Consulente pedagogico, formatore e supervisore di equipe multiprofessionali nell’area Tutela Minori e Famiglie; docente presso la Scuola Superiore di Pratiche Filosofiche "Philo" e conduttore insieme a Laura Formenti Silvia Luraschi di “Grass” - Laboratorio permanente di sguardi e pratiche sistemiche in contesti educativi. Docente presso il CRELINT, Centro di Ricerca delle Relazioni Interculturali dell’Università Cattolica di Milano - all’interno del corso di alta specializzazione “Supervisione pedagogica: culture educative, sguardi estetici, competenze complesse”. Tutte le sue pubblicazioni fanno riferimento alle teorie della complessità, all'epistemologia sistemica e all'antropologia.
Sommario
Nei contesti di tutela minori su quali premesse condivise, su quale base comune è possibile allestire una supervisione in cui si possono invitare altri professionisti della rete e, soprattutto, la famiglia con cui si lavora e di cui ci si prende cura? Quelle che chiamo “supervisioni partecipate”, per essere svolte, richiedono di far sentire le persone parte di un movimento di insieme. Questo qualcosa, questo bene comune, paradossalmente potrebbe essere la difficoltà ad intenderci, la fragilità dello stare insieme, un malinteso che continuamente ci unisce.
Parole chiave
Supervisione partecipata, malinteso, condividere la condizione umana.
Summary
In the contexts of child protection, on what shared forewords, on what common ground is it possible to set up a supervision in which other professionals from the network can be invited and, above all, the family with whom one works and one takes care of? To carry out those I call “participatory supervisions” we require identifying and practicing something that makes people feel part of a collaborative movement. This something, this common good, paradoxically is the difficulty in understanding each other, it is the fragility of being together, it is the misunderstanding we keep experiencing.
Keywords
Participatory supervision, misunderstanding, sharing the human condition.
Non si dorme con la scoperta
Giuseppe Sangiorgio
Ho accettato con entusiasmo - e non poca malinconia - la possibilità di scrivere in merito al concetto di bene comune in riferimento alla mia pratica professionale di consulente e supervisore con le equipe di tutela minori e famiglie.
Faccio riferimento all’entusiasmo e alla malinconia, forse un ossimoro, per dichiarare fin da subito la mia personale ambivalenza nel rapportarmi al concetto di “bene comune”: concetto per noi mammiferi umani molto complesso, contradditorio (Cassano 2012, 2022) e questione che, anche già solo nella sua onomatopeica, potrebbe apparire e risuonare - ingannevolmente - con un certo candore e non poca rotondità.
Quello che cercherò di raccontare in queste pagine è quale “bene comune" si potrebbe ipotizzare e condividere per allestire la possibilità di svolgere delle supervisioni - che ad oggi chiamo "supervisioni partecipate” (Formenti, 2024, pp. 158-191). - con professioniste e famiglie che condividono insieme progetti psico-socio-educativi nei contesti di tutela minori
In particolare proverò ad individuare le condizioni che permettano di delineare una base/bene comune su cui poggiare conversazioni, confronti, tensioni e negoziazioni di significato in assetto di supervisione.
L’impresa è ardua, mi rendo conto: chi legge e conosce in dettaglio le pratiche di consulenza e supervisione nei contesti di tutela minori, concorderà nel ritenere che ci siano molti interrogativi e molte specifiche da fare anche solo in merito al concetto di supervisione - ancora di più se - pedagogica - e di più ancora se - partecipata.
Per questioni di spazio e contesto tralascerò di argomentare intorno alla pratica della supervisione per dedicarmi con maggiore attenzione agli altri due costrutti che non hanno ancora statuto né tantomeno un’approfondita letteratura e, soprattutto, intercettano questioni che associo al concetto - e alla pratica - di bene comune.
Innanzitutto con Pedagogico faccio riferimento primariamente alle ampie e interdisciplinari questioni della cura: potremmo dire che considero pedagogia e cura due sinonimi.
Occuparsi di cura è l’attività di chi si definisca pedagogista (Premoli, 2025); tuttavia, sebbene genericamente, in qualche modo, questa connessione appare “lineare” e “sensata”, se la guardiamo con attenzione emerge subito una certa complessità in quanto la cura per noi mammiferi umani è per sua “natura culturale” (Rogoff, 2004), un’esperienza dilemmatica, ambivalente, contestuale. In poche parole, se per noi mammiferi umani esistono bisogni universali di cura (Brazelton, Greenspan, 2001), la risposta a questi bisogni è invece culturale-contestuale.
A riguardo Clifford Geertz afferma: “I problemi, essendo esistenziali, sono universali. Le loro possibili soluzioni, essendo umane, sono invece molto diverse” (Geertz, 1987, pag. 342).
La cornice è quella dell’approccio antropo-poietico che inerisce con la specificità della supervisione pedagogica nel suo tentativo di considerare e celebrare la complessità delle relazioni e, quindi, le molteplici questioni che sono proprie del vivere, del crescere, del crescere insieme in relazione agli altri e al mondo che ci ospita: dunque dell'educabilità della nostra specie animale.
Pare che come specie animale siamo condannati, consapevolmente e/o inconsapevolmente, a co-creare incessantemente e, proprio per questo, esposti ad un processo continuo di interpretazioni e sempre approssimative negoziazioni di significati.
Allo stesso modo, anche come consulente pedagogico, partecipo a questa continua e approssimativa co-creazione quando cerco di prendermi cura di qualcosa o qualcuno (famiglie, bambini, comunità e gruppi professionali) così come quando partecipo e conduco una supervisione.
La scena a cui partecipo è quindi complessa, “traballante”, potremmo dire “tra ballanti”.
Potremmo riassumere questa danza co-creante immaginando di praticare tra tutte le relazioni dei partecipanti e reciprocamente le quattro meravigliose – e spesso anche dolorose - domande sistemiche (che mi diverto a chiamare “sciamaniche”): “Chi sono io per te, chi sei tu per me, cosa stiamo facendo, dove siamo.” (Formenti 2016, 2024).
La supervisione pedagogica si occupa allora di questo livello di complessità della relazione tra professioniste e famiglie, ma anche tra professioniste e professioniste – ossia, e più in generale, tra professioniste bio-interpretanti che lavorano con altre professioniste bio-interpretanti che cercano di prendersi cura di altre persone bio-interpretanti… Potrebbe già essere questa la nostra base-bene comune?
La supervisione pedagogica diventa poi “partecipata” laddove a presenziare oltre alle colleghe che la supervisione la richiedono e a cui è rivolta sono presenti anche altre professioniste che non lavorano nella stessa equipe ( altre tutele minori nel caso di residenze differenti dei genitori, operatrici di comunità, servizi per il diritto di visita, servizi affidi, maestre/professoresse, neuropsichiatre, psicoterapeute…) ma anche e soprattutto per la presenza delle famiglie di cui si vorrebbe parlare e per cui si chiede la consulenza.
In una scena così complessa, in questo “guazzabuglio” (Calvino, 1993) e “accrocchio” (Pievani, 2019), quasi immediatamente emergono punti di vista discordanti, differenze disciplinari, di ruolo e posizionamento, di potere, culturali, organizzative ed epistemiche (solo per citarne alcune).
Questo guazzabuglio rende cruciale custodire/darsi la possibilità di rintracciare “un bene comune”, “un minimo comune denominatore” (ma forse anche “un massimo comune denominatore”) che permetta ai partecipanti di individuare e concordare cosa li tenga insieme, cosa di buono abbiano in comune all’interno di quella scena e per cui valga la pena accettare e tollerare l’invito di stare per una o due ore “al gioco” in questo tipo di supervisione.
Per esempio, una narrazione introduttiva da proporre ai partecipanti per allestire questo tipo di supervisione potrebbe essere: “Per una/due ore staremo insieme su questa barchetta che si chiama supervisione partecipata, ma prima dobbiamo capire se c’è qualcosa che anche provvisoriamente ci unisce, che potremmo avere in comune e che possa aiutarci…”
Quali premesse comuni per la supervisione pedagogica partecipata?
Vi racconto una vecchia storia… sempre nuova
In tempi antichi il lavoro di spaccapietre (o scalpellino) era molto diffuso.
Lo spaccapietre è un artigiano che ricava dalla pietra grezza parti più piccole e lavorate necessarie per la costruzione e la realizzazione di altre opere
Un giorno un viaggiatore, vedendo un cantiere con tutti gli spaccapietre che svolgevano il loro lavoro a pochi metri di distanza l’uno dall’latro, incuriosito decide di capire meglio cosa in cosa consiste la loro professione.
Si ferma allora da un primo lavoratore e gli chiede: “Buongiorno, potrebbe spiegarmi in cosa consiste esattamente il suo lavoro?”.
Lo spaccapietre, sorpreso della domanda, risponde senza incertezze: “Non lo vede, taglio delle pietre!”
Il viaggiatore decide di rivolgere la stessa domanda ad un altro professionista, poco distante dal primo che compie gli stessi movimenti di tutti gli altri, il quale risponde altrettanto sorpreso: “Beh non lo vede? Mi guadagno lo stipendio”.
Il viaggiatore, stupito della differente riposta decide allora di rivolgere la stessa domanda ad un altro spaccapietre, il quale risponde senza incertezze: “Beh non lo vede? spacco pietre per fare una statua”.
Reso ancora più curioso da questa risposta decide di rivolgere a un ultimo lavoratore la solita domanda: “In cosa consiste il suo lavoro?”.
Il quarto spaccapietre, deposti gli attrezzi da lavoro risponde: “Beh non lo vede, costruisco una cattedrale”.
Il viaggiatore, non ancora soddisfatto e sempre più confuso, pose la stessa domanda al quinto operaio il quale rispose: “Ma non lo vede, stiamo glorificando Dio”.
Questa nota storia degli spaccapietre penso sia sempre attuale nello svelare l’ovvietà del “guazzabuglio” che caratterizza le occasioni in cui dei mammiferi umani che lavorano insieme cercano – illudendosi – di fare la stessa cosa e mi pare una buona metafora, anche se non del tutto isomorfica, della complessità e delle opportunità del setting professionale della supervisione pedagogica partecipata.
Innanzitutto non è isomorfica in quanto, a differenza degli spacca pietre, i livelli di interazione di una professionista che lavora con una famiglia sono molto più ampi, diversi e articolati di quelli che si possono interagire con una pietra.
Inoltre nella storia sembra che gli spaccapietre non debbano comunicare tra loro assiduamente (ognuno fa la propria parte? Ognuno svolge il proprio “mandato”? Ciascuno eroga il servizio che gli è stato chiesto?) mentre nei contesti di tutela spesso si rende necessario interagire tra colleghe e negoziare continuamente significati, sia all’interno della propria equipe sia tra servizi e professioniste del progetto e del dispositivo di cura. Ed è proprio in queste occasioni che spesso le differenze di visione, interpretazione e significazioni tra professioniste si fanno assai interessanti. A volte anche divertenti, più spesso drammatiche, ancora più spesso negate in nome della necessità/mito dell’avere una “linea comune” e del “doversi” intendere e, forse anche della poca abitudine culturale a confliggere, a riconoscere la fragilità e parzialità di ogni statuto disciplinare e, più in generale, a celebrare le differenze di un mondo complesso.
E ovviamente tutto questo si anima ulteriormente se, al posto di una pietra, immaginiamo una famiglia che interagisce con le professioniste e che si muove tra le professioniste nei vari servizi e postazioni.
Ma se sono convinto che questa storia non adatta a spiegare tutto quanto avviene – o dovrebbe avvenire - sicuramente lo è per “stressare” alcuni livelli o questioni di questo modo di fare consulenza e per provare e rintracciare un possibile bene comune che unisce e mette in relazione tutti i partecipanti.
Per aiutarmi nella costruzione di questa possibile mappa comune di navigazione, trovo interessante fare riferimento a Marc Augé (Augè, 2019) quando dice che l’uomo è fondamentalmente tridimensionale:
“Egli ha in primo luogo una dimensione individuale evidente, si definisce come soggetto cosciente e perfino doppiamente cosciente perché egli ha coscienza immediata di sé inseparabile da quella che egli coglie degli altri” (Ivi, pag. 73).
“Egli ha una dimensione culturale che si radica nella logica simbolica che ho appena evocato, logica simbolica sulla quale si è innestato nel corso della storia un apparato istituzionale più o meno sviluppato. Ed è in rapporto a questo sistema simbolico-istituzionale che un essere umano si definisce come appartenente ad una etnia, ad una collettività politica, a una nazione…” (Ivi, pp. 73-74).
“Infine egli ha una dimensione generica (la specie umana) che trascende le altre due, o più esattamente che fonda il carattere assoluto della prima, e il carattere relativo della seconda. e perché ciascun individuo scopre in sé la dimensione generica che lo si può definire come sovrano e uguale nel diritto a chiunque altro” (Ivi, pag. 74).
La storia degli spacca pietre mi pare racconti bene soprattutto la seconda dimensione, quella culturale e, in parte anche alla prima, perché di conseguenza, per lo meno agli occhi del viandante, traccia delle differenze individuali e soggettive tra i vari lavoranti/partecipanti.
Ma mi pare che, se immaginiamo il viandante nei suoi dubbi e nel suo riflettere e metariflettere su quanto ha ascoltato, questa storia ci invita anche nella terza dimensione, quella generica, che considero estremamente interessante per provare a intravedere il “bene comune” e anche e contemporanemente, come vedremo tra poco, il “il male comune” che potrebbe aiutarci nel praticare le supervisioni in forma partecipata. Anche perché, come precisa Augè, la dimensione generica a cui partecipiamo come specie umana trascende le altre due, le contiene.
La dimensione generica fa riferimento alla nostra fragilità di mammiferi umani, alla nostra necessità di completarci senza riuscirci mai, alla nostra ontologica incertezza, alla nostra ferita infinita (Esquirol, 2021), alla “contraddizione dentro” (Cassano, 2022) e all’ansia antropologica di cui siamo portatori (Cometa 2017), alla nostra inquietudine e scontentezza come specie animale (Boncinelli, Ferraio, 2024). Al malinteso che siamo e con cui costantemente viviamo (La Cecla, 2022).
Insomma: e se un “bene” che unisce gli spaccapietre fosse proprio questo “comune” (comune in quanto ovvio) male intendersi?
E se quando svolgiamo una consulenza pedagogica partecipata fossimo fondamentalmente uniti proprio da queste irrisolvibili differenze, malintesi, punti ciechi, scarti, inquietudini, ansie, screpolature, contraddizioni, fratture, scontentezze, divaricazioni, ferite…?
In definitiva, per come la intendo e la pratico io, la supervisione partecipata nel suo svolgersi si basa proprio su questo inevitabile “malinteso” tra esseri bio-interpretanti, persone, professionisti, partecipanti che, nel contesto della tutela minori, cercano continuamente di negoziare significati in merito a qualcosa che si vorrebbe “curare”: un figlio, la propria famiglia, la direzione di un progetto educativo, il rapporto con quella famiglia, la relazione tra servizi, la relazione tra servizi nel lavoro con quella famiglia (e viceversa)…”.
L’arte del non capirsi, ovvero il malinteso come bene comune per l’incontro?
Scaldarsi nelle scoperte
Giuseppe Sangiorgio
“L’arte del non capirsi” (La Cecla 2022), a guardar bene, è una pratica sociale e culturale che ha accompagnato l’umanità sia durante i secoli sia attraverso le diverse culture. Secondo questa prospettiva le nostre strategie di sopravvivenza sarebbero fondate proprio sul non capirci mai fino in fondo. Quindi il non capirsi non è considerato come un imprevisto o un’interferenza nella comunicazione, quanto semmai il suo fondamento. Insomma una sorta di male comune che è, contemporaneamente, anche il nostro bene comune in quanto è ciò che ci accomuna.
La Cecla, nel testo a cui qui faccio continuamente riferimento, propone una epistemologia dell’alterità e della differenza, identificandoli come tratti costitutivi dell’identità e della cultura.
Ma anche Gregory Bateson molto prima ha detto qualcosa di simile ricorrendo alla bellissima e nota locuzione “fare pasticci”. Per Bateson “fare pasticci” con le idee è il rischio più consueto, più auspicato e più creativo che esista, è ciò che permette l’evoluzione del pensiero e della specie umana, è la conseguenza inevitabile per chi gioca e per chi osserva la relazione, per chi si interroga sul modo in cui il mondo vivente si comporta.
In questo senso la pretesa di risolvere il malinteso e, più in generale come vedremo tra poco, di trasformare l’incertezza in certezza, fa parte di una visione che in qualche modo “non ci fa bene”. L’antropologia del dialogo – e, aggiungo io, una pedagogia antropo-poietica – che non mira e non può mirare alla soluzione del problema ma, semmai, a qualcosa di più vicino alla sua dissoluzione/trasformazione proprio nel momento in cui accettiamo, riconosciamo il malinteso, ossia la differenza irriducibile dell’altro, l’incolmabile incompletezza di ciascuno e, in qualche modo, di ogni incontro, compreso quello con noi stessi. Il malinteso quindi potrebbe essere considerato come una pratica del confine, uno spazio-tempo catalizzatore di conflitti, preconcetti, idee prevaricatrici, ma anche luogo dell’in-betweenness (Ingold, 2021), un tra, transito e soglia. Né dentro, ne fuori. Oltre i binarismi. E così, con i fra-intendimenti si può giocare, “navigare le ambiguità intricate che caratterizzano i fenomeni complessi” (Ceruti, 1997, pag. 10). Ecco il nostro bene comune. Qualcosa di molto lontano dall’epistemologia del controllo e della prevedibilità, quella che in qualche modo potremmo definire lineare-razionalista-determinista.
In questo senso viviamo immersi in un male comune che contemporaneamente è potenzialmente anche il nostro bene comune e che, in quanto irrisolvibile, diviene ciò che abbiamo in comune nel tentativo di stare bene insieme. E per star bene insieme dobbiamo ricorrere al nostro comune male.
Oltre il malinteso. Per un’etica della vulnerabilità, siamo ombre che camminano
Voce del verbo essere umani
Giuseppe Sangiorgio
Se il malinteso è il nostro bene comune necessario, per certo non è sufficiente. Abitare il “necessario ma non sufficiente" è una bella regola della complessità, ma è anche un bell’invito dello stesso concetto di malinteso ossia quello di “non credergli del tutto”.
Allora ci servono altre storie, altre metafore, altre argomentazioni per provare ad andare oltre, per provare a “vedere altrimenti” (Madera, 2012).
Penso che la supervisione pedagogica partecipata potrebbe essere anche raccontata - e condensata - dentro due interdipendenti premesse:
“Non si può non partecipare”, “qualsiasi essere umano può essere ferito”.
Se la prima locuzione è la trasformazione della più nota regola della pragmatica della comunicazione umana “non si può non comunicare”, la seconda è una citazione di Siri Hustvedt tratta dal suo bellissimo libro “Le illusioni della certezza” (Hustved, 2018).
In qualche modo mi piace riassumere in questa formula il bene comune di una supervisione pedagogica partecipata. La presenza di un vincolo istituzionale, di un decreto del tribunale, di un progetto di lavoro, di una relazione da osservare e accompagnare, non solo ci mette irrimediabilmente in relazione, ma ci unisce in una particolare relazione. Se nessuno può togliersi da questa vicenda umana (non si può non partecipare alla vicenda di cui siamo parte come mammiferi umani su questo piccolo pianeta azzurro che ruota attorno al sole), il livello di partecipazione si fa più denso e contestualizzato se abitiamo un sotto-contesto che, per legge, ci vincola e ci unisce.
La seconda locuzione invece racconta qualcosa di simile al malinteso/fare pasticci citato poco sopra, alla “ferita infinita” (Esquirol, 2021) a cui siamo esposti come mammiferi umani, nel nostro desiderio e bisogno esistenziale di essere capiti e, contemporaneamente, nella quasi costante impossibilità che questo avvenga, per lo meno nelle forme e nei tempi che auspichiamo e desideriamo.
A riguardo Joan-Carles Mèlich, scrive con struggente chiarezza:
“La nostra vita non può sottrarsi alla commedia né alla tragedia. In tal senso affermo che la condizione umana è vulnerabile, perché i volti della finitudine sono infiniti” (Mèlich, 2024, pag.11)
E poco più avanti, scrive ancora:
“La vulnerabilità è una struttura impura, come qualsiasi altra struttura, della condizione umana. Eppure, la sua impurità non è solo espressione del male o qualcosa di diabolico [...] bensì soprattutto dell'ambivalenza e del gioco delle situazioni e delle relazioni, della conflittualità di ogni decisione né dei traumi di qualunque storia. Siamo walking shadows (ombre che camminano) su un palcoscenico in cui la sceneggiatura è andata a brandelli, siamo ombre create da una morale circondata da crepe aperte da domande etiche - nonostante gli ordini grammaticali - nella pelle e nelle viscere. Siamo ombre segnate da assenze, da nostalgie infinite, da ferite che si riaprono all’improvviso e che niente e nessuno potrà curare del tutto. [...]. La vulnerabilità è legata a un’identità mai fissata in maniera definitiva; un’identità creata attraverso le relazioni con gli altri; un’identità che si costruisce in un universo di maschere che è poi, in definitiva, il ballo dell’esistenza [...]. In tal senso sostengo che la vulnerabilità è la struttura antropologica che esprime la necessità dell’etica, delle relazioni etiche, di relazioni sottoposte, ovviamente alla provvisorietà e alla condizionalità, all’improvvisazione dell’istante e alla singolarità dei nomi propri. In sintesi, essere etici è esserci, è donare medicazioni in grado di aiutare momentaneamente a sopportare le ferite che provochiamo e che ci provocano le situazioni della vita quotidiana. Per pensare la vulnerabilità della condizione umana, quindi, ci dovremmo accostare alla materialità dei corpi feriti e, per farlo, sarà necessario dare avvio a una riflessione sulla condizione vulnerabile della vita partendo da una filosofia letteraria” (ibidem, pag.13-14).
Partendo da queste premesse, rivolgendomi ad una famiglia che partecipa alla supervisione (e contemporaneamente rivolgendomi alle colleghe e alle altre professioniste) potrei raccontare una storia del tipo:
“Parto dalla convinzione e certezza che lavorare insieme in modo utile e funzionale è difficile, anzi difficilissimo, direi quasi impossibile. Per certo nel lavoro tra voi e il vostro servizio sociale ci sono, ci sono state e ci saranno molte incomprensioni, difficoltà, sicuramente qualcuna ha ferito qualcun'altra, spesso inconsapevolmente, ma il fatto che sia avvenuto senza volerlo non cambia nulla. A me non interessano le intenzioni, mi interessano gli effetti, i fatti. E un fatto è che è difficile capirsi, condividere le idee, le direzioni, le preoccupazioni, decifrare quello che succede. Siamo qua. Questa supervisione si basa su questa certezza, siamo qui per condividere questa situazione…”.
E ancora, in un altro passaggio della conversazione, per esempio potrei chiedere alla famiglia:
“Ma posso chiedervi qual è per voi la cosa più dolorosa, faticosa o anche solo antipatica è accaduta nel rapporto con chi dovrebbe aiutarti e supportarvi?"
Il bene comune che fa da sfondo ad una supervisione partecipata è quindi qualcosa di molto concreto, pragmatico, qualcosa che accade “nei corpi familiari”, tra le persone, nello svolgersi delle relazioni, è quindi qualcosa caratterizzato da “problematicità, ambiguità e situazionalità” (ibidem, pag 15). Il bene comune a cui qui facciamo riferimento in qualche modo cerca di celebrare quella che Marc Augè chiama “la condizione umana” (Augè 2019), ossia qualcosa di molto lontano da un dover essere delle cose, da una metafisica dei rapporti e delle relazioni umane. Il bene comune in questo senso non è quindi “cosa si sarebbe dovuto fare”, “cosa si deve fare”, “cosa è giusto fare”, ossia qualcosa che partendo da una ontologia che si declina in una deontologia.
Diversamente ma allo stesso modo potremmo anche dire che la condizione umana che ci unisce in una supervisione partecipata è qualcosa di molto lontano dalla "configurazione dualistica che opera in maniera più o meno esplicita, nel nostro linguaggio e, per la stessa ragione, nel nostro modo di pensare, agire, vivere [...]: anima-corpo, cielo-terra, destra-sinistra, maschile-femminile, ragione passione, profondità-superficie, luce ombra, scienza poesia, attività-passività, oralità-scrittura, alto-basso, assoluto-relativo, oggettivo-soggettivo, realtà-finzione eccetera” (ibidem, pag.18). Il suo luogo d'incontro è semmai “una terra di mezzo, “un purgatorio”, lo spazio della “carità interpretativa" (Davidson, 2003) in cui si aggirano “mancini zoppi” (Serres, 2016) e “ombre che camminano” (Melich, 2024).
Il bene comune su cui si basano questo tipo di supervisioni e con cui si svolgono sfida allora l’idea di supervisione intesa come vedere super, vedere bene, vedere meglio, vedere giusto, correttamente, vedere insieme, vedere chiaramente, vedere “veramente”. Pare banale questo cambio di paradigma ma credo che nei fatti non lo sia affatto. Mi pare che troppo spesso abbiamo ancora in mente una visione idealizzata dei rapporti, soprattutto quello tra professionisti e tra professionisti e famiglie, dove tutto potrebbe finalmente funzionare alla perfezione, le cose potrebbero andare al loro posto, se si potesse capire e definire “chi fa che cosa”, “avere un obiettivo comune”, “essere sulla stessa linea” soprattutto se siamo nel caos del meshwork (Ingold, 2020) in cui ci troviamo e lavoriamo.
Personalmente ricordo bene, agli esordi del mio lavoro nei contesti di tutela minori, che le reti erano viste come un momento chiave proprio per definire “chi fa che cosa”. Era una specie di mito con cui si credeva di comporre e ridurre la complessità del lavoro educativo e sociale. Il bene comune da cui partire. Mi pare che non abbia funzionato molto bene, anche se in molti casi le persone e i servizi hanno fatto bene “la loro parte”. Non è stato raro in queste occasioni fare esperienza della nota locuzione: “Operazione è perfettamente riuscita, ma il paziente è morto”. Infatti in molte di queste occasioni il malessere di famiglie e professionisti mi pare proprio che non sia diminuito. E forse per questo ho spesso sentito come diffusa l’esigenza di lavorare con una diversa epistemologia operativa, diversa da quella divisiva e protocollare, diversa dal “mitico” paradigma del “chi fa che cosa”. Diversa anche dalla storiella dei quattro ciechi che toccano parti diverse di un elefante, ma che unendo le parzialità delle loro percezioni ne ricostruiscono l’immagine vera e completa. Troppo spesso le reti sono intese in questo modo: ognuno porta il suo punto di vista e così possiamo capire la famiglia, come funziona, di cosa ha bisogno. Qui l’ipotesi è diversa: se in un meshwork ciò che è interessante è il malinteso, la ferita infinita che unisce, la dilemmaticità - e drammaticità - dello stare insieme, la costante e inevitabile dimensione elegiaca dei rapporti. E così l’unica cosa su cui potremmo intenderci potrebbe proprio la precarietà/impossibilità d’intenderci, l’irriducibile combinazione tra comico e cosmico (Scardicchio 2012), la nostra costitutiva vulnerabilità. Questo mi pare un posizionamento/epistemologia differente dalle strategie sia doveristiche, sia del “chi fa che cosa” e del “mettere insieme i punti di vista”. La complessità dell’altro, il bene che ci unisce, non può essere “compresa” e “condivisa” in forme così semplificate. Forse siamo uniti da qualcosa di più interessante della linearità. Tutto qua. Facile e difficile. Banale e complicato. Ma una certezza l’abbiamo, almeno una: quella che “non è facile vivere in un modo in cui non ci sono più punti di riferimento assoluti e accettare che quella umana sia una condizione prodotta da una vita finita, elegiaca [...]” (Melich, pag.19).
Condividere la condizione umana: “Sono un mammifero umano, non capisco un granchè e ripeto la parola chissà da 606 giorni”
Aprendo apprendo
Giuseppe Sangiorgio
Nella ricerca di questo bene comune che ci fa da fondamento, mi vengono in mente i primi passi del metodo degli Alcolisti Anonimi (AA) che, a mio parere, dicono qualcosa di molto vicino al concetto citato di malinteso, alla nostra vulnerabilità, al fare e pasticci, alle illusioni della certezza.
Le premesse del metodo, il bene-male comune che pratica attraverso le sue regole di ingaggio, a mio parere sono molto vicine a quello che cerco di far accadere durante una supervisione partecipata.
In qualche modo mi piace pensare che per pensare e allestire una supervisione partecipata serve allestire una scena per molti versi simile a quella dei gruppi AA, soprattutto in riferimento ad alcune regole del metodo, in particolare alle prime tre.
La forza di questo metodo sta proprio nei dodici passi che qui invito a leggerli come mosse o posizionamenti dell’alcolista – nessuno può compierli al posto suo – e che, e questo è un punto fondamentale, non hanno la finalità di “guarirlo” ma, semmai, di aiutarlo a mantenersi sobrio, riconoscendo che dall’alcolismo (dalla nostra vulnerabilità e fragilità, dalla difficoltà ad intendersi, dalla nostra strutturale manchevolezza...) non si “guarisce” mai.
La premessa è che l’alcolismo non è una malattia, ma un modo di vivere la relazione con il mondo e con sé stessi, un’epistemologia incorporata, molto vicina all’epistemologia dominante nel mondo occidentale, centrata sulla relazione simmetrica, sul controllo e del trionfo del sé sulla dimensione relazionale. Quindi per rimanere sobri, dice Bateson, potremmo agire in modo tale da rendere inefficace questa epistemologia, in qualche modo sovvertirla in quanto “non ci fa bene”.
A riguardo trovo folgorante e puntualissimo quanto scrive il filosofo Odo Marquard citato da Michele Cometa nel tentativo di definire una filosofia antropologica dell'uomo e dell’umano:
“Il vero uomo non è infatti l'essere vivente trionfante, ma quello compensante: è questa la tesi che l'antropologia filosofica fa valere di contro alla filosofia rivoluzionaria della storia e alla biologia evoluzionistica. Proprio perché non pone al centro dell'attenzione i trionfi verso cui s'affretta l'uomo vincitore, ma le carenze e i dolori con cui l'uomo deve vivere, compensandoli a fatica, l'antropologia filosofica è diventata tanto più importante. Essa pone l'accento su quella posizione particolare serbata dall'uomo quando egli non è più "la corona della creazione", ma - come dice Jercy Lerc - la "corona di spine della creazione": l'uomo non è la specie dei trionfi finali, ma la specie delle prolungate sconfitte con il compito di sopportarle. Infatti, da un punto di vista evoluzionistico l'uomo non è riuscito né a estinguersi in tempo né a trovare prima del tempo la condizione in cui poter poi rimanere. Così, mentre tutte le altre specie sono da gran tempo congedate nella condizione definitiva letale o finale, l'uomo è dovuto rimanere in castigo da un punto di vista evoluzionistico; non è il fuoriclasse - in quanto, per così dire, in possesso della maglia gialla nel Tour de l'évolution -, ma il ripetente dell'evoluzione, l'essere vivente ritardato che non ce l'ha ancora fatta, ma deve tenere duro con la sua carente condizione fisica, la sua nota mortalità, i suoi dolori di "homo patiens" e l'eterno ritorno del disuguale, della storia (Cometa, 2017, pp. 266-267).
Ritengo che i primi tre passi degli AA intercettino proprio questa questione tipicamente umana della ricerca di continue compensazioni, della manchevolezza e della vulnerabilità. Ma non solo: se accettiamo questa premessa, serve anche riflettere sulle conseguenze nel rapporto con il mondo e con l’altro ponendo ciascuno di noi in una posizione difficile e necessaria nello stesso istante e, in quanto tale, anche paradossale: l’affidarsi. L'affidarsi ad altri ma senza avere la certezza di aver compreso a cosa ci affidiamo, senza avere la certezza di ciò che accade e soprattutto dei suoi esiti. Il riferimento è quindi qualcosa di molto diverso dal ricorrente “fidarsi” che nel mondo psico-sociale ricorre in molte concettualizzazioni e conversazioni: “Se le persone non si fidano non è possibile lavorare insieme”.
L’affidarsi di cui parliamo fa invece riferimento alla resa, alla possibilità di riconoscersi vulnerabili, “approssimativi intenditori”, sempre un po’ dipendenti da qualcosa e da qualcuno. Insomma tutto quello che, generalmente, la nostra cultura non si aspetta da un adulto, da un genitore e, tantomeno, da un professionista.
Proverò a riassumere, seppur molto brevemente, i dodici passi del metodo, soffermandomi soprattutto sui primi tre e cercando delle analogie con le premesse della supervisione partecipata.
Il primo passo
Raccogliere i frutti dell’orto del torto
Giuseppe Sangiorgio
Il primo passo prevede che l’alcolista riconosca l’impossibilità di smettere di bere da solo senza ricorrere all’aiuto di qualcuno (che non significa avere fiducia nell’altro). Insomma, in qualche modo serve riconoscere che non si può non partecipare, che siamo condannati a essere partecipanti, con altri e in altro.
I tentativi autonomi di smettere (“ci penso io”, “smetto quando voglio”, “non ho bisogno di nessuno”, “è affar mio...”) sono stati fallimentari o hanno funzionato solo per brevi periodi. Quindi il primo passo è il più difficile e doloroso, poiché implica l’ammissione della sconfitta e del fallimento del proprio paradigma. In questa postura trovo qualcosa di simile al riconoscere e all’ammettere la nostra impossibilità ad intendersi a cui facevamo riferimento con il concetto di malinteso. Ammettere la sconfitta di una comunicazione efficace e performante, magari fondata sul chi fa che cosa, o sul trovare un punto/un linguaggio comune capace di fare chiarezza su quanto stiamo facendo insieme. Ammettere che l’avere un obiettivo comune non è sufficiente per lavorare bene e in forme integrate e collaborative.
È per questo motivo che quando allestisco una supervisione partecipata, per esempio, spesso propongo immagini di questo tipo:
“L’intento di questo incontro non è capirci, trovare cosa non ha funzionato nella comunicazione, sistemarlo, e tanto meno dare ragioni o torti. Il primo e più importante intento quello di dirci quanto è difficile lavorare insieme, e che questa difficoltà non è sanabile e tanto meno sanabile da questo incontro. In breve: Siamo d’accordo che saremo sempre un po’ in disaccordo?”
Allo stesso modo spesso pratico lo svelamento di questa ovvietà:
“Un servizio sociale dovrebbe aiutare una famiglia, ma la realtà dei fatti ci dice che non è possibile aiutare una persona senza complicarle anche la vita. Non è una questione di cattive intenzioni. Anche i genitori sono motivati da buone intenzioni ma spesso complicano la vita ai loro figli. È una regola del gioco, della cura, del rapporto tra persone. Succede così quando ci si sceglie, figuriamoci quando non ci siamo scelti come in questo caso e quando ci sono di mezzo tante altre persone (tribunali, colleghi, specialisti…).
Diciamoci quindi che è impossibile far andar bene le cose come vorremmo e come dovrebbe essere…?
Possiamo dirci che questa supervisione ha come base comune questa ammissione?".
Il secondo passo
Che Dio tassita se non sai guidare
Giuseppe Sangiorgio
Il secondo passo riguarda invece il riconoscimento comune di un potere superiore. Quale nome o forma abbia, poco importa. C’è chi lo identifica con un Dio, con la spiritualità, con il gruppo o con altro ancora. L’AA non è un gruppo confessionale, ha un solo scopo molto pragmatico e diretto: costruire una comunità provvisoria e definitiva per sostenere la sobrietà dei propri membri.
Personalmente identifico questo secondo passo con le dichiarazioni in supervisione molto simili a:
“Se saremo fortunati riusciremo a lavorare insieme credo che potremo uscire da questo incontro con qualche idea e curiosità verso quello che state e stiamo facendo insieme”.
Nel mio caso, il potere superiore lo attribuisco al mistero dell’uomo, alla sua complessa composizione tra banalità del male ma con il suo inverso, ossia la banalità del bene di cui altrettanto siamo portatori (Augè, 2019, pag. 88).
Scrive Marc Augè:
“[avere coscienza della banalità del bene significa avere coscienza che] il bene si definisce precisamente come il bisogno di aver fiducia. Il male assoluto, in questa prospettiva, è l’abuso di fiducia, la pretesa di sapere mentre non si sa, il fatto di voler convertire gli altri per convincere sè stessi – comportamento banale in effetti, ma che spetta a ciascuno denunciare in nome di un’altra idea di uomo. La fiducia autentica, la fiducia umanista passa attraverso il desiderio e la curiosità” (pag. 88).
Questo potere superiore, che è una delle forme del bene comune che crea le condizioni per lo svolgimento di una supervisione partecipata, potrebbe quindi essere il concetto di “possibilità”, che si collega a quello di curiosità e che a sua volta è racchiuso nella bellissima parola: “chissà”.
Il terzo passo
Hai bisogno di pochi aiutanti
Giuseppe Sangiorgio
L’idea espressa nel terzo passo è quella di affidarsi non alle sole proprie forze, ma al gruppo, agli altri. Le relazioni della nostra vita, chi ci ha preceduto nel nostro viaggio familiare e sociale, ma anche e contemporaneamente con il gruppo presente alla supervisione, professionisti e reti sociali sono un ancoraggio importante per sostenere il percorso verso la sobrietà.
Spesso, locuzioni e metafore come “fare squadra”, “l’unione fa la forza”, “promuovere le relazioni e le comunicazioni tra i vari aiutanti come medicina alle difficoltà del momento”, “unire tanti piccoli punti di luce per vedere la forma della nostra costellazione guida, un po’ come fanno i naviganti in mare aperto” vengono proposte ai partecipanti della supervisione per promuovere la possibilità di non fare ricorso alle uniche nostre forze e dare senso alla scena a cui partecipano, al nostro unico bene comune. Avere la sensazione di partecipare ad un movimento di insieme è spesso una necessità umana che lenisce la nostra ineluttabile fragilità e senso di solitudine e, contemporaneamente, riduce il rischio ricorrente di trovare (falsi) rimedi a questa vulnerabilità con posture di onnipotenza, (impossibile) isolamento o qualcosa di più vicino al noto self-made-man.
Spero si sia ormai capito, ma credo sia utile precisarlo ancora una volta, che anche in questo passaggio l’intento non è “prescrittivo/moralistico” (fate squadra altrimenti...) ma, semmai, è basato su una premessa antropo-poietica di condivisione del nostro bene comune, della nostra “condizione umana”.
Quarto passo
Chi è vivo non bara
Giuseppe Sangiorgio
I passi successivi definiscono che cosa fare concretamente per recuperare la propria vita. Guardare in faccia la realtà di ciò che è stato (quarto passo), dopo anni trascorsi nella menzogna, nell’evitamento e nel diniego delle proprie responsabilità arriva il momento di riconoscere e ammettere ciò che è stato. Il gruppo assume quindi un’importanza fondamentale per il percorso di recupero della persona, poiché fungendo da specchio può rimandare un’immagine più realistica di quali siano i vecchi meccanismi, le vecchie abitudini, i vecchi schemi comportamentali che hanno portato a una profonda dipendenza.
Nel caso delle supervisioni partecipate questo significa per esempio dichiarare in apertura o durante la conversazione che è importante “svelare/ammettere che abbiamo fatto qualche pasticcio, che è inevitabile fare pasticci, che il malinteso è inevitabile, che quando ci prendiamo cura di qualcuno, seppur ben intenzionati, è difficile se non impossibile far sempre bene”. Durante le supervisioni partecipate spesso preciso che “non serve per forza esplicitare quali pasticci, tutti noi sappiamo che ci sono stati e ce ne saranno. Io non voglio saperli e nemmeno sono qui perchè devo saperli…”
Quinto passo e sesto passo
Una collana di perle di saggezza tutta da leggere
Giuseppe Sangiorgio
Parlarne nel gruppo (quinto passo) per avere uno specchio che restituisce un’immagine più realistica delle abitudini e degli schemi comportamentali che hanno portato alla dipendenza. Accettare i rimandi (sesto passo) per sostenere il cambiamento in atto, modificando quegli aspetti che si sono dimostrati disfunzionali. Parlare pubblicamente, per uscire dal meccanismo della menzogna, riconoscere tutto ciò che si è rimosso, tenuto nascosto per anni, uscire dall’isolamento, dalla vergogna e dal senso di colpa, smettere di autocommiserarsi e lamentarsi. Imparare a mostrarsi per ciò che si è, senza temere i propri difetti, incompletezze, claudicanze, le proprie responsabilità, poiché lo si sta facendo di fronte a persone che hanno lo stesso problema e che si stanno riunendo in un momento privo di giudizio e ricco di condivisione e benevolenza della stessa «sinistra» zoppia che ci unisce (Serres, 2016): Rvolgendomi ada un genitore: “Che consigli darebbe alla sua assistente sociale per far sì che svolga meglio il suo lavoro con voi? Possiamo parlarne insieme?”.
Il settimo passo
Ne vuoi ancora di salvezza?
Giuseppe Sangiorgio
Il settimo passo prevede la messa in pratica di un atteggiamento davvero importante: quello dell’umiltà. Una volta riconosciuti gli aspetti disfunzionali della propria vita (della propria epistemologia), la persona deve avere il coraggio di accettare l’aiuto che gli viene offerto, così come gli viene offerto, rinunciando alle proprie aspettative su come dovrebbe essere. Spesso, infatti, alla richiesta di aiuto corrisponde anche un’elevata aspettativa su come quell’aiuto debba essere e se non corrisponde all’aspettativa, talvolta succede che la persona rinunci. Avere un atteggiamento umile significa accettare l’aiuto che viene offerto, così per come è. Rivolgendomi ai partecipanti della supervisione si potrebbe dire: “Possiamo dirci che sia fare il nostro lavoro di professionisti della cura, sia e lavorare con noi è davvero difficile, faticoso, e che nessuno ci ha capito granché di quello stiamo facendo? Io compreso ovviamente… Possiamo partire da qui?”.
Ottavo passo, nono e decimo passo
Ammettere di aver fatto un incidente con l’autocritica.
L’assoluzione non è matematica
Giuseppe Sangiorgio
Poi si procede con il riconoscimento dei danni arrecati ad altri (ottavo passo), per fare ammenda (nono passo). Il decimo passo invita a continuare a rimanere vigili su sé stessi, mantenendo un atteggiamento onesto e pronto a riconoscere eventuali atteggiamenti e comportamenti disfunzionali. “Qualcuno ha mai dichiarato e chiesto scusa di qualche malinteso accaduto?”
Undicesimo passo
Al barlume ci si ubriaca di speranza
Giuseppe Sangiorgio
L’undicesimo passo stimola alla preghiera e alla spiritualità, per rimanere in contatto con il Potere superiore, che sia Dio, una speranza, la complessità, un sogno, un obiettivo il gruppo o qualunque altra cosa: “Se saremo fortunati e chissà cos’altro forse usciremo da questo incontro con qualcosa di utile per il lavoro che state e stiamo facendo insieme…”.
Dodicesimo passo
Il problema non è quello di non essere secondi a nessuno,
ma di non essere fecondi a nessuno.
Giuseppe Sangiorgio
Infine, il dodicesimo passo invita a offrire aiuto ad altre persone con lo stesso problema. A Reinhold Neibuhr si deve la famosa preghiera della serenità (“Dio, dacci la grazia per accettare con serenità le cose che non possono essere cambiate, il coraggio per cambiare le cose che possiamo cambiare, e la saggezza per distinguere le une dalle altre”) che definisce una soglia tra ciò che si deve accettare e ciò che si può e si deve cambiare: nessuna onnipotenza, nessuna rassegnazione, nessuna pretesa di non incontrare limiti, ma anche nessun alibi per rinunciare a battersi se il cambiamento è possibile.
Si tratta in definitiva di immaginare e credere che durante una supervisione partecipata esista una condizione singolare e paradossale di rapportarsi tra le persone che non ha come “obiettivo” quello di mostra il guazzabuglio che siamo ma, viceversa, di considerare praticare questa complessità che, in condizione di alea e incertezza, può generare provvisorie, piccole- gigantesche possibilità di stare un po’ bene insieme.
Bibliografia
Augé, M., 2019. Condividere la condizione umana. Mimesis, Milano.
Boncinelli E., Ferraio M.F., 2024. L’animale inquieto. Storia naturale della scontentezza. Il Saggiatore, Milano.
Brazelton B.T., Greenspan S.I., 2001. I bisogni irrinunciabili dei bambini. Raffaello Cortina, Milano.
Calvino I., 1993. Lezioni Americane. Mondadori, Milano.
Cassano F., 2012. Partita doppia. Appunti per una felicità terrestre. Il Mulino, Bologna.
Cassano F., 2022. La contraddizione dentro, Laterza, Bari.
Cometa M., 2017. Perché le storie ci aiutano a vivere. Milano, Raffaello Cortina.
Esquirol, J. P., 2021. Umano, più umano. Un’antropologia della ferita infinita. Vita e Pensiero, Milano.
Formenti L., 2016. Re-inventare la famiglia. Guida teorico-pratica per i professionisti dell’educazione. Apogeo-Maggioli Editore, Milano.
Fomenti L., 2024. Le regole della bellezza. Pedagogia sistemica in azione. Franco Angeli, Milano.
Geertz, C., 1987. Interpretazione di culture. Il Mulino, Bologna.
Ingold, T., 2021. Corrispondenze. Raffaello Cortina, Milano.
La Cecla, F., 2022. Il malinteso: Antropologia dell’incontro. Mimesis, Milano.
Madera, R., 2012. La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica. Raffaello Cortina, Milano.
Morin, E., 2001. I sette saperi necessari all’educazione del futuro. Raffaello Cortina, Milano.
Pievani, T., 2019. Imperfezione. Una storia naturale. Raffaello Cortina, Milano.
Premoli S., 2025. Professione pedagogista. Lo sguardo pedagogico nelle pratiche di coordinamento, consulenza e supervisione. Franco Angeli, Milano.
Rogoff, B., 2004. La natura culturale dello sviluppo. Raffello Cortina, Milano
Scardicchio A.C., 2012. Il sapere claudicante. Appunti per un’estetica della ricerca e della formazione. Bruno Mondadori, Milano.
Serres, M., 2016. Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente. Bollati Boringhieri, Torino.