Esperto di economia internazionale e dello sviluppo, coordinatore di ricerca del Centro Studi Politica Internazionale (CeSPI) e policy officer della Federazione degli organismi cristiani di sviluppo internazionale volontario (FOCSIV), curatore dei rapporti Padroni della Terra.
Sommario
L’articolo analizza il fenomeno dell’accaparramento delle terre nell’ambito dell’economia estrattivista, commentando le informazioni recenti del database Land Matrix e di ciò che significano per le comunità locali e la natura. Approfondisce il tema riguardo il nuovo estrattivismo portato dalla transizione energetica, per arrivare infine a delle conclusioni riguardo le possibili misure da intraprendere per arrestare o ridurre le operazioni di accaparramento.
Parole chiave
estrattivismo, land grabbing, transizione energetica, zone di sacrificio, terre e acque morte, dovuta diligenza.
Summary
The essay examines the grabbing of the lands within the mining economy, expounding the recent infomation of the Land Matrix database and commenting on what they mean for the local communities and the nature. The essay investigates the matter relating to the new mining caused by the energy transition, to come to some conclusions about the possible measures to take in order to stop or reduce the grabbing.
Keywords
Mining, land grabbing, energy transition, spoiled areas, dead lands and waters, due diligence.
Se si concepisce, la terra, il suolo, il sottosuolo, ma anche l’acqua, i fiumi, i mari con gli oceani, e tutto ciò che contengono flora, fauna, vegetali, microrgansmi, come bene comune dell’umanità, di tutti e tutte, ma anche e soprattutto delle diverse specie che vi convivono, risulta oltremodo evidente come una di queste specie, quella umana, stia drammaticamente erodendo e consumando il pianeta, il suo sistema ecologico. Minando la sua stessa sopravvivenza. Creando crescenti disuguaglianze tra i popoli e tra le generazioni, e trasformazioni come il riscaldamento climatico e la perdita di biodiversità che modificano i cicli naturali e l’evoluzione della vita di tutti gli organismi.
L’antropocentrismo sta segnando un cambiamento d’epoca. L’estrattivismo, alimentato da una tecnica umana potenziata che persegue diversi fini di dominio, sta distruggendo i fondamenti della vita. L’espansione e l’approfondimento dell’accaparramento della terra, così come dell’acqua, degli oceani e dello spazio, è un fenomeno che dimostra chiaramente questo cambiamento.
L’accaparramento della terra (land grabbing in inglese) si definisce come l’appropriazione legale, tramite concessione, affitto o acquisto, o illegale, di vasti appezzamenti di terra da parte di entità esterne. Terra sulla quale conducono da tempo la loro vita comunità umane e specie animali e vegetali, che vengono espropriate, estromesse, marginalizzate e abbattute. Comunità umane come i popoli indigeni e contadini che possono vantare un diritto consuetudinario al possesso di quella terra, che però non viene riconosciuto e tutelato. Andrea Segrè (2019) sottolinea come il sostantivo accaparramento sia molto chiaro nel suo significato: “l’incetta di merci, fatta sia per provocarne il rincaro e rivenderle così a un prezzo superiore, sia allo scopo di costruirsi riserve in previsione di un aumento del loro prezzo”. A loro volta Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli (2018) scrivendo del water grabbing indicano come l’accaparramento di acqua, e le sue conseguenze in termini di conflitti, migrazioni, povertà, disuguaglianze e squilibri, conferma l’approccio predatorio in atto su un bene comune indispensabile alla vita. E Don Bruno Bignami (2019) scrive di quattro possibili equazioni sulla sottrazione di terre: terra meno contadini uguale dissesto e abbandono; terra meno biodiversità uguale monocolture; terra meno cibo uguale carburante e fame; terra meno comunità uguale povertà economica e culturale.
L’accaparramento implica in sé un giudizio negativo di queste operazioni di appropriazione perché vanno a ledere i diritti delle popolazioni locali e della natura. In generale queste operazioni sono anche denominate in modo descrittivo economico, come investimenti diretti esteri sulla terra (senza dimenticare però che molte operazioni di accaparramento sono realizzate da agenti nazionali nello stesso Paese). Si tratta infatti di investire denaro nell’uso della terra per scopi di profitto, ma non solo, trasferendo nuove tecniche e tecnologie. Questa forma neutrale apparentemente descrittiva implica un giudizio positivo perché considera l’introduzione di innovazioni per la trasformazione e valorizzazione delle risorse naturali per soddisfare bisogni umani, come l’alimentazione. Le operazioni condotte possono aumentare la produttività, creare occupazione, soddisfare il consumo, migliorare le condizioni di vita delle comunità locali, rispettare la natura. D’altra parte, ciò può non essere vero. E purtroppo in molti casi è effettivamente falso.
Il concetto di accaparramento della terra si relaziona strettamente a quello di estrattivismo.
Vi sono diverse definizioni, si può intendere come “un particolare modo di pensare, e le strutture e pratiche organizzate verso il fine di massimizzare i benefici attraverso l’estrazione che porta nel suo concretarsi violenza e distruzione”. Il concetto di estrattivismo trova origine nei movimenti sociali dell’America latina durante i conflitti contro le grandi miniere a cielo aperto ed i mega progetti agricoli ed industriali. Esso lo si interpreta come manifestazione del capitalismo e ancor prima del colonialismo sorto con la scoperta del cosiddetto nuovo mondo. In questo senso si descrive come “un modello socio-economico basato sulla rifunzionalizzazione dei territori a favore dell’estrazione intensiva o estensiva di una specifica risorsa, allo scopo di commercializzarla nei mercati globalizzati” (Benegiamo M., 2024). D’altra parte, non si può dimenticare come anche il modello socialista si fondi sull’estrazione su larga scala delle risorse naturali per l’espansione del mercato interno o del sistema internazionale di appartenenza (come il passato COMECON), e come i nuovi modelli di Stato e mercato alla cinese perpetuino operazioni di estrazione e accaparramento nel mondo (Park H., 2023).
Più a fondo il concetto fa riferimento ad un modo di pensare il rapporto tra l’uomo e la natura, all’idea di una presunta separazione tra società e natura, come stabilisce l’approccio antroprocentrico. La natura e la società umana sono intese come due entità separate. La società umana tratta la natura come qualcosa da dominare, controllare e sfruttare, anziché riconoscere la stretta interdipendenza che la lega alla terra e alle sue specie viventi.
L’estrattivismo dalla natura assume nel tempo forme sempre più diversificate e ampie, dalle miniere, alle grandi piantagioni e monocolture, dalla cementificazione industriale e urbana, fino a quello che oggi è definito come over tourism dei paesaggi e delle città. Il concetto di estrattivismo riguarda anche lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dalle forme precapitaliste al capitalismo e socialismo industriale, al nuovo capitalismo della sorveglianza che estrae e riduce l’uomo a dati da controllare e manipolare per prevedere e orientare le emozioni, i pensieri e i comportamenti.
Il land grabbing nel Land Matrix
Il database Land Matrix (i dati qui commentati sono stati estratti dal database nel mese di Maggio 2025), in costante aggiornamento, ha registrato 7.354 contratti di concessione fondiaria negoziati dal 2000 al 2025 a livello globale. Di questi, 2.775 risultato effettivamente conclusi per una dimensione di 109,3 milioni di ettari, di cui il 71% in corso di realizzazione (pari al 63% della dimensione totale), il14% in fase di start up (pari al 25% della dimensione totale), il 6% già abbandonati e il 3% in avvio. I principali scopi sono relativi alla produzione di colture per il 69% dei contratti, pari al 64% della dimensione totale, il 14% per l’estrazione mineraria e il 9% per allevamenti.
A livello regionale, in Africa, sono stati conclusi 788 contratti per una dimensione di 35,2 milioni di ettari. Di questi il 66% sono operativi e ben il 13% sono stati abbandonati. Si tratta soprattutto di coltivazioni per vari usi per il 75% e 15% per l’estrazione mineraria. In Asia i contratti conclusi sono 588 per una dimensione di 12,8 milioni di ettari. Il 66% sono operativi, solo il 2% sono stati abbandonati, il 71% per coltivazioni, il 9% per estrazioni minerarie e solo 1% per allevamenti. In Europa orientale i contratti conclusi sono 749 per una dimensione di 29,9 milioni di ettari. Ben il 91% sono operativi, l’88% per coltivazioni e il 16% per allevamento, solo l’1% per estrazioni minerarie. Infine, in America Latina, si contano 680 contratti conclusi per una dimensione totale di 31,2 milioni di ettari, di cui il 60% operativi e il 29% in startup, solo il 2% abbandonati. In questa regione le coltivazioni occupano il 20% degli ettari concessi, mentre l’estrazione di risorse minerali arriva al 28%, e il 6% per l’allevamento.
E’ interessante inoltre notare come sia particolarmente alta la percentuale di accordi che sono falliti prima di una loro effettiva conclusione soprattutto nei paesi africani: pari a quasi il 20% di tutti i contratti negoziati per una dimensione in ettari che rappresenta ben il 45% del totale regionale; mentre in Asia sono stati solo il 4%, in Europa orientale il 7% e in America Latina appena l’1%. Ciò evidenzia il problema di un ambiente per gli affari in Africa particolarmente ostico con alti rischi di fallimento, come del resto messo in evidenza dall’indice sulle condizioni esistenti per fare affari (World Bank Group) e sulla corruzione (Transparency International).
Grazie al database di Land Matrix è possibile rintracciare le principali nazionalità delle imprese o altre entità che conducono operazioni di acquisizione o concessione della terra; e i principali Stati oggetto di queste operazioni. Dall’analisi condotta nel 2023 (Stocchiero A., 2023), e ancora oggi valida, il grafico 1 illustra i primi 10 Paesi oggetto di accordi conclusi e non, in milioni di ettari, da cui si evince come la Federazione Russa (per l’estrazione forestale e le monocolture) sia di gran lunga il Paese dove si sono indirizzati molti investimenti esteri sulla terra, seguita dal Perù (soprattutto per l’estrazione mineraria) e dalla Repubblica Democratica del Congo (per le monocolture agricole e l’estrazione mineraria). Seguono Paesi dalle grandi foreste pluviali tropicali ed equatoriali come l’Indonesia, il Brasile e il Gabon dove si realizzano investimenti che portano alla deforestazione per l’agricoltura monocolturale, l’allevamento e l’estrazione mineraria.
Il grafico 2 mostra i dati sulle prime 10 nazionalità degli investitori sulla terra che sono rappresentati in gran parte da Paesi occidentali sede delle principali multinazionali e fondi di investimento, seguiti da alcuni Paesi asiatici dalle grandi economie in crescita come la Cina e mature come il Giappone, e da una città Stato, Singapore, sede di multinazionali e fondi di investimento. Il Brasile, oltre ad essere oggetto di investimenti esteri, è esso stesso un investitore all’estero essendo una economia emergente con grandi imprese.
Secondo uno sguardo geopolitico è evidente la preminenza dei Paesi occidentali, seguiti dalla Cina, mentre la Federazione Russa appare più oggetto di interessi esteri che soggetto di operazioni di investimento sulla terra in altre nazioni. In particolare, i dati Land Matrix, indicano come la Cina sia attualmente il paese con più interessi distribuiti nel mondo, avendo accordi con ben 53 paesi per la concessione di terre, seguita dagli Stati Uniti con investimenti in 47 Paesi, segue la Gran Bretagna, un paese ex coloniale e imperiale, che mantiene accordi con 42 Paesi, e il Canada che grazie ad alcune grandi imprese multinazionali del settore estrattivo opera in 41 Paesi.
A distanza vi sono altri paesi occidentali sede di multinazionali come l’Olanda che investe in 33 paesi e la Svizzera in 29 paesi.
Se si analizzano più in dettaglio i dati si possono notare alcune concentrazioni di interessi tra paesi investitori e paesi oggetto di operazioni di acquisizione e concessione di terre. Vi sono Paesi come il Giappone, la Svizzera e la Gran Bretagna che hanno grandi investimenti sulla terra della Federazione Russa (rispettivamente per 7,5, 5,8 e 2,2 milioni di ettari), mentre il Belgio e la Cina svolgono grandi operazioni nella Repubblica Democratica del Congo (per 4,7 e 3 milioni di ettari, rispettivamente). Infine, il Perù attrae grandi investimenti soprattutto dal Canada (4,4 milioni di ettari) e dalla Spagna (4,1 milioni di ettari).
Occorre comunque fare attenzione a questa analisi perché soffre del nazionalismo metodologico: la lente che si usa solitamente per guardare al fenomeno degli investimenti esteri sulla terra guarda all’origine e alla destinazione di queste operazioni, ma non tiene conto del fatto che molte delle imprese o altre entità hanno una forma multinazionale o transnazionale, che non corrisponde ad eventuali interessi nazionali. In alcuni casi è anche difficile conoscere la rete delle relazioni finanziarie che stanno dietro alle operazioni di investimento.
L’opacità dell’accaparramento della terra è infatti una caratteristica rilevante di queste operazioni: opacità sulle responsabilità originarie, sulle operazioni condotte (in diversi Paesi non esistono registri degli investimenti esteri sulla terra trasparenti), sugli accordi sottoscritti, sui rapporti delle imprese estere con le comunità locali e le loro conseguenze in termini di rispetto dei diritti umani e della natura.
La registrazione Land Matrix comprende diverse categorie di uso della terra che indicano i principali scopi produttivi e non: in agricoltura, dalla produzione di biomasse per biocarburanti alle coltivazioni alimentari, per l’allevamento, colture non alimentari (ad esempio cotone per il tessile-abbigliamento); nella forestazione, dal sequestro di carbonio alla gestione forestale, con disboscamenti e piantagioni per la produzione di legna e fibre; l’uso per la produzione di energie rinnovabili, dai parchi solari all’energia eolica; e infine per altri scopi rilevanti quali: uso per parchi industriali, speculazione, estrazione di minerali, petrolio e gas, turismo, conservazione (parchi naturali).
Le motivazioni sono numerose e crescenti: per lo più fanno riferimento allo scopo del profitto, che si intreccia con interessi nazionali di assicurarsi l’accesso a risorse strategiche come gli alimenti, l’energia, le materie indispensabili per la propria manifattura, ma anche per la tutela della natura. Negli ultimi anni si evidenzia come anche la transizione ecologica ed energetica porti con sé nuovi sfruttamenti di materie prime. Alle tradizionali estrazioni e occupazioni di suolo, si sono aggiunte estrazioni di nuovi minerali (in particolare i cosiddetti minerali critici fino alle terre rare) e nuovi usi del suolo e delle sue risorse vegetali per la produzione di biocarburanti e occupazioni di suolo per le energie rinnovabili. L’economia estrattiva continua ad essere senza limiti, anzi, si sta ampliando e approfondendo (si pensi al fracking e all’estrazione dai profondi fondali marini).
Il land grabbing in una economia estrattiva in crescita
Nel quadro delle analisi sull’estrattivismo, da alcuni anni il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), con il Gruppo internazionale sulle risorse (IRP), realizza un importante rapporto, il Global Resources Outlool (UNEP, 2024) sul crescente uso delle risorse naturali, molte delle quali non rinnovabili.
Lo sfruttamento della natura senza limiti sta conducendo a una serie di punti di non ritorno e crisi dal livello locale a quello globale.
Il rapporto mostra come il mondo si trovi nel bel mezzo di una triplice crisi planetaria: cambiamento climatico, perdita di biodiversità, inquinamento e rifiuti. L'economia globale consuma sempre più risorse naturali, mentre il mondo non è in grado di raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile stabiliti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. L'uso di materiali è aumentato di oltre tre volte negli ultimi 50 anni e continua a crescere in media di oltre il 2,3% all'anno, superando di gran lunga il fabbisogno necessario per soddisfare i bisogni umani essenziali di tutti. I quali soffrono peraltro di una crescente disuguaglianza. L’uso dei materiali è disuguale.
L'aumento dell'uso delle risorse è il principale motore della triplice crisi planetaria. Gli impatti sul clima e sulla biodiversità derivanti dall'estrazione e dalla lavorazione dei materiali superano di gran lunga gli obiettivi basati sul rimanere entro 1,5 gradi di cambiamento climatico e sull'evitare la perdita di biodiversità.
L'estrazione e la lavorazione delle risorse materiali (combustibili fossili, minerali, minerali non metallici e biomassa) sono responsabili di oltre il 55% delle emissioni di gas serra (GHG) e del 40% degli impatti del particolato sulla salute. Se si considera il cambiamento di destinazione d'uso dei terreni, in gran parte dovuti al land grabbing, gli impatti sul clima salgono a oltre il 60% delle emissioni, con la biomassa che contribuisce maggiormente (28%), seguita dai combustibili fossili (18 per cento) e dai minerali non metallici e dai metalli (insieme al 17 per cento).
Le biomasse (colture agricole e silvicoltura) sono responsabili di oltre il 90% della perdita di biodiversità e dello stress idrico legati all'uso del suolo. Tutti gli impatti ambientali sono in aumento. E nonostante l’aumento della produzione di biomassa (ossia i prodotti dell’agricoltura), persiste il problema della fame nel mondo. Questo dato ci fa capire che si produce di più, ma non per tutti.
L'ambiente edificato e i sistemi di mobilità sono i principali motori dell'aumento della domanda, seguiti dai sistemi alimentari ed energetici, a cui rispondono le operazioni di land grabbing. Insieme, questi sistemi rappresentano circa il 90% della domanda globale di materiali.
Senza un'azione urgente e concertata per cambiare il modo in cui le risorse vengono utilizzate, l'estrazione di risorse materiali potrebbe aumentare di quasi il 60% rispetto ai livelli del 2020 entro il 2060, passando da 100 a 160 miliardi di tonnellate, superando di gran lunga il fabbisogno necessario per soddisfare i bisogni umani essenziali di tutti in linea con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile e provocando un aumento dei danni e dei rischi.
I Paesi ad alto reddito utilizzano sei volte più materiali pro capite e sono responsabili di un impatto climatico pro capite dieci volte maggiore rispetto ai Paesi a basso reddito, dove vivono le popolazioni oggetto dell’estrattivismo e meno responsabili per l’emissione di gas serra e della perdita di biodiversità. Vi è dunque una questione di giustizia sociale tra le nazioni. Questa disuguaglianza deve essere affrontata come elemento centrale di qualsiasi sforzo di sostenibilità globale. L'impronta materiale pro capite dei Paesi ad alto reddito, la più alta di tutti i Paesi per gruppi di reddito, è rimasta relativamente costante dal 2000. I Paesi a reddito medio-alto, Paesi emergenti come la Cina e l’India, hanno più che raddoppiato la loro impronta materiale pro capite avvicinandosi ai livelli di alto reddito, mentre i loro impatti pro-capite continuano a essere inferiori a quelli dei Paesi ad alto reddito. L'uso pro-capite delle risorse e i relativi impatti ambientali nei Paesi a basso reddito sono rimasti relativamente bassi e quasi invariati dal 1995.
Per questo è urgente una trasformazione di grande portata verso una bioeconomia equa, una decrescita o una economia della post crescita, come si accennerà più avanti, in conclusione. Nel mentre le comunità locali e la natura continuano ad essere sfruttate e depauperate.
Difensori uccisi, zone di sacrificio, terre ed acque morte
Le operazioni di accaparramento sono contestate dalle comunità locali. Leader locali delle comunità contadine, dei popoli indigeni, sindacalisti, ambientalisti, avvocati, cercano di difendere i diritti umani e la natura. Sono i difensori dei diritti che, con le loro analisi, proteste e denunce, cercano di fermare le operazioni di esproprio, frappongono i loro corpi, si ribellano mobilitando e sostenendo le comunità locali. E vengono incarcerati e uccisi.
La ricercatrice Maura Benegiamo dell'Università di Pisa (Benegiamo M., 2024) espone il legame tra l'attività estrattiva e la configurazione del modello sociale, sottolineando come l'estrattivismo contribuisca a definire un modello sociale conflittuale e “di sacrificio”. “L’estrattivismo è un modello conflittuale in cui si registra una violenza sistemica. Secondo i dati raccolti dall’ONG internazionale Global Witness, l’estrattivismo minerario, associato a quello agroindustriale, è il principale responsabile dell’assassinio di attiviste e attivisti che lottano per la preservazione dell’ambiente, dell’acqua e della terra in tutto il mondo. Si tratta di numeri significativi: nel 2019, Global Witness ha registrato l’omicidio di 212 attivisti, molte delle quali donne e soprattutto indigene. I numeri salgono a 227 nel 2020. E se facciamo i calcoli, si tratta di più di una persona uccisa ogni due giorni. Sempre secondo l’ONG il 60% di queste morti è legato al settore estrattivo e agroindustriale. Uno studio del 2020, basato sui dati del Global Atlas sulla giustizia ambientale, rivela che nel mondo il 13% degli attivisti ambientali è stato assassinato, il 18% è vittima di violenza e il 20% è stato criminalizzato, nel 40% dei casi le vittime appartengono a popolazioni indigene”. A sua volta, l’ultimo rapporto di Front Line Defenders registra almeno 324 difensori uccisi in 32 Paesi nel 2024 (Front Line Defenders, 2024), per lo più in America Latina, ben 157 in Colombia.
Il modello estrattivista presenta alcuni elementi ricorrenti, innanzitutto, c'è la tendenza alla criminalizzazione del dissenso. In secondo luogo, lo Stato mostra un favoritismo verso le imprese a discapito dello sviluppo locale. Infine, si riscontra un'assenza di trasparenza negli accordi e nelle operazioni estrattive, che non forniscono informazioni chiare alle comunità locali riguardo agli impatti ambientali e sociali.
I territori segnati dall’estrattivismo sono stati definiti come “zona di sacrificio”. Il termine si riferisce a zone del mondo concepite dai governi dei Paesi come zone sacrificabili, dove la natura viene sfruttata senza limiti e i residenti sono chiamati a contribuire a un sacrificio collettivo, funzionali all’espansione di un sistema economico di consumo a grande scala, nel mercato mondiale, attraverso lo sviluppo di catene internazionali del valore o di approvvigionamento delle materie. “E’ il legame tra estrattivismo e modello capitalista, con il suo devastante impatto sul tessuto sociale e ambientale; un modello quello dell’estrattivismo agroindustriale che non tiene conto dei bisogni sociali locali, che non favorisce la diversificazione economica, e che riduce drasticamente la biodiversità”, in riferimento in particolare alle grandi monoculture estensive, ma che si può allargare all’estrattivismo turistico frammisto al conservatorismo dei parchi naturali.
Al contempo, l'espansione dei mercati globali spinge a fare più estrazioni in tutto il mondo per soddisfare la crescente domanda di risorse e prodotti. In sintesi, l'estrazione delle risorse alimenta un mercato globale che funziona solo quando cresce e si espande, domandando a sua volta sempre più risorse, in una spirale cumulativa. È evidente che l'attività estrattiva sostenibile è impossibile da realizzare, a causa della forte interconnessione tra tutte le variabili coinvolte.
Le persone che vivono in queste zone sono sfruttate, escluse dai processi decisionali e i loro diritti umani vengono calpestati. La creazione e il mantenimento di queste zone avvengono con la complicità dei governi e delle imprese, danneggiando il benessere delle generazioni presenti e future. In questi casi, il lavoro diventa un ricatto, poiché i siti contaminati si trovano in aree svantaggiate, lasciando poco margine di scelta agli individui se non essere esposti alle nocività dei materiali che producono e delle risorse che estraggono.
A sua volta Saskia Sassen (2014) scrive di terre ed acque morte, di aree geografiche che a seguito di accaparramenti ed estrazioni “non si sono più riprese; oggi abbiamo grandi distese di terre ed acque morte; la terra estenuata dall’uso incessante di sostanze chimiche e l’acqua privata dell’ossigeno da sostanze inquinanti di ogni sorta.” E mette in luce un circolo vizioso per cui le acquisizioni di terre sono causa dei disastri ambientali nel tempo, “ma le stesse acquisizioni fanno altresì parte della risposta alla crisi: è proprio per rimpiazzare terre e acque morte che occorre acquisirne di nuove”. L’autrice evidenzia come il fenomeno sia sistematico e non riducibile a una serie di casi isolati: “tutte queste differenti genesi di distruzione si presentano come una sorta di uniforme condizione generica: una griglia globale multisituata di chiazze di terra e acqua morte che punteggiano il tessuto della biosfera”. (Sassen S., 2014)
Le zone di sacrificio, le terre ed acque morte, le lotte e le morti dei difensori sono la faccia nascosta dei mercati luccicanti e ricchi, del consumo opulento e compulsivo, e lo sono anche della nuova transizione energetica. Negli ultimi anni è cresciuta infatti l’attenzione e la competizione di Stati e grandi imprese sui cosiddetti minerali critici.
Il nuovo land grabbing per i minerali critici con l’estrattivismo “verde” e la transizione giusta
La transizione energetica comporta nuove estrazioni dalla natura, dai minerali critici alle risorse strategiche, con nuovi impatti ambientali e sulle comunità locali. Per questo si sta parlando di estrattivismo verde e della necessità di affrontare la transizione tenendo in maggiore considerazione i diritti umani e della natura. Si è coniato così il termine di transizione giusta. Ma come può essere giusta questa transizione? Quali limiti si dovrebbero porre alle estrazioni? Quali compromessi accettare tra estrattivismo verde e tutela delle comunità locali e dell’ambiente? Per questo è molto interessante il dibattito con leader sociali e ambientalisti locali che ha promosso il Transnational Institute (TNI), e a cui qui facciamo riferimento (Sandwell e Sekine, 2024).
Occorre affrontare assieme le complessità dell'estrazione mineraria, della giustizia sociale e climatica. Da un lato vi è la consapevolezza che è necessario eliminare urgentemente i combustibili fossili e rimodellare l'economia globale per garantire la giustizia climatica. Ma dall’altro il passaggio alle fonti di energia rinnovabile richiederà quantità significative di nuovi materiali, un fatto che, secondo il TNI, le società minerarie stanno sfruttando ed esagerando per ottenere maggiori profitti. Dal litio al nibio, una nuova ondata di estrazione mineraria sta decollando, guidata dalle proiezioni (e speculazioni) di un aumento della domanda di questi minerali.
Molte tecnologie rinnovabili, tra cui veicoli elettrici, batterie, pannelli solari fotovoltaici e turbine eoliche, reti elettriche necessarie per gestire le energie rinnovabili, si basano su nuovi minerali e metalli. Su questa base, l'industria mineraria prevede un'impennata della domanda di minerali come litio, nichel, rame, cobalto, manganese, grafite e terre rare.
Le imprese, gli investitori e gli Stati ricchi ed emergenti stanno adottando misure aggressive per competere e garantirsi l'accesso a queste materie prime. Sembrano intenzionati a sfruttare questo momento di crisi per rafforzare i modelli colonialisti e imperialisti che hanno visto i paesi del Sud del mondo, le comunità povere rurali, la classe operaia, razzializzate, emarginate o comunque periferiche, sostenere i costi dell'estrazione, mentre i benefici si sono concentrati principalmente nei paesi ricchi ed emergenti, nelle enclavi ricche e nelle élite nazionali nel Nord e nel Sud del mondo.
In questo contesto, il ruolo della Cina è particolarmente complesso. Lo sviluppo precoce della tecnologia e delle catene di approvvigionamento di questo Paese per estrarre elementi dalle terre rare, e il suo dominio in catene di approvvigionamento "critiche" hanno innescato un drastico cambiamento nel modo in cui l'Europa e i paesi nordamericani pensano a queste risorse, guidato dal timore del crescente controllo della Cina su queste catene. Per i paesi del Sud del mondo e per i paesi a medio reddito dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina, ciò crea rischi e opportunità, ed essi stanno esplorando come queste rivalità potrebbero creare spazi di manovra per ottenere una maggiore fetta di reddito.
Alcuni paesi vedono le nuove ricchezze minerarie all'interno dei loro confini come un'opportunità per diversificare, industrializzare o "sviluppare" le loro economie, ottenere più entrate fiscali per investire in servizi pubblici, sfruttando una posizione negoziale più forte con i Paesi potenti. Ciò significa non cadere in modelli estrattivi che originano la cosiddetta maledizione delle risorse. La loro estrazione si dovrebbe accompagnare ad una crescita dell’industria di trasformazione locale e a una distribuzione dei benefici a sostegno di una economia diversificata e a vantaggio di tutta la società locale, evitando la concentrazione delle rendite presso le élite locali e una forte dipendenza dal loro sfruttamento e dai mercati internazionali.
Allo stesso tempo, i movimenti sociali stanno cercando di capire e di lottare per definire quale tipo di transizione deve avvenire. Il termine "transizione giusta" è nato dai movimenti per la giustizia sociale e ambientale, e proposte più radicali per una transizione più giusta sono state avanzate. Queste proposte prendono sul serio le questioni su "energia per cosa e per chi", e mirano ad una trasformazione dall'estrattivismo capace di rispondere ai principi di giustizia sociale e ambientale. Tuttavia, finora, la questione se, come e in che misura l'estrazione mineraria sia necessaria per portare avanti questo tipo di trasformazione socio-ecologica ha ricevuto una scarsa attenzione. C'è un urgente bisogno di proposte forti, coerenti e trasformative, sostenute da ampie coalizioni di movimenti progressisti, se si vuole costruire una qualche speranza affinché le estrazioni siano meno brutali, violente e distruttive in futuro.
Dalle conversazioni raccolte da TNI sono emerse alcune riflessioni comuni. L'estrazione mineraria cosiddetta "verde" o "sostenibile" non è sufficiente per affrontare i numerosi e multidimensionali problemi che comporta, ed è molto probabile che essa porti a un aumento del greenwashing. Ciò è doppiamente vero quando gli standard si basano aull’autoregolamentazione dell'industria mineraria e sulla responsabilità sociale volontaria delle imprese. Questi standard legittimano l'estrazione continua senza reali trasformazioni.
Invece, vi è bisogno di soluzioni che trasformino radicalmente il potere e le strutture economiche e che affrontino i danni ambientali e sociali che si estendono ben oltre il sito minerario. In questo senso vanno i regolamenti obbligatori dell’Unione Europea come si vedrà nelle conclusioni.
Le proiezioni dell'industria e dei governi sulla necessità di nuove attività minerarie sono spesso gonfiate. Oggi si sta verificando una massiccia speculazione nel settore minerario e molte previsioni sulla domanda futura si basano su ipotesi errate, ad esempio sull'ipotesi che la mobilità debba essere fornita principalmente dalla proprietà privata dell'auto. Tale speculazione ha conseguenze reali sui diritti umani e della natura a livello locale, influenzano le politiche nazionali e le decisioni aziendali, così come le opportunità delle persone nelle comunità rurali.
D’altra parte se si cambia il modo in cui usare i minerali si può ridurre l’estrazione. L'estrazione mineraria sulla base di proiezioni gonfiate rischia di creare profezie che si autoavverano, poiché i mercati sono inondati di materiali temporaneamente economici ottenuti con un enorme costo sociale ed ecologico. Inoltre, se da un lato le nuove ondate di estrazione sono giustificate dalle esigenze della transizione verde, dall’altro molti di questi minerali sono anche o principalmente utilizzati per scopi militari e di difesa, inclusi nelle liste governative dei minerali critici attraverso l'attività di lobbying aziendale da parte di questi settori. L’attuale urgenza e corsa alle armi a livello internazionale fa crescere ancor di più un estrattivismo con standard indeboliti.
L'azione collettiva può avere un impatto significativo sulla quantità di minerali necessari per la transizione energetica. Un'ampia gamma di proposte diverse può contribuire a ridurre la tensione tra la diminuzione delle emissioni e l'attività mineraria. Movimenti e campagne incentrati sulla transizione delle materie prime sottolineano la necessità di ripensare il modo in cui si estraggono, lavorano e utilizzano i minerali.
Comunque, il riciclaggio di molti metalli e minerali non può mai raggiungere il 100%, il che significa che è fondamentale concentrarsi su diversi modi per ridurre il consumo complessivo. Ciò può includere la riduzione dei consumi individuali per i consumatori più ricchi, ma, in modo più significativo, implica un ripensamento del modo in cui si produce e si consuma nelle società, ad esempio sostenendo: il passaggio dai veicoli elettrici privati a un robusto trasporto pubblico; una nuova progettazione dei prodotti per rendere le parti riparabili, sostituibili o riutilizzabili; imprese responsabili per l'intero ciclo di vita dei prodotti (per la loro riparazione e smaltimento sicuro); il divieto dell'obsolescenza programmata e l’aumento della durata di vita dei prodotti, che può contribuire a ridurre la domanda totale di materiali. Allo stesso tempo, la riduzione dell'estrazione primaria può rendere il riciclaggio più economicamente sostenibile. La creazione di mercati regionali per l'economia circolare può aiutare i paesi del Sud a sviluppare le proprie produzioni verdi piuttosto che fare affidamento sull'estrazione a basso valore per l'esportazione.
Questi temi sono discussi al più alto livello: la necessità di regolare la crescente competizione sui minerali critici e le sue conseguenze, ha portato il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ad istituire un gruppo di esperti volto a garantire che il passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili sia giusto, sostenibile e avvantaggi tutti i paesi (UN, 2023).
Guterres, che è stato un forte sostenitore dell'abbandono dei combustibili fossili, ha detto ai leader del Gruppo dei 77 Paesi in via di sviluppo, che include la Cina, che la disponibilità e l'accessibilità dei minerali critici per la transizione energetica è fondamentale per raggiungere gli obiettivi fissati dall'Accordo di Parigi del 2015.
Il boom dell'energia verde è un'opportunità per i Paesi in via di sviluppo ricchi di materie prime di trasformare e diversificare le loro economie. Tuttavia, la mancanza di orientamenti globali per la gestione di queste risorse potrebbe esacerbare i rischi geopolitici e le sfide ambientali e sociali, moltiplicare l’accaparramento delle terre, compresi gli impatti negativi sull'acqua, la biodiversità, la salute e i diritti delle popolazioni indigene.
Per questo il gruppo di esperti proposto sta riunendo governi, organizzazioni internazionali, industria e società civile per sviluppare principi comuni e volontari per guidare le industrie estrattive negli anni a venire "in nome della giustizia e della sostenibilità".
Cosa fare?
L’impegno delle Nazioni Unite sui minerali critici, segue innumerevoli altre iniziative che hanno portato all’adozione, ad esempio, di principi sugli investimenti diretti esteri (Committee on World Food Security, 2014), di linee guida come quelle sui diritti fondiari stabilite dal Comitato per la sicurezza alimentare mondiale (FAO, 2022), di Convenzioni come quella sui diritti dei popoli indigeni che affermano la necessità di un loro consenso libero, preventivo e informato sull’uso della terra da parte di entità esterne. Principi, linee guida e convenzioni che hanno bisogno di un attento monitoraggio sui comportamenti delle imprese, che però avviene in modo sporadico per mancanza di risorse. Purtroppo, sono principi e convenzioni che risultano spuntate e poco efficaci, essendo volontarie e senza penalità.
Lo stesso si può affermare degli impegni che la comunità internazionale si assume con le Conferenze delle parti sul cambiamento climatico e di quelle sulla biodiversità. Impegni che comprendono il rispetto dei diritti dei popoli indigeni nelle operazioni che prevedono l’uso della loro terra per le mitigazioni delle emissioni di gas serra e per la protezione della biodiversità. Ad esempio, nel caso delle soluzioni basate sulla natura come la conservazione delle foreste, o attraverso i mercati del carbonio. Operazioni che, se mal gestite, portano all’accaparramento di terre a danno delle popolazioni locali; oltre ad essere misure compensative che rischiano di non portare ad una reale riduzione delle emissioni di gas serra.
Relativamente più efficaci dovrebbero essere le norme obbligatorie e che prevedono sanzioni in caso di inosservanza. Si tratta dei regolamenti europei, dal regolamento sul legname a quello sui cosiddetti minerali insanguinati, da quello sulla deforestazione a quello sulla dovuta diligenza nelle catene del valore internazionali. Norme che obbligano le imprese a valutare i rischi di impatto negativo delle loro operazioni commerciali e di investimento sui diritti umani e sull’ambiente; e a modificare il proprio comportamento nel caso in cui le conseguenze siano negative, evitando in questo modo eventuali sanzioni. In tal senso intende andare la negoziazione del Trattato ONU su imprese e diritti umani avviatasi oramai da oltre 10 anni. Il Trattato dovrebbe essere obbligatorio ma il negoziato continua ad essere osteggiato da diversi Paesi, come gli Stati Uniti.
Clausole riguardo i diritti umani e l’ambiente sono richieste anche nelle regole stabilite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio e nei trattati dell’Unione europea con altri gruppi di Stati. Ma anche in questo caso le clausole sono deboli e inefficaci se non sono sostenute politicamente. Senza considerare come il recente unilateralismo dell’amministrazione statunitense stia indebolendo tutto il sistema multilaterale. Infatti, la crisi del multilateralismo non fa che sradicare ancor di più i fondamenti del diritto internazionale, a spese delle popolazioni più deboli ed emarginate, tra cui quelle oggetto dell’accaparramento della terra.
La deriva della comunità internazionale rende ancora più indispensabile accompagnare e sostenere le lotte delle comunità locali, dei popoli indigeni, contro l’accaparramento della terra. Rafforzare le reti e le associazioni della società civile che si battono per difendere i difensori dei diritti, nonostante le asimmetrie di potere esistenti rispetto alle grandi imprese, alle loro milizie, regolari o irregolari, alle collusioni con gli Stati. L’alleanza tra società civile globale e comunità locali è fondamentale.
La cooperazione allo sviluppo ha un ruolo da giocare nel fare sistema a sostegno del multilateralismo e del potere civile. Vi sono organizzazioni non governative che offrono conoscenze e strumenti alle comunità locali per negoziare rapporti più equi con le imprese estrattive e per denunciarle nei casi di attentato ai diritti umani e all’ambiente. Vi sono iniziative di appoggio ai popoli indigeni che mettono a disposizione anche nuove tecnologie come i droni per controllare il territorio e individuare operazioni di invasione per lo sfruttamento delle risorse naturali. Altri organismi sostengono le comunità contadine nel creare alternative all’estrattivismo come con l’agroecologia per rafforzare produzioni alimentari e mercati locali, oppure che accompagnano i minatori artigianali nei loro processi di auto-organizzazione e miglioramento delle condizioni di lavoro, e dei rapporti di scambio con i commercianti.
Per questo è importante sostenere la cooperazione allo sviluppo con stanziamenti adeguati, quando invece nell’ultimo anno sia in Europa che recentemente negli Stati Uniti, l’aiuto pubblico allo sviluppo è stato ridotto. L’impegno stabilito dall’Agenda 2030, e da accordi precedenti, di raggiungere lo 0,7% del reddito nazionale lordo per l’aiuto pubblico allo sviluppo è disatteso costantemente dalla maggior parte dei Paesi; l’Italia si attesta solo allo 0,27% mentre si appresta ad aumentare i finanziamenti per le armi.
In Italia le possibili operazioni di land grabbing riguardano le grandi e medie imprese che operano all’estero e che devono essere monitorate per scongiurare il dispregio dei diritti umani e dell’ambiente. Recentemente è assunto alle cronache il caso dell’impresa Tozzi Green in Madagascar, che è stata accusata di ledere i diritti delle comunità locali con le coltivazioni condotte finora e con la riforestazione per la vendita di crediti di carbonio. Questo caso è stato sottoposto alla mediazione del Punto di contatto nazionale dell’OCSE per l’applicazione delle linee guida sulle multinazionali, per trovare una soluzione al contrasto.
Ma, la misura che sta destando più apprensioni riguarda il Piano Mattei. Nonostante il Piano sia stato presentato come un partenariato non predatorio tra Italia e Paesi africani, alcuni progetti avviati o in avvio possono dare luogo al mancato rispetto dei diritti delle comunità locali. Si tratta in particolare di alcuni grandi investimenti di Eni e Bonifiche Ferraresi su decine di migliaia di ettari dove risiedono comunità contadine, per la produzione di semi di ricino per biocarburanti, e di generi alimentari per il mercato locale, e molto probabilmente anche per la filiera internazionale e quindi il mercato italiano ed europeo. Le operazioni sono tipicamente top-down, concordate tra le grandi imprese e i governi locali, con un coinvolgimento delle popolazioni locali ad accordi già stabiliti. Il principio del consenso libero, previo e informato non sembra essere stato rispettato e le conseguenze potrebbero essere sfavorevoli per le popolazioni e la biodiversità locale.
Queste operazioni delle imprese coinvolgono anche il sistema finanziario che investe in loro. I principi della sostenibilità e i cosiddetti criteri ESG (Environmental, Social, Governance) dovrebbero condurre a finanziamenti capaci di tutelare i diritti umani e l’ambiente. Ma recentemente sono stati parzialmente derubricati nel contesto della crisi del multilateralismo, del rallentamento della transizione ecologica e delle nuove priorità di sicurezza dei diversi poli geopolitici. Del resto “pecunia non olet”: i grandi fondi di investimento concorrono tanto a finanziare le industrie verdi quanto quelle degli idrocarburi e della difesa, alla continua ricerca del migliore mix di investimenti in termini di rendimenti da assicurare agli azionisti e ai clienti. Lo scopo finale rimane il profitto.
Ciò significa che anche i diritti sulla terra dei popoli indigeni e delle comunità contadine possono essere tutelati se non ostacolano il raggiungimento di congrui rendimenti sui capitali investiti. E non viceversa.
Le banche pubbliche di sviluppo, come la Banca Mondiale e le banche regionali di sviluppo, dovrebbero prestare maggiore attenzione ai principi dello sviluppo sostenibile. Si ritrovano ogni anno in un grande evento dal titolo significativo “Finance in Common”. Di questo consesso fa parte anche l’italiana Cassa Depositi e Prestiti (CDP). La CDP si sta dotando delle misure necessarie per rispondere ai criteri di sostenibilità. Ma dei suoi finanziamenti, non ultimi quelli ad esempio ad ENI nel contesto del Piano Mattei, non è chiaro e trasparente quanto effettivamente si siano valutati ex ante gli impatti sui diritti umani e l’ambiente, oltre a doversi ancora dotare di un meccanismo indipendente di reclamo per l’accesso alla giustizia da parte delle comunità colpite, come richiesto dagli standard internazionali.
Infine, in generale, è da approfondire il dibattito pubblico sulla trasformazione dei modelli di produzione e consumo, sulla transizione giusta e la riduzione dell’estrattivismo, come evidenziato precedentemente dal dibattito condotto dal TNI. Il vecchio modello della crescita del prodotto interno lordo è oramai superato dai nuovi concetti di sviluppo sostenibile, benessere equo e sostenibile, che comprendono la misura e valutazione di variabili che considerano i diritti umani e la tutela dell’ambiente. A loro volta gli obiettivi di sviluppo sostenibile comprendono target, “bersagli”, che considerano lo sviluppo delle comunità rurali, il rispetto dei loro diritti fondiari, dei popoli indigeni (Stocchiero A., 2020), cercando di scongiurare le operazioni di land grabbing. La critica più profonda chiede però un approccio radicale di trasformazione verso una riduzione sostanziale dell’estrattivismo, si tratta degli approcci della decrescita, della post-crescita o della bioeconomia. Ciò implica una trasformazione della cultura antropocentrica e l’assunzione di chiari e condivisi limiti allo sviluppo in un quadro di giustizia sociale, climatica e intergenerazionale.
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