Direttore Accademico della sede italiana dell’Università per la Pace dell’ONU. Giornalista, saggista, scrittore. Ultimo libro: AI-Work. La digitalizzazione del lavoro.
Sommario
Il presente saggio analizza la transizione verso il Digitalismo come formazione socioeconomica emergente, caratterizzata dalla centralità del capitale conoscitivo nell'era algoritmica. Attraverso un approccio interdisciplinare che integra economia politica, studi tecnologici e teoria dei sistemi complessi, si esamina la trasformazione epistemologica nella produzione di valore e le sue implicazioni sistemiche nella società umana e il suo rapporto con l’ecosistema terrestre.
Parole chiave
crisi, sistemi complessi, transizione, trasformazione, intelligenza artificiale, resilienza.
Summary
This essay analyses the transition towards Digitalism as an emerging socio-economic formation, characterized by the centrality of knowledge capital in the algorithmic era. Through an interdisciplinary approach that integrates political economy, technological studies and complex systems theory, it examines the epistemological transformation in value production and its systemic implications in human society and its relationship with the Earth's ecosystem.
Keywords
crisis, complex systems, transition, transformation, artificial intelligence, resilience.
Introduzione: La Natura della Transizione Sistemica
Il passaggio storico in atto non è inscrivibile all’interno della categoria di crisi ma rappresenta, dal punto di vista della qualità, quantità e profondità dei processi, una vera e propria Transizione. La differenza è sostanziale e l’uso come sinonimo dei due termini, rischia di immettere distorsioni analitiche rilevanti che comportano l’oscuramento del reale andamento in atto (e delle conseguenti scelte necessarie da compiere per l’azione culturale, sociale e politica). L’assunzione di una reale definizione consente l’utilizzo di categorie (e di crearne le nuove necessarie) che ne possono disvelare il senso sociale, la struttura della “natura semantica” dei processi che è costantemente velata dai flussi di intrattenimento mediatico prodotti quotidianamente e di cui la condizione umana, ormai, rischia di essere s/travolta.
Il processo di evoluzione di un sistema, come noto, accumula, nel suo incessante divenire, micro-cambiamenti che definiscono e generano, costantemente, la produzione necessaria di riequilibri tra i fattori che lo compongono. Questi fattori producono due processi che progressivamente generano il raggiungimento di una ridefinizione sistemica. Da un lato l’indebolimento e il progressivo consumo dei fattori “egemonici” che governano la struttura (primo tra tutti la riduzione progressiva degli elementi “energetici” necessari al funzionamento della logica stessa del sistema) e, in secondo luogo ma non meno fondamentale, l’emersione di nuove strutture sistemiche in grado di smarcarsi dai fattori esistenti e generare un equilibrio basato su nuovi elementi e nuove logiche di funzionamento. Mentre la categoria della crisi è inscrivibile all’interno del processo di ricerca costante di una sorta di “efficientamento interno” del sistema, una transizione rappresenta l’emersione (bottom up) di una nuova struttura sistemica che si candida a divenire “egemonica”, di una forma sistemica nuova che negherà alla precedente il ruolo centrale. Il passaggio da un equilibrio sistemico ad un altro non è mai un pranzo di gala e le drammaticità presenti all’interno di una crisi sbiadiscono di fronte alle profondità e alle qualità delle rotture generate in un processo di Transizione.
Nel pensiero sistemico la crisi è più di un semplice evento negativo; è il punto di biforcazione in cui le forze interne ed esterne superano la capacità di autoregolazione del sistema, inducendo una riorganizzazione (Bateson, 1953, pag. 42). Questo momento rappresenta una soglia critica, in cui il sistema non può più mantenere il proprio equilibrio attraverso i consueti meccanismi di feedback negativo, e deve necessariamente evolvere verso una nuova configurazione. Tale concetto è stato ampiamente discusso in biologia, dove Darwin (1862, pag. 13) ha evidenziato come le crisi ambientali e le pressioni selettive possano generare salti evolutivi e favorire l’emergere di nuove specie. In teoria evolutiva, Gould & Lewontin (1979, pag. 587) hanno approfondito il ruolo delle crisi nei processi di speciazione, sottolineando come i sistemi viventi attraversino fasi di instabilità che portano a nuove forme di organizzazione. Le “crisi”, nei sistemi complessi, oggi possono essere affrontate o addirittura anticipate, grazie ai modelli predittivi e alle capacità di adattamento offerte dalle tecnologie emergenti ma quando si innescano delle Transizioni la complessità diviene realmente impredicibile. In questo senso, la crisi, in armonia con il modello schumpeteriano, non rappresenta soltanto una minaccia, ma diventa anche un’opportunità verso modalità più resilienti e sostenibili di funzionamento, sia nei sistemi naturali che in quelli artificiali. Una Transizione rappresenta una cesura sistemica che muta la forma del sistema complesso e apre a scenari non compresi né comprensibili con le strutture culturali, sociali, economiche e politiche del sistema precedente.
Un tale cambio sistemico, infatti, non si caratterizza per il cambiamento di un singolo elemento ma di una trasformazione generale delle relazioni tra le strutture esistenti e per la generazione di nuove, che produrranno relazioni prima inesistenti. In una Transizione in atto è possibile, però, evidenziare elementi che si caratterizzano sia come fattori scatenanti sia come elementi che assumono come la capacità di interpretare il “senso” stesso delle trasformazioni in atto e, per tale motivo, si travestono da elementi che potremmo dire “simbolici”, rappresentativi del processo in atto.
Quello in svolgimento, nel profondo delle strutture economico-sociali, politiche e, allo stesso momento, nelle relazioni esistenti nel rapporto “uomo-ecosistema terrestre”, non è descrivibile come un mero aggiornamento tecnologico o di mera “crisi quantitativa”, bensì attraverso una vera e propria riconfigurazione completa dei paradigmi a partire da quelli socioeconomici fino ad arrivare a quelli epistemologici e relazionali (ma, se si vuole, anche viceversa). Il processo in atto, inoltre, sarebbe possibile indagarlo e descriverlo anche attraverso il cambiamento del sé che individuo e collettività hanno prodotto (e/o subito) nel corso del cosiddetto secolo breve a contatto con la grande struttura di produzione dell’immaginario e del “senso” della vita che è stata l’industria dei media (che a sua volta era frutto delle innovazioni tecnologiche messe a disposizione dalle nuove conoscenze scientifiche dell’elettricità e dell’elettronica).
In questo scenario di profonda trasformazione, occorre sottolineare come la transizione sistemica non avvenga mai in modo lineare o prevedibile: essa si manifesta attraverso una proliferazione di segnali deboli, rotture improvvise e punti di non ritorno che ridefiniscono costantemente le traiettorie evolutive della società. La capacità di riconoscere queste discontinuità diventa cruciale per interpretare il mutamento in atto e per elaborare strategie di adattamento che possano guidare la collettività verso nuove forme di equilibrio. In altre parole, la transizione impone una revisione radicale dei paradigmi interpretativi e delle pratiche operative, aprendo la strada a una rinegoziazione continua tra passato, presente e futuro. La spirale di cause e concause che ha determinato l’innesco della Transizione sarebbe infinita e, in sistemi complessi, anche impossibile da dipanare, sciogliendo in avanti quel dilemma che attraversò per anni le analisi teoriche, la relazione tra quelle che vennero chiamate “struttura e sovrastruttura” e che aveva caratterizzato il pensiero otto/novecentesco.
Mai l’umanità si era trovata nelle condizioni di usare, relazionarsi, generare, una tecnologia con la quale “instaurare un dialogo”, parlare e avere risultati e risposte da essa attraverso il linguaggio. Nel tentativo di comprendere pienamente la portata di questa transizione, è necessario abbandonare le tradizionali chiavi di lettura che si basano su una visione lineare dello sviluppo sociale ed economico. La realtà attuale è caratterizzata da interdipendenze sempre più complesse, dove il digitale agisce da catalizzatore di nuove forme di aggregazione, produzione e distribuzione del valore. In questo contesto, la resilienza collettiva non può più essere interpretata come semplice ritorno alla normalità, ma come capacità di adattamento creativo a scenari radicalmente nuovi, spesso imprevedibili, che mettono alla prova le strutture consolidate e invitano alla costruzione di nuove narrazioni e pratiche condivise.
Mai l’umanità si era trovata di fronte a strutture macchiniche antropomorfe (che alludono alla possibilità di interfacce per ogni senso umano) capaci di rispondere e interrogare il mondo attraverso il linguaggio. Mai la costruzione di “macchine” di uso quotidiano si era concentrata, per miliardi di persone, nelle mani di una manciata di individui capaci di indirizzare lo sviluppo di tali macchine e di sfruttarne economicamente la loro centralità diventando ricchi ad un livello di far impallidire il mito di Creso. Mai abbiamo assistito ad un processo così socialmente interconnesso e intrinsecamente sociale e, al tempo stesso, in mano ad una esclusiva gerarchia di super/ricchi e potenti da candidarsi a formare nuove statualità oligarchiche.
Ci troviamo nel cuore di una transizione di civiltà che stravolge i parametri attraverso cui abbiamo interpretato per secoli l'organizzazione del potere e della ricchezza. Analizzando questa trasformazione epocale, ci si può rendere conto che le vecchie categorie che descrivevano il funzionamento sistemico delle nostre società non risultano più adeguate di fronte ai cambiamenti strutturali. Le stesse fondamenta mutano profondamente e l’intera impalcatura sociale viene ri/organizzata di conseguenza. Il passaggio che ha evidenziato come l’informazione sia ormai al centro dei processi economici, come descritto nel saggio (Romer, 1990) e che portò l’economista al premio Nobel nel 2018, descrive come, dopo la fase storica della centralità del capitale, emerge una struttura sistemica di nuovo tipo. Questo nuovo schema di rappresentazione dei processi in atto, che ho definito come Digitalismo (una definizione che sottolinea la centralità dei processi digitali che invadono, in maniera ubiqua, l’intera forma della società umana di più di come avveniva con il Capitale) rappresenta molto più di una semplice evoluzione tecnologica: costituisce, infatti, una vera e propria mutazione genetica del nostro sistema socioeconomico, capace di ridefinire radicalmente i rapporti di forza e le stesse forme statuali, la forma del lavoro e della produzione e, infine, addirittura la natura e la forma della moneta.
La metamorfosi che si sta realizzando segnala un passaggio epocale: il centro di gravità della sovranità si sposta progressivamente dalle istituzioni politiche tradizionali verso soggetti privati dotati di capacità tecnologica e infrastrutturale globale. Questo fenomeno non è soltanto una questione di evoluzione economica o di mutamento dei rapporti di forza tra vecchi e nuovi attori, ma implica una ridefinizione profonda dei concetti stessi di cittadinanza, appartenenza e diritti collettivi. Le piattaforme digitali globali stanno assumendo un ruolo sempre più determinante nella regolazione delle dinamiche sociali, economiche e persino culturali, mettendo in discussione la legittimità e l’efficacia dei meccanismi democratici classici, proprio perché operano al di sopra e oltre i confini nazionali.
Lo Stato-nazione ha rappresentato l’ultima forma della struttura del potere che si può
inscrivere in quel rapporto tra le forme del potere e il territorio, quella struttura erede dell’era tribale evoluta progressivamente sia dal punto di vista della sua organizzazione interna sia della potenza organizzativa e che aveva nel “confine” la delimitazione di una determinata e specifica modalità.
La concentrazione delle forme del potere e del controllo sociale, nel Digitalismo, si fonda non tanto e non più nel denaro ma nella conoscenza e nella sua gestione, nella produzione e messa al lavoro della conoscenza stessa che utilizza “interfacce” sempre più macchiniche dismettendo la necessità di “conoscenza incarnata” che viene sempre più sussunta nell’apparato delle “Intelligenze digitalizzate”. I confini territoriali, per tale forma di potere, perdono senso e le vecchie strutture decisionali che li presidiavano (cosiddette sovrane) hanno dovuto, necessariamente, organizzare e delegare a strutture sovranazionali le forme decisionali attraverso la generazione di architetture complesse e a-democratiche un mantenere in vita di un fantasma del loro vecchio potere territoriale. Neanche la più potente nazione della storia, quell'attore principale della scena internazionale, erede del modello westfaliano di sovranità territoriale e che aveva ambito a farsi impero, resiste e si infrange di fronte al processo in atto, prova a stringere alleanze tattiche con il potere nascente digitale, si rinchiude nel suo “territorio” pensando di poter ritornare impero attraverso la trasformazione prodotta dalle sue aziende che si fanno impero digitale.
Oggi possiamo constatare come il vecchio modello, che ha dominato incontrastato dall'era industriale, stia cedendo il passo a forme di potere nuove, esercitate da piattaforme digitali globali che agiscono con un'autorità sempre più simile a quella degli Stati tradizionali ma con logiche “oltre-territoriale”.
In una analisi storica, il capitalismo industriale viene individuato come il momento di massimo sviluppo dello Stato territoriale. Il patto formativo del Novecento appare oggi come un sistema coerente, orientato a preparare la popolazione al lavoro industriale e a costruire un’alleanza funzionale tra il sistema educativo e le esigenze produttive nazionali. In questo periodo, il capitale aveva bisogno dello Stato per garantire infrastrutture materiali, la formazione della forza lavoro e la regolamentazione dei mercati interni.
Nell’era del Digitalismo, la struttura socio-economica che ha nella sua centralità di riproduzione del valore la struttura digitalizzata della conoscenza messa in produzione, le forme della produzione, del controllo sociale, della produzione di moneta, del lavoro, della creatività e delle relazioni umane convergono verso una forma digitalizzata, collocata su piattaforme private e sempre più centralizzate in poche mani ma il processo non è esente da pericoli e contraddizioni che anche i principali attori sembrano avvertire.
La contraddizione duplice del Digitalismo
Il processo di “sussunzione reale” della conoscenza incarnata nell’umano messo in produzione nel sistema macchinico sta riducendo, sempre più velocemente, la componente della conoscenza necessaria alla produzione apportata dal lavoro umano. Se prima dell’avvento del sistema macchinico industriale possiamo dire che la conoscenza necessaria alla produzione di un bene o un servizio era tutta interna alla persona umana che si accingeva alla sua realizzazione, con l’avvento delle macchine una quota di tale conoscenza necessaria alla produzione veniva ad essere inglobata all’interno dell’automatismo della macchina stessa. Tale processo aumentava la capacità produttiva del singolo lavoro, aumentava il numero dei beni producibili e doveva trovare un punto di equilibrio tra i beni prodotti e il monte salari distribuito attraverso il lavoro salariato. Tale bilancio è stato presto squilibrato dal progressivo aumento della capacità di inglobare nella macchina produttiva (sempre più complessa) il “saper fare” necessario alla produzione. Un “sapere morto” in grado di sostituire, progressivamente e in maniera inequivocabile, il “sapere vivo” umano utile a produrre. Il processo trasferiva, progressivamente, la quota di sapere necessario alla produzione dalla conoscenza del lavoratore alla conoscenza trasformata in capitale fisso. Questa tendenza raggiunse un suo culmine “macchinico meccanico” nel dopoguerra, attraverso un connubio di sistema macchinico e organizzazione del lavoro umano necessario che aveva preso il nome del suo inventore: il taylorismo. Dal punto di vista macroeconomico, inoltre, il processo di progressiva “mercificazione” della vita e l’invenzione di un numero crescente di prodotti e servizi coniugata con l’iniezione massiccia della forma del debito (nella sua forma privata con le rate – quelle che una volta erano le mitiche “cambiali” – e nella sua forma pubblica - le politiche keynesiane) garantirono, per alcuni decenni, l’illusione che il processo di sussunzione reale (o se volete l’aumento della produttività della macchina) potesse essere governato attraverso un aumento progressivo della ricchezza prodotta distribuita attraverso il lavoro salariato
Tutto questo fu una illusione. Non solo per un aumento sempre più grande del debito necessario al mantenimento di un equilibrio tra domanda e offerta che garantisca la realizzazione economica ma perché la rincorsa allo sviluppo di soluzioni tecnologiche che aumentassero il processo di sussunzione reale della conoscenza nel sistema macchinico incontrò la potenza delle nascenti tecnologie digitali, tecnologie in grado di accelerare (quantitativamente e qualitativamente) la conoscenza umana necessaria alla produzione. Non era (e non è) necessario che la macchina digitalizzata sia “intelligente” dal punto di vista della qualità umana ma che riesca a “simulare” la intelligenza necessaria alla produzione.
In una prima fase, durata circa quattro decenni, il processo in atto fu come “oscurato” dalla verticalità delle soluzioni tecnologiche digitali. La qualità della sussunzione in atto era “altamente specializzata”, e diede l’illusione di moltiplicare esclusivamente la capacità del singolo lavoratore. In realtà, si accumulava progressivamente, una capacità ubiqua di occupare spazi crescenti di conoscenza necessaria alla produzione inglobata nella macchina.
Mentre si “prendeva confidenza” con la presenza di sistemi digitalizzati nella produzione e nella vita, si accumulavano ricerche e sviluppi che portano il nome di reti neurali (che costruirono strutture di calcolo che simulavano i cervelli biologici), machine learning e deep learning (che automatizzavano i meccanismi di apprendimento alla velocità dei clock dei microprocessori) e, infine, modelli di algoritmi come il Transform (l’analisi di contesto) e i microprocessori neuromorfici. Così, nel tardo autunno del 2022, il mondo scoprì l’esistenza di macchine in grado di dialogare, rispondere e creare contenuti che hanno preso il nome di Intelligenze Artificiali Generative, basate sui Large Language Models (LLM). Il salto da un digitale “specializzato” e che necessitava di un addestramento specifico dell’uomo per il suo utilizzo, ad una macchina digitale in grado di essere generalista e capace di interfacciarsi con l’umano con una struttura semantica era compiuto.
Mentre il mondo era come abbagliato da una “macchina parlante e intelligente” ciò che si portava a termine era il passaggio da un mondo ad un altro, con una inaugurazione in grande stile che abbagliò l’intero mondo. La nuova forma della società si affacciava nella storia con i suoi provi, prorompenti, vagiti.
La nuova macchina digitale, infatti, si candidava esplicitamente, a sussumere il 100% della conoscenza umana necessaria alla produzione in sé. La sua potenza “generalista” si candida ad assumere anche sembianze antropomorfe completando, nell’immaginario collettivo umano, una rincorsa alla sostituzione completa della conoscenza umana necessaria alla produzione.
La sostituzione progressiva di lavoro umano con sistemi macchinici digitalizzati (nelle loro varie forme e qualità) sta portando alla concreta realizzazione delle cosiddette “fabbriche buie”, strutture produttive che tendono a ridurre a zero la necessità di lavoro umano. Questo processo, quindi, evidenzia come sia la conoscenza la diretta produttrice di valore e che essa passi, progressivamente e inesorabilmente, dalla sua forma umana a quella macchina. Potremmo descrivere il passaggio con la crescente quota di quello che chiamo “plusvalore algoritmico” e la conseguente riduzione del plusvalore prodotto dalla componente umana.
Ciò che colpisce maggiormente del Digitalismo, quindi, è la sua capacità di generare quello che può essere definito plusvalore algoritmico. In questo concetto si riconosce una rottura epistemologica con la teoria classica del valore-lavoro. Mentre nel capitalismo industriale il valore nasceva dal lavoro vivo umano, oggi una quota crescente di valore viene prodotta dall'interazione tra algoritmi e dati, con un contributo umano sempre più marginale. Questo plusvalore appare inversamente proporzionale al plusvalore classico, poiché deriva dall'aumento esponenziale della sussunzione reale del lavoro vivo nel sistema macchinico.
Nell’analisi emerge una doppia contraddizione fondamentale: da un lato la capacità di produrre valore algoritmico in quantità esponenziale, dall’altro l’incapacità strutturale di distribuirlo, data l’erosione del lavoro vivo su cui, nell’era meccanico-industriale, veniva calcolato l’apporto della conoscenza incarnata nella produzione. Questo paradosso
distributivo mina alle fondamenta il contratto sociale così come è stato conosciuto e consolidato nella società capitalistica e che, nel Novecento, si era basato sulla produzione dei Welfare State basati sulla contribuzione del lavoro vivo.
Possiamo osservare come le grandi piattaforme digitali si stiano progressivamente trasformando in veri e propri stati paralleli che fatturano e capitalizzano a livelli paragonabili ai PIL degli stati nazionali, ma senza il meccanismo del debito statale. Queste entità oltrepassano i confini tradizionali, esercitano funzioni sovrane, creano ecosistemi chiusi con regole proprie e accumulano un potere informativo senza precedenti attraverso il controllo di dati e algoritmi.
Una analisi delle conseguenze sociali mette in evidenza il rischio concreto di una società sempre più polarizzata: da una parte una ristretta élite che controlla il capitale conoscitivo, dall’altra una massa di esclusi dal ciclo produttivo tradizionale e, quindi, sospinta verso la povertà. Questo squilibrio mina le basi stesse della democrazia rappresentativa, soprattutto quando entità private accumulano poteri un tempo pubblici.
Di fronte a questo scenario, è necessario un ripensamento, in primo luogo, profondo delle politiche antitrust. L’approccio tradizionale si è rivelato inefficace proprio perché, come sottolineato, il monopolio ha conquistato le menti prima ancora di conquistare il mercato. Le politiche antitrust del futuro non potranno o dovranno limitarsi agli aspetti “quantitativi” ma intervenire su quelli “qualitativi”, in particolare sui limiti e sul possesso della conoscenza e dei dati con la quale viene immagazzinata. Questo, a partire dalla oggettiva condizione della loro produzione sociale arrivando alla necessità che la conoscenza debba essere condivisa e disponibile anche per la garanzia di una resilienza dell’intera umanità.
Tra le proposte di soluzione emerge la convinzione della necessità di una proprietà collettiva del capitale conoscitivo fondamentale: i dati di pubblico interesse, gli algoritmi di base, i modelli di IA essenziale (Conte, 2025). Questi dovrebbero essere considerati come infrastrutture pubbliche, simili alle autostrade o alla rete elettrica: se lasciate in mano a pochi, diventano strumenti di rendita e freno all’innovazione diffusa.
Occorrerà, inoltre, intervenire sul plusvalore algoritmico con una tassazione finalizzata non solo alla generazione di un reddito universale di base ma, soprattutto, a investimenti mirati verso la distribuzione sul territorio di beni comuni digitali e alla produzione di conoscenza attraverso la ricerca. Contrariamente alle obiezioni ciò non frenerebbe l’innovazione ma la indirizzerebbe verso scopi socialmente utili.
In questo quadro, infine, risulta fondamentale un nuovo patto formativo che sviluppi ciò che l’algoritmo non può replicare: il pensiero critico, la creatività strategica, l’intelligenza emotiva, la capacità di gestire la complessità attraverso quella “conoscenza incarnata” che non solo non è replicabile attraverso algoritmi ma risulta irraggiungibile dal punto di vista della sua stessa qualità. La macchina digitale potrà anche superarci in efficienza e in capacità operative e decisionali ma rappresenta un oggetto non biologico e, quindi, non vitale. Un’alfabetizzazione algoritmica di massa, capace di sviluppare una relazione consapevole del nuovo ambiente sociotecnico nel quale l’umanità è inserita, diventa essenziale perché oggi non solo non si può essere cittadini consapevoli senza comprendere le logiche che governano il digitale, ma non è più neanche sufficiente ad essere soggetti produttivi idonei a questa fase di sviluppo.
La transizione verso una formazione socioeconomica del Digitalismo trova il suo motore primario e la sua contraddizione fondamentale nel processo, di matrice marxiana, di progressiva riduzione del lavoro vivo per unità di prodotto. Questo fenomeno, storicamente inerente al modo di produzione capitalistico, raggiunge un'inedita radicalità attraverso l'integrazione sistematica di conoscenza algoritmica (K_alg) e grandi insiemi di dati (D), che permettono una sussunzione reale del generale intelletto sociale in sistemi macchinici autonomi. L'esito è una iper-produttività che spinge il costo marginale della riproduzione di beni e servizi informazionali verso lo zero. Tuttavia, questa efficienza produttiva genera una crisi di realizzazione: il medesimo processo che riduce il lavoro vivo erode la base salariale (v_h) che costituisce il fulcro della domanda effettiva, rompendo il ciclo di distribuzione del reddito e rendendo il sistema strutturalmente dipendente dall'espansione del debito o da deflazioni da eccesso di offerta per mantenere la circolazione delle merci.
In questo contesto, la classica formula del valore viene necessariamente riconfigurata per incorporare i nuovi agenti generativi:
C' = [c_f + c_k] + [v_h + v_a] + [p_h + p_a].
Qui, l'elemento cruciale è il capitale conoscenza (c_k) - l'insieme di dati, algoritmi e modelli proprietari - che agisce come un capitale costante attivo e generativo. Il cosiddetto plusvalore algoritmico (p_a), estratto dall'operatività continua dell'algoritmo oltre il suo esiguo costo di riproduzione (v_a, costo computazionale), diventa la fonte primaria di surplus, sebbene la sua realizzazione finale dipenda ormai da logiche extra-economiche di rendita e potere monopolistico derivante dai diritti di proprietà intellettuale, poiché il prezzo, in assenza di costo marginale, si distacca dalla determinazione oggettiva del valore-lavoro. Questo modello compie un duplice superamento teorico.
Rispetto a Paul Romer, che pure individua nella conoscenza il motore endogeno della crescita, si supera la visione della conoscenza come bene pubblico non rivale, concettualizzandola, invece, ridotta a capitale privato (c_k) e fonte di rendita (p_a), inserita in precise relazioni di potere e sfruttamento che la produzione attraverso il digitale ha rafforzato. Rispetto a Sraffa, la cui analisi dei prezzi di produzione presuppone un sistema basato su coefficienti tecnici di input materiali e lavoro umano immutati, si supera il quadro analitico introducendo un capitale conoscitivo (c_k) che trasforma
ricorsivamente e in tempo reale i coefficienti tecnici stessi, automatizzando il processo produttivo e svuotando di significato la determinazione sraffiana del prezzo, che cede il passo a una determinazione legale-monopolistica. In ultima analisi, la proposta del Digitalismo non annulla le teorie precedenti ma le storicizza, mostrando come la loro validità fosse vincolata a un'epoca in cui il lavoro vivo umano rimaneva il fattore produttivo dominante, un'epoca la cui chiusura è proprio ciò che la nuova formula cerca di cogliere teoricamente.
- C' = [c_f + c_k] + [v_h + v_a] + [p_h + p_a]
- c_f (capitale fisico): Macchinari tradizionali, server, hardware.
- c_k (capitale conoscenza): Il nuovo "capitale costante" attivo. Include stock di dati (`D`), algoritmi proprietari, brevetti, software, modelli di IA addestrati. Non trasferisce solo valore, ma è generativo.
- v_h (capitale variabile umano): Salario corrisposto al lavoro umano “cognitivo” presente in ogni attività umana.
- v_a (capitale variabile algoritmico): Il costo di riproduzione della forza-lavoro algoritmica (costo computazionale: elettricità, cloud computing, usura hardware).
- p_h (plusvalore umano): Plusvalore estratto dal lavoro cognitivo umano oltre `v_h`.
- p_a (plusvalore algoritmico): Il valore estratto dall'algoritmo oltre il suo costo di riproduzione (`v_a`).
Il fattore che mette in chiaro la proposta è la conseguenza della riduzione del lavoro vivo per unità di prodotto a livello generale macroeconomico. Questa riduzione porta alla rottura del ciclo di distribuzione del reddito e ad una rottura della sostenibilità del ciclo con conseguente necessità o di un abbassamento dei prezzi o di un aumento del debito necessario alla circolazione dei beni prodotti.
Questo fattore dipende dall’aumento della sussunzione reale, cioè dall’aumento della produttività della singola ora lavorata dall’uomo che attiva un sistema macchinico digitale in grado di utilizzare la conoscenza sociale sussunta “come se” ci fosse un lavoratore umano a produrre. Se l’avanzare del processo tende ad un ciclo produttivo che converge verso un costo marginale sempre più vicino a zero, è l’intera produzione che è viene svolta dalla macchina digitale e il prezzo viene definito arbitrariamente da fattori legali e non economici (come, ad esempio, lo sfruttamento dei diritti di proprietà o la tendenza monopolistica in grado di imporre al mercato le condizioni dello scambio).
Un po’ come accadde per le leggi di Newton, le formule otto-novecentesche non erano “errate” ma, potremmo dire, storicamente determinate. La fase capitalistica industriale e finanziaria evolve nel Digitalismo, un sistema dove l'asset primario sono i dati, lo strumento di produzione è l'algoritmo e la merce fondamentale è la previsione/ottimizzazione, cioè conoscenza che dovrà produrre un soddisfacimento di un bisogno. In questo sistema, la creazione di valore avviene sempre meno nel rapporto di sfruttamento lineare tra capitale e lavoro vivo umano, e sempre più nel regno algoritmico della sussunzione reale, dove il plusvalore (`p_a`) si genera su scale inimmaginabili e con dinamiche che sfidano la teoria classica. Come per il Capitalismo, il Digitalismo estende la propria logica produttiva non solo trasformando il lavoro e il luogo e le forme della produzione del valore, ma la allarga ai corpi sociali, alla generazione di comportamenti individuali e collettivi, alle forme relazionali, alla “sfera di senso”, ai quadri giuridici, alle modalità delle guerre e delle sue armi, alle forme del potere e alle sue istituzioni. Comporta un salto di qualità nella capacità di generare processi di controllo sociale che non hanno precedenti ammantati da una aura di “libertà” che “oscurano” i processi reali di dominio e rendono accettabile e condivisibile il nuovo quadro. Appunto “Egemonia”.
La proposta del Digitalismo segnala la necessita di una nuova critica della sua economia politica, che sveli non solo le forme di appropriazione del valore da parte del sistema. Occorre svelare la qualità del processo prodotto in questi ultimi tre decenni che ha consentito di avere a disposizione una crescente quantità di dati estratti da quel lavoro sociale e relazionale prodotto attraverso i sistemi di digitalizzazione della conoscenza e dai prosumer con il loro lavoro implicito sui social. Un processo che potremmo definire come di “Accumulazione Primaria” e che oggi abilita il salto di qualità delle Intelligenze Artificiali Generative.
La necessità di una nuova teoria critica può contare su numerose ricerche come gli spunti della Noonomia dimostrano. Non serve descrivere, semplicemente, un capitalismo più avanzato, ma la necessità di un mutamento di paradigma dove la matematica diventa il linguaggio non solo per descrivere la realtà, ma per produrla e governarla. A patto che non ci si sottometta alla sua logica ma si generi un uso consapevole, sociale, aperto e distribuito della conoscenza.
Compito della teoria economica e sociale futura è indagare le leggi, le contraddizioni e le potenzialità emancipatorie di questa nuova era, ponendo le basi per un'etica e una politica all'altezza della società dei dati. Generando la ricerca e l’impegno teorico e pratico, della perdurante necessità che muove l’umano: quella di una libertà che sia consapevole e condivisa.
Occorre sviluppare la consapevolezza che il passaggio dal capitalismo finanziario al Digitalismo non è un semplice cambiamento tecnologico, ma una transizione di civiltà che richiede nuove categorie interpretative e nuove forme di governance. La scelta non è tra accettazione passiva e rifiuto pregiudiziale, ma tra subire la transizione e governarla consapevolmente. Occorre una politica che sappia indagare i possibili futuri adiacenti alle mere tendenze in atto, indicando percorsi possibili carichi di gradi di libertà più alti.
Le forme statuali territoriali dell'era industriale, dove si era incarnata la democrazia, devono evolversi per affrontare la sfida delle entità globali dell'era digitale, sviluppando strumenti regolatori adeguati e promuovendo una democratizzazione del capitale conoscitivo e strutture partecipative diverse dalla mera scadenza elettorale. Solo così potremo evitare che la trasformazione in atto travolga le conquiste sociali e democratiche dei secoli passati, aprendo invece la strada a un superamento progressivo delle forme di alienazione della società industriale verso una società in cui la produzione di valore d'uso possa prevalere sul puro valore di scambio.
Bibliografia
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Conte G., 2025. I luoghi comuni dell’Intelligenza Artificiale, Riflessioni Sistemiche n° 32.
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