Professoressa Associata di Pedagogia Generale e Sociale, phd in Pedagogia delle scienze della salute. Dal 1998 svolge attività scientifica e didattica accademica. E’ autrice di pubblicazioni internazionali e nazionali inerenti le correlazioni interdisciplinari tra scienze dell’educazione e scienze della complessità, con focus di studio intorno alle correlazioni tra linguaggi simbolici, reflective practices e trasformative learning nella formazione dei professionisti della cura e dell’educazione.
Sommario
Il contributo correla la questione epistemologica a quella esistenziale, declinando quest’ultima nell’intreccio tra dimensione intima e dimensione politica. Proprio queste due dimensioni attraversano il domandare e il domandarsi intorno al Bene Comune nella coesistenza di dissipazione e relianza, e dunque nella evidenza di un Bene-Non-Comune alla luce dell’esame di realtà. La riflessione volutamente assume la forma narrativa dell’auto-interrogazione e prova a delineare una “minuta” possibilità di “Resistenza sistemica”.
Parole chiave
Bene Comune; Bene-Non-Comune; Mors tua, Vita mea; Resistenza; Co-Creazione Relianza; Vita tua, Vita mea
Summary
The essay correlates the epistemological matter to the existential one, explaining the latter in the tangle between intimate and political dimension. Just these two dimensions cross the asking and the wondering about the Common Good, in the coexistence of waste and relianza, so highlighting a Not-Common-Good in the light of the exam of reality. The consideration deliberately takes the narrative form of self-queston and tries to outline a “little” possibility of “systemic Resistance”.
Keywords
Common Good, Not-Common-Good, Mors tua, Vita mea, Resistance, Co-Creation, Relianza, Vita tua, Vita mea.
1. Apocalypse, now
Prima ho resistito al nazismo, in seguito ho resistito allo stalinismo;
mi sono poi sforzato di oppormi a entrambe quelle barbarie,
che si sono unite nel corso di questo secolo.
Spontaneamente o volontariamente, consapevolmente o no,
credo di aver voluto resistere a quel che d’impietoso
c'è nella politica e nei rapporti fra gli esseri umani.
All'origine di tutti questi atti di resistenza,
scorgo una resistenza più profonda, primordiale:
la resistenza alla crudeltà del mondo.
La prosecuzione del disperato sforzo cosmico,
che negli uomini assume la forma
di una resistenza alla crudeltà del mondo:
ecco, forse è proprio questo
che potrei chiamare speranza.
Edgar Morin
Il compito di favorire relazioni fraterne invece che guerresche
è da reinventare a ogni passo, per noi umani,
e sempre a un passo dal fallimento
(per gli altri viventi il problema non si dà:
la crudeltà del mondo interpella soltanto noi)”.
Sergio Manghi
Abbiamo scritto per anni di epistemologia e metodologie - vitali, quotidiane, non solo teoresi e tecniche - sistemiche, abbiamo lavorato insieme per decenni provando a tessere in molteplici discipline e contesti il filo portante di quella rivoluzione paradigmatica: tutto è legato, collegato, indissolubilmente coesistente. Sistemica è la forma del vivente, e sistemica è la consapevolezza che tutto è interdipendente, e dunque che è la relianza (Morin E., 2004) la logica di questa poetica e politica complessità: la capacità di connettere, tessere legami, generare ibridazioni continue tra identità non sclerotizzate bensì capaci di metabolismi.
E non per romanticismi o per buonismi: ma per questioni corroborate da chimica e da fisica quantistica, da neuroscienze e da biologia, per evidenze sperimentali – non più solo d’intuizione mistica di chi già prima le aveva percepite – che al big bang del secolo scorso, ovvero da Einsten, Heisenberg, Bohr, e poi Bateson e Morin e Prigogine e Ceruti, avevano riscritto Cartesio e Newton, e i fascismi anche scientifici che fino ad allora avevano letto la realtà come separata, separabile.
È per questa passione sistemica, per questa visione dell’interdipendenza come cifra del vivo e del Vivente, che ci siamo incontrati in decine e decine di convivi e di libri, emozionandoci discutendo di ecologia materiale ed immateriale, sognando un salto evolutivo ulteriore che avevamo cognizione e speranza di poter chiamare pace globale, fondando – anche con l’evidenza sperimentale - il Bene Comune come pre-condizione della salute collettiva e personale, geopolitica e psichica.
Ed è per questa certezza sistemica, che ho pensato di giungere così vorticosamente ad un tempo planetario in cui la forma sistemica più salutare sarebbe stata, nonostante tutto questo – nonostante noi (dico con dolore, con tenerezza, con coscienza di presunzione e
ingenuità) – ridiscussa: la democrazia, forma di governo e, prima ancora, forma mentis, sembra adesso stemperarsi persino nel luogo, fisico e culturale – l’Occidente, che nelle Nuove Indicazioni Nazionali per la Scuola Primaria si autoelegge culturalmente più evoluto di tutti gli altri del pianeta - che avevamo creduto solo in evoluzione, assolutamente immune alla regressione. E forse è stato questo l’errore: pensare che non avremmo potuto regredire, non contemplare l’ipotesi d’involuzione, pur concettualmente sapendo che dissipazione e disordine, e morte persino, sono parte costitutiva del Vivente.
Scrivo qui, proprio qui, in questa Rivista, e in questo numero dedicato al Bene Comune, per quello che per me l’AIEMS ha rappresentato e rappresenta: una comunità di pensatrici e pensatori che ha a cuore il cuore del mondo. Scrivo a voi e con voi, voi che da Bateson come me avete ricevuto l’innamoramento per il Vivente indivisibile e ne avete avvertito il contagio, la spinta, la tensione epistemologica e democratica (mi verrebbe da dire: la versione laica di quella che per il cattolicesimo è l’eucarestia, nel senso di una transustanziazione nella quale il materiale è immateriale e l’immateriale è materiale). Scrivo nei giorni dopo la morte di Papa Francesco, per interrogarmi tra sorelle-e-fratelli-tutti, accomunati dal domandarci intorno al senso d’essere umani proprio qui, proprio adesso, per condividere questa inaspettata necessaria chiamata al disarmo: dico al nostro, innanzitutto. Disarmare la nostra certezza che l’evoluzione della conoscenza sistemica fosse la bellezza che avrebbe salvato il mondo: “siam pronti alla morte”, ovvero a questa evidenza così dolorosa e tagliente?
Perché scriviamo, perché scriviamo qui e altrove – chiedo anche a noi accademici che sulle nostre riviste scientifiche scriviamo verosimilmente per noi stessi, perché ci misurano per il numero delle pubblicazioni e non sappiamo scrivere per parlare d’Umano all’Umano (1) -, perché abbiamo scritto e per chi, se la nostra cultura sistemica sembra non essere stata e non essere capace di generare politica sistemica? Contiamo molto meno di un algoritmo.
E proprio per questo che un numero monografico sul Bene Comune, in questa primavera del 2025 - ovvero mentre il nostro piccolo mondo iperconnesso si disconnette in molte forme - è per me una chiamata al disarmo del mio bisogno di scritture e parole che credevo aperte all’incertezza ma in quella sono stordite. Sento questo numero come una inattesa chiamata, sinceramente, in Italia ottanta anni dopo, alla Resistenza: a resistere alle polarizzazioni di ogni narcisismo, anche meno manifesto, a resistere alla logica manichea che - ridendo dei nostri scritti sulla complessità, e dei nostri convegni e festival, e delle vacanze studio e delle presentazioni dei nostri libri più amati – sempre più si semplifica, manifestandosi in identità che proiettano mostri e si sentono salve dalle loro stesse minacce solo se totemizzano capri espiatori su cui scaricare in forma di rabbia la paura della diversità, cioè della non coincidenza con sé.
Mors tua, vita mea sembra il paradigma che riprolifera paradossalmente in un tempo in cui ci saremmo aspettati che secoli di studio e ricerca ci avrebbero consentito di smettere di leggere bellicamente ciò che per sua natura è invece intrecciato: “vivo solo se qualcuno muore” – che nella giungla era riferibile a minacce materiali alla propria sopravvivenza, adesso è invece riconducibile anche a sole percezioni.
Vorrei che fosse una mia esagerazione, ma stanno accadendo eventi che solo pochi anni fa avremmo detto impossibili, impensabili: “Mi sento vivo solo se qualcuno muore, e possibilmente per mia mano”, sembra essere sui social la forma del bullismo trasversale alle età: la logica psichica del persecutore – che tutti i nazifascismi della storia hanno plastificato – ci scuote e ci chiama ad uscire da queste pagine che tanto amiamo, per raggiungere nel quotidiano il Vivente umano che velocemente sembra stia regredendo nonostante secoli di evoluzioni in letteratura, arte e incredibile scienza. Certo questi secoli sono pochi, pochissimi rispetto alla storia del pianeta, ma a me – che sono una creatura che vive da un soffio - tutti quei libri (ah, che tenerezza tragica e comica, questa!) erano sembrati fino a qui enormi ed immensi, e sufficienti. Vivevo nella illusione che il futuro sarebbe stato ingenuamente migliore – pur avendo ben compreso la decoincidenza tra futuro e progresso (Benasayag M., 2004) e pur studiando della coesistenza di disordine e ordine, caos e creazione: ma lo vedo solo adesso quanto, invece, io credessi, sperassi, sognassi che saremmo andati – crescendo in conoscenza scientifica sistemica – verso il Bene che quella ecologia evidenzia: la corrispondenza tra Bene Proprio e Bene Comune. E quanto invece mi sbagliassi.
Nella tua gabbia 2x3 mettiti comodo.
Intellettuali nei caffè
Internettologi
Soci onorari al gruppo dei selfisti anonimi.
L'intelligenza è démodé
Risposte facili
Dilemmi inutili
(…)
Piovono gocce di Chanel
Su corpi asettici
Mettiti in salvo dall'odore dei tuoi simili.
Tutti tuttologi col web
Coca dei popoli
Oppio dei poveri
(…)
La folla grida un mantra
L'evoluzione inciampa
Occidentali's Karma
La scimmia nuda balla
Occidentali's Karma
Francesco Gabbani
2. MORS TUA, VITA MEA
Il mondo è comparso in una rottura, in una deflagrazione, nel vuoto o nell’infinito.
Lo spazio e il tempo, grandi separatori, apparvero con il mondo, il nostro mondo.
A partire dall’agitazione termica primaria si verifica una dialogica indissociabile
tra ciò che separa, disperde, annichilisce
e ciò che lega, associa, integra.
Come dall’inizio, sotto l’effetto della deflagrazione originaria, l’universo tende a disperdersi,
le forze di relianza conducono una lotta, a nostro avviso patetica, contro la dispersione,
concentrando nuclei, atomi, stelle, galassie.
Certo, le forze di relianza sono minoritarie
in confronto a quelle che separano, annichiliscono, disperdono.
Edgar Morin
Siamo solo a un quarto di questo anno eppure sin da subito in gennaio, questo 2025 sembra stare trascinandoci dentro un precipizio nel quale ogni giorno si smantellano architravi che avevamo creduto portanti, ovvero visioni e pensieri collettivi - e diritti - che non pensavamo sarebbero stati più scossi; osserviamo ferocia globale, planetaria, e contemporaneamente domestica: accanto all’assurdo di questo ammazzarsi tra prossimi – nei familicidi che la cronaca ci consegna come esponenziali – la narrazione assuefatta incamera omicidi al ritmo “perché voi siete felici ed io no”, “perché mi hai tolto il parcheggio”, “perché mi hai sporcato le scarpe da ginnastica”, come se la trama sottesa fosse, nel parcheggio del supermercato, la stessa della giungla che pensavamo, con tutte le lauree brevi moltiplicatasi dopo la Riforma Gelmini, di aver superato: “ti faccio vedere io chi è che qui comanda”.
La cifra intorno è altro che Bene Comune: “muori, affinché io esista”, il totem dell’altrui annichilimento è la forma che sembra si stia normalizzando in narrazioni sempre più radicalizzate, nell’Occidente che nel secolo scorso temeva la radicalizzazione degli stranieri, non concependo la propria.
Eppure per tanti è come se nulla fosse: “andrà tutto bene”/”va tutto bene” è la risposta psicotica con cui noi esseri umani siamo abili nell’autoinganno, come nella autoassoluzione.
Perché?
Tecnicamente: si chiamano rimozione ed evitamento queste due forme, individuali e collettive, per cui continuiamo a suonare come l’orchestrina sul Titanic mentre affonda.
Non vedere, non sentire, fare finta di nulla sperando che così tutto passerà: come se nulla fosse. Come se bastasse chiudere un’app, ghostare un contatto. Come se tutto fosse un videogioco. Come i filtri, le fiction, come se la vita fosse un videomontaggio. Come se, come Truman nel suo Show, potessimo un mattino scoprire che non era vero che qualcuno al potere giocava a Risiko col destino degli altri, con l’incantamento “ci serve la guerra per la pace”.
La narrazione collettiva sembra muoversi come se tutto fosse reversibile: l’illusione che anche la realtà possa essere resa, come un pacco che non ci ha soddisfatto. E per questo doparsi di post, stories, selfie e dopamina da smartphone. Da questa logica senza complessità – rapida come chi non legge più, soltanto scrolla – si plastifica l’onnipotenza di chi, dalla propria bacheca social, su tutto e tutti sentenzia, servendosi della morte di un altro – in molte forme intesa - come piedistallo sulle cui macerie salire.
E’ per questo che possiamo dire – connettendo grande a piccolo – che la cura della vita psichica è il tema urgente più politico: la salute mentale si stempera non soltanto nell’aumento di ansia e angoscia, come da più ricerche rilevato, ma anche nel sadismo che sembra crescente, fondato sulla paranoia che si esprime nel complottismo che tempo fa sarebbe stato inverosimile, ed ora pervasivo e incredibilmente trasversale a titoli di studio, contesti, culture, nazioni, portafogli. L’intima e politica posizione in attacco (“sul piede di guerra” è l’espressione metaforica che descrive letteralmente la situazione geopolitica internazionale ma anche, assai efficacemente a mio avviso, posture individuali) si radicalizza nel percepire l’altro (ogni altro, indipendentemente che sia immigrato o storico vicino di casa, che abbia il proprio stesso orientamento politico e religioso oppure no) che non-conferma-il-proprio-sé e la sovranità dei propri bisogni, come minaccia. Il sentirsi costantemente “minacciato”, non riuscendo ad integrare incertezza e complessità come costitutive della propria vicenda intima e politica, è un abito interiore che è stato potenziato da modalità social che hanno generato una particolare routine cognitiva ed emotiva ed ergo comportamentale (potremmo proprio dire: una routine intima, ergo politica): percepire la realtà e l’altro come motivo di paura o rabbia quando non a-sé-coincidenti, secondo la logica “mi piaci se io piaccio a te” (rilevando come i like siano diventati archetipi psichici). In questo posizionamento di iperattivazione costante del sistema attacco/fuga, Il Bene è percepito naturalmente come Proprio e minacciosamente come Comune; per questo motivo merita particolare attenzione la lettura recente che Massimo Recalcati ha offerto, leggendo proprio il tratto paranoico come cifra crescente tra le relazioni, internazionali e quotidiane, pratiche e simboliche:
“Siamo qui al cuore della lezione clinica della paranoia che si può riassumere con le parole di un noto gerarca nazista secondo il quale assassinare è una necessità ineludibile per non essere assassinati. In evidenza è il carattere auto-difensivo del delirio paranoico: la minaccia permanente che l’Altro incarna deve essere neutralizzata ad ogni costo; aggredire sarebbe così un modo per evitare di essere aggrediti. La spinta distruttiva rivolta verso l’Altro trova qui la sua molla di fondo: annientare il Nemico è un esercizio securitario per preservare l’esistenza e l’integrità dei propri confini (…) Di qui
l’oscillazione tipica del soggetto paranoico tra il sentirsi radicalmente escluso (emarginato, segregato, perseguitato) ed essere guidato da una inesauribile ambizione narcisistica che lo sospinge ad incarnare l’eccezione, ad essere “il più grande”.” (Recalcati M., 2025, 1)
Il “sé grandioso” sembra essere la forma di un sé che per esistere – e ammazzare virtualmente chi considera pericoloso – ha necessita di stare costantemente sul palcoscenico social, incapace di pudore ed intimità, e tutto rovesciare sulla tavola esposta al wordlwideweb, che nulla del suo mondo interno riesce a trattenere dal vomitare al mondo esterno, mentre sogna che un suo post diventi virale, che possa dirsi influencer con milioni di visualizzazioni e soprattutto followers. Dentro questa forma mentis che tutto legge nello schema magis-minus, il teatro interiore si muove prevalentemente mediante le forme psichiche arcaiche, che oscillano tra posizione di attacco (perseguitare) e posizione di fuga (sentirsi perseguitato). Non c’è prospettiva di Bene Comune in questa oscillazione: quel che così si declina come Bene è sopravvivenza e prosperità come nella forma primitiva Mors tua, vita mea.
In questo scenario – che è politico perché è psichico - rabbia e angoscia sono (adesso come storicamente) pre-condizione di ogni dittatura: poiché è in questa sensazione di minaccia continua che il dittatore non viene riconosciuto come tale bensì vissuto come salvatore, e il suo promettere salvezza lo rende, insieme, padre regolatore e madre nutriente, antidoto alla paura, rafforzatore del sé del singolo, non solo del dittatore stesso.
Forse da qui potremmo partire: un respiro profondo, un doloroso radicamento nella realtà e il chiamare la dissipazione col suo nome: il Bene non è Comune nel tempo degli “egosauri” (Rovatti P.A., 2019) del futuro all’indietro. Partire riconoscendo che – paradossalmente, nonostante sia il tempo della evoluzione tecnica e tecnologica che sta raggiungendo e doppiando la fantascienza – siamo al punto che, come in una distopia, si può leggere l’architettura del presente come quella di 2000 anni fa: come quando uomini e donne dentro un teatro chiamavano “giochi” il vedere morire uomini e donne sbranati dai leoni, e provavano piacere e chiamavano festa quella pratica che mai nessun’altra specie ha fatto propria, a parte la nostra. In quello stesso sadismo dell’eccitazione al Colosseo ritroviamo su quelli che curiosamente chiamiamo social, “profili” che sembrano cercare come allora panem et circentem, per sentirsi felici: il pane è la connessione continua ed illimitata, lo scrolling continuo che coi reels e i selfie appaga e affama, i giochi sono il massacro che sui social esperiamo nutrire, in fome economiche e psicologiche. Il tema dell’augurare la morte in rete – tratto assai frequente, accade per divergenti idee culinarie, non soltanto per differenti idee politiche – era focus di una delle sceneggiature di Black Mirror: pure quella dalla realtà raggiunta e ora doppiata.
Come possiamo, in questo scenario planetario e domestico, configurare epistemologia e metodologie sistemiche per non soltanto cantarcela e suonarcela, ma sentirci capaci di uscire, uscire dai nostri circoli e dalle nostre ecochamber scientifiche, uscire anche da questo dolore d’impotenza?
Forse sentendo che solo adesso, militando nel vuoto, la nostra ricerca è reale: la questione,
come ha scritto Morin, è alchemica poiché, mentre le forze che tendono alla dissipazione si moltiplicano, la nostra coscienza della complessità, la nostra Resistenza sistemica, è chiamata alla moltiplicazione di quelle di relianza. Nel piccolo, concepito come grande, sentendoci chiamati a fare di sangue e di carne l’ecologia che a noi appare salvezza e ad altri appare folle: Vita tua, Vita mea, il segno sistemico dei viventi in posizione di grammatica creaturale (Bateson G., Bateson M.C., 1989) e non bellica, in posizione relazionale, non narcisistica (cfr. Lingiardi V., 2021; Morelli U., 2017) come quella che si materializza nei selfie pubblicati anche sotto post di filosofia o di temi-che-non-riguardano-la-propria-immagine, per “insostenibile bisogno di ammirazione” (Pietropolli Charmet G., 2018).
E dunque: come possiamo, proprio adesso, resistere?
Forse, arrendendoci.
Arrendendoci alla complessità. Integrandola come questione non solo gnoseologica, ma portandola nella carne. E dunque accettandone il dolore non ottimista, ma neppure riducibile a pessimismo, della evidenza che comporta: ordine e disordine, bene e male, in reciproca necessità. Ovvero, con le parole di Sergio Manghi nel 2010:
“(…) fare i conti con il volto misterioso dell’altro. (…) capaci di vedere nella nostra vita interiore e di relazione le circolarità tra osservatore e osservato, le interdipendenze, indeterminatezze, le ambivalenze, le ambiguità, i doppi legami, e così via – quel che chiamiamo, appunto, pensiero della complessità.” (pp. 27-28, corsivo mio)
3. L’UMILTA’ DEL MALE
Sapersi non-innocenti (…).
Sergio Manghi
Perché e per chi scriviamo qui?
Ci piacerebbe poter scrivere: per il Bene Comune.
Ma adesso questo deflagrare, intimo e politico, ci conduce - salutarmente - alla resa al piccolo Bene che riguarda innanzitutto il coraggio di circo-scriverci. E nel duplice senso di quel circo, che intende sia la rinuncia a sognare che qualcosa che scriviamo o facciamo possa generare un Bene maggiore, sia il rimando al mistero dei giochi al circo: non intendo adesso quelli al Colosseo. Intendo quelli dei clown, che restano a ridere del loro cadere. E dunque da qui rispondere: scriviamo per il Bene minore. Scriviamo per ricordare quanto a me ha ricordato Sergio Manghi, poche settimane fa, sotto un post che ho condiviso, e che ho riportato qui in esergo: si supera la posizione paranoica quando si smette di ritenersi innocenti, di salvarsi con l’idea di essere buoni.
“(…) nel disegno paranoico la follia viene sempre attribuita all’Altro e non al soggetto che invece si rivela come un lucido lettore della perfida malignità dell’Altro.
L’impossibilità di accedere al lavoro simbolico del lutto nei confronti del trauma della perdita – che non riguarda solo il soggetto individuale ma anche i popoli e gli Stati che li rappresentano – irrigidisce il delirio paranoico nell’odio e nella recriminazione vendicativa costantemente rivolta verso un Altro vissuto come la fonte di ogni male. Il narcisismo maligno che lo anima non vuole sapere nulla del carattere irrimediabile della ferita che lo intacca. La passione dell’ignoranza che anima la sua esistenza è pari solo alla forza con la quale difende il suo assioma di innocenza.
(...) La colpa non è mai del soggetto perché è sempre e solo dell’Altro. Ed è una colpa tanto irrevocabile e assoluta quanto evidente e priva di ambiguità. Lo sguardo delirantemente lucido del paranoico la smaschera ogni volta senza pietà. Nessun dubbio e nessun tentennamento: l’Altro – l’ebreo, la donna, la società, il sistema del potere, il messicano, l’ucraino, il palestinese, il migrante, l’omosessuale, lo straniero, ecc. – è sempre il colpevole di tutto. Si tratta di una attitudine proiettiva oggi divenuta follemente pervasiva nella vita pubblica. Non a caso i grandi paranoici possono diventare dei leaders convincenti e carismatici.” (Recalcati M., 2025, 1)
Forse è questa la competenza che ci sfugge quando restiamo irretiti nel solo schema attacco-fuga: lasciare andare l‘equazione Altro-Ombra verso il coraggio di assumere l’Ombra come anche propria.
E forse è questa la competenza che, a mio avviso, è pre-condizione che può rendere il Bene Comune concepibile e non controintuitivo per chi sta “sul piede di guerra” fisicamente, simbolicamente: questo non assolversi continuamente, non crocifiggere ininterrottamente, non credersi spettatori innocenti, e allora resistere sapendosi parte di una ecologia nella quale la vita psichica individuale, intima, si riverbera in quella politica, altrimenti il nemico, anche per noi, sarà sempre là fuori… nonostante sia scritto in ogni riga rivoluzionante di ecologia e complessità, e nei testi sacri di religioni che sono sistemiche nel connettere, che tutto – intimamente, politicamente - co-esiste.
Anche questa è una consapevolezza alchemica antica: se sono capace di abitare la realtà – intima, politica - in coniugazione, e non definendomi per opposizione (Scardicchio A.C., 2019) potrò integrare Sé e Altro, Bene Proprio e Bene Comune, leggendoli non in reciproca esclusione.
Arrendersi alla complessità, allora, come coraggio di riconoscere, con Franco Cassano, che il Male è umile, il Bene non sempre: perché il primo riconosce che l’Umano è anche ombra, il secondo fa in questo spesso fatica.
“L’ipotesi iniziale è che oggi il male, nella sua lunga sfida contro il bene,
riesca a partire con un margine di vantaggio difficile da annullare.
Esso è un fondista veloce, corre svelto e leggero come se fosse in discesa,
mentre sull’altro versante il bene arranca affannosamente su un’eterna salita.
E anche quando crede di essere riuscito a conquistare posizioni stabili e forti,
è spesso costretto ad accorgersi che quei territori non sono sicuri
e possono tornare nelle mani del suo avversario,
avverte gli scricchiolii degli argini e del proprio sistema di difesa.
L’ipotesi da cui muove il nostro ragionamento è che questo vantaggio del male
dipenda in primo luogo dalla sua “umiltà”,
da un’antica confidenza con la fragilità dell’uomo,
che gli permette di usarla ai propri fini.
Del resto, chi lavora sulle tentazioni
non può non conoscere le nostre debolezze.
Il bene, invece, è così preso dall’ansia di raggiungere le sue vette
che spesso finisce per voltare le spalle all’imperfezione dell’uomo,
lasciandola tutta nelle mani delle strategie del male.
Chi ha gli occhi fissi solo sul bene, spesso ha deciso di non guardare altrove:
l’urgenza di giudicare, di misurare l’essere sul metro del dover essere,
lo porta a guardare con impazienza chi rimane indietro,
e tale mancanza di curiosità lo porta alla sconfitta.
Il male approfitta della distrazione o della boria del bene
per mettere le tende e costruire alleanze.”
Franco Cassano
4. I MINUTI PARTICOLARI
E così, paradossalmente, lasciar andare la “boria del bene”: continuando a scrivere di scienza e di epistemologia sistemica e ad interrogarci di geopolitica mentre ci osserviamo e studiamo su come facciamo la fila al supermercato, su quanti selfie ci occorrono per sentirci vivi. Su quanto accogliamo critiche. Su quanti giudizi totali emettiamo. Su quante telefonate piuttosto che messaggi inviamo. Su quanta diversità integriamo. Su quanti estremismi di cui non siamo consapevoli perseguiamo. Sulle persecuzioni che non pensiamo di esercitare eppure esercitiamo: mors tua, vita mea, nella riunione di condominio, nella chat di classe, nelle relazioni in cui l’altro ci aspettiamo che funzioni come Alexa, veloce e appagante.
E poi – sebbene nulla sembri che possiamo fare per incidere sulle politiche nazionali, europee, planetarie – resistere mantenendo la porta aperta a chi sta entrando dopo di noi sebbene sconosciuto, chiedere scusa quando guidando sbagliamo e qualcuno ci vomita il suo fegato addosso, raccogliere un vestito per terra in un negozio anche se non l’abbiamo fatto cadere noi, non rispondere alla ferocia con ferocia. Forse scandalizzerà questo Bene Comune in questo testo declinato, dopo aver raccontato di Colosseo contemporaneo e di familicidi, in piccole scelte rubricate oggettivamente come insignificanti e poco incidenti:
ho scritto altrove analisi accademicamente forse più dignitose, chissà; qui sapevo di poter scrivere di Resistenza minuta, intima e politica, ovvero di attenzione quotidiana – in questo senso direi militante – ai “minuti particolari” – che Bateson richiamava da Blake - come embodiment della relianza.. Franco Cassano ha scritto che il Male si moltiplica perché abita luoghi e sensi “umili” che il Bene tende a scartare, quando si concentra soltanto sull’universale. E allora per questo sto provando a scrivere anche di Bene piccolo. Di come lasciamo andare in una questione d’amore o di lavoro o di condominio la polarizzazione torto/ragione, il narcisismo delle nostre radicalizzazioni, di come ogni giorno in piccole gigantesche questioni dissipazione e relianza entrambe ci abitano e ci interrogano, chiedendoci chi siamo, e a noi spetta di rispondere non di default, ma ogni giorno come fosse la prima volta.
Qui sapevo di poter con voi condividere il turbamento di un morso allo stomaco, al collo ed al petto, che – se inteso come implicazione necessaria per sentire il Bene Proprio come indisgiungibile dal Bene Comune - insieme ci stanca ma non ci strema: ci ridefinisce soggetti creatori e creanti, capaci di connessione reale col reale – e sì, in posizione impegnativa, psichicamente costosa, scardinante, ma viva e, oso dire, Vivente. Un mio amico sacerdote mi ha detto che questo è il caos è da attraversare metaforicamente con due libri, pur così logicamente assai differenti tra loro, riguardo a contenuto e loro collocazione nel ritmo del tempo (ed effettivamente io mai avrei saputo collocati uno accanto all’altro): Apocalisse e Cantico dei Cantici. Mi ha spiazzato. Credo di aver appreso, da questo accostamento tragico e insieme struggente, che la Resistenza sistemica che confidiamo di generare, si genera e si esprime realmente proprio nell’ora della dissipazione: resisterà nella mano che non ci getterà in mare per farsi posto, quando il posto non ci sarà per tutti.
E se anche dovessimo naufragare tutti: resisterà finché la nostra mano non getterà in mare un Altro per far posto a Sé.
Resteremo poco influenti: Trump e Putin non ci telefoneranno per chiederci consulenze sistemiche, ma per noi varrà, intimamente e politicamente, una minuta salvezza, quella capace di tenere insieme la tensione drammatica tra dissipazione e relianza, e che taluni chiamano Amore: Vita tua, Vita mea.
Certo, le organizzazioni delle stelle
fino alle organizzazioni degli organismi viventi sono, a termine,
condannate alla dispersione e alla morte
conformemente al secondo principio della termodinamica.
Ma sono queste forze di relianza che,
dopo i nuclei, gli atomi, gli astri,
hanno creato sulla Terra le molecole, le macromolecole, la vita.
Su un minuscolo pianeta perduto,
fatto di un aggregato di detriti di una stella scomparsa,
la vita è apparsa come
una inaudita vittoria delle virtù di relianza.
Edgar Morin
(1) Uso il maiuscolo, qui come in altre mie recenti scritture, non per porre l’umanità al di sopra delle altre forme del Vivente, ma per intendere così, ingenuamente probabilmente, la distinzione tra scritti che – riprendendo Benasayag – vanno nella direzione del funzionare piuttosto che dell’esistere, scritture – scientifiche o letterarie, è lo stesso – che si reggono metodologicamente perfettamente, senza intoppi logici e persino senza aporie, ma che restano lontane dalle grandi questioni del vivere e del morire, del cercare senso o del perderlo, dell’andare verso la dissipazione o verso la relianza. Per questo qui, come altrove, ho sentito di usare la lettera maiuscola, considerando l’aggettivo come sostantivo, sentendo di distinguere il funzionamento dall’essenza. Ma, anche, mantengo il tremore mentre lo scrivo, sentendomi coinvolta quando Sergio Manghi mi scrive, confrontandoci al riguardo, e richiamando la sua perplessità sulla espressione diffusa secondo cui dovremmo “restare umani” che: “l’umano non è per me essenza ma storia naturale-ecologica alquanto scombinata e inconclusa, perché non credo che ci sia mai stata un’epoca dell’umano a cui valga la pena “restare” fedeli, ammesso che sia nelle possibilità umane”. Sento, con lui, che non si tratta di “recuperare” alcun Umano a cui tornare, ma di sentire l’Umano come tensione. Certo, ci convoca allora la domanda: quale Umano? Ingenuamente la risposta scriverei che è proprio il tema di questo numero: la capacità di un Bene non solo proprio. Ma non so – e non debbo - declinare i confini di questa definizione. E allora depongo questa presunzione, lasciando quell’Umano maiuscolo, riconoscendolo solo come mia necessità, epistemica (al di fuori della quale non so argomentare) ed esistenziale (al di fuori di quel maiuscolo, forse io, da “occidentale media”, come continua a ricordarmi Bateson, non so abitare me stessa e il pianeta).
Bibliografia
Bateson G., 2000. Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi.
Bateson M.C., Bateson G., 1989. Dove gli angeli esitano. Verso una epistemologia del sacro, Milano, Adelphi.
Benasayag M., 2003. L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli.
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