stiano minando la democrazia, ma esistono modelli virtuosi di resilienza giornalistica. Un allarme documentato sulla crisi strutturale del diritto a essere informati.
Parole chiave
Libertà, informazione, democrazia, disinformazione, censura, giornalismo, indipendenza, social media, economia, attenzione, algoritmi, fake news, media, news desert, endorsement, crisi, intelligenza artificiale, uccisione di giornalisti, libertà di stampa, bene comune.
Summary
The essay analyzes the global erosion of freedom of information, with a focus on the United States and Israel. It investigates the role of traditional media, the economic and political pressures and the influence of social networks on freedom of information. It highlights how editorial ownership, disinformation and censorship are undermining democracy, but there are virtuous models of journalistic resilience. A documented alarm on the structural crisis of the right to be informed.
Keywords
Freedom, information, democracy, disinformation, censorship, journalism, independence, social media, economy, attention, algorithms, fake news, media, news desert, endorsement, crisis, artificial intelligence, killing of journalists, freedom of the press, common good.
«Democracy Dies in Darkness». È il motto sotto la testata di The Washington Post dal 2017. Fin dalla sua fondazione, il 6 dicembre 1877 – il quotidiano statunitense non aveva mai adottato uno slogan ufficiale. La frase fu scelta nel febbraio 2017 dal direttore Marty Baron insieme al proprietario Jeff Bezos, come dichiarazione d’intenti e manifesto della missione del giornale: riaffermare il suo ruolo di difensore della democrazia. Non può passare inosservato che la decisione arrivò a poche settimane dall’insediamento di Donald Trump come 45° Presidente degli Stati Uniti, il 20 gennaio 2017.
Un segnale inequivocabile da parte della redazione e dell’editore – che, oltre a possedere The Washington Post, è anche il fondatore di Amazon – di una presa di posizione netta nei confronti dell’allora presidente Donald Trump. Già prima del suo insediamento, l’11 gennaio 2017, Trump aveva attaccato frontalmente i media, definendo la CNN «terribile» e accusandola di «diffondere fake news», rifiutandosi di rispondere alle domande di un giornalista della rete durante una conferenza stampa. Nel corso del suo primo mandato, gli attacchi si fecero sistematici: The Washington Post divenne uno dei bersagli principali, additato pubblicamente come «nemico del popolo americano», insieme a The New York Times, alla CNN, a NBC, ABC e CBS.
The Washington Post ha reagito con decisione, istituendo un team di fact-checking incaricato di monitorare sistematicamente le dichiarazioni del Presidente. Il risultato è stato un database impressionante: oltre 30 mila affermazioni false o fuorvianti attribuite a Donald Trump nei quattro anni del suo mandato, con una media quotidiana cresciuta da 6 nel 2017 a 39 nel 2020 (The Washington Post, 2021). Per tutta la durata della presidenza, il quotidiano ha mantenuto un profilo critico costante nei confronti delle politiche dell’amministrazione, pubblicando inchieste e reportage che mettevano in luce aspetti controversi: dal Russiagate alle politiche migratorie, dalla gestione della pandemia al rapporto conflittuale del presidente con le istituzioni democratiche. Una linea editoriale che ha premiato il giornale in termini di visibilità.
Così, dal 2017 al 2020 gli abbonamenti digitali The Washington Post sono passati da 1,5 a 2,5 milioni. Con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, però, la curva ha iniziato a calare costantemente, fino ad arrivare a circa 1,2 milioni di abbonati online. Particolarmente significativa è stata la perdita di 250 mila abbonati nel giro di pochi giorni, dopo che il quotidiano ha scelto di non sostenere pubblicamente Kamala Harris nella corsa alla presidenza: un primo segnale dell’arretramento del giornale rispetto alla critica sistematica alla destra statunitense. Si è trattato delle prime elezioni dal 1976 – con l’unica eccezione del 1988 – in cui The Washington Post ha deciso di non fare endorsement a favore dei candidati democratici.
La scelta di non pubblicare l’editoriale di sostegno a Kamala Harris — già pronto — è stata presa direttamente dal proprietario di The Washington Post, Jeff Bezos. Secondo fonti interne, sarebbe stato proprio Bezos — che è anche fondatore e presidente esecutivo di Amazon — a bloccare l’endorsement predisposto dall’editorial board a favore della candidata democratica. Il CEO del giornale, Will Lewis, ha motivato la decisione parlando di un «ritorno alle origini», sottolineando che il compito del Post è quello di «aiutare i lettori a farsi una propria opinione, senza influenzarli con raccomandazioni presidenziali» (Marco Venturini, 2024). Bezos, figura editoriale che in teoria non dovrebbe interferire direttamente con la linea del giornale, ha giustificato la scelta affermando che «gli endorsement creano una percezione di parzialità e minano la credibilità del giornale».
Una riflessione interessante, perché — come vedremo — una logica simile sembra essere adottata anche dall’amministrazione Trump. Le critiche alla decisione non tardarono ad arrivare. Tra le più dure, quella dell’ex direttore di The Washington Post, Marty Baron, che scrisse: «La decisione è una codardia, con la democrazia come vittima. Donald Trump vedrà questo come un invito a intimidire ulteriormente il proprietario Jeff Bezos (e altri). Una disturbante mancanza di coraggio in un’istituzione famosa per il suo coraggio» (Anna Beets, 2025). Secondo analisti e fonti interne, la scelta di Bezos sarebbe stata motivata dal timore di possibili ritorsioni da parte di Trump, in caso di vittoria alle presidenziali, che avrebbero potuto danneggiare gli interessi di Amazon. Altri, più raramente, hanno sostenuto che il fondatore di Amazon aveva voluto rafforzare la reputazione di indipendenza del quotidiano, anche a costo di perdere lettori e fiducia nell’area democratica. Una tesi, quest’ultima, smentita dai fatti il 20 gennaio 2025, quando, tra i vertici dell’high-tech presenti alla cerimonia d’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, è comparso anche Jeff Bezos. Pochi giorni prima, lo stesso Bezos aveva annunciato una stretta sui contenuti della opinion page di The Washington Post, limitandoli ai soli contributi che sostengono «libertà personali e libero mercato», escludendo esplicitamente visioni dissenzienti (Alex Isenstadt, 2025).
La scelta è stata apprezzata da Donald Trump e dal suo staff, che hanno ulteriormente messo in dubbio la credibilità di The Washington Post, facendo percepire il giornale più come uno strumento degli interessi del proprietario che non come un difensore del pubblico e della democrazia. La perdita di abbonati, le dimissioni di giornalisti e le critiche, sia interne sia esterne, hanno messo in luce una profonda crisi di fiducia, con pesanti conseguenze sulla reputazione e sull’influenza del quotidiano. Così, il motto «Democracy Dies in Darkness» suona sempre più come una nota stonata nel nuovo assetto, che sembra ormai avviato verso l’oscurità.
Influenze economiche
La vicenda del declino di The Washington Post di fronte a Donald Trump assume un valore ancora più emblematico se si considera che questo è l’unico giornale degli Stati Uniti ad aver contribuito a far dimettere un Presidente in carica: Richard Nixon, il 9 agosto 1974. In un duello all’ultimo sangue con la Casa Bianca, il Post difese con tenacia i suoi giornalisti Bob Woodward e Carl Bernstein, pubblicando integralmente tutte le parti dell’inchiesta, nonostante le intimidazioni e le pressioni esercitate dall’amministrazione Nixon. Sulla storia di questa celebre inchiesta giornalistica, nel 1976 Alan Pakula ha diretto il film All the President’s Men (Tutti gli uomini del Presidente), vincitore di 4 Oscar, che ricostruisce il lavoro dei due giornalisti, interpretati da Robert Redford e da Dustin Hoffman, e lo scandalo Watergate. Questo ci conduce al cuore di un tema cruciale per la libertà d’informazione: le influenze economiche e politiche sugli strumenti mediatici. L’editoria d’informazione — che include giornali (Medill School of Journalism at Northwestern University, 2024), sia online sia cartacei, televisioni e radio — è un’impresa imprenditoriale del tutto particolare. Per garantire il suo ruolo sociale ha
bisogno di una doppia condizione apparentemente contraddittoria: indipendenza, per assicurare credibilità ai lettori, e al contempo dipendenza economica, per sostenersi attraverso flussi di ricavi come la pubblicità.
Negli ultimi decenni, la quota degli incassi pubblicitari nel settore dell’informazione statunitense è sempre stata predominante, passando da un rapporto di circa 80% pubblicità e 20% altre entrate a un 69% contro 31% nel 2014 (Jesse Holcomb, Amy Mitchell, 2014). Questa variazione va però interpretata nel contesto più ampio dell’economia dei media. Presa isolatamente, potrebbe sembrare un segnale positivo per la libertà d’informazione, ma in realtà indica tutt’altro. Il settore dell’informazione negli Stati Uniti è infatti passato da un fatturato complessivo di 80 miliardi di dollari nel 2005 a circa 30 miliardi nel 2023 e gli introiti pubblicitari sono crollati da 50 a soli 5 miliardi nonostante l’investimento pubblicitario complessivo — che copre molti altri settori oltre all’informazione — sia aumentato, passando da 330 miliardi di dollari nel 2005 a 450 miliardi nel 2023, ben al di sopra del tasso d’inflazione.
La pubblicità che un tempo finanziava i mezzi d’informazione è migrata verso i social network e le piattaforme di streaming. Anche quella che ancora arriva alle versioni digitali dei giornali viene in gran parte assorbita dagli intermediari digitali, che si appropriano di una fetta consistente degli introiti. In sintesi, il fatturato degli organi d’informazione negli Stati Uniti è passato da 80 miliardi di dollari nel 2005 a circa 30 miliardi nel 2023. Si tratta di un fenomeno globale, con percentuali simili in tutto il mondo, che minaccia alla radice la sopravvivenza del settore: il calo delle risorse economiche. Ma questo non è l’unico problema. Parallelamente alla diminuzione dei flussi di cassa, si registra un calo della domanda di informazione professionale. Negli ultimi vent’anni, negli Stati Uniti, il numero dei quotidiani è passato da 8.891 a circa 6 mila. Solo negli ultimi due anni sono stati persi oltre 7 mila posti di lavoro nel settore. Un fenomeno che ha trasformato 208 contee in veri e propri “news desert”, prive cioè di mezzi di informazione locali, che rappresentano invece la base dell’informazione democratica. Altre 1.563 contee ne possiedono solo uno, su un totale di 3.141. Nel complesso, si stima che 55 milioni di americani abbiano accesso limitato o nullo all’informazione locale.
La realtà è che la richiesta d’informazione non è diminuita, ma si è spostata verso altre fonti, disintermediate, non prodotte a livello professionale e quindi più suscettibili all’influenza del marketing, dell’economia e della finanza. È l’informazione via social a trasformare la distribuzione, la diffusione e, soprattutto, la fruizione delle notizie. Tutto ciò avviene però a spese della libertà d’informazione. L’informazione tramite social, che sta conquistando una fetta sempre più ampia della “torta temporale” che ognuno di noi dedica alla “conoscenza non obbligata” — cioè informazione, cultura e intrattenimento — è in crescita e si pone in diretta competizione con l’informazione consolidata.
Non entro nel merito della qualità dell’informazione tramite social, né nelle sue modalità di fruizione o su come queste ultime ne mutino la percezione; mi limito ad affermare che non si tratta di libera informazione che possa in alcun modo essere considerata “bene comune” sebbene potrebbe sembrare “prodotta dal basso”. Si tratta, infatti, di unità informative gestite nella proposta e nella fruizione da algoritmi gestiti in modalità criptiche e oscure che “offrono” e “selezionano” contenuti basandosi su dati raccolti dagli utenti, spesso in modo inconsapevole e soprattutto tenendo conto delle esigenze degli inserzionisti, che possono essere operatori commerciali, economici o politici. Proprio in base a queste esigenze, i social hanno creato le cosiddette “bolle d’interesse”, nelle quali gli algoritmi operano una selezione dell’informazione calibrata anche sugli interessi degli utenti. Un’offerta che, solo in apparenza soddisfa le richieste individuali, in realtà profila l’utente ai massimi livelli per finalità “altre” — ben lontane dalla libertà d’informazione. Va ricordato che la libertà d’informazione non riguarda solo la produzione e distribuzione dei contenuti — ossia l’offerta — ma anche il “consumo”, cioè la domanda.
Il sistema dell’informazione via social non si contrappone a quello tradizionale solo per l’erosione della “torta temporale” che ciascuno di noi dedica all’informazione, ma anche sul piano economico e della fruizione. L’informazione social, infatti, è percepita dagli utenti come gratuita, si diffonde in modo capillare ed efficiente e offre livelli di usabilità con cui quella tradizionale fatica a competere. Si tratta di una vera e propria battaglia nell’ambito dell’economia dell’attenzione (Jill Abramson, 2021). L’informazione tradizionale ha compreso troppo tardi l’importanza di gestire direttamente questa economia e, spesso, ha reagito in modo da peggiorare la situazione. In particolare, molti giornalisti, soprattutto in Italia, invece di studiare il fenomeno dei social — dal quale si potrebbe imparare molto, considerando che queste piattaforme monitorano i comportamenti degli utenti con un livello di dettaglio superiore a quello dei siti web tradizionali — hanno preferito demonizzare le piattaforme senza comprenderle appieno. Nel frattempo, gli editori hanno cercato invano di fare cassa attraverso i social. Entrambi si sono così trovati sconfitti in una battaglia difensiva, spesso senza capire nemmeno da dove provenisse l’attacco, ignorando il reale valore della libertà d’informazione, invocata a sproposito da giornalisti in difficoltà che non conoscono né il nemico né il vero “campo di battaglia”. Per i nuovi attori tecnologici, invece, la libertà d’informazione non è un valore o un diritto, ma una merce che può anche non esserci o interessare solo una nicchia sempre più ristretta all’interno dell’economia dell’attenzione.
Uscire dalla crisi
Sono pochi i soggetti dell’informazione che sono riusciti a risalire la china e a posizionarsi in una buona posizione — per ora, perché l’instabilità resta il denominatore comune dei tempi attuali. The New York Times, per esempio, è passato da un fatturato di 1,7 miliardi di dollari nel 2020 a 2,56 miliardi nel 2024, con previsioni di crescita anche per il 2025. L’utile netto è quasi triplicato, passando dai 100 milioni del 2020 ai 294 milioni del 2024. Questa crescita è il risultato di un investimento deciso nel digitale, dopo una partenza falsa intorno al 2010. Il quotidiano statunitense ha scelto di non affidarsi alle scorciatoie delle piattaforme digitali, ma ha costruito una propria piattaforma proprietaria, con algoritmi simili a quelli che governano la diffusione delle notizie sui social, mettendo al
centro l’attenzione verso i lettori e non gli inserzionisti. Una strategia che ha pagato. A fine 2024, The New York Times contava 11,43 milioni di abbonati, di cui 10,82 milioni digitali, con un trend in crescita: solo nell’ultimo quadrimestre del 2024 si sono aggiunti 350 mila nuovi abbonati digitali. Sul fronte della libertà d’informazione, il quotidiano statunitense può contare su basi economiche solide: nel 2024 il 69% del fatturato deriva dagli abbonamenti, il 13,5% dalla pubblicità e il restante 17,5% da altre fonti, come prodotti digitali e licenze. Tradotto: per The New York Times sono i lettori a essere “the king”, senza alcuna necessità di piegarsi a logiche commerciali per raggiungere gli obiettivi di fatturato. Una solida base per difendere anche i valori, evidentemente apprezzati da un pubblico in costante crescita.
Una traiettoria simile, seppur con maggiori difficoltà, è stata percorsa negli stessi anni anche dal The Guardian britannico, che ha scelto un modello di business diverso e, se si vuole, più “pericoloso”: mettere al centro la qualità e la gratuità del prodotto digitale. Nel 2020 The Guardian ha registrato un fatturato di 320 milioni di dollari, salito a 335,3 milioni nel 2022, con una stima dell’editore che lo proietta a 352 milioni nel 2025. Tuttavia, sul fronte degli utili, l’andamento è stato altalenante: da un utile di 9 milioni di dollari nel 2022 si è passati a una perdita di 46 milioni, che dovrebbe ridursi a 32 milioni nel 2025. Una situazione che è il risultato di scelte editoriali precise. Ecco cosa appare spesso sulle pagine digitali del quotidiano britannico: «Abbiamo deciso di offrire i nostri contenuti in maniera assolutamente gratuita perché siamo convinti che anche le persone a basso reddito debbano poter accedere all’informazione di qualità» e ancora: «Abbiamo deciso di non accettare inserzioni pubblicitarie che hanno il proprio core business nelle fonti fossili perché crediamo nei cambiamenti climatici e vogliamo che i nostri lettori siano certi della nostra indipendenza». Si tratta quindi di un caso non paragonabile a quello di The New York Times, per via delle profonde differenze di strategia, ma una cosa li accomuna: il digitale. Anche per The Guardian, infatti, la maggior parte delle entrate — il 70% — proviene da canali digitali. Il 31% del fatturato complessivo deriva direttamente dai lettori digitali, attraverso donazioni volontarie, membership o abbonamenti non obbligatori. La pubblicità resta la principale voce di fatturato, ma una base di 1,4 miliardi di utenti unici all’anno, ossia lettori, garantisce al quotidiano un ampio margine di indipendenza giornalistica, tale da poter selezionare gli inserzionisti anche su basi etiche.
Proprietà centrale
L’assetto proprietario gioca un ruolo di assoluta importanza sul fronte dell’indipendenza giornalistica e della libertà d’informazione. The New York Times, ad esempio, è una società quotata in Borsa — condizione che potrebbe teoricamente esporla agli appetiti di grandi gruppi industriali interessati alla sua enorme capacità di influenza, come nel caso di Jeff Bezos, che nel 2013 ha acquistato The Washington Post investendo 250 milioni di
dollari del suo patrimonio personale. Tuttavia, la formula adottata dalla famiglia Ochs-Sulzberger, discendente di Adolph Ochs (che acquistò il giornale nel 1896), ha consentito
a The New York Times di quotarsi in Borsa nel 1997 senza compromettere la propria indipendenza editoriale. Il pacchetto azionario della testata è infatti suddiviso in due classi: le azioni di Classe A, ordinarie, sono quotate pubblicamente e acquistabili da chiunque, ma offrono diritti di voto limitati, permettendo agli azionisti di eleggere solo una parte dei membri del consiglio di amministrazione. Le azioni di Classe B, invece, dotate di diritti di voto molto più ampi, sono detenute quasi interamente dalla famiglia Ochs-Sulzberger attraverso il “1997 Trust”, che controlla oltre il 90% di questa categoria. Questa struttura duale consente alla famiglia di mantenere la maggioranza nel consiglio di amministrazione e di conservare il controllo editoriale e strategico dell’azienda, garantendo così un equilibrio tra finanziamento attraverso il mercato e tutela dell’indipendenza giornalistica.
Offre ulteriori garanzie, sul fronte dell’indipendenza editoriale, anche l’assetto proprietario del The Guardian, fondato su un sistema pensato per tutelare l’autonomia giornalistica e finanziaria del quotidiano nel lungo periodo, evitando che possa finire sotto il controllo di singoli individui o di interessi commerciali estranei alla sua missione. La testata è pubblicata da Guardian Media Group (GMG), una società per azioni (public limited company) che non è quotata in Borsa. GMG è interamente di proprietà della Scott Trust Limited, una fondazione senza scopo di lucro istituita nel 1936 con l’obiettivo esplicito di: «assicurare l’indipendenza finanziaria ed editoriale di The Guardian in perpetuo e salvaguardarne la libertà giornalistica e i valori liberali, al riparo da interferenze politiche o commerciali». Tutti i profitti generati vengono reinvestiti nel giornalismo, e non distribuiti a proprietari o azionisti, in coerenza con la missione della Scott Trust Limited, che è quella di «preservare la natura e il carattere del The Guardian e la sua indipendenza editoriale».
Libertà economica
Gli assetti economici e proprietari dei media sono elementi fondamentali nella difesa della libertà d’informazione, che oggi, tuttavia, è messa sotto pressione anche dal fronte politico. Una delle manifestazioni più evidenti di questo attacco si trova nel Project 2025, un'iniziativa politica ideata e coordinata dalla Heritage Foundation, think tank conservatore statunitense, che ha coinvolto oltre 400 esponenti del mondo conservatore e più di 100 ex funzionari della prima amministrazione Trump nella redazione di un documento di oltre 900 pagine (Kevin D. Roberts, Paul Dans, Steven Groves ed alt.,2023). L’obiettivo del progetto è fornire una roadmap estremamente dettagliata per l’amministrazione repubblicana, con l’intento di ridisegnare la struttura del governo federale, rafforzare il potere esecutivo e introdurre politiche strutturali e di lungo periodo di stampo conservatore in ambiti chiave come economia, immigrazione, sanità, diritti civili e, significativamente, i media. Proprio su questo fronte, il progetto prevede il taglio totale dei fondi federali alla Corporation for Public Broadcasting (CPB), ente non-profit
indipendente creato nel 1967 dal Public Broadcasting Act, firmato dal presidente Lyndon B. Johnson, con la missione di promuovere e sostenere l’informazione pubblica — radio, televisione e contenuti digitali — in particolare nelle aree meno servite dai media
commerciali. Sebbene i fondi federali rappresentino “solo” il 15% del bilancio complessivo della CPB, la loro cancellazione potrebbe determinare la chiusura di numerose emittenti locali, soprattutto nelle aree rurali, già spesso colpite dalla scomparsa dei quotidiani cartacei, lasciando così intere comunità prive di accesso all’informazione locale. Il piano prevede inoltre la revoca dello status di “non commerciale” per le radio pubbliche, che verrebbero costrette a chiudere o a cedere le frequenze a emittenti di carattere religioso. A completare il quadro, si propone una riforma delle regole della Federal Communications Commission (FCC) per favorire una maggiore concentrazione del mercato dei media, agevolando la trasformazione dei notiziari locali in contenuti nazionali e riducendo la diversità delle fonti di informazione (Ella Edwards, 2025).
Ma il nodo più critico — anche perché in fase avanzata di attuazione concreta — è la proposta del Project 2025 di vietare ai social media di rimuovere contenuti politici, anche quando questi siano riconosciuti come disinformazione, e di limitare drasticamente i poteri della Federal Election Commission nel contrastare la disinformazione elettorale. Un segnale chiaro in questa direzione è arrivato dalle dichiarazioni di J.D. Vance, vicepresidente degli Stati Uniti, alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza, il 14 febbraio 2025. In quell’occasione, Vance ha apertamente criticato le politiche europee di moderazione dei contenuti online, definendole come «censura digitale», sostenendo che la minaccia più grande per la democrazia non viene dall’esterno (Russia, Cina), ma dall’interno, quando si escludono le voci del popolo dal dibattito pubblico. Nel frattempo, alla Casa Bianca, Donald Trump escludeva i giornalisti dell’Associated Press dai briefing presidenziali per motivazioni pretestuose, come l’utilizzo del termine “Golfo del Messico” invece di “Golfo d’America”, ritenuto inappropriato dalla nuova amministrazione. Contemporaneamente, Mark Zuckerberg — presente in prima fila alla cerimonia di insediamento di Trump nel 2025 — aveva già modificato le politiche di moderazione dei contenuti su Meta, invocando la necessità di “promuovere una maggiore libertà di espressione”. Un cambio di rotta perfettamente allineato alle richieste della Heritage Foundation, sostenute pubblicamente da Vance. Allo stesso modo, Elon Musk — anch’egli presente all’insediamento — ha immediatamente adeguato le policy di X, l’ex Twitter, nella stessa direzione, confermando un completo allineamento delle principali piattaforme social agli indirizzi politici promossi dal Project 2025.
Il Primo Emendamento
La questione della cosiddetta “maggiore libertà d’espressione”, così come viene oggi invocata dagli ambienti politici di destra statunitensi, merita un’analisi approfondita. Il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti — approvato dal Congresso il 25 settembre 1789 e ratificato il 15 dicembre 1791 — recita testualmente: «Il Congresso
non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di una qualsiasi religione o per proibirne il libero culto; o per limitare la libertà di parola o di stampa; o il diritto che hanno i cittadini di riunirsi in forma pacifica e di inoltrare petizioni al governo per la riparazione di torti subiti». In sole tre righe, questo testo tutela cinque libertà fondamentali: libertà di religione, libertà di parola, libertà di stampa, diritto di riunirsi pacificamente, diritto di presentare petizioni al governo. Queste libertà, considerate pilastri della democrazia americana, sono finalizzate a proteggere i cittadini da interferenze da parte del governo federale. Tuttavia, è importante sottolineare che il Primo Emendamento limita esclusivamente le restrizioni statali, non quelle imposte da attori privati, come piattaforme digitali o aziende. La Corte Suprema ha chiarito in più occasioni che il diritto a ricevere informazioni è parte integrante della libertà d’espressione. Una sentenza particolarmente significativa in questo senso è Board of Education v. Pico, 457 U.S. 853 (1982), in cui la Corte ha stabilito che: «Il diritto a ricevere idee è un presupposto necessario per l'esercizio significativo, da parte del destinatario, dei propri diritti di parola, di stampa e di libertà politica». Nel caso specifico, si trattava di valutare se un consiglio scolastico avesse violato la Costituzione rimuovendo alcuni libri da una biblioteca scolastica. La Corte riconobbe che anche l'accesso a idee e informazioni rientra nel perimetro costituzionale delle libertà garantite.
Facebook e gli altri social media, in quanto entità private, hanno il diritto di regolamentare o limitare i contenuti ospitati sulle proprie piattaforme, inclusi quelli legati alla libertà di parola. Il salto di qualità compiuto dalla Heritage Foundation prima, e da J.D. Vance poi, consiste proprio nel tentativo di piegare il Primo Emendamento — fondamento stesso della democrazia statunitense — alle esigenze della propaganda politica della destra conservatrice consentendo la diffusione di fake news politiche, soprattutto attraverso i social network. Questa strategia rappresenta un tassello cruciale in un disegno politico-organico che punta a consolidare l’egemonia comunicativa della destra conservatrice. Non a caso, il vicepresidente Vance ha sostenuto con forza questa visione anche in contesti internazionali ufficiali, presentandola come una difesa della democrazia, mentre in realtà ne compromette i fondamenti informativi. Gli altri elementi di questo disegno li abbiamo già visti: la delegittimazione sistematica dei media tradizionali; il definanziamento di quelli pubblici; l'acquisto o la normalizzazione di editori “non puri”. Un esempio emblematico è quello di Jeff Bezos, che secondo alcuni analisti avrebbe di fatto rinunciato a difendere pienamente l’indipendenza del The Washington Post per evitare possibili ritorsioni governative nei confronti del suo principale business: Amazon.
In questo contesto risulta particolarmente significativo il caso della chiusura di Voice of America (VOA), avvenuta tramite un ordine esecutivo che ha imposto la drastica riduzione delle sue attività e il taglio dei finanziamenti, esteso anche ad altre agenzie mediatiche statali come Radio Free Europe e Radio Free Asia. Nel marzo 2025, quasi tutti i 1.300 dipendenti di VOA sono stati posti in congedo amministrativo e i contratti con i fornitori sono stati interrotti, lasciando l’emittente inattiva per la prima volta dalla sua fondazione nel 1942. La Casa Bianca ha giustificato la decisione come parte di una strategia per ridurre il deficit federale e contenere la diffusione di contenuti ritenuti “ostili”. Donald Trump e i suoi collaboratori hanno accusato Voice of America di diffondere “propaganda radicale” e di essere “anti-Trump”, motivando la chiusura come un passo necessario per “allineare i media governativi all’agenda presidenziale”. Ma oltre alla volontà esplicita di trasformare i media pubblici al ruolo di “megafoni governativi”, la vicenda VOA rivela un disinteresse più profondo: quello verso qualsiasi forma di informazione professionalmente intermediata, soprattutto se rivolta al pubblico internazionale. L’obiettivo non è solo quello di silenziare voci critiche, ma di sostituire del tutto il giornalismo tradizionale con una rete di “sorgenti amiche” — attori comunicativi disintermediati, fedeli alla narrativa trumpiana — capaci di raggiungere, tramite i social media, quelle aree mediaticamente desertificate degli Stati Uniti che coincidono in gran parte con i bacini elettorali repubblicani. In questo secondo mandato, Donald Trump ha infatti perfezionato un sistema di comunicazione politica che, sebbene caotico in apparenza, risulta molto più raffinato e capillare di quello adottato durante la sua prima presidenza.
Laboratorio Israele
Se gli Stati Uniti rappresentano un laboratorio avanzato dove sono stati progettati e messi in atto strumenti sistematici di erosione della libertà d’informazione — strumenti che operano su piani temporali differenti, dal breve al lungo periodo, con l’obiettivo di consolidare un potere di tipo autocratico — l’altro grande scenario in cui si assiste a una dinamica simile, seppur con caratteristiche profondamente diverse, è Israele. In questo caso, si tratta di una gestione dell’informazione strettamente connessa a una situazione di crisi permanente. La crisi permanente è quella del conflitto israelo-palestinese che si trascina da decenni e rappresenta, oggi, il culmine della trasformazione radicale del giornalismo in tempi di guerra, che affonda le sue radici in un momento storico preciso: la notte del 15 gennaio 1991, con l’inizio dell’operazione Desert Storm, l’offensiva internazionale per liberare il Kuwait dall’occupazione irachena guidata da Saddam Hussein.
Durante l’offensiva di terra della Prima Guerra del Golfo, gli Stati Uniti introdussero per la prima volta il sistema dei cosiddetti “pool” giornalistici: piccoli gruppi selezionati di reporter autorizzati a seguire le truppe sul campo, sempre sotto stretto controllo militare. L’accesso era condizionato da una serie di vincoli stringenti: i giornalisti erano scortati dalle forze armate, i loro spostamenti limitati e i reportage sottoposti a revisione preventiva da parte dell’autorità militare prima della pubblicazione limitando la libertà di movimenti e di indagine. Parallelamente, gran parte delle informazioni diffuse proveniva dai briefing ufficiali dell’esercito, nei quali i portavoce restituivano una narrazione fortemente ottimistica e filtrata del conflitto. I media, in mancanza di accesso diretto e indipendente ai fronti, si trovavano spesso nella condizione di dover trasmettere notizie non verificate, basate esclusivamente su fonti istituzionali, riducendo drasticamente le possibilità di indagine autonoma e di contraddittorio. Questo sistema inaugurò una nuova stagione dell’informazione di guerra, caratterizzata da una copertura acritica e omologata,
in cui molti organi di stampa finirono per identificarsi con le forze armate alleate, contribuendo a minimizzare — se non a rimuovere del tutto — le dimensioni umane, civili e sociali del conflitto. A rompere questo schema furono pochi giornalisti non embedded, tra cui Peter Arnett con il suo staff della CNN, composto da Bernard Shaw e John Holliman e Stefano Chiarini, corrispondente de Il manifesto.
Durante la Prima Guerra del Golfo si compie definitivamente la trasformazione della
strategia di gestione dell’informazione bellica da parte degli Stati Uniti. Un processo iniziato ben prima, con una data simbolica: il 30 aprile 1975, giorno dell’evacuazione dell’ambasciata americana a Saigon, che segnò la fine della guerra del Vietnam. Il ruolo dei media nella guerra del Vietnam fu centrale e, in molti aspetti, senza precedenti nella storia del giornalismo di guerra. Per la prima volta un conflitto veniva raccontato quasi in tempo reale: le immagini trasmesse dalla televisione, i reportage fotografici e i servizi giornalistici raggiungevano direttamente le case degli americani, modificando radicalmente la percezione pubblica della guerra. La presenza massiccia di giornalisti sostanzialmente autonomi dalle forze armate e grazie alle nuove tecnologie, più leggere e portatili, c’era una libertà di movimento pressoché inedita potendo agire in larga misura autonomamente rispetto ai comandi militari. Il risultato fu una narrazione cruda e senza filtri del conflitto: massacri, fallimenti strategici, violenze sui civili divennero visibili, tangibili. La distanza tra le dichiarazioni ufficiali del governo e le immagini reali della guerra alimentò un’ondata crescente di scetticismo, dissenso e protesta popolare. Per le forze armate statunitensi fu un disastro comunicativo che non si sarebbero mai più permessi di replicare. Sedici anni dopo, nella Prima Guerra del Golfo non ci fu alcuna “fuga” di informazioni: fu uno dei primi conflitti raccontato in diretta, visto l’uso massiccio della comunicazione digitale via satellite, ma anche il primo nel quale la testimonianza diretta non era ammessa. Ed è stato così anche per la Seconda Guerra del Golfo, per l’invasione dell’Iraq e per la guerra in Afghanistan: conflitti la cui copertura mediatica è stata fortemente ridotta e controllata. In questo contesto si inserisce la vicenda di Julian Assange, fondatore nel 2006 di WikiLeaks, che è stato oggetto di una lunga e sistematica persecuzione giudiziaria da parte degli Stati Uniti. Le autorità americane lo accusano di aver diffuso un video classificato dell'esercito USA che documenta un attacco aereo a Baghdad nel 2007, durante il quale furono uccisi alcuni civili e due giornalisti della Reuters. Oltre a questo, WikiLeaks ha pubblicato oltre 91 mila documenti militari riservati sulla guerra in Afghanistan (2004–2009), contenenti informazioni su vittime civili, operazioni segrete e rapporti con la CIA, nonché 400 mila report relativi alla guerra in Iraq, che rivelano episodi di torture sistematiche, uccisioni extragiudiziali e omicidi di civili da parte delle forze irachene e della coalizione a guida statunitense. Va sottolineato che, nonostante la gravità delle accuse e il rischio concreto di una condanna fino a 175 anni di carcere, Assange non ha sottratto personalmente alcun documento riservato: si è limitato a diffondere materiali ricevuti da fonti protette, dopo averne verificato l’autenticità.
Attacco all’informazione
Questi sono i presupposti che ci portano in Israele, dove, a partire dal 7 ottobre 2023, il governo e le forze armate israeliane hanno messo in atto un’intensa attività di filtraggio sistematico dell’informazione, modificando radicalmente il panorama mediatico del Paese. Ne è derivata una profonda trasformazione, segnata da una crescente militarizzazione della comunicazione, da un uso esteso della censura e da un clima di intimidazione nei confronti della stampa più critica. Solo nel 2024, la censura militare
israeliana ha vietato la pubblicazione di 1.635 articoli e ha parzialmente censurato altri 6.265, con una media di circa 21 interventi al giorno — più del doppio rispetto ai picchi precedenti (Haggai Matar, 2025). Gli articoli colpiti riguardavano soprattutto l’uso di armamenti da parte dell’esercito, fughe di notizie dal gabinetto di sicurezza e informazioni sui prigionieri detenuti da Hamas. Inoltre, secondo la legge, i media non possono segnalare se un articolo è stato censurato, il che rende gran parte dell’attività censoriale invisibile al pubblico, con ovvie ripercussioni sulla formazione dell’opinione pubblica. Nell’aprile 2024, il Parlamento israeliano ha approvato una legge che consente al governo di chiudere temporaneamente e confiscare le attrezzature dei media stranieri ritenuti una minaccia alla sicurezza nazionale. Immediatamente dopo l’approvazione della legge, è stata colpita l’emittente televisiva araba Al Jazeera. Già nell’ottobre 2023, inoltre, era stato vietato l’accesso alla Striscia di Gaza ai media internazionali e introdotta la possibilità di bloccare qualsiasi testata considerata pericolosa per la sicurezza: misura applicata per la prima volta contro il canale televisivo libanese Al-Mayadeen.
Il dato più impressionante è quello relativo all’uccisione dei giornalisti. Secondo l’ultimo aggiornamento del Committee to Protect Journalists (CPJ), organizzazione non governativa, indipendente e senza scopo di lucro con sede a New York e fondata nel 1981, dal 7 ottobre 2023 al 14 giugno 2025 sono stati uccisi 185 giornalisti: 177 palestinesi, 2 israeliani e 6 libanesi (CPJ, 2025). La maggior parte di queste uccisioni, secondo il CPJ, è attribuibile alle forze armate israeliane. Israele, infatti, è stato ritenuto responsabile di oltre due terzi delle morti di giornalisti nel 2024, soprattutto nella Striscia di Gaza. In almeno dieci casi, il CPJ ha accertato che i giornalisti sono stati deliberatamente presi di mira; per altri venti casi sono ancora in corso indagini per stabilire se le uccisioni siano state intenzionali o meno. A questi si aggiungono oltre 100 giornalisti feriti, 86 arrestati e 2 ancora dispersi. Sono stati documentati episodi di aggressioni, detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate e torture, subite da giornalisti sia palestinesi che israeliani. Molti reporter, locali e internazionali, hanno denunciato controlli, minacce e interrogatori discriminatori da parte di soldati e agenti di polizia, in particolare quando documentavano violenze contro la popolazione palestinese. Non sono rari nemmeno i casi di giornalisti israeliani che dichiarano di avere paura a esprimere opinioni critiche o dissenzienti, per timore di ritorsioni da parte delle autorità, dei coloni o di ampi settori della società. Testate come Haaretz, note per l’indipendenza editoriale e l’approccio critico verso il governo, sono state oggetto di boicottaggi e campagne diffamatorie. E non si tratta di un effetto “post 7 ottobre”: la repressione nei confronti del giornalismo palestinese è una pratica consolidata da parte dell’esercito israeliano. Il caso simbolico è quello di Shireen Abu
Akleh, giornalista palestinese-americana e corrispondente di Al Jazeera, uccisa l’11 maggio 2022 a Jenin, in Cisgiordania, durante un’operazione militare. Al momento della sparatoria, Abu Akleh stava documentando un raid dell’esercito israeliano insieme ad altri colleghi, tutti chiaramente identificabili come giornalisti grazie ai giubbotti antiproiettile e ai caschi con la scritta “Press”. Colpita da un proiettile alla testa, indagini indipendenti hanno stabilito che il colpo proveniva da un soldato israeliano e testate come la CNN hanno verificato che non vi erano combattimenti o militanti palestinesi nelle vicinanze al momento della sparatoria. L’esercito israeliano inizialmente ha negato qualsiasi responsabilità, salvo poi ammettere che “vi era un’alta probabilità” che la giornalista fosse stata colpita accidentalmente, rifiutandosi però di aprire un’indagine penale. Nel 2025, il documentario Who Killed Shireen? ha identificato il soldato che avrebbe sparato: si tratterebbe di Alon Scagio, ventenne, appartenente all’unità d’élite Duvdevan, in servizio proprio a Jenin nel 2022. Il fucile utilizzato, secondo l’inchiesta, era un Ruger M40 di fabbricazione statunitense. Le informazioni sono state confermate da due commilitoni intervistati dalla squadra investigativa guidata da Dion Nissenbaum, ex corrispondente di The Wall Street Journal, e Fatima AbdulKarim, collaboratrice di The New York Times. Non è stato possibile indagare ulteriormente sul caso, poiché Alon Scagio è morto nel 2024 durante un’operazione militare proprio a Jenin (Valigia Blu, 2025).
Il funerale di Shireen Abu Akleh, svoltosi a Gerusalemme, è stato segnato da ulteriori violenze: le forze di sicurezza israeliane hanno caricato i partecipanti che trasportavano la bara, generando scene di forte tensione. A ciò si è aggiunta un’ulteriore copertura politica di alto livello a favore di Israele, da parte dell’amministrazione statunitense guidata dal presidente Joe Biden. Pur avendo formalmente chiesto a Israele di condurre un’indagine sull’accaduto, gli Stati Uniti si sono poi detti soddisfatti delle conclusioni fornite da Tel Aviv, rinunciando così a promuovere un’indagine indipendente, nonostante la giornalista fosse anche cittadina statunitense opponendosi inoltre al coinvolgimento della Corte Penale Internazionale, che – nonostante le richieste pervenute – non ha ancora avviato un’indagine ufficiale. Va sottolineato che, secondo il diritto internazionale umanitario e i principali trattati che regolano la condotta nei conflitti armati, come le Convenzioni di Ginevra e lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, l’uccisione intenzionale di un giornalista che non prende parte attiva ai combattimenti costituisce un crimine di guerra.
Gli effetti di tutto ciò si traducono in una crescente sfiducia da parte dei cittadini nei confronti dei media, che non sono in grado di sapere né far sapere al pubblico quali notizie siano state censurate o modificate. Questo mina profondamente la credibilità dell’informazione e, insieme alla mancanza di voci critiche e alla diffusione di una narrazione univoca, ha alimentato una forte polarizzazione: da un lato chi sostiene incondizionatamente il governo, dall’altro chi ne è critico ma non ha accesso a fonti alternative. Tale contesto contribuisce con ogni probabilità ai risultati del sondaggio condotto dal Geocartography Knowledge Group per la Pennsylvania State University e pubblicato dal quotidiano israeliano Haaretz nel marzo 2025 (Shay Hazkani, Tamir Sorek, 2025). Secondo i dati, l’82% degli israeliani di religione ebraica sostiene l’espulsione forzata dei palestinesi dalla Striscia di Gaza, il 56% è favorevole anche all’espulsione dei cittadini palestinesi di Israele dalle loro terre e il 47% si dichiara d’accordo con l’idea che l’esercito israeliano dovrebbe comportarsi come gli Israeliti nella conquista biblica di Gerico, cioè uccidendo tutti gli abitanti di una città nemica. Sempre riguardo a Gaza, il 53% ritiene che Israele non dovrebbe permettere l’ingresso di aiuti umanitari, mentre il 44% appoggia l’operazione militare in corso e il 40% si dichiara contrario. Tutto ciò ha conseguenze anche sull’informazione internazionale: i media occidentali, non avendo accesso diretto ai fatti sul campo, sono costretti ad attingere a fonti locali spesso sottoposte a censura o schierate, con il risultato di una copertura parziale e distorta. Ma c’è anche un aspetto ancora più grave: sono pochissimi i media internazionali che hanno dato spazio alle denunce di censura e repressione della stampa in Israele, nonostante si tratti di provvedimenti formalmente ratificati dalla Knesset, il parlamento israeliano. Vi è, inoltre, una sorta di “timidezza” nel raccontare certi fatti. È quasi totalmente ignorato, ad esempio, l’eccellente lavoro svolto da +972 Magazine e Local Call, (Yuval Abraham, 2024) una redazione investigativa composta da giornalisti israeliani e palestinesi, che ha pubblicato approfondite inchieste sulle tattiche militari israeliane, inclusa una rara indagine sull’uso dell’intelligenza artificiale da parte dell’esercito per selezionare gli obiettivi a Gaza. Un algoritmo che è stato “addestrato” a ignorare il numero delle vittime collaterali, e che potrebbe essere una delle principali cause dell’altissimo numero di morti civili – giornalisti compresi – nei bombardamenti israeliani. «About media. Mission Accomplished», potrebbe affermare il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, parafrasando ironicamente ciò che disse il Presidente statunitense George W. Bush sulla portaerei USA Abraham Lincoln, al largo della costa della California, il 1° maggio 2003, quando annunciò – prematuramente – la fine della Seconda Guerra del Golfo.
Libertà e democrazia in calo
Questi due laboratori della nuova informazione — gli Stati Uniti e Israele — stanno trovando eco, seppur in scala minore, in varie altre parti del mondo, accomunati da una caratteristica rilevante: crescono soprattutto in paesi che presentano un sostrato più o meno democratico. In altre parole, stiamo assistendo a una progressiva erosione della libertà di stampa proprio in nazioni che si definiscono democratiche o che mantengono strutture istituzionali apparentemente tali. Ungheria, Argentina, India, Turchia, Egitto e Thailandia sono solo alcuni esempi di paesi in cui la libertà d’informazione sta subendo gravi restrizioni, pur in presenza — almeno formale — di regimi democratici. E a livello globale, la situazione continua a peggiorare. La Classifica mondiale della libertà di stampa 2025, pubblicata da Reporters Sans Frontieres (RSF) (Reporters Sans Frontieres, 2025), che valuta 180 paesi sulla base del grado di libertà garantito a giornalisti e media, segnala un dato allarmante: per la prima volta, la situazione globale viene classificata come “difficile”, con il punteggio medio che scende sotto i 55 punti su 100, indicando un
peggioramento generalizzato della condizione dell’informazione. Secondo RSF, la principale causa di questo declino è rappresentata dalle pressioni economiche. La fragilità finanziaria del settore sta spingendo molti organi di stampa alla chiusura: quasi un terzo dei paesi monitorati ha registrato la cessazione di testate per motivi economici. A questa crisi strutturale si aggiungono, in diversi paesi — tra cui l’Italia — l’aumento delle ingerenze politiche, la concentrazione della proprietà editoriale e le minacce, anche fisiche o legali, ai danni dei giornalisti. L’Italia si colloca al 49° posto nella classifica, in calo di tre posizioni rispetto all’anno precedente, ed è fanalino di coda tra i grandi paesi dell’Europa occidentale. Gli Stati Uniti si attestano al 57° posto, perdendo due posizioni, mentre Israele scivola al 112° posto su 180, con un calo di ben 11 posizioni rispetto al 2024: il peggior risultato per il Paese dal 2002.
Storie proibite
Oltre ai grandi nomi dell’informazione internazionale, come The New York Times e The Guardian, che possono contare su una posizione consolidata e risorse significative, esistono realtà più piccole ma estremamente interessanti sotto il profilo della sperimentazione editoriale e dell’innovazione giornalistica. Si tratta spesso di progetti indipendenti che operano ai margini del sistema mediatico tradizionale, in territori di frontiera dell’informazione. Un esempio emblematico è Forbidden Stories[1], una rete internazionale di giornalisti con una missione chiara e potente: proseguire e pubblicare le inchieste di reporter che sono stati minacciati, incarcerati, rapiti o uccisi a causa del loro lavoro. Il loro motto, «Killing the Journalist won’t kill the Story» (“Uccidere il giornalista non ucciderà la storia”), sintetizza perfettamente la filosofia del progetto. Questa strategia non solo protegge l’eredità delle inchieste, ma ha anche un effetto deterrente: sapere che le storie verranno comunque pubblicate può scoraggiare chi tenta di silenziare i giornalisti con la violenza o l’intimidazione. Nel 2022, Forbidden Stories ha lanciato SafeBox Network, una piattaforma digitale sicura pensata per permettere ai giornalisti a rischio di archiviare in modo protetto i materiali delle proprie inchieste. La rete conta oltre 170 giornalisti da tutto il mondo che collaborano e si supportano reciprocamente, rompendo l’isolamento e offrendo una rete di solidarietà a chi lavora in contesti pericolosi. Tra i progetti recenti più rilevanti c’è il Gaza Project, che raccoglie e pubblica reportage e inchieste sul lavoro dei giornalisti coinvolti nel conflitto israelo-palestinese (Frédéric Métézeau, 2025).
Qualità che paga
Se qualcuno, da queste parti, continua a sostenere che il giornalismo di qualità non sia sostenibile economicamente, dovrebbe guardare con attenzione al caso di Mediapart. Si tratta di un quotidiano online francese, fondato nel 2008 anche da Edwy Plenel, ex direttore di Le Monde, specializzato in giornalismo investigativo e analisi politica. È un modello editoriale unico e coerente, basato esclusivamente sugli abbonamenti dei lettori. Non accetta pubblicità, non riceve finanziamenti pubblici né si affida a investitori esterni. Questo garantisce un’autonomia reale da pressioni politiche, economiche o commerciali. La struttura proprietaria è ulteriormente protetta da una fondazione senza scopo di lucro, istituita proprio per salvaguardare l’indipendenza editoriale e impedire qualsiasi forma di controllo da parte di soggetti terzi. Nel 2024, Mediapart ha registrato un fatturato di 24,9 milioni di euro — interamente derivante dai suoi 233.277 abbonati — con un incremento del 6% rispetto all’anno precedente. L’utile netto è stato di 3,3 milioni di euro, il terzo risultato migliore nella storia del giornale. Come da prassi, l’intero utile è stato reinvestito in nuove campagne editoriali e contenuti originali. Questo ha contribuito a un ulteriore aumento degli abbonamenti, che nei primi tre mesi del 2025 hanno raggiunto quota 245 mila. Tutto questo è stato realizzato con uno staff di 150 persone, di cui il 52% giornalisti assunti, affiancati da circa 50 collaboratori esterni.
Due Stati, un unico media
Anche in Israele esistono realtà che resistono, sul fronte del giornalismo indipendente. Tra queste c’è +972 Magazine, rivista online senza scopo di lucro, fondata nel 2010 da un collettivo di giornalisti israeliani e palestinesi. Il nome richiama il prefisso telefonico internazionale +972, utilizzato sia da Israele sia da alcune aree palestinesi, a simboleggiare l’impegno a raccontare entrambe le realtà. La rivista offre reportage, analisi e opinioni dal campo, dando spazio a comunità e narrazioni spesso escluse dai media mainstream, come i palestinesi della Cisgiordania, di Gaza e i cittadini palestinesi di Israele. La redazione è binazionale: israeliani e palestinesi lavorano fianco a fianco in ogni fase della produzione editoriale. Il modello organizzativo è collaborativo, con le decisioni strategiche prese collettivamente. Durante il conflitto a Gaza tra il 2023 e il 2024, la rivista ha visto una crescita straordinaria del proprio pubblico, aumentato di dieci volte rispetto all’anno precedente. Tuttavia, nonostante la rilevanza crescente a livello internazionale, l’impatto interno alla società israeliana resta limitato. Per cercare di colmare questo divario, è nata una versione in ebraico della testata, chiamata Local Call, redatta in ebraico. Le difficoltà restano molte ha spiegato Haggai Matar, direttore di +972 Magazine, in un’intervista rilasciata ad AltraEconomia: «Vogliamo offrire queste fonti sia al pubblico internazionale sia a quello israeliano, ma è molto difficile oggi lavorare in questo modo. Se +972 viene seguito da diverse testate in tutto il mondo e i nostri articoli sono stati tradotti in tantissime lingue, quello che è pubblicato sul sito in ebraico non viene ripreso dai media mainstream interni» (Anna Maria Selini, 2024).
Corrispondenti condivisi
In Olanda si trova una delle realtà più innovative del giornalismo europeo: De Correspondent. Lanciata il 30 settembre 2013 grazie a una campagna di crowdfunding che in soli otto giorni raccolse oltre un milione di euro, la testata si è basata fin da subito su un modello fondato sull’indipendenza, la collaborazione attiva con i lettori e l’analisi approfondita dei grandi temi. Finanziata esclusivamente dai suoi membri, De Correspondent è diventata la più grande piattaforma di giornalismo a pagamento nei Paesi Bassi, contando oggi 69 mila abbonati di lingua olandese. Al centro del suo approccio c’è la qualità, il contesto e il coinvolgimento diretto dei lettori nel lavoro editoriale, trasformandoli da semplici consumatori in partner attivi del giornalismo. La testata genera un fatturato di circa 6 milioni di euro, con uno staff di 40 persone, tra cui 20 giornalisti tematici. La struttura redazionale si distingue per l’assenza dei tradizionali “desk” di cronaca: i giornalisti lavorano per aree tematiche, coinvolgendo gli abbonati nella ricerca, nella scrittura e nella discussione delle notizie, trasformandoli da semplici consumatori a veri e propri partner del giornalismo. Questa organizzazione fa sì che la tradizionale divisione verticale delle redazioni venga sostituita da un modello orizzontale, in cui il ruolo del caporedattore di sezione si trasforma in quello di giornalista e allo stesso tempo di gestore e animatore della comunità di riferimento. Il risultato è una copertura cronologica e approfondita, lontana dalla frenesia del ciclo continuo delle news. Grazie a questi elementi, De Correspondent ha mantenuto una solida base di abbonati, potendo rinunciare fin dalla sua nascita alla pubblicità e alla profilazione degli utenti, garantendo così un’informazione libera da pressioni commerciali.
La libertà d’informazione, a livello globale e anche nei paesi OCSE, è in netto arretramento e sono sempre meno le realtà che la considerano un bene comune. Un elemento chiave è l’atomizzazione delle opinioni pubbliche, che oggi non riescono più a formare quell’identità collettiva che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso. Questa frammentazione accelera il declino della libertà d’informazione, mentre la politica – in generale – ne sfrutta l’effetto per i propri scopi. È ciò succede in tutto il mondo con la politica degli autocrati, anche quella progressista sembra impotente di fronte a questo processo d’involuzione perché non comprende appieno le innovazioni tecnologiche alla base di questi cambiamenti. E quindi anche le forze progressiste non sono in grado di guidare processi informativi adeguati. E il mondo dell’informazione si trova davanti a una nuova sfida: l’intelligenza artificiale. Una rivoluzione copernicana, che rischia di automatizzare l’ultima attività umana ancora poco toccata dalla digitalizzazione: il lavoro della conoscenza. E, di conseguenza, anche il giornalismo, o più precisamente la produzione delle unità informative – se vogliamo adottare un lessico più tecnico e industriale. Le reti neurali, infatti, hanno meccanismi di funzionamento ancora più complessi e meno trasparenti rispetto agli algoritmi, già criptici, dei social media e dei motori di ricerca. La nuova frontiera per il giornalismo sarà quindi quella di difendere la libertà d’informazione in modo costruttivo, sfruttando al meglio le potenzialità dell’intelligenza artificiale e non rifiutandola tout court. D’altronde, nella storia delle rivoluzioni industriali, chi si è opposto all’innovazione con posizioni acritiche e sterili è sempre stato sconfitto. Lo sapeva bene anche Karl Marx.
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